cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, Israele-Palestina

D’amore e d’ombra

Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver…

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c’è Gal Gadot, riservista dell’esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.

Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c’è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l’utopia sionista di “far fiorire il deserto” trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).

Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!)

25 aprili, ebraismo, Israele-Palestina

Però l’ANPI nazista, insomma, no.

Questa è la bandiera della Brigata
Ebraica, che partecipò alla Resistenza.

Si avvicina il 25 aprile, col suo classico profumo di scazzi sui negozianti che vogliono tenere aperto senza pagare troppi straordinari (per Scalfarotto è tipo la fine del medioevo), filopalestinesi che fischiano la bandiera della Brigata Ebraica, ebrei che non vogliono la bandiera palestinese. Quest’anno il PD romano ha deciso che non parteciperà alla manifestazione dell’ANPI, ma a quella della Comunità Ebraica. Questa è una notizia – che esista ancora il PD romano, intendo. A quanto pare doveva scegliere tra comunità ebraica e ANPI, e ha fatto la sua scelta. C’entra l’amarezza per com’è andato il referendum? Naturalmente no, saremmo molto cattivi a pensarlo.

Io potrei anche concordare con Fabrizio Rondolino – che del PD renziano è ormai, a quanto pare, autorevole portavoce – quando afferma che l’ANPI non ha l’esclusiva del 25 aprile. Del resto non avrebbe i mezzi per difenderla. In termini pratici: i soci dell’ANPI non possono impedire che qualche attivista arrivi alla loro manifestazione e srotoli una bandiera palestinese. Mi sembra che il presidente dell’ANPI oggi l’abbia spiegato abbastanza bene: tutto quello che può fare la sua associazione è “dare l’indicazione di non portare bandiere che non siano quelle della Resistenza”; cosa che ha fatto, più volte. Assoldare buttafuori che allontanino tutte le persone che hanno una bandiera non resistenziale, l’ANPI non può farlo e non lo fa. Non dispone di un servizio d’ordine abbastanza massiccio e capillare, e sarebbe paradossale che se ne munisse: è un’associazione che difende la memoria della Resistenza, non un corpo paramilitare che organizza una parata.

È anche vero che tra le bandiere della Brigata, ogni tanto,
faceva capolino qualche bandiera israeliana,
che come quella palestinese non appartiene alla Resistenza.
Un servizio d’ordine ANPI avrebbe dovuto buttar fuori
anche quelle bandiere?

Per questo mi pare che Rondolino e comunità ebraica raccontino soltanto un lato della faccenda. È vero, purtroppo, che negli anni scorsi la bandiera della Brigata Ebraica è stata puntualmente fischiata da attivisti filopalestinesi (è anche vero che l’ANPI ogni volta ha stigmatizzato l’accaduto e ha preso le distanze dai contestatori). Ma è anche vero che negli stessi anni la comunità ebraica ha più volte definito i palestinesi “nazisti”, e “alleati di Hitler”, e non uso le virgolette a caso: in questo momento sul sito della Comunità di Roma c’è un comunicato che dice che l’ANPI Roma avrebbe deciso “di cancellare la storia e far sfilare gli eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere“.

Ricapitolando: la Comunità ebraica non chiede semplicemente (com’è suo sacrosanto diritto) di poter sfilare con la bandiera della Brigata Ebraica che partecipò alla Resistenza. La Comunità ebraica non vuole vedere bandiere palestinesi perché per la Comunità ebraica quella bandiera – che rappresenta una nazione con un seggio all’ONU, ricordiamo – è nazista, e chi la sventola è nazista. Quando l’ANPI fa presente, per l’ennesima volta, che non può veramente impedire a un filopalestinese di sventolare la bandiera di una nazione che aspira alla fine di un’occupazione militare, l’ANPI diventa una organizzazione negazionista che fa sfilare gli eredi degli alleati di Hitler.

Questo succede, mi pare, nell’indifferenza generale, perché poche cause come quella palestinese ormai risultano perse: oltre che a un nocciolo di affezionati, della Palestina frega ormai niente a nessuno, e il fatto che all’Unità qualcuno possa definirli filonazisti non desta davvero nessuna sorpresa. Cerco di mantenermi sorpreso io, giusto per un dovere di testimonianza: a questo punto non solo è nazista chiunque chiede che ai palestinesi sia riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, ma siccome chi lo fa a volte partecipa alle manifestazione dell’ANPI, è nazista pure l’ANPI. Senz’altro sono nazista pure io che lo scrivo, e tu che leggi, tu: comincia a farti qualche domanda.

Quanti simboli nazisti vedi?

A quel punto un partito novecentesco, un partito di massa, cosa farebbe? Ci metterebbe il servizio d’ordine, butterebbe fuori i facinorosi e farebbe ragionare i capibastone. E un partito contemporaneo, più leggero, ma che non rinunci alla sua responsabilità di intellettuale collettivo? Cercherebbe di trovare una sintesi tra le istanze della Comunità ebraica, dell’ANPI e di quel nucleo più o meno compatto di filopalestinesi che, se festeggiano il 25 aprile, così tanto nazisti non devono essere: e votano anche loro. Il PD romano questa cosa non riesce a farla, e quindi forse la notizia non c’è: il PD romano non esiste. Esiste Orfini e il 25 aprile non andrà al corteo dell’ANPI: e se non l’avesse detto in giro, forse non se ne sarebbero accorti in parecchi. Buona Liberazione a tutti, festeggiatela con chi vi pare.

25 aprili, ebraismo, Israele-Palestina, manifestaiolismi, resistenza

Tutti nazisti anche quest’anno, buon 25 aprile

È un discorso che si è già fatto, ma se ripetere non sempre aiuta, sicuramente non nuoce: i rappresentanti della Brigata Ebraica hanno tutto il diritto di partecipare ai cortei del 25 aprile senza essere fischiati.

www.combattentiliberazione.it

A chi li contesta – non sono poi in tantissimi – manca senz’altro un po’ di educazione, non tanto nel senso di buone maniere. Da qualche parte c’è una lezione sulla memoria e sulla Resistenza che qualcuno avrebbe dovuto studiare meglio; ci sono concetti come sionismo ed ebraismo che non dovrebbero essere così fumosi. E così via. È una responsabilità che ci dobbiamo prendere un po’ tutti sulle spalle, come educatori o anche solo come gente che scrive on line – visto che siamo tutti nel nostro piccolo educatori, siamo tutti gente che scrive on line. Nella nostra ideale festa del 25 aprile è invitato chiunque voglia ricordare i combattenti contro il nazifascismo, e se proprio si vuole contestare qualcuno, si contesta chi rimane a casa.

Ah, e il Gran Muftì non c’entra niente.

Perché se prendersela con tutti gli ebrei per l’occupazione della Palestina è un gesto ignorante e arrogante, accusare tutti i filopalestinesi di intelligenza col nazismo è più o meno sullo stesso livello di ignoranza e arroganza. Anche questo, mi rendo conto, è un discorso trito e ritrito: durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono palestinesi che combatterono Hitler e altri (un po’ di più) che collaborarono con lui – qualcosa di simile a quel che successe in Italia, tutto sommato. Questo toglie agli italiani il diritto di festeggiare il 25 aprile? Questo dovrebbe impedire ai palestinesi di chiedere la liberazione da un’occupazione militare? Lo sfogo di Peppino Caldarola mi sembra indicativo di un atteggiamento lievemente autoreferenziale: le contestazioni tra filopalestinesi e rappresentanti della Brigata avranno coinvolto al massimo qualche centinaia di persone. È senz’altro un incidente fastidioso e – parlo almeno per me – di una prevedibilità mortale. Si può fare qualcosa per evitarlo in futuro? Non lo so. Ma il punto è che per Caldarola non vale nemmeno la pena: se succede qualcosa del genere, va chiuso il 25 aprile, fine. Ah: e chi sventola una bandiera palestinese è un nazista.

Ecco: io sarei disponibile anche a scrivere tutti gli anni lo stesso pezzo in cui spiego che chi sventola la bandiera della Brigata Ebraica non è responsabile dell’incancrenirsi della questione israelo-palestinese. Ma se dall’altra parte, ogni volta, mi tocca sentire che tutti palestinesi sono nazisti, e anche tutti i loro amici, e anche gli amici dei loro amici… mi sa che ogni anni ripartiremo da zero.

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, memoria del 900, nazismo

Un videogioco ad Auschwitz

Il figlio di Saul (Saul Fia, László Nemes, 2015).

Un giorno o l’altro uscirà un videogioco su Auschwitz. Sarà probabilmente un buon prodotto, assolutamente rispettoso della memoria delle vittime, che riuscirà a terrorizzare e a suscitare un genuino orrore in tutti i volonterosi giocatori. Si potranno interpretare diversi personaggi, sonderkommando o kapò o fuggitivi. Ci saranno missioni da compiere: trovare una macchina fotografica con la quale documentare il terrore; organizzare una rivolta; seppellire il proprio figlio con un rito religioso. Un giorno qualcuno lo farà, e dopo la sorpresa iniziale, non ci sembrerà una cosa così strana o sbagliata. Un modo di esercitare la memoria, di combattere il negazionismo, di far vivere ai giovani qualcosa di lontanamente simile a un’esperienza… Ciononostante le polemiche fioccheranno: è giusto ambientare un’avventura ad Auschwitz? Forse non è giusto, ma ormai ci ha gà pensato il cinema, no? I videogiochi seguiranno.

No, è fatto meglio di così.

Il figlio di Saul ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero e il Gran premio della giuria a Cannes, e decine di altri riconoscimenti tra cui uno assolutamente straordinario: è il primo film ambientato ad Auschwitz a essere recensito sui 400 calci, che più che un blog ormai è la Bibbia quotidiana del cinema d’azione. Perché Il figlio di Saul, oltre a essere un buon prodotto, assolutamente rispettoso della memoria delle vittime, è un film d’azione. L’ambientazione è sin dall’inizio data per scontata, del resto ormai escono più film su Auschwitz che western. Il personaggio è un sonderkommando, un prigioniero ebreo addetto ai lavori più orribili: accompagnare i suoi correligionari alle docce, sentirli urlare mentre soffocano, smistare vestiti e oggetti personali, trasportare i cadaveri ai forni, smaltire le ceneri. Durante una giornata di gioco lavoro, Saul fa tutto questo, ma ha anche una missione da compiere: seppellire degnamente un bambino che forse è suo figlio. Bisogna trovare un rabbino, corrompere qualcuno, collaborare con qualcun altro che sta organizzando una rivolta. Ma tutto questo resta sullo sfondo: in primo piano c’è il personaggio, e la sua missione. Tutto l’orrore che gli scorre intorno finisce rapidamente fuori fuoco.

Il figlio di Saul è piaciuto a tutti tranne me… (continua su +eventi!)

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Divorzio all’israeliana



Viviane (Gett: Le procès de Viviane Amsalem, Ronit e Shlomi Elkabetz, 2013)

In Israele sposarsi è più difficile di quanto sembra: il matrimonio civile non è previsto. Il divorzio, poi, se sei membro di una comunità più osservante di altre, può essere quasi impossibile. Viviane vive separata dal marito da anni, in una dépendance nel cortile di casa. La vita col marito è impossibile, ma lui non vuole concedere il divorzio e la corte di rabbini a cui Viviane si rivolge non può costringerlo. La causa di separazione si trascinerà per più di cinque anni.

Simon Abkarian è una misuratissima, sublime
faccia da schiaffi.

In Viviane ci sono almeno due film interessanti. Il primo è quello di denuncia, che si presenta sin dalle prime scene senza sfumature: c’è un’ingiustizia, c’è una vittima eroica che combatte con tutte le sue forze, c’è un’evidente iniquità nella legge, tre giudici parziali che non la vogliono vedere e non hanno altra scelta che applicarla, un marito ottuso e geloso che ne approfitta senza sforzo. Tutto è già definito, nero su bianco, nei dialoghi iniziali, e anche a noi spettatori non resta che accomodarci dalla parte in cui Ronit e Shlomi Elkabetz hanno deciso di farci sedere. Non possiamo che detestare il flemmatico marito, e tifare per Viviane, parrucchiera autosufficiente (personaggio ispirato alla madre dei registi) – l’unica persona a portare un po’ di colore in quella sala: una traccia delle stagioni che fuori da quelle finestre sbarrate stanno passando senza che nulla cambi. Siamo già parecchio indignati e il film è cominciato da pochi minuti. I registi hanno tutta l’aria di volerlo ambientare tutto in una candida ma angusta sala di tribunale, e il fantasma del Noioso Film A Tema si sta pericolosamente concretizzando. Scopriamo nel frattempo che in Israele un rabbino può sospendere una patente (ma il marito non l’ha mai presa per paura di dover guidare il sabato) e una carta di credito (ma l’unico conto in banca del marito è quello cointestato alla moglie); può persino incarcerare il marito che si rifiuti di comparire – ma non può costringerlo a recitare la terribile frase di assenso, “a partire da questo momento… sei permessa a qualunque uomo”

Siccome il tribunale è veramente piccolo e dimesso, è impossibile non pensare agli spazi ancora più sacrificati del palazzo di giustizia iraniano di Una separazione, il grande film di Asghar Farhadi (continua su +eventi!)

1500 caratteri, 25 aprili, antisemitismo, ebraismo, Israele-Palestina, resistenza

A certe feste si va per litigare: il caso 25 aprile

In 1500 caratteri la farò semplice. Questa è la bandiera della Brigata Ebraica, che diede un nobile contributo alla guerra di liberazione dal nazifascismo.

Bella. Questa è quella dello Stato di Israele, nato poco più tardi, che da tempo occupa alcuni territori dove secondo la comunità internazionale dovrebbe sorgere lo Stato di Palestina.

Pur simili, rappresentano cose un po’ diverse. Perciò credo sarebbe stato utile, negli anni scorsi, portare nei cortei del 25/4 soltanto la prima, magari cogliendo l’occasione per spiegare che non era la seconda; e che la stella in sé rappresenta l’ebraismo, non uno Stato che ha una storia gloriosa ma non ha contribuito alla guerra di liberazione italiana (non ha fatto in tempo), e in questo periodo sta occupando territori di un altro Stato.

A quel punto chi venisse comunque a fischiare non ci lascerebbe dubbi: non fischierebbe Israele, ma l’ebraismo. Non esprimerebbe un sostegno alla Palestina, ma il proprio antisemitismo. Purtroppo non è mai successo.

Perlomeno, in tutte le foto che mi è capitato di vedere di cortei del 25/4, per ogni bandiera della brigata ebraica ne ho vista una dello Stato di Israele. E quindi? Niente, fate come credete. Ma non venite a dire che il 25 aprile è di tutti e che non volete litigare. Il 25 aprile non è mai stato di tutti; c’è sempre stato qualcuno che voleva litigare. Chi viene con la bandiera di Israele – e vuole fuori quelli con la bandiera della Palestina – non sarà il primo, ma non è da meno.

ebraismo, Israele-Palestina, memoria del 900

Non parlerai di Gaza il 27

27 gennaio – Giorno della memoria, “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” (legge 211/2000).

Aveva le orecchie a sventola.
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest’anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo “Shoah di ieri shoah di oggi” è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare “confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.

Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva “un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi”. Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.

Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni ‘attualizzanti’. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che “i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni”, è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: “Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione”. 

È un’opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e “di dimensione”: ma è un paragone inevitabile, com’è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell’altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, “parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno”. Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.

Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l’etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l’immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C’è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l’ebraismo, cos’è esattamente questo “antisemitismo” che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)

Bibbia, ebraismo, Israele-Palestina, santi

L’inventore d’Israele?

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
13 luglio – Sant’Esdra (V secolo a.C.), sacerdote, rovinafamiglie, forse inventore del giudaismo

I mormoni che nel 1846 fuggirono dall’Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l’imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all’altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un’altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi – tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l’ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un’invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest’ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l’inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell’impero Babilonese, sembra sensibile all’argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l’Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro firma l’editto, probabilmente senza pensarci più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di firmare tante altre carte che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent’anni…

L’Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l’esodo dall’Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l’immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c’è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall’empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.

Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un’impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all’esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo “io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele” è significativamente consonante con l’assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze – timore che riflette lo stato d’animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 

Esdra porta con sé un’ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch’essa, una lunga fortuna: la purezza etnica (continua sul Post…)

ebraismo, giornalisti, Israele-Palestina

Quello che Rondolino non tace

E se restassimo ragionevoli? 

Io credo, e l’ho scritto altre volte, che molti e importanti siano i motivi per cui la questione israelo-palestinese ci interessa, ci affascina, ci tormenta, più di tantissime altre questioni potenzialmente altrettanto affascinanti e tormentose; così che persino un califfo nero spuntato dal nulla al capo di una nazione di fanatici appena nata ma già più grande dell’Italia, anche se minaccia undici settembre a ripetizione non ottiene un decimo dell’attenzione di qualche razzo che cade di qua o di là del muro della barriera difensiva. È tutto un groviglio di culture e sensi di colpa e proiezioni che ci portano a guardare lì piuttosto che altrove. Alla fine non ci sarebbe niente di male: non possiamo osservare tutto, non possiamo capire tutto, non possiamo nemmeno soffrire per tutto – ma se almeno riuscissimo a osservare Gerusalemme o Gaza, a soffrire per Gerusalemme o Gaza, addirittura a capire quel che succede a Gerusalemme e Gaza, forse diventeremmo persone migliori.

Ma non succede. Non diventiamo persone migliori. Diventiamo matti. La questione israelo-palestinese ci fa soltanto diventare matti.

Non parlo di israeliani e palestinesi, la maggior parte dei quali dimostra in questi frangenti una tenuta mentale – dopo tanti anni – ammirevole. Parlo di chi queste cose le osserva da lontano. Dopo un po’ impazziscono, non tutti ma quasi: al punto che mi domando se il “restiamo umani” del povero Arrigoni. in attesa di definire meglio il concetto di umanità, non andrebbe riformulato come “restiamo razionali”. Oggi studieremo il caso di Fabrizio Rondolino, giornalista, che all’indomani del ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi israeliani cinguetta:

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Le premesse implicite sono abbastanza chiare: Israele è l’unica-democrazia-del-Medio-Oriente, il suo esercito è il più-morale-del-mondo, quindi qualsiasi cosa faranno non sarà mai nulla che Rondolino possa pentirsi di aver sostenuto. Nei giorni seguenti in effetti non è che Israele faccia niente di particolarmente originale: bombardamenti mirati contro le batterie di Hamas, rappresaglie sulle abitazioni degli assassini, ecc. Nel frattempo però a Gerusalemme un diciassettenne viene bruciato. Dopo aver ripetutamente manifestato cordoglio per le vittime dalla parte israeliana; dopo essersi scagliato contro l’Autorità Palestinese che (secondo lui) non aveva espresso nessuna condoglianza; a questo punto – ci aspetteremmo – Rondolino dovrebbe scrivere almeno una riga per mostrarsi dispiaciuto che a Gerusalemme brucino ragazzi palestinesi. Invece lui reagisce col seguente tweet:

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Quello che i “media non dicono” ma dice soltanto il piccolo sito Rights Reporter, è che il ragazzo palestinese non può essere stato ucciso da ebrei israeliani; e la prova di questo è che è stato bruciato, “una cosa che un ebreo (specie se ortodosso) non farebbe mai e poi mai, nemmeno per il peggior nemico”. E allora chi può avere fatto una cosa tanto orribile? Dei non meglio precisati “criminali” palestinesi: “la storia criminale della famiglia del giovane arabo fa supporre che si tratti di un delitto maturato nel mondo criminale di Gerusalemme Est”. Sì, ma il movente? L’omofobia.

Il ragazzino sarebbe stato bruciato perché gay. “Le prime voci, confermate da conoscenti, della omosessualità del ragazzino fanno addirittura pensare a un delitto d’onore”. Ecco quello che i media non dicono, e che soltanto Rights Reporter dice.

A questo punto il giornalista Fabrizio Rondolino, che tra tanti alti e bassi non è sicuramente uno nato ieri, avrebbe potuto restare ragionevole e domandarsi: com’è che gli altri media non lo dicono e lo dice soltanto questo piccolo sito di hasbara fatta in casa? Rights Reporter ha una risposta anche per questo: è la stessa polizia israeliana a tenere nascosta questa pista, per ragioni di ordine pubblico. “Ma la situazione a Gerusalemme è gravissima, la polizia non può diffondere questi sospetti che verrebbero presi come una “montatura” e potrebbero accendere ancora di più gli animi”. Però quello che i media non possono sapere, in un qualche modo Rights Reporter lo sa e lo diffonde: e se gli animi si accenderanno, beh, pazienza.

È un piccolo sito, appena nato, con pochi lettori quasi tutti di area filo-israeliana. Sia detto a loro merito: non abboccano neanche loro. Una notizia sparata così, senza fonti, alimentata da un corto circuito ideologico (i colpevoli non possono essere ebrei perché gli ebrei non possono essere colpevoli) quante possibilità ha di non essere una patacca? Due giorni dopo la polizia israeliana arresta sei ebrei israeliani. Tre confessano di aver ucciso Mohammed Abu Khdeir. Secondo la polizia lo hanno bruciato vivo.

Right Reporter non soltanto ammette di aver pubblicato una bufala (e ci mancherebbe anche che facesse finta di niente), ma non la cancella nemmeno, come avrebbe fatto un beppegrillo qualsiasi. Di questo li ringrazio. Per altro sono un piccolo sito da cui nessuno si aspetta autorevolezza o imparzialità. Ma Rondolino?

Quanto tempo pensate che ci abbia messo il giornalista Fabrizio Rondolino per chiedere scusa e avvertire che ha fatto girare una bufala clamorosa? È successo cinque giorni fa; vediamo se in seguito ha scritto qualcosa sull’argomento.

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Niente, non ne parla più. Il giornalista Fabrizio Rondolino ha messo in giro una notizia falsa, da una fonte senza nessun credito; quando la notizia si è rivelata priva di fondamento, ha fatto finta di niente. Io non so se queste cose succedano anche in altri ambiti; mi sembra che succedano più spesso quando si parla di Palestina e Israele. L’abitudine di dar retta a chiunque ti dia la notizia che vorresti sentire; a far cassa di risonanza a qualsiasi voce che confermi le tue idee e smentisca quelle dei tuoi avversari, eccetera. Non succede con l’Iraq, non succede con Matteo Renzi o Beppe Grillo. Non in queste proporzioni, almeno. Ma succede in Italia, a una distanza che ci dovrebbe permettere di osservare, ragionare, e non esplodere alla prima scintilla che ci arriva. E invece.

Bibbia, ebraismo, Israele-Palestina, santi

Il primo pogrom

La più famosa alla fine resta l'Ester di Benouville.
1 luglio – Santa Ester (V secolo aC), da reginetta a salvatrice

Ester è la protagonista di una delle storie più divertenti della Bibbia – anche se non ha avuto presso i gentili lo stesso successo di Mosè o David. La sua vicenda è molto più popolare presso gli ebrei, che sin dall’antichità rileggono il breve libro di Ester una volta all’anno in occasione dei festeggiamenti primaverili del Purim. Invece i cattolici la celebrano il primo luglio, senza un apparente motivo. Alcuni la confondono con un’altra eroina assai più discutibile, Giuditta: la ragazza di buona famiglia che si concia da prostituta per far abboccare un generale antisemita e tagliargli la testa, offrendo un buon pretesto a generazioni di pittori e pittrici per ritrarre indumenti sexy e schizzi di sangue. Giuditta però non è stata ammessa né nella Bibbia ebraica, né nel calendario cristiano. Ester, al contrario, per salvare il suo popolo non commette nulla di riprovevole: anche lei si tira da urlo, ma soltanto per convincere il suo legittimo convivente a non ammazzarla, e magari a sospendere un pogrom.

Siamo a Susa, a corte del potente re Assuero. Chi sia questo potente re che governa “dall’India all’Etiopia” non è ben chiaro, anche se tradizionalmente viene identificato con Serse I, sì, il cattivo delle Termopili. Erodoto ha scritto parecchio su Serse, ma senza menzionare nessuna Ester. A un certo punto però ricorda l’episodio in cui promette alla moglie di concederle qualsiasi cosa ella chiederà, ed ella ovviamente chiede che Serse tagli la testa a una sua amante. È un esempio molto antico di “don contraignant”, il tropo narrativo in cui un re firma una specie di promessa in bianco che gli costa sempre molto caro.

Lo stesso tropo torna nel libro di Ester, che se fosse davvero ambientato ai tempi di Serse descriverebbe fatti successi nel V secolo a.C. Più probabilmente è stato composto tre secoli più tardi, da un bravo narratore senza molte preoccupazioni di verosimiglianza storica, all’epoca dei Maccabei – una dinastia di sacerdoti che lottava per conservare l’autonomia e l’identità del popolo ebraico, contro l’imperialismo assimilatore dei tiranni seleucidi. Per sopravvivere arrivarono al punto di allearsi coi Romani, che nel primo secolo a.C. finirono per sostituire i tiranni precedenti, e il resto della storia più o meno la sapete.

Ma torniamo a Serse, anzi, Assuero. Siamo a una festa in grande stile a Susa, più o meno al settimo giorno di festeggiamenti, quando al re dei re, un po’ brillo, vien voglia di esibire la regina Vasti davanti ai suoi invitati. Mandata a chiamare dagli eunuchi, Vasti si nega, senza neanche accampare la scusa di un mal di testa. Per il re dei re non è solo una figuraccia insopportabile: come gli spiegano i consiglieri, una cosa del genere rischia di devastare l’istituto famigliare in tutto l’impero: appena la notizia si saprà in giro, dall’India all’Etiopia, c’è il rischio concreto che le mogli smettano di correre in salotto quando il marito le chiama, bisogna fare qualcosa. Vasti viene immediatamente detronizzata e, secondo una tradizione successiva, messa a morte; per rimpiazzarla viene lanciato un concorso che porta a Susa le più avvenenti (e obbedienti) fanciulle vergini di tutto l’impero. A vincere è la giovane Hadassa, un’orfanella ebrea che Mardocheo, funzionario del re, aveva allevato come una figlia, e che forse per nascondere le sue origini si fa chiamare “Ester”, stella del mattino.

Il fatto che il nome richiami Ishitar, la dea babilonese della fertilità, e abbia per cugino un Mardocheo (Marduk è il re degli dei babilonesi, cugino di Ishitar) lascia sospettare che il canovaccio sia un antico mito mesopotamico, ripreso dagli ebrei quasi in chiave di farsa. il Mardocheo del libro ha probabilmente dovuto assumere il nome pagano per poter lavorare a corte. Proprio qui gli capita di sventare un complotto di eunuchi che vogliono attentare alla vita del sovrano. Mardocheo avvisa Ester, Ester avvisa Assuero, Assuero fa arrestare e interrogare i due eunuchi e premia Mardocheo con una promozione. La vita di un re dei re è però molto intensa, e in poco tempo Assuero finisce per dimenticarsi sia dello zelante funzionario che dell’avvenente reginetta. Nel frattempo splende a corte la stella di Aman (BOOOOOOOOOOOOOH! SCRASHSBDANGANGDANG), un principe agaghita – non che nessuno sappia chi siano gli agaghiti e donde vengano. Infatti la versione greca, un po’ più tarda, lo nazionalizza macedone. Questo Aman (BOOOOOOOOOOOH!), investito di un’autorità inferiore solo a quella di Assuero, si monta immediatamente la testa e impone che tutti si inginocchino davanti a lui. L’unico a non inginocchiarsi davanti ad Aman (BOOOOOOOOOOOOH!) è proprio Mardocheo. Quando Aman (BOOH!) se ne rende conto, decide di fargliela pagare, sterminando completamente il suo popolo. Per decidere il giorno del genocidio si affida ai purim, pietruzze adoperate per estrarre i numeri a sorte. Esce il tredici del dodicesimo mese (Agar, tra febbraio e marzo). Quindi tutto contento si reca dal suo re e gli propone, in cambio di un indennizzo di diecimila talenti d’argento di sterminare un popolo disseminato nel suo regno “che non osserva le leggi del re”. Il re gli passa tranquillamente l’anello col sigillo reale, che Aman (BOH!) usa per controfirmare uno dei primi discorsi antisemiti in nostro possesso – se non il primo in assoluto.

…Amàn, distinto presso di noi per prudenza, segnalato per inalterata devozione e sicura fedeltà ed elevato alla seconda dignità del regno, ci ha avvertiti che in mezzo a tutte le stirpi che vi sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile, diverso nelle sue leggi da ogni altra nazione, che trascura sempre i decreti del re, così da impedire l’assetto dell’impero da noi irreprensibilmente diretto.
Considerando dunque che questa nazione è l’unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano tenore di leggi, e che, malintenzionata contro i nostri interessi, compie le peggiori malvagità e riesce di ostacolo alla stabilità del regno, abbiamo ordinato che le persone a voi segnalate nei rapporti scritti da Amàn, incaricato dei nostri interessi e per noi un secondo padre, tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz’alcuna pietà né perdono, il quattordici del decimosecondo mese, cioè Adàr; perché questi nostri oppositori di ieri e di oggi, precipitando violentemente negli inferi in un sol giorno, ci assicurino per l’avvenire un governo completamente stabile e indisturbato».


È la versione greca; l’originale ebraico è molto più stringato. Ma insomma la sostanza è già familiare: vivono tra noi, ma non sono come noi. Vanno eliminati. È un rotolo di ventuno o ventidue secoli fa, pensate. E già allora la situazione, per quanto terribile, ispirava i toni di una farsa. Perché il libro di Ester, secondo alcuni lettori contemporanei, è una spietatissima commedia.

Quando Mardocheo viene a sapere dell’Editto di sterminio, si lacera le vesti e si cosparge il capo di cenere; coperto di un umile sacco viene a chiedere udienza al re, ma ovviamente viene bloccato prima di entrare. Ester lo vede dalla finestra e gli fa mandare dei vestiti; Mardocheo rifiuta di indossarli e le spiega (tramite un eunuco) cosa sta per succedere. Ricordati dei giorni della tua povertà, di chi ti ha nutrito! Intercedi per noi presso il tuo re, che aspetti? Il guaio è che Ester non è più la favorita del re. Succede a molte reginette: adorabili, ma stancano subito, non ti entrano nelle vene. Pensa che è da trenta giorni che il re non mi fa chiamare. Credi che io possa andare da lui così, come se niente fosse? Lo sai cosa succede a chi cerca di incontrarlo senza essere stato convocato? Gli tagliano la testa all’istante.

Mardocheo reagisce con una certa durezza: credi di salvarti perché sei nella reggia, ma sei ancora un’ebrea. Morirai comunque se non fai qualcosa. Chissà, forse c’è un motivo per cui ti è capitato si essere lì dove sei.

È solo a quel punto che Ester cessa di essere la reginetta timida e noiosa. Manda a dire allo zio di radunare tutti gli ebrei di Susa: ché preghino e digiunino tre giorni. Anche lei, nei suoi appartamenti, farà la stessa cosa. Nella versione greca seguono due lunghe preghiere di Mardocheo ed Ester, aggiunte probabilmente da un ebreo di Alessandria, forse un po’ impensierito dallo spirito laico del libro – uno dei due della Bibbia in cui non viene mai nominato Dio (l’altro è il Cantico dei Cantici). E tuttavia anche le due poesie ottengono un effetto narrativo, perché dopo tante accorate invocazioni, quando al terzo giorno Ester depone i vestiti di sacco e si leva la cenere dal capo e si veste da principessa, è un po’ come in quel film in cui la Mangano da suora si trasforma improvvisamente in ballerina: ecco, adesso sì che non è più una reginetta slavata, adesso sì che è sexy. La vediamo procedere nel corridoio, rosea nel volto, ma col cuore stretto dalla paura: sta andando al supplizio. Quando il re la vedrà, le guardie verranno a coprirle il capo e l’ammazzeranno. La sua unica speranza è che il re stesso stenda lo scettro verso di lei. Il re è seduto sul trono, “tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto terribile” (continua sul Post…)

Bibbia, ebraismo, santi

Abdia, per piccino che tu sia

Ma neanche un rotolo (San Marco, Venezia)
19 novembre – Sant’Abdia (600 aC) – minuscolo profeta di sventura

Nella Bibbia ebraica c’erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori – lo so, c’è anche Daniele, ma è un caso tutto particolare, non facciamola troppo complicata. Isaia (che in realtà è il nom de plume di più profeti) è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l’invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d’un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d’Israele s’ingrandiranno sulle vostre rovine… (continua sul Post)

ebraismo, memoria del 900, nazismo, ucronie

Il negazionismo non è un’opinione

Il negazionismo è un dubbio. Deve diventare un reato?


By this weekend, those six centuries,
they're a rumor. They never happened.
Today is history.

I nazisti probabilmente non potevano vincere. A forzarli a un continuo rialzo contro il resto dell’umanità non era la follia di un leader, ma le premesse ideologiche del nazismo stesso, e una strategia a medio-lungo termine basata sul saccheggio. I nazisti potevano soltanto andare a sbattere, e infatti è andata così: e da quando è successa ci sembra la cosa più logica. Ma può essere estremamente utile tentare qualche volta l’esercizio mentale di immaginare come sarebbe il mondo se i nazisti avessero vinto, un eventuale 2013 che fosse anche l’anno 80 dal cancellierato di Adolf Hitler. È un’esperienza che può mettere a disagio, immaginare un mondo che per molti di noi sarebbe semplicemente inabitabile: un mondo nazista è un mondo che ci avrebbe quasi sicuramente impedito di nascere, e di crescere come siamo cresciuti, in ambiti sociali che il nazismo avrebbe smantellato.

Non è facile immedesimarsi in un abitante di quel mondo: ci sembra più facile calarci nei panni di un contadino dell’anno Mille, o un sanculotto alla Rivoluzione. Con quei personaggi condividiamo un passato – crediamo di condividerlo (il contadino dell’anno Mille non sapeva di vivere nel medioevo, né probabilmente nell’anno Mille). Ma con un nazista del 2013 non abbiamo in comune nemmeno quello: il suo passato non è il nostro. È stato completamente riscritto, in fondo è quello che fanno tutti i vincitori. Il nazista del 2013, per fare l’esempio più semplice, non avrebbe mai sentito parlare di ebrei fuori dai corsi di storia medievale, o di geografia del Medio Oriente. I nazisti vincitori a metà Novecento avrebbero avuto tutto il tempo per cancellare qualsiasi evidenza di una presenza ebraica in Europa negli ultimi secoli. Anche i ricordi dei nonni si sarebbero adeguati a questa opera di re-iscrizione della memoria collettiva. Se vi sembra impossibile, pensate a cosa hanno fatto i nostri nonni ai loro ricordi: cresciuti in un ambiente in cui il fascismo sembrava buono e giusto, con gli anni e con la necessità si sono presto o tardi quasi tutti convinti che in realtà il fascismo era stato un sistema di potere rovinoso e criminale. Ma se i criminali avessero vinto, i nonni sopravvissuti (e ariani) avrebbero continuato a stramaledire gli inglesi; a guardare cinegiornali e poi fiction in cui le plutocrazie occidentali massacravano vittime inermi, i poveri indù o i pellerossa o i fieri resistenti indocinesi.

Qualche dubbio qua e là sarebbe serpeggiato come oggi serpeggiano le leggende metropolitane: gli ebrei in Europa come le scie chimiche. Forse al di fuori dell’Europa si sarebbero conservate narrazioni diverse, ma liquidate come invenzioni di nemici degli ariani, subumani in cattiva fede. I nazisti del 2013, nipoti dei trionfatori del 1950, forse avrebbero perso del tutto la nozione di quello che noi ogni tanto chiamiamo “Male assoluto”. Al passato caotico e promiscuo – quel passato in cui un afroamericano aveva vinto quattro medaglie di atletica leggera ai giochi olimpici di Berlino – non avrebbero potuto guardare che con orrore e un misto di attrazione perversa (nel modo uguale e contrario con cui gli accessori del nazismo diventarono feticci erotici nel secondo dopoguerra). I loro studenti sarebbero molto più informati di noi sugli orrori coloniali di Francia, Regno Unito, USA e sulle miserie dell’URSS: forse qualche episodio sarebbe stato esagerato ad arte, ma in effetti non ci sarebbe nemmeno bisogno di truccare le carte più di tanto, ogni potenza ha armadi pieni di scheletri. I nipoti dei nazisti non avrebbero il minimo dubbio di vivere nel migliore dei dopoguerra possibili, dopo che i nonni hanno vinto una guerra in cui la posta in gioco era la sopravvivenza dell’umanità ariana; e reagirebbero disgustati a chi proponesse loro l’esercizio speculare: come si può immaginare un mondo in cui americani e i russi si spartiscono l’Europa, un melting-pot irrimediabilmente contaminato e devastato da comunismo e liberismo selvaggio? Un mondo del genere non avrebbe sopravvissuto per più di una generazione…

Ora che siamo arrivati a questo punto, ora che abbiamo immaginato un mondo in cui il passato è stato totalmente riscritto fino a diventare credibile – e quindi ebrei e zingari d’Europa non sono stati sterminati, non sono mai esistiti – facciamo un passo indietro, ma cercando di mantenere quel senso di vertigine. Siamo nel nostro 2013. I nazisti hanno perso, non prima di aver massacrato sei milioni di ebrei. Come facciamo a saperlo? Come possiamo essere sicuri che non sia un’invenzione dei vincitori, una re-iscrizione del passato? Magari gli Alleati avevano cose terribili da farsi perdonare, e hanno reagito fabbricando un passato in cui sono i buoni, i salvatori dell’umanità. Questo peraltro spiegherebbe come mai la Seconda Guerra Mondiale è l’unica che riusciamo a leggere con le lenti che uno storico dovrebbe buttare via alle elementari, i Buoni contro i Cattivi: onestamente, com’è possibile? Che nella Storia degli adulti ci sia ancora spazio per un conflitto in cui i Cattivi vogliono conquistare il mondo e sterminare i nemici, e i Buoni riescono a costo di uno sforzo inaudito a impedirglielo? Non assomiglia più a una fiaba che al modo in cui vanno le cose nella vita vera? E quindi? Come lo risolve, ognuno di noi, questo dubbio di vivere all’indomani di un passato cancellato e riscritto da un ufficio propaganda?

Dico come l’ho risolto io: non con la rimozione. Non mi sono turato le orecchie, non ho gridato LA LA LA LA NON TI SENTO ai negazionisti che venivano a mettere in dubbio le cose che mi sono state insegnate fin da piccolo. Ho ascoltato un po’ di quel che dicevano; poi ho letto altri che rispondevano, e ho risolto che per quanto posso capirne io, nello spazio limitato della mia esistenza e del mio cervello, i negazionisti si sbagliano. Il loro passato è meno credibile del passato che insegniamo a scuola. Ci sono prove che li smentiscono; certo, col tempo le prove si possono falsificare, ma tra loro e il consenso scientifico io continuo a fidarmi del consenso scientifico, che non è univoco: si dibatte ancora sul numero, sull’uso delle camere a gas; e questo più di ogni altra cosa mi convince: il fatto che esista un dibattito e non una verità assoluta; che i negazionisti non siano arrestati, ma contestati con argomenti e con prove.

Viceversa, se il negazionismo diventasse un reato; se bastasse negare il passato per essere portati via e processati; se io vedessi accanto a me persone che vengono portate via e processate per il solo motivo di pensare che le cose siano andate in un modo diverso, ecco, a quel punto il dubbio comincerebbe a ripresentarsi anche alla mia porta: perché non avrei il diritto di avere, tra tante, proprio quell’opinione? Probabilmente in un mondo in cui i nazisti avessero vinto, chiunque si ostinasse a portare prove di una presenza ebraica in Europa centrale verrebbe arrestato e imprigionato (magari proprio in alcuni campi in Europa centrale). Voi invece volete arrestare e sanzionare chi nega la Shoah o la ridimensiona. Un po’ lo capisco. Dopo decenni di dibattito storico, non è che puoi venirtene a dire che la Shoah non c’è stata: non è un’opinione, è una negazione di evidenze, di prove; è presentarsi a un convegno di paleontologia con la Bibbia in mano e affermare che i dinosauri sono tutti falsi perché sulla Bibbia non ci sono. E infatti io non invoco la libertà di opinione; peraltro non sono sicuro che tutte le opinioni la meritino. Preferisco pensare a un dovere, per ogni opinione condivisa e credibile, di difendersi da qualsiasi obiezione possibile senza chiamare la psicopolizia. Altrimenti la tua opinione non è più davvero condivisa e credibile: è soltanto difesa con la forza da un dubbio che evidentemente fa paura. E perché dovrebbe fare paura?

Uno dei motivi per cui sappiamo tante cose sulla Shoah, e tante altre continuiamo a impararne, è proprio la necessità che hanno avuto i superstiti di misurarsi col negazionismo, portando prove e testimonianze: nessuna delle quali magari per sé è definitiva – ma quando hai migliaia di persone che ti raccontano la stessa cosa, il negazionismo è sconfitto. Questo enorme e prezioso lavoro ci ha reso un servizio migliore di qualsiasi legge contro un’opinione. Anzi. Se avessimo iniziato a negare il negazionismo da subito, oggi non avremmo forse strumenti oggettivi per contrastarlo razionalmente. L’abitudine a procedere per dogmi ci avrebbe reso insensibili alla necessità di trovare prove documentarie. Il negazionismo ci serve a tenerci in allenamento, a non ripiegarci mai sulla risposta più semplice: “le cose sono andate così e basta”. No. Noi avevamo bisogno di dimostrare che le cose erano andate nel modo pazzesco in cui erano andate. Abbiamo scavato, abbiamo domandato, abbiamo ascoltato, abbiamo tratto delle conclusioni (non univoche); e così i nazisti hanno perso. Come faccio a sapere che hanno perso? Come faccio a sapere che non hanno vinto, e hanno riscritto la storia assegnando i loro crimini agli sconfitti?

Io so che hanno perso perché sono qui, adesso, e mi posso immaginare la loro vittoria senza che nessuno mi denunci o voglia portarmi via. Si chiama libertà di opinione, credo. Preferirei chiamarla necessità di dubbio. Lo “scuoter del capo su verità incontestabili” è bello – lo diceva un tizio a cui i nazisti davano la caccia. Aveva in effetti idee discutibili. Ma i suoi dubbi sono ancora meravigliosi.

Bibbia, ebraismo, Israele-Palestina, santi

Com’è andata a Moria


25 marzo – Sant’Isacco, millenni fa, a momenti vittima sacrificale, poi patriarca.

La porta si aprì lenta:
mio padre venne a prendermi,
io avevo nove anni. 

Stava innanzi a me, così alto:
i suoi occhi azzurri ardevano,
la sua voce era di ghiaccio.

***
Anche Isacco è tra di noi, Dio sa che ci stia a fare. A proposito di Dio: stiamo tutti attenti a non nominarlo in sua presenza. Non ci è nemmeno chiaro il perché, ma abbiamo tutti paura che una volta o l’altra dia di matto, e lo capiremmo benissimo, peraltro in famiglia non sarebbe il primo caso, vero? Ma sarebbe il più giustificabile – cioè, mettetevi nei suoi panni. Avete nove anni, e vostro padre sbrocca, entra nella vostra stanza e comincia con quei discorsi assurdi

“Ho avuto una visione, 
e tu conosci la forza della mia fede: 
devo fare quello che mi è stato detto”

Aveva nove anni, D*osanto. Chi non sarebbe impazzito. Io sarei impazzito. Tu saresti impazzito. Siamo tutti impazziti prima o poi. Gli antropologi prima o poi se ne accorgeranno. Siamo povere scimmiette con un cervello super-sviluppato che ci preme dappertutto la scatola cranica, e poi ci è cresciuto quel pollice reversibile che possiamo usare per tantissime cose che la nostra fantasia psicotica ci mostra di notte, ad es.: sacrificare i figli per smettere di avere gli incubi. Isacco queste cose le sa, è per questo che tace secondo me. Isacco non vuole più averci a che fare, sta in un angolo, mangia quaglie per lo più. Nessuno lo invita a giocare al tavolo di Matteo. Neanche una partitella a freccette con Sebastiano, niente. Tiene la testa bassa, in millemila anni nessuno gli ha dato una seria occhiata al collo. Insomma come siano andate davvero le cose nessuno lo sa. Bisognerebbe avere la faccia tosta di sedercisi davanti e dire: Isacco, figlio di Abramo, padre di Giacobbe anche se preferivi suo fratello, com’è andata davvero sul monte?
Poi gli alberi si fecero più radi, 
il lago un piccolo specchio, 
e ci fermammo a bere del vino: 

Gettò via la bottiglia vuota, 
(dopo un minuto la sentii infrangersi) 
e mise le sue mani sulle mie. 

Mi sembrò di vedere un’aquila, 
ma avrebbe potuto essere un avvoltoio, 
non ho mai saputo decidermi. 

Quindi mio padre innalzò un altare; 
mi guardò una volta appena, 
sapeva che non sarei fuggito.

Fin qui tutto bene… (continua sul Post…)

anniversari, Bibbia, corpo, cristianesimo, Cristo, ebraismo, religioni, santi

Buon anno col prepuzio o senza

1° gennaio – Circoncisione di Gesù.

Fingiamo di lavorare in una cancelleria un trentun dicembre del millequattrocentoquarantanove – quasi millequattrocentocinquanta. Il vostro principe si sposa e voi dovete mandare biglietti di inviti a tutte le corti d’Europa. La data – il primo marzo – dovrebbe corrispondere in tutto il continente; non è ancora arrivata la riforma gregoriana a complicare le cose. Ma l’anno qual è? Eh. Dipende.

Se scrivete a qualche signore di Firenze, o a un pari d’Inghilterra, è ancora il primo marzo del ’49: da loro il capodanno si festeggia il venticinque marzo. In fondo ha un senso, visto che gli anni si celebrano dalla nascita di Cristo, e per i cristiani la vita comincia col concepimento… Se però invitate anche qualche dignitario di altre città toscane, come Pisa, attenzione: da loro è già il primo marzo 1450. Pure a Pisa capodanno è il 25 marzo, ma dell’anno prima: anche questo se ci pensate ha un senso, se Gesù nasce il 25 dicembre, deve essere concepito nove mesi prima, non tre mesi dopo. Anche per i veneziani sarà già il 1450, non potete sbagliare: loro festeggiano il capodanno proprio quel giorno lì, il primo marzo. Per i bizantini, i pugliesi e i sardi invece è ancora il ’49, e continuerà a essere il ’49 fino ad agosto – e anche questo, se ci pensate, ha un senso, anzi forse nel torrido mediterraneo è la cosa che ha più senso di tutte: l’anno vero comincia il primo settembre. In Spagna è già il ’50, con loro tutto sommato non si sbaglia mai, basta ricordare che l’anno comincia una settimana prima, il 25 dicembre. Il vero problema è se scrivete ai reali di Francia. In Francia infatti gli anni si contano dalla Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore, e anche questo potrebbe avrebbe un senso (ma non bisognerebbe detrarre 33 anni al computo?) non fosse per la complicazione che ogni anno la Pasqua cade in un giorno diverso. Che razza di casino. Perché? Possibile che per arrivare a sincronizzare i capodanni dell’Europa Occidentale abbiamo dovuto aspettare fino al Settecento? Come potevano resistere i nostri antenati, a tutta questa confusione e incertezza?

Resistevano benissimo. Avevano altre priorità: la maggior parte di loro nasceva viveva e moriva nello stesso luogo; la necessità di intendersi con i forestieri su curiosità come la numerazione dell’anno in corso non li toccava. Siamo noi a vivere l’ossessione della simultaneità, a sentirci obbligati a festeggiare tutti negli stessi giorni se non negli stessi minuti e secondi, con dirette sincronizzate da orologi atomici. L’incubo dell’Anno Mille come ce lo racconta Carducci, con le folle terrorizzate dall’arrivo del primo gennaio manco fosse l’apocalisse maya, “raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accosciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne’ chiostri”, è una bufala ottocentesca: la maggior parte degli europei non aveva la minima idea di che anno fosse. Era il tot anno dalla nascita del tal re o imperatore o papa o figlio maschio o vacca da latte; per sapere quanti anni fossero passati dalla nascita di Gesù bisognava chiedere al prete, lui teneva il conto. Forse.

Comunque già alla fine del Seicento la diffusione del nuovo calendario gregoriano portò la maggior parte delle corti europee a uniformarsi (Venezia si arrese soltanto un secolo dopo, con Napoleone) e adottare il calendario che comincia il primo gennaio, secondo quello che è chiamato “stile della circoncisione”. Infatti se assumiamo che Gesù sia nato il 25 dicembre, il primo gennaio è il giorno in cui secondo la legge ebraica sarebbe stato circonciso. Dunque noi non contiamo gli anni dalla nascita di Gesù (25/12) né dalla sua procreazione/incarnazione (25/3), ma dal momento in cui è diventato a tutti gli effetti un ebreo. Il primo gennaio è poi diventato ben presto anche il giorno della festa di Maria madre di Dio, ma il sospetto è che sia stato un espediente per dissimulare una verità ovvia quanto imbarazzante: Gesù era un ebreo. Circonciso.

I cristiani invece non sono circoncisi – la maggioranza, almeno (continua sul Post, buon anno a tutti col prepuzio o senza, e anche chi il pene proprio non ce l’ha. Che non è che si perdano ‘sta gran cosa, diciamocelo).

cristianesimo, ebraismo, santi

Stefano il saccente

26 dicembre – Santo Stefano, primo martire.

O poesia della festa di Santo Stefano, fragrante di panettone secco e citrosodina. Festa di cinture slacciate, di avanzi riscaldati, di cartacce che frusciano sul pavimento – appena ieri erano involucri preziosi, contenevano la Magia del Natale, adesso aspettano il camino o la differenziata. Eppure testimoniano che qui passò una Festa di quelle importanti, di quelle che ti servono a segnare il tempo, per sempre il 2012 sarà quell’anno in cui a natale lo zio rovesciò lo champagne sul vestito nuovo della tua fidanzata ma non importa, è Santostefano, chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, anzi no ci sono ancora degli antipasti da ieri, qualcuno vuole degli antipasti? E sbafiamoci pure questi volovòn – no, aspetta, ci stanno le cozze. Nessuno poi si ricorda cos’ha fatto a Santostefano.

Che forse è il giorno più bello dell’anno, proprio per questo. Un giorno di crapula, postumi e oblio. È andata, non dovrai più preoccuparti di pacchetti e pensieri e presenti, e certi parenti molesti non si ripresenteranno più almeno per altri 364 giorni. Da qui in poi è in discesa – è vero che bisogna ancora sorpassare quella notte incresciosa in cui bombardano i cassonetti – ma il più è fatto. Eppure l’anno nuovo coi suoi fardelli sembra ancora lontano, lontano, quasi una settimana di distanza; e se sei ancora uno studente la Befana è lontanissima, c’è tutto il tempo per farsi venire la nausea da playstation. Santostefano, secondo me, per la maggior parte di chi lo festeggia non esiste, non sanno nemmeno che si chiama così. Non hanno mai smesso veramente di mangiare, magari allo stesso tavolo, oppure stanno videogiocando ininterrottamente da venti ore, in tv fanno ancora roba natalizia, e chi sarebbe ‘sto Stefano poi.

Un piantagrane, un classico martire saccente, di quelli che vogliono spiegare tutto a tutti e presto o tardi si mettono nei guai. Nel suo caso prestissimo: Stefano è il primo martire in assoluto. Subito dopo Gesù, forse appena un anno dopo, tocca a Stefano, che potrebbe non averlo mai conosciuto, ma si fa comunque ammazzare in suo nome. La maggior parte dei laici in hangover natalizio semplicemente lo ignora, ma anche i veri praticanti – e da poche cose li riconosci come dal fatto che hanno messo la sveglia per andare a messa pure a santostefano – restano talvolta un po’ perplessi. Hanno ancora nelle orecchie gli inni di Natale, gli angeli e i pastori e la mangiatoia (e i Magi non sono ancora arrivati), e invece il 26 è tutta un’altra storia, dal sapore tipicamente pasquale, un processo al sinedrio, un martirio… una piccola pasqua, all’indomani del Natale. Non è chiaro esattamente come mai sia andata così. Né il Natale, né il martirio di Santo Stefano sono date storiche: Iacopo da Varazze ricorda che in un primo momento la passione del Santo si festeggiava nello stesso giorno dell'”invenzione”, cioè del ritrovamento delle reliquie (3 agosto); poi si decise di spostarla in dicembre, anche per separare la commemorazione dello Stefano storico da quello prodigioso che, disseminato in mille santuari (tra Venezia e Roma dovrebbero esserci almeno due corpi, in tutto cinque braccia se si aggiunge quello custodito a Capua), aveva ovunque sbalordito con miracoli spettacolari.

Lo Stefano del ventisei dicembre invece è probabilmente un ragazzino meno prudente dei suoi compari, che si fa beccare mentre dice cose molto blasfeme sulla religione degli ebrei (a Gerusalemme, in quegli anni, non era veramente il caso). Condotto al tribunale religioso, il Sommo Sinedrio, invece di rimangiarsi i suoi discorsi su Gesù Cristo distruttore di templi e sovvertitore di costumi, conferma ogni cosa, ma con dovizia di citazioni bibliche allo scopo di dimostrare che Gesù è il Cristo, che in ebraico sta per Messia. Ora, vuoi far arrabbiare un ebreo? Mettiti a spiegargli la Torah. Quelli impazziscono di rabbia, nei modi molto teatrali in cui era necessario farlo all’epoca: digrignano i denti, si tappano le orecchie, prorompono in grida altissime. Ma non si stracciano le vesti. Con Gesù si erano stracciati le vesti, con Stefano no, forse si era capito che l’eresia gesucristiana rischiava di durare parecchio e non ci si poteva permettere una veste nuova a ogni processo. (continua sul Post)

cinema, ebraismo, essere donna oggi, giornalisti, Islam

L’Aspesi inesplosa

Questa è la storia di un putiferio che non è scoppiato. Credevo che sarebbe successo, e mi sbagliavo. È una buona notizia dopotutto.

Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un’orda di polemiche. Nell’articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l’Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l’emozione che “le libere donne laiche italiane” potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt’altro che laiche, tutt’altro che libere. Donne la cui vita consiste in “casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare […]”

da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera.

Ecco, andando a vedere questo film, le libere donne laiche italiane (secondo la Aspesi) resteranno sedotte e turbate, di fronte a “un’oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce”.

Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia […]

Io il film ovviamente non l’ho visto, ma dell’Aspesi mi fido. Posso immaginare che un film del genere abbia il pregio di descrivere dall’interno situazioni che non solo non capiamo, ma più spesso ci vantiamo di non capire. Non trovo così scandaloso che una donna occidentale, libera, laica, possa trovare il tempo per andare al cinema a lasciarsi sedurre da un’oasi di reclusione; dopotutto qualche anno fa uscì un film sul monachesimo maschile che, almeno dalle recensioni, risultava altrettanto seducente, e allora in fondo perché una donna non potrebbe lasciarsi affascinante da qualcosa del genere? al limite ci si potrebbe chiedere se lo stesso diritto di andare al cinema e lasciarsi sedurre da modelli diversi lo abbiano anche le donne segregate di cui parla il film; domanda retorica da cui partirebbe la solita polemica a base di santanché e corani e le magliette antimaomettane. Ecco, appunto. Dove sono le santanché coi corani e le magliette? Io me li aspettavo già in edicola al lunedì. Niente. È anche vero che c’era il dibattito sulle primarie, il maltempo, il caso Petraeus. Però, accidenti, almeno il Giornale se la poteva un po’ prendere, con questa Aspesi affascinata dalle donne segregate, no?

No. Anzi. L’unico riferimento all’Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l’Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:

Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt’altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po’ invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall’apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall’allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell’orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.

Dove si capisce tra l’altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia “Holly”, una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov’è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po’ paura.

Ma forse non c’è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.

O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l’ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L’importante è che non sia in nome di Allah.

Bibbia, Bush, cristianesimo, ebraismo, guerra, Israele-Palestina, medio oriente, santi

Scherzando col Magog sbagliato

10 aprile – Sant’Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos’è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C’è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un’astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall’interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri – non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l’afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano… già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l’aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell’Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L’invasione angloamericana dell’Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all’Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all’Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall’altra parte del filo c’è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l’appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c’è senz’altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l’interprete. Ci sono due tizi, Og e Magog, operativi in Medio Oriente… una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Og e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post…)

antisemitismo, ebraismo, ho una teoria, Israele-Palestina, vignette, vignette sataniche

Dove comincia il tuo naso?

Non è una domanda retorica, sul serio, dove? Per colpa di Facci, e di Vauro, e di Peppino Caldarola, mi è capitato di passare alcuni preziosi minuti della mia vita a contemplare foto di Fiamma Nirenstein per capire che naso avesse veramente. Senza neanche riuscirci, peraltro.

Vi sembra un bel modo di prepararsi al Giorno della Memoria? A me non sembra un bel modo. Vauro e il naso di Fiamma si legge sulla nuova, fiammante, Unita.it, e si commenta laggiù, possibilmente senza fare troppo gli antisemiti che ci ho famiglia, grazie.

In occasione del dodicesimo Giorno della Memoria è scoppiata una polemica, su quotidiani e blog, a proposito di un naso, per la precisione il naso della deputata Fiamma Nirenstein. La cosa, benché abbastanza delirante, è meno buffa di quanto possa sembrare, anzi per certi versi è mortalmente seria. Ci sono anche 25000 euro in ballo. Cercherò di raccontarla senza offendere nessuno, ma credo sia difficilissimo (qui c’è un buon riassunto di Filippo Facci).
In principio ci fu una vignetta che Vauro Senesi pubblicò sul Manifesto il 13 febbraio 2008: si era in piena campagna elettorale e la filoisraeliana Nirenstein aveva annunciato che si sarebbe candidata con il Popolo della Libertà: lo stesso partito di postfascisti come Alemanno o Giorgia Meloni, o di semplici nostalgici come Ciarrapico. Vauro commenta la notizia disegnando il mostro Fiamma-Frankenstein, che riprende le fattezze della Nirenstein, e sul vestito porta tre simboli: la stella di David, il fascio littorio, e il logo del PdL. Non è senz’altro la vignetta meglio riuscita di Vauro, ma il significato sembra chiaro. Io, perlomeno, ci vedevo un’allegoria del PdL: un mostro composto con pezzi di corpi che non avevano nulla in comune: il fascismo e Israele.
La Nirenstein la comprese in un altro modo, e protestò indignata per  “l’immancabile attacco demonizzante e disumanizzante”, “piuttosto prevedibile nell’uso che fa degli stereotipi, gli stessi che portano a raffigurare i soldati israeliani con la stella di Davide e la svastica”. Insomma, Vauro l’aveva dipinta come un mostro col fascio littorio perché ebrea, fine. Sono polemiche e semplificazioni inevitabili durante una campagna elettorale. Otto mesi dopo, quando sia la Nirenstein che Ciarrapico sedevano già in Parlamento (e avevano già avuto modo di litigare), un giornalista già amico di Vauro, Peppino Caldarola,scrive un trafiletto satirico sul Riformista in cui immagina una riunione di redazione di Annozero. Tra le varie battute, nessuna particolarmente esilarante, scrive questa:
Vauro non accetta di censurare la vignetta, che ha fatto tanto ridere Gino Strada, in cui chiama Fiamma Nirenstein “sporca ebrea”. 
No, non fa ridere. Ma non meritava nemmeno una multa di 25.000 euro. Invece capita che Vauro decida di querelare Caldarola: lui infatti non ha mai chiamato Fiamma Nirenstein Sporca Eccetera. E su questo non ci piove, ma è abbastanza chiaro che Caldarola scherzava: nello stesso pezzo scriveva “Marco Travaglio non vuole tornare dalla Transilvania dove era andato a trovare suo nonno il conte Dracula”. Quattro anni dopo capita che un giudice dia ragione a Vauro e infligga a Caldarola e al suo ex direttore Polito una multa spropositata. Caldarola la prende male: sul suo blog scrive di preferire il carcere; ma soprattutto dimostra dopo quatto anni e un processo di non avere ancora capito il senso della vignetta.
Al punto che comincio a domandarmi se non ho capito male io. Per il giornalista la vignetta contiene due indizi di flagrante antisemitismo: la stella di David e il naso di Fiamma-Frankenstein. Sulla stella Caldarola non ha dubbi: “È il simbolo della malvagità nazista”. Per me era un semplice richiamo all’identità da sempre rivendicata dalla Nirenstein. Ovviamente non si può guardarlo e non pensare ai deportati, ma appunto: si può rivendicare la difesa di Israele e militare nello stesso partito di Ciarrapico e di Alessandra Mussolini?
Ma il vero problema è il naso. Quello disegnato da Vauro, scrive Caldarola, è adunco. Casomai lo ignorassimo, “il naso adunco è la tipica rappresentazione che si dà degli ebrei” nelle vignette antisemite. Ergo, Vauro è antisemita. Ora, basta confrontare una qualsiasi vignetta di accertato antisemitismo per notare una certa differenza: di solito la forma del naso assume dimensioni caricaturali. Viceversa, nella vignetta di Vauro le dimensioni del naso non risultano particolarmente esagerate.  La mia sensazione – ma a questo punto potrei sbagliarmi, per favore non mandatemi gli ispettori – è che Vauro non abbia particolarmente calcato la mano nel disegnare un naso che ha qualche somiglianza con quello della Nirenstein. È un disegnatore satirico, che ha a disposizione pochi tratti e un solo colore per rendere una fisionomia: se deve disegnare un nero lo colora di nero, è razzismo? Il suo Arafat aveva il labbro sporgente e sproporzionato, è islamofobia? Può essere interessante anche confrontare la sua vignetta con quelle che un altro autore satirico ha dedicato alla Nirenstein, Stefano Disegni: se non altro perché Disegni è uno dei disegnatori satirici meno caricaturisti in circolazione: eppure anche la sua Fiamma ha un naso simile, come mai? Forse è antisemita anche Disegni? Oppure quello è semplicemente il suo naso? La stessa idea è venuta a molti commentatori sul blog di Caldarola, che gli hanno scritto in sintesi: guarda che ti sbagli, guarda che Vauro lo ha disegnato così perché lei ha davvero un naso più o meno così. Lui ha reagito dando dell’antisemita a tutti quanti. Pare che sia sufficiente questo, nel 2012, per prendersi un’accusa di antisemitismo: manifestare un’opinione sul naso di Fiamma Nirenstein.
Al punto che – dopo aver visionato una ventina di foto, di tre quarti e di profilo – ho deciso di gettare la spugna. Non ho la minima idea di che forma abbia il naso di Fiamma Nirenstein, anche se mi piace raffigurarmela con un nasino alla francese. Però anche scrivendo così, lascio intendere che se la Nirenstein non avesse un naso alla francese, se avesse un naso un po’ più pronunciato, mi piacerebbe meno… allarme antisemitismo! No, meglio tornare all’affermazione precedente: non ho la minima idea di che naso abbia l’onorevole Nirenstein.  Mi dispiace che Caldarola in quattro anni non sia riuscito a capire una vignetta che a me tutto sommato sembrava semplice; mi dispiace che Vauro lo abbia querelato, proprio lui che dovrebbe saper riconoscere uno scherzo, anche di dubbio gusto. Mi piacerebbe vivere in un mondo migliore, dove fosse possibile scherzare un po’ su tutto, compreso le barbe di alcuni profeti e le forme dei nasi di alcuni gruppi etnici, ma evidentemente non è così, e non sta nemmeno migliorando. http://leonardo.blogspot.com

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Il nostro uomo a Damasco

Il cristianesimo, in effetti, non comincia il 25 dicembre, ma verso il 25 gennaio, quando un ebreo che forse non era ebreo arriva accecato a Damasco e si mette in contatto con dei cristiani che non sanno ancora bene d’essere cristiani. Insomma, sotto i migliori auspici.

Sul Post si parla della Conversione di San Paolo, un giorno che ha cambiato la vita di tutti noi, in particolare dei prepuzi di tutti noi. Non mi sembra un particolare da nulla.

25 gennaio – Conversione di San Paolo (35)

Il cavallo forse nemmeno c’era. Ma Caravaggio ci teneva.
1975 anni fa oggi (un anno più uno meno) un piccolo uomo spaventato entra a Damasco, Siria, Impero Romano. Viene da Gerusalemme con una lettera di referenze del Sommo Sacerdote, ma non sa più che farne. L’idea alla partenza era far arrestare e portare davanti al Sinedrio (l’Inquisizione di allora) tutti gli ebrei damasceni appartenenti a una buffa setta eretica appena nata, che non ha ancora un nome: quelli che credono che il Messia degli Ebrei sia un tale crocefisso di recente. Il problema è che il piccolo uomo – Saul si chiama, come il re epilettico meno simpatico della Bibbia – non ci vede più, letteralmente. Strada facendo ha avuto un mancamento, è caduto (da cavallo? non si sa), ha visto una gran luce e forse ha anche sentito una voce, ed è ancora tutto scombussolato. Resterà in questo stato per tre giorni, senza mangiare. Poi fonderà una religione.
Sì, lo hanno detto in tanti: il cristianesimo, quello che quando eventualmente Gesù tornerà nella gloria farà un po’ fatica a riconoscere, lo ha fondato Saul, in seguito chiamato Paolo. Prima non c’era nemmeno il nome “cristianesimo” – i primi a farsi chiamare “cristiani” saranno i credenti di Antiochia, una delle prime comunità dove predicò. Prima di Saul c’era una cosa che si chiamava “la Via”, predicata perlopiù da ex apostoli di Gesù di Nazareth, a cui aderivano in forme diverse alcuni ebrei sparsi tra Gerusalemme e Damasco. La “Via” era naturalmente imperniata sugli insegnamenti di Gesù, che si tramandavano per forma orale: uno dei primi a buttare giù qualcosa di scritto sarà appunto Saul. Le sue lettere (non tutte davvero sue) fissano diversi punti della teologia cristiana che dai vangeli non sapremmo desumere: del resto anche i vangeli sono stati scritti dopo, e almeno due sono attribuiti a persone che in diversi momenti collaborarono con Saul stesso: Marco e Luca. Col primo, a dire il vero, Saul litigò: non sappiamo il perché. Però sappiamo che Saul tendeva a litigare un po’ con tutti prima o poi: non era un tipo simpatico. Non lo è mai diventato. La simpatia non è come la fede, non basta cader da cavallo.
È difficile affezionarsi a Saul. Gran parte delle critiche che gli si muovono negli ultimi tempi sono abbastanza ingenerose: è vero, era misogino. Perlomeno esortava le donne alla sottomissione nei confronti dei mariti, e dei sudditi nei confronti di Cesare. È vero, considerava l’omosessualità contro natura. In pratica aveva le idee di un giudeo dei suoi tempi: non è che gli altri cristiani del tempo avessero idee o pratiche più spensierate delle sue. In realtà in occasione del primo concilio (Gerusalemme 50) Saul è all’estrema sinistra: nessuno più di lui vuole farla finita coi precetti della vecchia Legge. Gli altri sono più bacchettoni: se non ci fosse stato lui, probabilmente oggi i cristiani non potrebbero mangiare carne di maiale, né giocare col prepuzio fino all’età adulta. Del resto è lecito domandarsi: se non ci fosse stato lui, ci sarebbero ancora dei cristiani? E in cosa crederebbero? Forse la setta degli adoratori di Gesù sarebbe rimasta una curiosità nei libri di storia tardoantica, un’eresia nata in seno all’ebraismo ed estintasi in seguito alla distruzione di Gerusalemme nel 70. (Continua)
Saul è insomma il classico tizio che arriva per ultimo e dopo un po’ la sa più lunga di tutti. Non ha conosciuto Gesù in vita, non ha assistito alla sua passione, eppure nel giro di pochi anni sarà lui a spiegare agli altri cosa hanno visto e in cosa credono di credere. D’altro canto cosa aspettarsi, da un intellettuale in un milieu di pescatori, dove quello che ha studiato di più (Matteo) aveva fatto ragioneria? Saul, che si autonominerà apostolo (=”inviato”), con gli apostoli veri, quelli che avevano mangiato il pane e bevuto il vino con Gesù, non è mai andato veramente d’accordo. Loro d’altro canto almeno in un primo momento dovettero mostrarsi diffidenti: e questo da dove arriva? Già, da dove?

Perché così vecchio? Perché Buonarroti lo paga Paolo III, la faccia è la sua.
Saul ha tante identità. Parla correntemente greco e aramaico. Proviene da Tarso, Cilicia, oggi Turchia meridionale, dove la famiglia (ebrea?) produceva e commerciava tende (fornitori dell’esercito Romano?) Nei primi anni di Gerusalemme mostra di avere un’educazione ebraica: si definisce “fariseo riguardo alla legge”, ha contatti importanti col Sinedrio. Quando poi cambia sponda, e gli ebrei provano ad ammazzarlo, lui tira fuori un asso dalla tunica: è un cittadino romano. Il tribuno che stava per farlo flagellare (senza motivo, così per dare un contentino alla folla), sbianca all’improvviso. Siamo nel primo secolo, essere cittadini romani è un privilegio assoluto, flagellarne uno senza processo è caldamente sconsigliato. “Davvero sei Romano?”, gli chiede, “io la cittadinanza l’ho comprata a caro prezzo”. “Io invece lo sono di nascita”. Il tribuno lo slega immediatamente, e da prigioniero comincia a trattarlo come ospite. Rimane il dubbio: come ha fatto a nascere romano Saul di Tarso (che ai Romani risulta, appunto, col nome di “Paulus”)? Che santi in paradiso aveva questo piccolo uomo non simpatico? Che razza di tende smerciava il papà?
Tante identità, tante lingue, tante generalità – e se fosse una spia? Di sicuro in un primo momento è tra i Farisei, che non sopportano i seguaci di Gesù così come non sopportavano il loro maestro. Appare per la prima volta durante la lapidazione di Stefano, primo martire, e già lì la sua posizione è ambigua. Luca negli Atti ci dice che approvò la lapidazione, ma che non scagliò nessuna pietra perché… era troppo giovane. Stava al guardaroba. Si sa, quando lapidi devi avere una certa libertà di movimenti, e così…
…i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. (Atti 7,58)
Qualcosa non torna, perché nel giro di qualche mese lo stesso giovane diventa il promotore di un rastrellamento di tutti i seguaci della “Via”, che lo porta a Damasco, si è visto, con referenze dei sommi sacerdoti. A Damasco però Saul arriva accecato, e invece di perseguitare i cristiani… si infiltra. Per conto dei farisei? Può darsi. Ma non tornerà più indietro. Non sarebbe l’unico caso della Storia: Lionel Jospin entrò nel partito socialista francese come infiltrato trotskista, poi si affezionò a Mitterand e vent’anni più tardi si ritrovò primo ministro di Francia. Un caso un po’ più delicato è quello della talpa che l’esercito tedesco infiltrò in un piccolo partito di estrema destra nel 1919, Adolf Hitler.
Secondo gli Ebioniti (una setta di eretici di cui non sappiamo quasi nulla) Saul non era un neppure un ebreo: si era convertito al giudaismo per poter sposare la figlia del sommo sacerdote. Rifiutato, era passato per ripicca dalla parte dei nemici. Puro gossip, senz’altro. Però è vero che la nuova religione gli consentiva più libertà di azione. Per prima cosa, era ancora quasi tutta da inventare: grazia, resurrezione, Spirito Santo, battesimo, sono ancora concetti piuttosto nebulosi. In compenso, non c’è bisogno di rivolgersi agli ebrei: Saul preferisce rivolgersi a ellenisti e Romani, in generale più ben disposti. Un proconsole che incontra a Cipro, Sergio Paolo, gli regala forse il nome (è dal loro incontro, in Atti 13, che Luca smette di chiamarlo col suo primo nome e comincia a chiamarlo Paolo). Forse il passaggio del nome tra il proconsole e il predicatore allude al dono della cittadinanza (magari attraverso l’adozione). Ma in tal caso Paolo avrebbe mentito al tribuno, dicendo di essere Romano dalla nascita.
Saul è testardo, persuasivo, manipolatore, e fa miracoli, il che non guasta mai: i membri della prima Chiesa di Gerusalemme non si fidano, ed è difficile dar loro torto. Saul riesce a convincerli con le collette, è un mago del fundraising: quando arriva in città porta polemiche, ma anche pezzi d’argento che pesano. A un certo punto ha la faccia tosta di litigare con quello che dovrebbe essere il capo, Pietro, sulla questione più delicata di tutte: i cristiani sono ancora ebrei? A Gerusalemme il problema quasi non si pone: i cristiani (che non si chiamano ancora così) sono quasi tutti giudei, e con gli altri giudei hanno trovato un modus vivendi: rispettano tutte le astruse norme della Torah, non mangiano animali impuri, circoncidono i figli… l’unica notevole differenza è che credono che Gesù sia il Messia, il che per un giudeo ortodosso resta una bestemmia, ma evitano magari di strombazzare la cosa al Tempio o davanti al Sinedrio, come il povero Stefano, testa calda. Ad Antiochia Saul vive in un mondo tutto diverso: al centro dei traffici del Mediterraneo orientale, in un melting pot di lingua greca dove gli stessi ebrei non sanno più bene in cosa credono. A un pubblico composto per lo più da gentili, Saul non chiede più né la circoncisione, né le astensioni rituali della Torah: Gesù resuscitando ci ha liberato da tutto questo. In confronto coi cristiani di Gerusalemme il bacchettone Saul doveva apparire un liberatore dei costumi.

Pietro e Paolo, in un abbraccio non proprio convinto
La cosa interessante è che Pietro tutto sommato è d’accordo, anche se per maturare le stesse convinzioni deve prima fare un sogno (l’ex pescatore evidentemente si fidava meno delle proprie capacità speculative e teologiche, e preferiva aspettare un messaggio esplicito dall’Aldilà). Nel 50, al primo concilio, Pietro e Saul perorano la causa dell’ecumenismo: niente precetti dell’Antico Testamento per i non giudei che si convertono. Pietro e Saul la spuntano. Ma poi litigano, perché? Per un certo periodo vivono entrambi ad Antiochia, la metropoli del tempo. Quando nella stessa città arriva una delegazione di giudei cristiani di Gerusalemme, Pietro si rimette a comportarsi da vecchio ebreo: rifiuta il cibo non kosher, eccetera. Lo fa per quieto vivere, probabilmente: non vuole infastidire gli amici di Gerusalemme, che sono molto vicini a un personaggio fondamentale, Giacomo il Giusto “fratello del Signore” (lo rivedremo). Saul se ne accorge e si adonta: sei un ipocrita, chiedi agli altri di rispettare regole che tu stesso non riesci a osservare, eccetera. Come sia finita non lo sappiamo: conosciamo solo la versione di Saul, che però qualche tempo dopo lascia Antiochia per non tornarvi mai più. Pietro dovrebbe averlo incontrato ancora a Roma, dove finiscono entrambi dopo varie peregrinazioni, come due pesci rossi nello scarico: d’altro canto tutte le strade portano là. Però gli Atti si interrompono proprio con l’arrivo di Saul nell’Urbe: tutti i racconti successivi sono apocrifi.
A Roma Saul-Paulus arriva dopo un viaggio complicato (ha naufragato al largo di Malta, e il resoconto del naufragio negli Atti è così vivido che è difficile pensare che Luca non sia imbarcato con lui). Da anni viveva a Gerusalemme agli arresti domiciliari: in realtà i Romani lo proteggevano dai sacerdoti del Sinedrio che avrebbero voluto fargli fare la fine di quell’altro. Per sbloccare la situazione Saul decide di appellarsi a Cesare. In quanto cittadino ne ha il diritto. Anche a Roma Paulus vivrà per qualche anno in un regime di libertà condizionata piuttosto lasca. Forse a un certo punto verrà scarcerato, forse farà un ultimo viaggio (spagnoli e inglesi lo reclamano entrambi come fondatore delle loro Chiese). Su una cosa la tradizione non transige: dev’essere tornato a Roma, dopo l’incendio che avrebbe radicalmente modificato l’immagine dei cristiani, da mistici bizzarri orientali a integralisti fanatici incendiatori di città. Vanno tutti crocefissi, come il loro Re. Tutti tranne Paolo, lui è diverso: la crocefissione è la pena per gli schiavi ribelli, ma lui è cittadino romano: si può soltanto decapitare, e comunque fuori dal perimetro di Roma. Dai tre rimbalzi della sua testa sgorgheranno le tre fontane dell’omonima abbazia, il che ci fa capire che ormai abbiamo lasciato il campo delle testimonianze oculari e siamo in pieno territorio leggendario.
cinema, ebraismo, Von Trier

Simpatia per Lars Von Trier

Your own personal Führer

Avrete sentito dire in questi giorni come il famoso e controverso regista Lars Von Trier abbia affermato pubblicamente di provare simpatia per Hitler, ebbene, non è così vero. Il verbo inglese “to sympathize” non significa esattamente “simpatizzare”. Il suo significato è più aderente all’originale etimo greco, “patire assieme”: compatire, comprendere il dolore. Per un’affermazione del genere, Lars Von Trier è stato bandito dal Festival di Cannes. Pare che sia vietato affermare di poter compatire la sofferenza dell’uomo malvagio, che in quanto malvagio è radicalmente diverso da noi al punto da sfuggire a ogni nostra capacità di comprensione. Altrimenti ti cacciano dalle feste. E dire che fino a ieri avevamo riempito migliaia di pagine, miliardi di fotogrammi, nel tentativo di capire, di spiegare come una persona come noi possa diventare, in certe situazioni, a certe condizioni, un assassino di massa. Ma questo era ieri, appunto, quando ci interessavano le cause, le conseguenze, le nostre psicosi individuali e di massa: oggi abbiamo deciso che gli assassini sono sempre gli altri, che non parlano la nostra lingua e probabilmente non sono della nostra razza. Abbiamo tracciato una linea, chi la oltrepassa è il Male Assoluto e non può essere spiegato né compreso: o condanni pubblicamente il Maligno come fonte e origine di ogni male o sei evidentemente un po’ parte del Maligno anche tu. Questa è l’Europa di oggi, un posto dove abbiamo risolto le psicosi ritornando ai tabù.

Credo di poter simpatizzare con Von Trier, intendo, capire un po’ come si sente. Ci sono vari tipi di gaffe, o meglio di gaffeur. C’è il gaffeur tattico, come Vittorio Sgarbi, che a un certo punto si rende conto che la sfida con Santoro o Saviano è persa in partenza e allora calca la mano, in pratica si auto-boicotta, affossa il suo programma e dopo due ore corre a intascare gli stessi soldi che avrebbe dovuto guadagnare lavorando qualche mese (chiamalo fesso). C’è il gaffeur trionfante, senza secondi fini, il personaggio così pieno di sé da essere convinto di avere sempre qualcosa di intelligente da dire, anche se non sa ancora cosa (ma intanto ha già aperto la bocca e sta parlando di nazismo davanti a un eurodeputato tedesco). E poi c’è il gaffeur suicida, che ha una pessima opinione di sé stesso e parla a vanvera per distruggersi, come il tuo partner esausto di te che decide di farti una scenata in società. Basta avere sfogliato la Newton Compton di Freud ((c) Enzo) per riconoscere nel balbettante Von Trier un esempio di gaffeur del terzo tipo. L’uomo ha cose orribili da rimproverarsi – di non essere un buon regista, diranno molti. Ma molto prima di castrare i suoi attori era l’etica stessa di Dogma a essere autocastrante: Non avrai altra Soundtrack al di fuori di me; Non ti gioverai di cavalletto; Non girerai esterni, ecc.

Poi, in modo non molto dissimile da quel che accade nella Bibbia, dove il popolo di Dio non fa che disobbedire alle leggi di Dio (sennò la Bibbia sarebbe assai più corta e perfino meno divertente); allo stesso modo di Isaac Asimov (autore di origine ebraica!), che prima inventa tre leggi della Robotica e poi scrive dozzine di racconti in cui, sostanzialmente, i suoi robot non fanno che rivoltarsi alle leggi della robotica… tutto quello che ci ha reso interessante Von Trier probabilmente sta nel modo in cui ha aggirato le sue stesse autolimitazioni e ha girato musical o commedie dell’assurdo. Per cui a un certo punto ci siamo convinti che tutto l’affare dogmatico era semplicemente un esercizio per stimolare la propria creatività. Potrebbe darsi.

Però potrebbe anche trattarsi di psicosi maniaco-depressiva. Il giovane Lars è cresciuto in una famiglia danese comunistoide e antirepressiva, vacanze nudiste e tutto il resto: il tipo di ambiente in cui a un certo punto un adolescente può trovarsi a rimpiangere la totale assenza di regole (o a riconoscere le regole non scritte dietro il permissivismo genitoriale). Crescendo ha scoperto che il padre, benché ateo, era di origine ebraica: quindi da qualche parte c’era una Legge, anche se negletta dal padre. A un certo punto però il padre muore e la madre spiega a Lars che comunque non era il suo vero padre: quest’ultimo non era ebreo, bensì… tedesco. Così a 33 anni Von Trier si ritrova sbalzato, da membro di una perduta tribù di Israele a figlio dei volonterosi carnefici di Hitler. Qui avviene una sorta di sdoppiamento: può darsi che Von Trier si odi seriamente, e non per posa, può darsi che ci sia un Von Trier interiore che cospira contro tutto quello che Von Trier cerca di fare di buono nella vita, un Von Trier che boicotta attivamente la sua stessa carriera, che assiste alla prima del suo film e lo trova inguardabile (“Maybe it’s crap,” von Trier joked. “Of course, I hope not. But there is quite a big possibility that this might be, you know, really not worth seeing); poi si ritrova davanti ai giornalisti, circondato da due attrici brave e famose, e in un momento che potrebbe rappresentare uno dei due o tre possibili apici della sua carriera, e senza accorgersene – e senza che nessuno riesca a interromperlo – sente sé stesso parlare a vanvera di nazismo ed ebrei. Il modo più spiccio per rovinare una carriera, ormai lo sanno anche i fantasmi dell’inconscio. La trascrizione non rende il senso discorso: dalle pause, dalle esitazioni, emerge chiaramente che lo stesso Von Trier non chiedeva di meglio che essere interrotto, salvato dalle sue stesse chiacchiere. E invece i giornalisti lo lasciano parlare, fiutando la gaffe succulenta; la Dunst si mostra scioccata ma non lo interrompe, probabilmente spera che il regista riesca a spiegarsi meglio, a salvarsi in corner; la stessa cosa cerca di fare malamente Von Trier, ma il suo Doppelgänger autodistruttivo riesce a tenere la palla al piede, dribbla ogni tentativo di riportare la discussione alla ragionevolezza festivaliera, e continua ad ammucchiare gaffes sulla collega danese-ebraica che ha vinto un Oscar; su Hitler; su Israele che è “una rottura di coglioni” (“a pain in the ass”, mi pare che nessuno in Italia abbia osato tradurre), su Albert Speer che è un grande a cui piace fare le cose in grande, come i nazisti, come lui stesso. Nel frattempo il Von Trier ragionevole alza la bandiera bianca: “how can I get out of this sentence?”

Israel Von Trier
Nazi Von Trier
Ho pensato di essere ebreo a lungo, ed ero davvero contento di essere ebreo. Ma poi è arrivata Susanne Bier e non ero più così contento…
No, questa era una battuta, mi dispiace. Ma è saltato fuori che non ero un ebreo, ma anche se fossi un ebreo sarei un ebreo di seconda classe, perché c’è una specie di gerarchia nella popolazione ebrea.
Ma in ogni caso, volevo davvero essere un ebreo E poi ho scoperto di essere davvero un nazista, sapete, perché la mia famiglia era tedesca, Hartmann, il che mi ha dato comunque qualche piacere, eh, eh, così sono una specie di…
Io… io… cosa posso dire? Io capisco Hitler.
Ma… ma… penso che abbia fatto alcune cose sbagliate, sì, certamente Ma posso vederlo seduto nel suo bunker alla fine.
Ci sarà un senso alla fine di tutto questo. Ci sarà… No… stavo solo dicendo che… capisco l’uomo.
Non è quello che chiameresti un bravo ragazzo Ma… capisco molto di lui, e provo compassione per lui, un po’, sì…
Ma insomma, non sono per la Seconda Guerra Mondiale! Non sono contro gli ebrei!
E Susanne Bier?
No, neanche contro Susanne Bier… anche questa era una battuta, io naturalmente tengo molto agli ebrei No, non così tanto, perché Israele è una rottura di coglioni.
Come posso uscire da questo discorso?

Dopo che hai offeso gli ebrei, cosa puoi fare di peggio? Offendere le donne, probabilmente. Qualche minuto dopo riuscirà a disegnare per Kirsten Dust un futuro da aspirante pornostar. “Now she wants more. That’s how women are, and Charlotte is behind this. They want a really, really, really hardcore film this time, and I’m doing my best”.

Dunque: c’è un Von Trier che credeva di essere ebreo. Che voleva essere ebreo. L’aspirazione a voler far parte del popolo della Legge si lascia facilmente interpretare. A parte l’opportunità, per un regista, di trovarsi rampollo nella stessa schiatta di Kubrick, Polanski, Lubitsch, Allen, e ne ho senz’altro lasciato fuori qualcuno enorme, c’è anche la necessità dell’intellettuale di simpatizzare col perdente, con l’oppresso, con la minoranza. E allo stesso tempo c’è la necessità di una Legge scolpita sul marmo, di un Dio che ti fulmini se non lo rispetti. Però a un certo punto, magari guardando il film di una collega che ebrea lo è davvero, Von Trier capisce di essere qualcos’altro: non oppresso ma oppressore, non ebreo ma tedesco. Un nazista. Probabilmente la realtà è in mezzo, probabilmente Von Trier è l’ebreo e il nazi di sé stesso, ma è facile dirlo da fuori. Se Von Trier fosse riuscito a fare andare d’accordo le sue due identità, non si troverebbe davanti al disastro dell’altro ieri. Von Trier è il nazista di sé stesso per le regole inflessibili che continua a darsi, per le punizioni bizzarre e atroci che infligge a chi sgarra, cioè a Von Trier stesso. E allo stesso tempo non può che provare pietà per quel dittatore frustrato che non riesce ad autocontrollarsi, e che forse si ritrova già nel bunker interiore, pronto a spararsi un colpo. ‘Però non sono un nazista vero’, dice il Von Trier aspirante semita, facendo appello alla ragionevolezza dei giornalisti: guardatemi, mica dichiaro le seconde guerre mondiali, mica odio gli ebrei… Anche se Israele è un pain-in-the-ass”, replica il Von Trier sadico, e questo probabilmente è il vero tabù che un regista europeo non dovrebbe infrangere. Perché comprendere Hitler, via, non è questa gran novità: col mondo interiore del Führer si sono misurati registi anche meno scomodi di Von Trier; una delle sequenze di maggior successo del cinema degli ultimi vent’anni è quella in cui Bruno Ganz ci mostra un umanissimo Hitler impartire un umanissimo cazziatone ai suoi sottoposti. Non è un caso che lo spezzone della Caduta sia diventato un tormentone del web; non è un caso che migliaia di internauti abbiano voluto mettere in bocca al Führer le proprie esternazioni, in pratica abbiano voluto mettersi nei panni di Hitler “sitting in his bunker at the end”, senza che nessuno abbia perso tempo a misurare il potenziale antisemita del giochino. No, Hitler si può compatire – entro certi limiti. Ma offendere Israele, descriverlo come un fastidioso ospite conficcato nel retto della nostra sensibilità occidentale, ecco, questo era il tabù che il Von Trier sadico andava cercando, per inchiodarcisi sopra. Missione compiuta.

ebraismo, Israele-Palestina, sofismi

sofismi su Israele, 6-8

Prima di continuare coi sofismi, vorrei rispondere a chi ha commentato “cose chiare e sensate. Ma chi lo va a spiegare alla “casalinga di voghera”?

Ecco, per una volta credo che la famosa casalinga sia vittima di un pregiudizio. La immagino davanti a un tg qualsiasi mentre scuote la testa, piange per le vittime e biasima i bombardatori. Non riesco a immaginarmela mentre mi fa un’equazione Kissinger o rilascia patenti di antisemitismo. Questi sofismi non sono pane per i suoi denti. Sono invenzioni intellettuali, concepite e collaudate da intellettuali per convincere altre persone che su internet o sui giornali cercano di farsi un’idea approfondita. È per questo che mi fanno paura. Non pretendo che la casalinga di Voghera debba farsi un’idea anche solo vaga di tutto quello che è successo dal ’48 a oggi; ma perché giornalisti e ministri devono raccontarmi balle? E devono essere per forza balle così inverosimili?

6. Sofisma del matrimonio gay
Questo è di conio recente, ma ha già riscosso un certo successo. Come fai a mettere sullo stesso piano un movimento oscurantista come Hamas e un Paese laico come Israele, dicono, un Paese dove i gay si possono sposare?

Non so cosa ne pensino i gay, ma io trovo un po’ fastidioso l’uso del “matrimonio gay” come cartina di tornasole della laicità di una nazione. Peraltro, non è nemmeno vero che i gay si possano sposare legalmente: la giurisdizione israeliana riconosce semplicemente la validità di matrimoni gay contratti in altri Paesi. Ma chi ha a cuore l’etichetta laica di Israele dovrebbe lasciare perdere l’argomento “matrimonio” in generale: sposarsi in Israele è una faccenda complicata. Il matrimonio civile non esiste: i matrimoni religiosi si possono contrarre soltanto tra membri della stessa comunità religiosa, secondo il sistema dei Millet ereditato dalla legislazione ottomana, che a quei tempi era veramente all’avanguardia in fatto di pluralismo religioso, ma oggi segna un po’ il passo dei tempi – soprattutto a confronto con quelle democrazie laiche e occidentali alle quali si paragona spesso Israele.

Quindi: i cristiani si possono sposare coi cristiani, i musulmani coi musulmani, i drusi coi drusi, gli ebrei con gli ebrei – ma anche così è troppo facile, in realtà non tutti gli ebrei israeliani hanno diritto di contrarre matrimonio con ebrei ortodossi o di discendenza sacerdotale (i kohen). Anche i figli illegittimi sono sottoposti ad alcune limitazioni. Su tutto questo ha giurisdizione il Gran Rabbinato, che a partire dal 1947 ha negoziato con il primo governo di Ben Gurion un accordo tra Stato e religione affine ai nostri concordati. Con la differenza (non mi pare da poco) che in Italia ci si può sposare anche al di fuori della Chiesa, e con qualcuno che in una chiesa non ci è entrato nemmeno per battezzarsi. Siete ancora sicuri che Israele sia un Paese così laico?

È vero che la situazione è bilanciata dalla prontezza coi cui Israele riconosce i matrimoni civili contratti all’estero: tanto che nel 2000 si è calcolato che uno sposo/a israeliano su dieci ha sconfinato per celebrare il suo matrimonio (Cipro è la tappa preferita). Tra questi, anche quelli contratti tra persone dello stesso sesso. Quanto questo renda Israele un Paese laico, decidetelo voi.

Naturalmente non penso che nessun gay, messo di fronte all’alternativa se vivere a Tel Aviv o Gaza, nutrirebbe molti dubbi (come se i gay di Gaza avessero davvero questa scelta; e come se la loro priorità in questo momento fosse il matrimonio, e non il pane e le medicine); e tuttavia non credo che la tolleranza sia un valore assoluto piovuto dal cielo, che gli israeliani hanno e i palestinesi no; ritengo che dipenda fortemente da una serie di parametri tra i quali, fondamentali, la cultura e il benessere. Dove c’è benessere e cultura di solito i gay se la passano molto meglio. Ma la cultura e il benessere di Tel Aviv e in generale di Israele sono in parte basati sullo sfruttamento delle risorse di Gaza e della Cisgiordania. Troppo comodo accusare i palestinesi di oscurantismo a pancia piena.

E comunque nemmeno il benessere israeliano si può dare per scontato. Il Paese si dibatte in una crisi economica decennale, la corruzione è endemica, e la militarizzazione del conflitto è anche una risposta a queste tensioni. Israele non è il Paese laico che molti credono, ma non è nemmeno una teocrazia di fanatici. Eppure chi ha visto almeno una volta i coloni di Hebron o gli ortodossi di Mea Sharim sa che l’integralismo ebraico esiste, è già una forza elettorale con cui i governi devono fare i conti, e ha margini di crescita.

7. Sofisma benaltrista, o dell'”indignazione selettiva”
Prima o poi arriva quello che ti chiede: perché parli solo di Israele? Dov’eri quando uccidevano i cristiani nel Darfour? I Tutsi in Ruanda? I palestinesi, però in Giordania? Com’è che salti fuori sempre e solo quando si tratta di Israele? Pacifista a senso unico! Indignato selettivo! Ecc.

Questo è un sofisma solo in parte. È vero che il conflitto israelo-palestinese ha una copertura diversa dagli altri. È vero che ha sempre coinvolto noi italiani più che altri. Ci sono ragioni storiche e culturali perché questo avviene (una vicinanza particolare con la cultura araba, un senso di colpa nei confronti della nostra comunità ebraica, ecc.); ciò non toglie chi si ricorda delle guerre soltanto quando le fa Israele possa risultare fastidioso. Resta tuttavia un argomento ad personam: anche se parlassi solo di Israele, non merito di essere giudicato per quello che dico in quel momento? Di quanti conflitti devo aver parlato prima di avere il diritto di parlare di quello di Israele? O il senso è che devo stare zitto e lasciar parlare i professionisti? In pratica non si deve parlare di Israele su un blog, a meno che non sia un blog di politica estera.

(Ora rispondo per me:) Questo non è un blog di politica estera. È un sito un po’ generalista con qualche interesse un po’ più specifico: il movimento dei movimenti (quando si muoveva), la scuola italiana, il pd, i fatti miei. Di solito cerco di scrivere cose originali, e difficilmente potrei concepirne di originali su Darfour e Tibet. Raramente mi metto a scrivere di guerre e di stragi. Ma in tutta coscienza, se dopodomani gli uzbeki cominciassero a bombardare i kazaki a tappeto, e su internet e su blog e quotidiani io trovassi una lunga serie di complimenti ai saggi uzbeki che hanno fatto bene a bombardare i kazaki che li minacciavano nella loro stessa esistenza… probabilmente m’interesserei alla storia, la studierei, cercherei di capire perché il mio giudizio sulla vicenda mi sembra tanto diverso da quello degli altri, e alla fine ne scriverei. Ovvero: non è Israele il punto qui. Se volete sapere cosa succede in Israele leggete Haaretz, leggete il Guardian. Il punto qui è come gli italiani parlano di Israele. Ne parlano in un modo stranissimo, che m’incuriosisce e un po’ mi spaventa, quando semplicemente non mi fa arrabbiare. Di questo sto parlando: della guerra no, non ho molto da dire, così come non avevo molto da dire sul Darfour.

8. Sofisma dei bambini morti
Questo è proprio passato di moda, per un motivo semplice. 

Si tratta di una forma particolare della mozione degli affetti in virtù della quale quando tu stai cercando di spiegare le ragioni di un conflitto, qualcuno ti replica postando la foto dell’ultima vittima delle autobombe – meglio in tenera età, e fotografata a cadavere non ancora ricomposto – con una didascalia che di solito dice: guarda cosa fanno i porci che tu difendi! Guarda! Guarda! E li difendi ancora? Allora Guarda ancora un po’! Guarda! Guarda! E forse un giorno capirai.

Io in realtà non ho mai capito perché la foto dovesse essere più convincente della semplice notizia: insomma, se sento alla radio che un autobomba ha straziato due bambine, dovrei essere abbastanza adulto da capire la gravità della cosa senza bisogno di un’immagine, no? Se dopo una notizia del genere non mi converto immediatamente alla Guerra al Terrore e continuo a concepire il conflitto israelo-palestinese come un fenomeno complesso, cosa potrà fare di più una foto sgranata?

Questa strana tendenza toccò il suo apice quando Al Zarqawi fece inquadrare il povero Nick Berg mentre lo decapitava, producendo il primo vero snuff video che ebbe un discreto successo in tv. Ebbene, in quell’occasione molti stimati opinionisti si comportarono come quel tuo amico delle medie che ti teneva la testa mentre ti faceva vedere Non aprite quella porta in vhs: Guarda! Devi guardare! Sennò non capisci! Sennò non sei uomo. Ricordo Antonio Polito:

Consigliamo a tutti di guardare il video della decapitazione dell’ostaggio americano, che circola su Internet. Bisogna guardare in faccia l’orrore, anche se non è degno dell’umanità degli occhi che lo guardano. Quella testa mozzata a fatica, con tutto il lavorio fisico che comporta, e il tempo che ci vuole, e l’abisso in cui sprofonda un po’ alla volta, nella più odiosa delle torture, la vittima, è in fin dei conti la ragione per cui l’Occidente è in guerra con il terrorismo islamico.
[…]Pacifisti e antiamericani guardino quel video, poi decidano qual è il problema del mondo. 

Insomma, finché i pacifisti e gli antiamericani non avessero visto lo snuff, non avrebbero capito. Inutile ragionare. Bisogna guardare. Tutto, fino in fondo. Se non guardi sei una checc… no, volevo dire, se non guardi non puoi capire il problema del mondo.
Era il 2004: sulla tv in chiaro andavano forte i realities e le teste mozzate. In seguito entrambi i generi hanno perso molto smalto, e oggi è difficile trovare un morticino utilizzato a mo’ di argomento. Forse anche perché i morticini di questi giorni sono tutti palestinesi, e quindi non sono convincenti: l’argomento funziona solo con le vittime israeliane e occidentali.
Detto questo, qualche foto di morticino qua e là l’ho vista – per esempio su beppegrillo.it. Io non le mostro: hanno senz’altro un valore documentario, ma non le considero un argomento. Mi piace pensare di avere a che fare con interlocutori che riescono a provare pietà per una persona senza bisogno di vederla martoriata in digitale.

(Ne avrei ancora parecchi, ma se preferite la pianto qui)
antisemitismo, ebraismo, Far-Net, indymedia, nazismo

Tante cose vorrei, che forse in un pezzo solo non ci stanno.
Vorrei che la gente non scrivesse svastiche sui muri, ma dal momento che non è facile evitarlo, vorrei che alla cosa non fosse data troppa importanza, quando ben altri sono i problemi.
Vorrei vivere in un Paese un più sereno, dove non si strumentalizzano anche le bombolette spray, dove non vige (come in Italia) la par condicio delle cazzate, per cui se un giornalista s’imbatte in un caso d’intolleranza dell’estrema destra, subito deve cercarne uno di estrema sinistra da rinfacciare.

Ma siccome vivo in questo Paese, vorrei almeno che quel giornalista non abbia a trovare la “cazzata d’estrema sinistra” proprio su Indymedia.
E riguardo a Indymedia, vorrei tante cose. Innanzitutto vorrei che gli utenti (o almeno i giornalisti) capissero la differenza tra la parte redazionale (spazio al centro) e il newswire libero (colonnia a sinistra).
La parte centrale è il lavoro di un collettivo di attivitsti dell’informazione indipendenti; la colonnina a sinistra è praticamente un forum dove chiunque, c h i u n q u e può scrivere quello che gli va e pubblicarlo, e chiunque può commentare. Perciò chi scrive non è necessariamente un “no global”: molti che lo frequentano sono dell’area dell’estrema destra (alcuni si firmano anche). C’è anche qualche poliziotto, ma non è chiaro se scriva nel suo tempo libero. E c’è anche gente in pieno delirio di psicofarmaci. Insomma, è riduttivo considerare Indymedia un sito del movimento.

Naturalmente, se avete un minimo d’esperienza dei forum di discussione su Internet, sapete che il risultato non può che essere una fogna a cielo aperto, dove non mancano i tesori, ma la puzza è forte: e infatti è così, anche se io vorrei tanto che fosse diverso.
Vorrei che la redazione d’Indymedia trovasse un filtro al sistema che fosse compatibile con le istanze libertarie del progetto (come sta succedendo in altri Paesi), ma dubito che un filtro del genere possa sussistere (in realtà qualcosa c’è, ma non sembra essere stata applicata); e comunque, non avendo il tempo e la forza d’animo di entrare nella redazione e fare proposte concrete, mi rassegno allo stato delle cose (è la famosa “democrazia di chi si fa il mazzo”). Vorrei che anche gli altri critici di Indymedia si comportassero così: forse il sito diventerebbe più abitabile.

Vorrei inoltre che i giornalisti smettessero di pescare scoop di serie c2 sul newswire, perché è troppo facile: e poi magari quei giornalisti criticoni sono gli stessi che lo saccheggiano a man bassa negli unici momenti in cui diventa davvero uno strumento utile (durante le manifestazioni ‘calde’: ultimo esempio, i blocchi dei treni).

Vorrei invitarvi a riflettere sul fatto che, in fin dei conti, il newswire non è altro che un piccolo spaccato di Internet: un posto dove tutti possono pubblicare informazioni anonime. Se non ci piace il newswire, se lo troviamo pericoloso, se chiediamo che qualcuno lo controlli, allora dovremmo pensare la stessa cosa di Internet: davvero è più pericolosa che utile? Davvero vorremmo un’autorità che la controlli?

E veniamo al caso di ieri: su Indymedia qualcuno (non si sa chi) pubblica un’immagine piuttosto infelice: un logo della rai con la bandiera israeliana e la scritta “RAI, Radio Televisione Israeliana”. Anche qui, tante cose vorrei capire:

Vorrei capire perché un’immagine insulsa, sulla sezione di un sito che è notoriamente una fogna a cielo aperto, deve diventare un caso nazionale: oggi ne parlano almeno due quotidiani (Libero e la Stampa), e pochi minuti fa ho sentito che ne accennava a Radio 24 anche il Presidente della Commissione di Vigilanza. (In realtà lo capisco benissimo: l’immagine capita a fagiolo per poter dire che anche l’estrema sinistra ha il suo lato antisemita).
Vorrei che non esistesse l’antisemitismo, né a destra né a sinistra, ma dal momento che purtroppo esiste, vorrei capire come si fa a definirlo con precisione. Perché io, anche sforzandomi, non riesco a trovare nessun contenuto antisemita nell’immagine in questione. O basta raffigurare la bandiera dello Stato d’Israele fuori contesto?

L’immagine, in realtà, è solo un attacco di cattivo gusto a Paolo Mieli, che fino a poche ore fa era candidato alla presidenza della Rai. Mieli, effettivamente, è di origine ebraica, come ho appreso due giorni fa: e vorrei potermelo dimenticare tra due giorni, perché mi sembra un dato inessenziale.
Infatti vorrei vivere in una società laica, dove le religioni, come i segni zodiacali, fossero un fatto privato che nessuno ha il diritto di chiederti in un colloquio di lavoro.

Ma siccome vivo in questa società, vorrei almeno che una svastica sul muro o un’immagine impertinente su indymedia fossero classificate per quello che sono: scemenze di privati cittadini. La prima è perseguibile per legge, la seconda no, ma ben altri sono i problemi di cui si dovrebbe parlare oggi.
Molto più che di due idioti con una bomboletta spray nera, io vorrei che la gente cominciasse a indignarsi per un Ministro della Repubblica che dichiara “vedo la mano dei nazisti rossi”.
Molto più che per una stella di David su Indymedia, vorrei che i cittadini trovassero il tempo d’indignarsi per le dichiarazioni del Presidente del Consiglio (che a rigore non dovrebbe interessarsi della faccenda, nemmeno se non esistesse un certo conflitto d’interessi), o per la campagna della Padania, che è l’organo di stampa di un partito al governo. Perché sono queste le “difficoltà tecniche” per cui Mieli ha rinunciato, non certo i piccoli sconci sui muri o su internet.

Vorrei che fosse chiaro che a questo punto anche la Rai è una fogna a cielo aperto, ma che ci è arrivata con uno spreco di risorse e intelligenze infinitamente superiore a Indymedia. E allora, se permettete, a questo punto io sto con Indymedia. Perché il PMLI e la D’Eusanio sono entrambi trash, ma la D’Eusanio la devo pure pagare di tasca mia.

Infine vorrei citare due blog che mi hanno anticipato sull’argomento: Gnueconomy (che condivido pienamente) e 4 Banalitäten (neanche un po’, ma è sempre un bel sito).

(E vorrei fosse chiaro: anche i blog, nel loro insieme, sono una fogna a cielo aperto. Perciò non posso avere due pesi e due misure).

ebraismo, Israele-Palestina, medio oriente

Mea Shearim

La mia guida, se mi ricordo bene, ne parlava così: probably the most reluctant tourist attraction in the world, “forse la più riluttante attrazione turistica del mondo”. Girava infatti voce che li accogliessero a pietrate, i turisti, a Mea Shearim. Io non ero sicuro di volerci dare un’occhiata. Eravamo stati tutto il giorno nel quartiere arabo della città vecchia, dove dopo una settimana ormai la gente ci conosceva e ci voleva bene. Non che smettessero di volerci rifilare kefie di cotone leggero stampate ad Honk Kong; la mattina una bimba di otto anni davanti alla Città di David aveva provato a sfilarmi il portafoglio; questo non significa che non ci volessero bene, ma la fame è brutta, la città sotto assedio da più di un anno, e noi gli unici turisti utili da mesi (e poi ovunque andavamo, in pullman, la gente sorrideva e ci salutava col segno della Vittoria). Non mi ero mai sentito così amato e non mi ero mai sentito così ricco, per cui, ovviamente, non mi ero mai sentito così in colpa: e tutto questo senza nemmeno dare un’occhiata alla faccia innocente del nemico, a Mea Shearim.

Alla fine ci siamo andati, dopo il tramonto, giusto per vedere. All’inizio non ci fidavamo nemmeno a chiedere la direzione: dopo un po’ abbiamo sentito un bambino che diceva qualcosa, un balcone che sbatteva, e abbiamo pensato: “ci hanno avvistato”; dopo un altro po’ abbiamo visto lo striscione sospeso sulla strada e abbiamo capito di essere lì.

Gli striscioni stanno forse dove una volta stavano le porte del quartiere: Mea Shearim penso significhi “cento porte”. Una porta può essere aperta o chiusa, Mea Shearim potrebbe essere il nome di un quartiere ospitale. Invece è “la più riluttante attrazione turistica del mondo”. Ora, è vero che in molti casi i turisti non sono che dei rompicoglioni che, oltre alla pretesa di vedere il mondo, hanno anche quella di trovarlo sempre comodo come lo vogliono loro. In fondo, sugli striscioni c’è soltanto scritto (in quello stile piuttosto brusco che mi sembra tipico degli israeliani, o è già un pregiudizio?) di non vestire in maniera indecorosa per la loro religione. Se avessimo letto la stessa scritta nel suq non avremmo trovato niente da ridire, perbacco, siamo in casa loro. Ma nel suq ormai ci sentivamo un po’ a casa anche noi (e non era vero): qui invece ci sentivamo in pericolo, non fosse perché tutti vestivano in nero, tranne noi. E non era solo il problema. Le donne coi pantaloni, per esempio, avrebbero potuto giustificare una sassaiola? Lo striscione sembrava ammettere la possibilità, e io prestai la mia eterna giacca arancione alla signora che ci accompagnava, che tirò su il cappuccio e si mise a camminare come un rapper (certe signore non finiscono nelle Tute Bianche per niente).

Tra le persone in nero c’erano, forse, quelli che ci avevano accolto alla prima manifestazione con dei cartelli di questo tenore: “Palestinians in Jordan”, “Stop fascist arab occupation of Israel”, e gridandoci “You are terrorist”. O forse no. L’impressione è che gli abitanti di Mea Shearim vivano nel loro mondo e si facciano i fatti loro. Mi piacerebbe sapere se è addirittura vero quello che ho sentito dire (se ne sentono tante), che in un Paese dove tutti, senza distinzione di sesso, sono chiamati al servizio militare (che comporta il quotidiano rischio della vita), loro ne siano esentati. Troppo puri per le armi.

Questo mi fa ricordare un’altra cosa: che anche se il loro eterno gingillarsi col grilletto del mitragliatore mi dava ai nervi, anche se ai posti di blocco ci hanno fatto dannare, anche se tirano giù le case dei palestinesi con le granate, io non sono mai riuscito a odiare i militari israeliani. Di solito sono ragazzini, sono nati nell’odio e nell’odio vivono e muoiono tutti i giorni, ma qualcuno gli ha mai chiesto cosa ne pensano di Sharon?
Ma con gli ortodossi è diverso.
Sin dall’aeroporto, ammettiamolo, detestavamo gli ortodossi. Saranno gli abiti? Ma gli abiti dei palestinesi, o di qualunque altro popolo, non ci danno la stessa sensazione. Il problema è che un ortodosso assomiglia terribilmente (anche nel modo di vestire) a un occidentale. E quello che noi perdoniamo a ogni popolo esotico, non lo tolleriamo in chi sotto sotto consideriamo uguale a noi. Anche quella sera giocavamo a “Vai avanti tu, che sembri ebreo”, e ognuno aveva la sua idea sul perché lui non assomigliasse a un ebreo, mentre un altro sì. Come si fa a distinguere un ebreo? Semplice, e insieme difficile: l’ebreo è quello che ci somiglia.

Signora, le piace la foto del ragazzino palestinese che tira sassi contro un carro armato (a causa della foto magari il ragazzo è stato in galera due anni)? Sì? Lo vedrebbe suo figlio con lo stesso sasso in mano, a una manifestazione? Eh, ma che domande. No. Ecco, pensi a suo figlio vestito di nero con una bombetta e due buffi ricciolini, che mi tira un sasso perché passo in maniche corte e con la telecamera a tracolla. Non lo trova spaventoso? Questa è la sensazione che ti dà Mea Shearim.

Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qua si sta chiedendo: insomma, ti dispiace o no di dieci nove morti (compresa una bambina) che non avevano fatto niente di male, uscivano dalla sinagoga? Sì, mi dispiace. Purtroppo il numero delle vittime di oggi è ancora maggiore, anche se sono tutti palestinesi (e quasi tutti civili, e 4 bambini). Forse fare il turista in guerra serve a questo: a dare un luogo, un nome, un ricordo, a quello che senti ogni giorno al telegiornale. Anche se ormai non alzo più il volume quando sento che parlano di Ramallah, Hebron, Gaza: ma le immagini le riconosco, quei paesaggi, quei volti li ho conosciuti, ora posso stare in pena per loro, anche se non capisco in che modo questo possa essere d’aiuto.

Mi dispiace per il popolo palestinese, che ormai ha scelto la strada del sacrificio, e non so quanto noi occidentali saremo in grado di dissuaderli (visto che le nostre grandi trovate occidentali, i caschi blu, gli interventi umanitari, questa volta non si possono usare).
Mi dispiace per il popolo israeliano, che in questa guerra non perde solo la vita, ma anche la propria Storia. Un popolo nato dai ghetti che lasciato libero si rinchiude, per sua spontanea volontà, in un ghetto al centro del mondo, che noi dovremmo difendere. Ma da chi? Io credo che Israele dovrebbe essere difeso da sé stesso. La pazzia in cui sta cadendo, noi occidentali la conosciamo bene, e proprio per questo non la dovremmo più tollerare, anzi, dovremmo lottare affinché non contagiasse di nuovo il mondo.

Una volta entrati a Mea Shearim, non riuscivamo più a uscirne. Un tassista a cui demmo il nome dell’hotel scosse la testa: lui nel nostro quartiere non ci andava, probabilmente non ci era mai stato in vita sua. Un altro che alla fine ci prese su era scuro di carnagione, e lungo tutto il tragitto ci chiedemmo (in dialetto) se fosse palestinese o israeliano. La targa, l’accento dell’inglese, la musica alla radio, nessun elemento sembrava sufficiente. Ma all’arrivo ci chiese i soldi e ci diede il resto contato, e tutti i dubbi si dissiparono: israeliano.

Bibbia, ebraismo, Manifesto

Pseudo-cripto-ebrei

Chi cerca un’identità guarda spesso al passato. Tutti noi, anche se poveri, ci crediamo almeno gli eredi di una tradizione, di una cultura. Se ci fosse richiesto di definirla ci troveremmo in difficoltà. Se ci fosse chiesto un documento scritto, citeremmo poderosi volumi che probabilmente non abbiamo mai letto. È possibile che i talebani, “studenti di teologia”, non abbiano mai letto il Corano (del resto un lettore della Bibbia può mettere in difficoltà un sacerdote in pochi secondi).
Tutto questo nostro passato, ricco di cultura e tradizioni, forse è solo frutto della nostra immaginazione.

Questa è la strana storia dei finti cripto-ebrei del Nuovo Messico.
I cripto-ebrei sarebbero gli ebrei spagnoli che avevano conservato clandestinamente le tradizioni e la religione originaria anche dopo le conversioni forzate al cristianesimo, volute dalla corona di Spagna. Nessuno dubita che cripto-ebrei ce ne siano stati veramente, anche a prescindere dalle paranoiche ‘cacce all’ebreo’ scatenate dall’Inquisizione spagnola in tutti i territori del re cattolicissimo.
Tra questi territori c’era anche il Nuovo Messico, oggi uno dei 50 Stati Uniti d’America. È lì che all’inizio degli anni Ottanta lo storico Stanley Hordes, intrigato dalla presenza della stella di David su alcune lapidi, scopre le tracce di un’antica comunità cripto-ebraica, e individua addirittura gli eredi viventi dei cripto-ebrei. Come scrive Marco D’Eramo

Man mano che le sue ricerche si venivano a sapere, spontaneamente gli si presentavano persone che testimoniavano: “Quel tale è ebreo perché…” o altre che ricostruivano alcuni lati oscuri della propria infanzia e nell’ebraismo nascosto dei propri genitori scoprivano la ragione per cui da piccoli non erano stati mai a messa o non avevano mai mangiato maiale.

La cosa attira naturalmente l’attenzione della comunità ebraica statunitense (stavo per dire “della potente lobby ebraica statunitense”, ma diavolo, sempre con questi luoghi comuni e anche un po’ antisemiti…). Vengono raccolte testimonianze, girati documentari… nel frattempo gli eredi dei criptoebrei, riscoperta la loro cultura, iniziano a convertirsi, a circoncidersi, a compiere viaggi in Israele. In breve innalzano anche una sinagoga.
Nel frattempo la storia del cripto-ebraismo si sgonfia. Un’altra ricercatrice, Judith Neulander, esamina tutte le ingegnose prove escogitate da Hordes e le confuta, una ad una. La presunta antica comunità cripto-ebraica si rivela essere una non meno curiosa comunità protestante, di origine avventista, arrivata nel New Mexico dal Midwest. La stella di David e i nomi ebraici erano parte integrante del folklore di questa setta che si riteneva una delle tribù perse d’Israele.
La domanda che sorge spontanea è: cosa faranno quei poveri cripto-ebrei che nella scoperta del loro cripto-ebraismo avevano magari trovato un senso alla loro esistenza? Si convertiranno daccapo alla Chiesa del Settimo Giorno? Se, come pare, qualcuno ha già trovato la ragazza in Israele, è un po’ troppo tardi per riconoscere che le proprie radici sono frutto di un malinteso.

La storia degli pseudo-cripto-ebrei c’insegna qualcosa? A non prendere troppo sul serio le identità culturali? A non sentirsi sulle spalle secoli di Storia? Invece di rimproverarci le frustrazioni di un’educazione cattolica bimillenaria, potremmo accorgerci che il nostro presunto retaggio culturale non va più indietro del Concilio Vaticano II, e che tutto quello che c’è stato prima ci è altrettanto estraneo dei misteriosi cripto-ebrei – ma forse dovremmo concludere che ne sappiamo veramente poco, sulla Storia e su di noi… l’articolo di marco D’Eramo sul caso dei cripto-ebrei è comparso mercoledì sul Manifesto. Una ricostruzione appassionante (ma in inglese), è sul numero del Dicembre 2000 di Atlantic on Line.