cinema, essere donna oggi, fumetti, miti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici – ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un’arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti – neri, bianchi, grigi – non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz’altro lo sanno. Magari – se sopravvivono – te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l’uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman – e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d’azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),

No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man…), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell’anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 – Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d’azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell’esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c’è davvero chi ha aspettato il 2017, e l’arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c’è un’eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l’hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.

C’è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! – malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale… (Continua su +eventi!)

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C’è un giudice a Sana’a

La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana’a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent’anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un’occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt’altro che banale… (continua su +eventi!)

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Nello spazio nessuno può sentirvi pomiciare

Passengers (Morten Tyldum, 2016)

Ti svegli un mattino su un’astronave generazionale e scopri che c’è stato un errore: tutto il resto dell’equipaggio dorme e non si sveglierà che tra 90 anni. Re-ibernarsi è impossibile, suicidarsi la prospettiva più logica. Mentre ci rifletti, inciampi nella cella criogenica di Jennifer Lawrence, che sulla Terra faceva la giornalista ed era (ovviamente) molto spigliata e simpatica. La svegli? non ci pensi neppure.

Ma il giorno dopo ti svegli e sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence congelata. Basterebbe ficcare un cacciavite nel circuito giusto, e potresti avere Jennifer Lawrence per tutta la vita, senza doverla dividere con nessuno, su un’isola deserta con tutti i comfort (per esempio sull’astronave c’è il karaoke e i ristoranti etnici e una piscina affacciata sullo spazio, altri comfort agli sceneggiatori non sono venuti in mente). Ma sarebbe un crimine, no? Una specie di omicidio, anzi forse peggio. Quindi non ci pensi più.

Ma il giorno dopo sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence – non c’è rimedio a questa cosa. Del resto, se la svegli poi dovresti mentirle per tutta la vita. E convivere con questo orribile segreto (ma anche con Jennifer Lawrence). Che follia. Meglio pensare ad altro.

Ma il giorno dopo? E il giorno seguente?

Là dove l’uomo non è mai arrivato e forse neanche quelle famose foto che tenevo sul telefono.

A un certo punto Hollywood si è resa conto che la fantascienza sul grande schermo sarebbe sopravvissuta meglio di altri generi. Il passo successivo era cercare di allargare il bacino di utenza, che nel caso della fantascienza era perlopiù un sottoinsieme del genere maschile. Che vizzo stereotipo, vero? Però era così. Dunque  il problema era: come convinciamo le donne a sciropparsi film di astronavi?

Una delle strategie possibili era quella di mettere al centro dei personaggi femminili aspirazionali, magari un po’ ribelli e atletici, ma femminili: ci facevi bella figura anche dal punto di vista politico. La letteratura giovanile negli USA aveva già inaugurato il trend. E così Jennifer Lawrence divenne l’arciere rivoluzionario di The Hunger Games. Nel giro di pochi anni ragazze eroiche hanno preso il controllo più o meno di tutte le saghe in circolazione – nonché dei lungometraggi Disney e Pixar, e di Star Wars. E finalmente quest’anno avremo Wonder Woman in un film tutto suo. Bene. Cioè. Siamo proprio sicuri che le donne vogliano vedere Wonder Woman al cinema? Cioè il motivo per cui a tante donne fin qui non interessavano le astronavi è che non c’erano donne ufficiali in plancia di comando? Siamo sicuri che queste eroine cazzutissime che abbattono avversari più grossi e armati di loro non siano un fantasma più maschile che femminile? Abbiamo davvero femminilizzato la fantascienza, o non abbiamo semplicemente costretto anche le donne a fare quelle cose odiosamente maschili come le guerre, le conquiste (e a indossare quei ridicoli pigiami da supereroi)?

Ora ti salto addosso in sala mensa,
così anche col femminismo siamo coperti

Un’altra strategia è quella di Passengers: se le donne devono proprio entrare in un’astronave, se è il Mercato che lo richiede, non si può almeno dar loro quello che vogliono? Perché a molte donne piacciono le storie coi sentimenti. Che stereotipo vizzo, già. Però è così (continua su +eventi!)

essere donna oggi, Islam, razzismi, santi

Ogni santa ha il suo burqini

23 agosto – Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata “Rosa” per la tenerezza dell’incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un’agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un’altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent’anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
 a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima,
via Wiki.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

No, avete ragione. È senz’altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l’autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s’impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per “noi” o per “loro”. Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l’avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l’aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

D’accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l’era fatto costruire su misura. Quando cominciò a manifestare i suoi propositi claustrali, era ormai chiaro che la famiglia versava in difficoltà finanziarie. Se sei la decima di tredici figli sai benissimo cosa significa: che i soldi per la dote non ci sono e per sposarsi ci si dovrà accontentare. Caterina da Siena aveva visto tante sorelle accasate a uomini brutali, aveva visto una sorella morire di parto. In famiglia già si chiacchierava di farle sposare il vedovo. Caterina preferiva digiunare. Fu una libera scelta? Visse poco ma divenne famosa, tutti gli alti prelati leggevano le sue lettere, un Papa avignonese si fece persino convincere a tornare a Roma. È sui libri di storia e nelle antologie di letteratura: altre avrebbero preferito scodellare figli al vedovo.

Ah vabbe’ ma si era portata la chitarra.
Anch’io sono rimasto tappato in casa
qualche anno con la chitarra
(poi per fortuna hanno inventato l’internet).

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent’anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? (continua sul Post!)

aborto, essere donna oggi, prostituzione

Litigare con le femministe

Qualche giorno fa, quando ho espresso la mia opinione sulla gravidanza surrogata, affermando che ogni donna è libera di gestire come vuole il suo corpo, e quindi anche di concedere il proprio utero affinché nasca un bambino che altri alleveranno come un figlio, qualcuno mi ha fatto notare che le femministe non sono d’accordo. In discussioni come questa, evocare l’opinione delle femministe equivale a scatenare l’inferno col napalm perché, insomma, chi è che ha voglia di litigare sull’utero con le femministe? Pare che ne abbia voglia io.

Non avessi niente di meglio da fare. Diciamo che potendo eviterei – infatti quando posso lo evito – però è innegabile che le mie modeste opinioni siano a volte, come dire, in frizione con quelle di alcune femministe. Ho detto ‘alcune’, e indovino già l’obiezione: stai tentando di dividerci. Sì. Le femministe sono tante, e non la pensano tutte allo stesso modo. Lo si è visto anche in questo caso: ci sono le femministe di Se non ora quando che fanno appelli contro la maternità surrogata; c’è Michela Murgia che risponde con obiezioni, a mio avviso, puntuali ed esaurienti – per cui se siete alla ricerca di un discorso serio, andate pure di là.

Tra i tanti femminismi, mi è comodo sintetizzarne un paio e immaginarmeli divergenti, se non proprio opposti. Il primo è libertario e pragmatico: quando dice “l’utero è mio” non intende un’idea platonica di “Utero” e un’altra idea platonica di “Mio”, ma si riferisce in concreto all’utero che si ha in grembo, di cui si reclama l’immediato possesso. Una donna che ha il diritto di fare ciò che vuole col suo corpo, non potrà liberamente scegliere di metterlo a disposizione di una coppia che per vari motivi non può avere un bambino? Io dico di sì (altri dicono di no: impossibile che una scelta del genere sia “libera”. Dev’essere per forza condizionata dalla miseria). Offrire in “affitto” una parte del proprio corpo non sarà sfruttamento? Se ne può discutere, ma questo vale per ogni prestazione lavorativa: non c’è una frattura mistica tra la mano che uso per lavorare alla fresa e l’utero che posso usare per dar vita a un bambino: entrambi sono sottoposti a usura, entrambi possono guadagnarmi da vivere, e in entrambi i casi il salario può essere da fame e configurarsi come sfruttamento.

Invece, sapete quando possiamo essere abbastanza sicuri che ci sia sfruttamento? Quando tutto avviene nell’illegalità perché una legge proibisce lo scambio. E questo a mio avviso è l’argomento finale contro il divieto – contro gran parte dei divieti: il proibizionismo non funziona. Non funzionò con l’alcol, non funziona con la droga, non risolve il problema dell’aborto, non si vede in che modo possa arginare il fenomeno delle gravidanze surrogate. Possiamo decidere di assisterle o normarle o possiamo chiudere gli occhi, definire il tutto immorale, e lasciare che chi può permetterselo corra qualche rischio in più. C’è un tipo di femminismo che preferisce questa seconda opzione. Un femminismo benpensante – possibile?

Tutto è possibile. Si parlava sopra del proibizionismo: è abbastanza antipatico ricordarlo, ma fu uno dei risultati dell’allargamento del voto alle donne (prohibition movements in the West coincided with the advent of women’s suffrage). L’atteggiamento benpensante nasce di solito dall’impossibilità di adeguare il proprio mondo ideale alle cose che effettivamente accadono. In questo caso c’è un femminismo che reclama l’utero non come parte del corpo, ma come urna sacra della femminilità. Quel che accade lì dentro, spiegano, è una cosa che non può essere paragonata a nient’altro (e non è che abbiano tutti i torti: qualsiasi paragone è difettivo: ma in questi casi hanno l’aria di considerarlo una bestemmia). Le donne potranno anche cedere l’uso delle mani, degli occhi, dei piedi; ma l’utero è su un altro piano. Ci sono donne che consentono liberamente, senza compenso? Impossibile. Ci sono donne che volontariamente scelgono, in cambio di denaro? Sono state obbligate. Nessuna cifra, del resto, potrebbe valere una gravidanza. Sostenere il contrario sarebbe neoliberismo.

Le esponenti di questo tipo di femminismo, di solito, hanno una concezione abbastanza tortuosa del diritto all’aborto. Benché abbiano lottato per l’interruzione di gravidanza, non cessano di ricordare quanto essa sia traumatica, un male magari necessario, ma un male. E si capisce: se santifichi l’utero, poi non puoi ammettere che esista gente che abortisce semplicemente perché le fa comodo. No, devono tutte abortire tra le lacrime. Ora, sono il primo a incazzarsi quando leggo le puttanate del Foglio sulle tizie che abortiscono per andare in vacanza. Però l’idea che ogni donna debba sempre sentire ribrezzo per l’aborto è una proiezione morale. Ci saranno anche donne che hanno abortito senza grossi patemi, che non l’hanno vissuta “come tutta ‘sta tragedia che pare necessario continuare a raccontarsi“. Dobbiamo far finta che non esistono?

Corriere.it

Col tempo ho trovato un altro parametro che mi sembra ormai infallibile. Di solito le femministe con cui vado d’accordo hanno un’idea abbastanza piana del fenomeno della prostituzione: sebbene in molti casi sia una forma di sfruttamento, reprimerlo non avrebbe senso. Peraltro se è un diritto della donna (e dell’uomo) disporre del proprio corpo come vuole, questo diritto contempla anche la possibilità di prostituirsi. Occorrerà quindi aiutare le vittime dello sfruttamento e sostenere i diritti delle sex-workers.

Invece per le femministe con cui non vado d’accordo è tutto un racket. Non esiste una prostituta libera: sono tutte sfruttate. Sempre. Una volta mi spiegarono che anche oggi, in Italia una qualsiasi donna libera che volesse tentare l’esercizio della prostituzione senza far parte di un racket sarebbe stata immediatamente raggiunta dagli emissari del racket medesimo, e fatta schiava. Perché non si dà prostituzione senza sfruttamento e schiavitù. Chi potrebbe mai acconsentire liberamente a pratiche così intime in cambio di denaro? La prima volta che ho sentito un discorso così ho alzato le spalle, vabbe’, si vede che viviamo in due universi paralleli. Poi mi è caduto l’occhio sulla legislazione repressiva di alcuni paesi che eravamo abituati a considerare fari di civiltà – che so, la Svezia – paesi in cui un certo tipo di femminismo aveva avuto un po’ di voce in capitolo. Anche in quel caso, si punisce il cliente perché non si ritiene una donna in grado di scambiare liberamente sesso in cambio di denaro. Qualsiasi cliente acceda a una prostituta la sta adescando, la sta corrompendo, la sta sfruttando. Affermare il contrario – affermare che una donna possa liberamente scegliere di affittare parti del corpo in cambio di denaro – significa cedere a una mentalità economicista, neoliberale.

Potrei obiettare, e l’ho già fatto, che l’economia almeno esiste, è un modo di descrivere gli scambi tra le persone: mentre questa mistica della femminilità, tra il romantico e il pagano, secondo me si adatta molto meno a descrivere il mondo in cui vivo. Ma devo anche confessare un sospetto. L’economia non è che spieghi tutto, ma potrebbe spiegare anche il fenomeno di un gruppo di donne che non sopporta l’idea che altre donne scambino sesso in cambio di denaro; né l’idea, ancora più estrema, che una donna possa dietro compenso mettere a disposizione il proprio utero. Quella che chiamate barbarie, altri potrebbero definirlo dumping.

corpo, essere donna oggi, prostituzione

"Non pagherai per il sesso": la prostituzione nel mondo post-romantico

Dunque secondo me (ne parlavo l’altro ieri) prostituirsi non può essere proibito, perché è qualcosa che si fa col proprio corpo: e la collettività non può impedire al singolo di disporre del proprio corpo. A questo punto l’obiezione è la solita: che libertà è, se si mette sul mercato?

E non è l’economia stessa una forma di costrizione, di coercizione, di violenza? Persino in inglese, la lingua del mercato globale, libertà e gratuità sono omonimi. E nei fatti, in molte epoche e spesso ancora oggi, mettere il proprio corpo sul mercato significa cederlo a uno sfruttatore.

Che posso rispondere? Immagino che il mercato debba avere dei limiti, fissati per legge, oltre ai quali diventa sfruttamento e schiavitù. Ma non credo che si possa abolire il mercato. Si può al limite negare che esista e voltare la testa dall’altra parte, come abbiamo fatto in Italia da 60 anni. Ma il mercato è fatto di scambi, e gli scambi esistono da quando esiste l’uomo. L’odioso modo di dire “il mestiere più vecchio del mondo” contiene questa constatazione: sia il sesso che lo scambio esistono da quando esistiamo noi, a differenza dell’amore romantico che, pur essendo il presupposto del matrimonio contemporaneo, è un’invenzione recentissima.

In passato il lato economico del matrimonio si considerava con più serenità. Un uomo offre un bene x a una donna in cambio di un rapporto: se il rapporto è occasionale, si chiamava prostituzione; se era continuativo ed esclusivo – se alla donna veniva impedito di avere rapporti al di fuori di quelli regolati da quel contratto, per tutta la vita – si chiamava matrimonio. Il primo scambio è sempre stato ritenuto “discutibile sul piano morale”, ma non in quanto scambio: a turbare l’uomo pre-romantico era la natura occasionale e non continuativa dello scambio in questione; e soprattutto la non esclusività, che faceva la differenza tra uno scambio benedetto da Dio e uno scambio peccaminoso (c’era anche un’ovvia riserva di ordine sanitario, e c’è ancora).

Oggi la questione è più sfumata: facciamo fatica a intendere persino il matrimonio come contratto esclusivo. Forse la nostra difficoltà a incasellare l’attività della prostituzione è parte di una più generale difficoltà a capire come gestiamo, oggi, il sesso. Sicuramente abbiamo grosse difficoltà a considerarlo come un bene di scambio. Allo stesso tempo, nessuno nega che sia un bene. Forse viviamo in un mondo post-romantico in cui il sesso si è messo al centro di un gioco sociale: più un premio che una merce. Sono poche le pressioni sociali che avvertiamo tanto come quella a mantenerci il più possibile attrattivi e affascinanti, anche quando la biologia non lo richiederebbe più. Il grande sottointeso collettivo è che potremo avere accesso a tutto il sesso che vogliamo, se ce lo meritiamo.

Però non possiamo pagarlo.
Non perché sia immorale – o meglio, è diventato immorale per un altro motivo. Lo stigma sociale impresso sulla prostituzione ha un colore diverso: se il sesso è il premio del gioco, chi paga per il sesso sta barando al gioco. È un perdente. Dovrebbe vergognarsi (e di solito si vergogna: persino Berlusconi, che anche di fronte a un’intera palazzina di evidenze non ha mai ammesso di aver offerto denaro in cambio di).

Una persona del genere non commette reato (in Italia almeno), ma si mette fuori dal gioco. La riprovazione è sempre più riservata ai clienti, che osano offrire denaro per l’unico bene che non si potrebbe comprare (il fatto che storicamente, per quanto ne sappiamo, il sesso si sia sempre comprato e venduto, è considerato un’abiezione della Storia, che deve quindi azzerarsi e ripartire dal dopoguerra o anche più in là). Lo dice veramente bene la sentenza della Cassazione: la prostituzione è “contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo“.

Questo approccio al problema avrà i suoi vantaggi, ma sposta ancor più i clienti in una zona d’ombra. Si dà per scontato che la prostituta sia costretta a fare quello che fa dagli sfruttatori, o dalla crisi, o da qualche altra forza esterna. Ma il cliente non lo costringe nessuno. È lui a doversi coprire il volto se fanno una retata. Ha meno interesse a uscire allo scoperto del consumatore di sostanze illecite. Per ottenere che quest’ultimo acconsenta magari a pagare l’iva è sufficiente legalizzare qualche molecola. Ma il puttaniere, che non sta consumando nulla di illegale, sta compiendo un atto “avvertito dalla generalità delle persone come trasgressivo di condivise norme etiche”. Un’infrazione si paga con una multa, ma uno stigma sociale non lo cancelli nemmeno con un voto del parlamento.

A questo punto siamo in un grosso imbarazzo (e forse più comprensivi per i nostri padri e nonni e per la loro riluttanza a occuparsi del problema). Se da una parte non possiamo impedire a una persona di scambiare prestazioni in cambio di denaro, dall’altra siamo costretti dalla crisi, e dalla Cassazione, a normare questo tipo di prestazioni, e a tassarle. Altre nazioni lo fanno, con esiti non entusiasmanti, ma sarà sempre meglio che voltarsi dall’altra parte, o no? Non lo so.

Da una parte una persona che ha un reddito effettivo di ventimila euro dovrebbe contribuire alla cosa pubblica, non ci piove. Tra uno Stato che proibisce e uno Stato che impone una tassa, preferisco il secondo; do per scontato che un sacco di scambi sessuali resterà sommerso, e non vedo come possa essere altrimenti: l’alternativa è imporre per legge che il sesso non possa essere mai scambiato senza emettere fattura. Ma scambiare il sesso per qualcos’altro (materiale o immateriale) è una cosa normale, che capita più spesso di quanto non ci riflettiamo – e se ci riflettiamo può darsi che sia capitato anche a noi.

D’altro canto, si tratta di tassare quello che stai facendo col tuo corpo – se non è un collare, ci assomiglia molto. Alcolisti e fumatori possono obiettare che anche loro pagano salati i loro vizi, ma il sesso è un vizio? Fa altrettanto male alla salute? Io addirittura ho pensato qualche volta che il sesso potesse essere un diritto, ma quando ho provato ad affermarlo sono stato severamente ripreso da uomini e donne. E si capisce: se il sesso è un premio, non lo puoi garantire a tutti. (Gli unici a cui per ora è consentito una sorta di ‘diritto alla sessualità’, in deroga alle regole del gioco, sono i disabili). Il gioco sociale smetterebbe di essere interessante, e dopo il post-romanticismo dovremmo inventarci qualcos’altro. È ancora un po’ presto.

corpo, essere donna oggi, prostituzione

La prostituzione non è illegale (ma è tassabile?)

A Rimini pare sia successa questa cosa curiosa: l’Agenzia delle Entrate, dopo aver rilevato che una signora si era comprata una mercedes, ha dato un’occhiata al conto corrente e ha stimato un reddito di 24.700€: poi ha inviato una cartella esattoriale. A quel punto la signora ha preso un avvocato, perché, benché ritenga giusto pagare le tasse, sostiene che lo Stato non le fornisca gli strumenti adeguati per farlo: in effetti l’attività professionale che esercita – la prostituzione – non è normata in nessun modo. Non è neanche illegale, come alcuni credono (tanto che ne chiedono la “legalizzazione”): una sentenza della Cassazione del 2011 afferma che essa, “seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, non costituisce reato”. Un anno prima la stessa corte aveva affermato che i proventi della prostituzione dovrebbero “essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”. Insomma i giudici della Cassazione ci tengono molto a far presente che la prostituzione è contraria al buon costume, è trasgressiva, è discutibile: nel mentre che ammettono che no, non è illecita.

Dunque andrebbe normata e normalizzata: ma è una fatica enorme che probabilmente ci risparmieremmo, se la crisi non ci chiedesse appunto sforzi immani, anche di fantasia: così, mentre inseriamo nel Pil il fatturato delle mafie (che d’altro canto, è innegabile, sono inserite nel tessuto economico, offrono servizi, creano ricchezza), dall’altro ci riduciamo a tassare le escort. Se fin qui non l’abbiamo mai fatto – perlomeno dalla legge Merlin in poi – non è certo per distrazione, né per calcolo. Lasciare la prostituzione in un limbo normativo è stata una scelta che a un certo punto la società italiana ha deciso di fare. Ovviamente non eravamo tutti consapevoli, ma alcuni sì. Ogni comunità poi sviluppa le sue ipocrisie, ma quelle fiorite intorno alla prostituzione mi sono sempre parse affascinanti (molto più della prostituzione in sé, che invece mi ispira una certa repulsione). Faccio un esempio: dalle mie parti ogni tanto i carabinieri chiudono un bordello cinese, e la notizia va in prima pagina sui giornali locali. In fondo agli stessi giornali ci sono gli annunci di altri bordelli cinesi. Non c’è niente di strano, in fondo un giornale assolve a diverse funzioni e si rivolge a pubblici diversi. Però non riesco a non pensare a un lettore-tipo che in prima pagina esulta perché finalmente la città è stata ripulita, e una mezz’ora dopo sta già cercando un posto dove rilassarsi.

Quando si parla di prostituzione è molto facile litigare.

Gli schieramenti sono più complessi del solito: per esempio mi sono accorto che la questione spacca in due anche il fronte femminista (almeno su internet). Alcune femministe sono favorevoli alla prostituzione perché è una logica conseguenza dell’autogestione del corpo: se una donna è libera di gestirlo, è anche libera di metterlo in commercio. Altre sono profondamente avverse a questa stessa idea di commercio, che poi si può anche chiamare mercificazione e considerare come una forma di alienazione, magari indotta da un potere maschilista e sessuomane. Tra le due fazioni io sto con la prima e qui sotto cercherò ovviamente di spiegare il perché, ma con una premessa: forse me la sto raccontando.

Forse un perché non esiste, o meglio, è una razionalizzazione di qualcosa di più istintivo. Più invecchio e più mi rendo conto che alcune mie idee che ritenevo logiche, lo sono soltanto apparentemente: che la loro razionalità, è una spennellata che ho messo a vent’anni per coprire certi riflessi condizionati. Se dovessi essere sincero, dovrei limitarmi a dire che odio le gabbie e i collari, non li sopporto, mi danno un’ansia che non si placa. Anche il fastidio superficiale per i tatuaggi ne nasconde uno più profondo, forse per la marchiatura a fuoco con cui un essere vivente diventa un capo di bestiame o un prigioniero. Comincio a pensare che ci sia qualcosa di ancestrale; magari in qualche piega dimenticata della preistoria un gruppo di homo è sopravvissuto perché non si faceva legare da altri gruppi; magari in qualche filamento delle mie cellule c’è questa informazione, e non posso fare nulla per negarla.

Quando si parla di “libertà”, ognuno ha la sua definizione: per alcuni coincide con una serie di licenze che l’individuo può prendersi, anche ai danni della collettività (oggi va molto forte la libertà di insultare gli altri; ci si domanda fino a che punto si può spingere, ecc. ecc.). Per me la libertà coincide col corpo. Non puoi ingabbiarlo. Non puoi costringermi a non usarne una parte o il tutto. Puoi spiegarmi che certe cose mi fanno male, e persino impedirmi l’accesso a sostanze o strumenti che la collettività considera pericolose; ma non puoi impedirmi di usare il mio corpo, perché non è uno strumento, non è un supporto: sono io. E tra me e me non ci può essere controllo. Io la penso così, ma “pensare” è un termine un po’ forte. Io sono così. Le prostitute non mi piacciono, mi mettono a disagio. Sono sicuro che molte di loro non esercitino per scelta – ma in quel caso ritengo che si debbano perseguire gli sfruttatori. L’idea di combattere il fenomeno vietandolo – a prescindere dal fallimento di qualsiasi strategia proibizionista – mi urta nel profondo: non puoi costringere una persona a non disporre del proprio corpo come meglio crede. Vale per la prostituzione come per l’aborto, il suicidio, l’eutanasia e altre pratiche nelle quali non riesco nemmeno a vedere uno scandalo, ad es. “l’utero in affitto”. Se sul serio vi dà fastidio vedere che qualcuno offre il suo corpo per crescere un figlio non suo, in cambio di compenso, non so che dirvi: cavatevi gli occhi, occhio non vede cuore non duole. Se invece pensate di poter mettere gabbie o museruole a questo o quell’organo femminile o maschile, per me siete dalla stessa parte di chi mette un collare e li sfrutta. Lo so che è strano, e in certi casi controintuitivo: ma siccome per me è così, trovo giusto avvertirvi, così magari sapete con che brutta persona vi siete messi a discutere.

A questo punto conosco l’obiezione: che libertà è, se si mette sul mercato? (continua…)

1500 caratteri, essere donna oggi, giornalisti, internet

Non nutrite il Langone (se potete)

C’è una specie di tacita alleanza, tra chi come Camillo Langone ormai da anni non fa altro che spararle grosse, più grosse che può, e chi, all’ennesima sparata, proverà gusto a rispondergli: vergogna, Langone, che hai scritto? Che Samantha Cristoforetti invece di diventare astronauta doveva restare vicina al suo uomo? Ma vergognati, ma quanto sei retrogrado (e quanto sono io all’avanguardia se invece lo faccio notare… )

È un gioco delle parti, da molti praticato in buona fede. No, L. non è un retrogrado. Scrive su un giornale che ha anticipato di alcuni anni le dinamiche di Internet. Il Foglio era un blog di carta, prima che nascessero i blog: e sul Foglio, da troppi anni, Langone ci sta semplicemente trollando.

Dietro la sua maschera di viveur bigotto, c’è un tizio che si eccita in privato leggendo le vostre reazioni stizzite. Un po’ triste, a mio parere. Non ha mai scritto nulla che sappia davvero di cattolico al palato dell’intenditore; se qualche prete lo legge, lo fa per divertimento come dovreste fare voi. Credo sia l’ultimo al mondo a cui freghi davvero qualcosa dell’h del nome Samantha (un po’ fastidiosa, l’ammetto). Si nutre dei vostri contributi e della vostra rabbia: se i primi non c’è verso di interromperli, quest’ultima meriterebbe bersagli più sinceri.

D’altro canto capisco la tentazione: le spara così grosse. E se la intercetto io per primo, e rilancio a tono, poi tutti mi verranno a sollevare. Lo so, lo so come funziona. Non posso certo giudicarvi.

essere donna oggi, Pd

Lady-chi?

Chiedimi la canzone preferita, dai, provaci.

È norma di buon senso, oltre che di buona educazione, limitare il più possibile le espressioni in lingua inglese quando si conversa in italiano. All’anglismo si dovrebbe ricorrere soltanto quando ci si trova davanti a un concetto che nella nostra lingua non ha una definizione altrettanto felice e sintetica. Eppure questo sembra proprio essere il caso di “Ladylike”. Il dizionario del Corriere traduce “da signora”, espressione davvero poco felice (poco ladylike), o in alternativa “signorile, raffinato”. C’è insomma in “ladylike” un’idea abbastanza definita di signorilità abbinata a femminilità a cui in italiano non corrisponde nessun lemma di dizionario. Vada per ladylike, anche se può lasciare un po’ perplessi.

http://video.corriere.it/video-embed/f8977f76-6e84-11e4-8e96-e05d8d48a732Ciò premesso, andiamo a verificare la ladylikeness dell’eurodeputata Alessandra Moretti. La videointervista del Corriere è un collage di pochi minuti, che danno l’impressione di essere estratti da un materiale molto più cospicuo. Sembra anche un blob, un’antologia di passi falsi. Intendiamoci: è stata lei che ripetendo tre o quattro volte il mantra brave-intelligenti-belle ha consegnato un tormentone ai giornalisti; ma è difficile che fosse questa la sua intenzione. Voleva soltanto ribadire il concetto, e il montaggio ha fatto sì che lo ribadisse fino al ridicolo. Possiamo chiamarlo un errore di ingenuità: lo definiremmo un errore ladylike?

Una signora non dovrebbe saper giocare d’astuzia coi suoi intervistatori? Alessandra Moretti spreca preziosi minuti a commentare una vecchia gaffe inutile di cui nessuno a parte lei si ricordava (“Massimo Travaglio“), ne commette un’altra ugualmente inutile (“Mimo Reitano no Rino Gaetano“) e invece di smorzarla immediatamente con sprezzatura ladylike, ci ridacchia su. Ci rideremmo tutti su se ci capitasse, per l’imbarazzo; ed è uno dei motivi per cui non ci sentiamo molto Lady (nemmeno molto Lord). Una Lady probabilmente avrebbe prevenuto la gaffe rifiutandosi di rispondere alla domanda sciocchina: la mia canzone preferita? ma chi mi sta intervistando? Il Corriere o Cioè? Non abbiamo cose più interessanti da dirci?

Alessandra Moretti riceve i giornalisti con un po’ di libri sullo sfondo. Annuncia allegra che “il Veneto è scalabile”, e che si candiderà perché Matteo glielo ha chiesto telefonandole all’una del mattino “Io… cioè…. Ale abbiamo bisogno di te”. (Matteo sì che sa come si parla alle ladies). Segue un must per tutte le lady moderne ed emancipate: la metafora calcistica, ma mi raccomando: bella grezza e spaccona.

“Quando tu devi vincere una sfida calcistica importante, nella nazionale chi è che mandi? Mandi i migliori”.

Un attimo dopo magari si è già accorta di averla detta un po’ grossina (in sostanza le elezioni del nordest le vince lei contro Zaia perché è la migliore): e il montaggio, perfido, evidenzia un ripensamento che sembra immediato. Una frazione di secondo dopo aver detto “Mandi i migliori”, la Moretti sta già dicendo che

“Io non mi sento la migliore… non mi sento la fatina dalla bacchetta magica che risolve i problemi, attenzione… però credo di essere un’opportunità in questo momento”.

Senz’altro c’è malizia nei suoi intervistatori; ma c’è un momento – quando la Moretti enuncia il suo proponimento di andare dall’estetista una volta alla settimana, e senza che nessuno glielo chieda (se lo chiede da sola) precisa che va a farsi “le meches”, “la tinta”, ecc. – in cui persino loro esitano, come il pesce di fronte a una preda troppo facile: qualcosa non va. “La massacreranno sui social“. “Ma chissenefrega“, risponde ladylikemente. “Devo venire coi peli? I capelli bianchi?” Tutta invidia. “Più fanno così più continueremo a essere più belle, più elegante, più curate, più brave, più pronte, più tenaci, più coraggiose. Ma che c’hai? Che t’ho fatto? Perché ci ho gli occhi blu?

Così un’intervista, che nelle intenzioni di chi la concedeva probabilmente doveva essere un atto di solidarietà nei confronti della Madia e dell’indecente trattamento riservatole da Signorini, finisce per echeggiare qualche vecchio e indimenticato tormentone del tardoberlusconismo. Non manca neanche la schiacciata sulla Bindi, prontamente servita, che un’altra Lady avrebbe magari preferito lasciar sfilare a fondocampo: ma poteva la Moretti lasciarsi sfuggire un’occasione per marcare la discontinuità con Rosy Bindi, compagna di partito e, neanche troppo tempo fa, di corrente; per parlare di Rosy Bindi, classe 1951, al passato?

Sarà senz’altro invidia la mia, e nostalgia per altri tipi di femminilità che non saprei. Io credo di avere una certa passione per la bellezza, e un grande rispetto per l’eleganza, senza aver mai posseduto un granché né dell’una né dell’altra: sono contento se Alessandra Moretti è bella e si ritiene tale, e lo considera un’opportunità per sé e per il Veneto. Ma questa cosa di credersi lady, e di riempirsene la bocca, davanti a due emissari del Corriere di cui fraintende evidentemente la disponibilità, ecco questo mi spinge contro ogni convenienza ad aprire la bocca come il bambino alla parata dell’imperatore: no onorevole Moretti, non sei una lady, perlomeno non lo sembri: più una sciampista che parla di calcio e di meches invece che di cose importanti, si fa incorniciare il quadretto dell’oca che prende Reitano per Gaetano; e guarda che ciò non sarebbe nemmeno un male in sé perché agli italiani il genere piace. Ma la sciampista che si crede lady, ecco, è quello che mi preoccupa: la dissonanza cognitiva, chiamiamola così.

Beppe Grillo, essere donna oggi, ho una teoria

Non te lo clicco il video, Beppe.

Dieci giorni dopo aver esposto Maria Novella Oppo alla gogna, Grillo dimostra di non aver capito (o di aver capito benissimo, e di voler perseverare) lanciando su facebook una corsa all’insulto più sessista nei confronti di Laura Boldrini. Nulla da aggiungere a quello che ha scritto Marina Terragni; vorrei concentrarmi su un dettaglio secondario: il fatto che anche stavolta Grillo faccia saltare il tappo dicendosi “senza parole”. La stessa espressione è una protesta di innocenza (Grillo è talmente indignato che non è in più grado di dire niente) e un invito al massacro (ditelo voi, commentatori inazzati! riempite il vuoto lasciato da Beppe!) E naturalmente c’è l’invito a cliccare un video. Sempre così: non ho parole, clicca il video. Sta diventando un ritornello.

Tra i motivi pre-politici della mia avversione per Grillo c’è il fatto che lui voglia farmi cliccare sui video. Anche il suo blog ha la colonnina destra morbosa, come tutti i siti che cercano di tirare due spicci. Per inciso: non è vero che Grillo faccia i milioni col blog. Se ci tenesse proprio ai milioni Grillo ricomincerebbe a farsi pagare i biglietti ai palazzetti invece di comiziare in piazza gratis: e scriverebbe più libri e inciderebbe più dvd. Coi blog, anche zeppi di inserzioni, ti rifai più o meno delle spese. Grillo non fa politica per guadagnarci, e però neanche vuole perderci troppo; ultimamente la sua colonnina si è fatta più agguerrita, con una strategia cattura-attenzione elementare quanto efficace. È tutto un ‘Siamo senza parole! Clicca qui, guarda il video!’ Non hanno mai parole. Hanno solo video. Adesso vado di là e copio-incollo i primi titoli che trovo, giusto per dare un’idea (continua sull’Unita.it, H1t#210)

MOVIMENTO 5 STELLE, CENSURATA PURE QUESTA NOTIZIA
Censurata anche questa notizia. Non ne parla nessuno. Abbiamo il video. Guardate cos’è successo. …
Non ho la minima idea di cosa sia, e un po’ di curiosità mi sarebbe anche venuta, però cliccando compare una pubblicità che dura 46 secondi e non si può chiudere. Anche dopo averla guardata per 46 secondi della mia vita, non si chiude lo stesso: forse pretendono che la segnali a qualcun altro via twitter o fb, c’è il logo sopra. Mboh, lascio perdere. In questo modo forse do una mano alla “censura”, ma d’altro canto immagino che se fosse una cosa davvero importante l’avrebbero messa nei titoli veri.
GIULIA INNOCENZI E IL SESSO 4 VOLTE AL MESE
Ecco cosa ha scritto Giulia Innocenzi a proposito del sesso 4 volte al mese: (Clicca…
Questa trovata è particolarmente penosa.  Di questo famoso contratto “sesso 4 volte al mese” ne hanno parlato un po’ tutti, oggi, ma solo a casa Casaleggio è venuto in mente di associarlo nel titolo al nome di una giornalista donna che è anche un volto televisivo. Ovviamente chi non ha ancora sentito la notizia assocerà la Innocenzi al “sesso 4 volte al mese” e correrà a cliccare: e ogni clic sono eurocentesimi, butta via. Immagino che dall’altra parte ci sia semplicemente un contenuto visuale o testuale in cui l’Innocenzi commenta la notizia, ma anche stavolta non sono andato oltre.
COLOSSALE FIGURA DI M…. DELLA RENZIANA!
Preparatevi perché questa è incredibile. Guardate cos’ha combinato la renziana Marianna Madia…
Ha sbagliato ufficio e ha parlato col ministro sbagliato, boh. Fossero questi i problemi della Madia. Poi per carità, è una notizia pure questa, però… “preparatevi perché questa è incredibile“. Ché io me lo immagino sempre questo lettore medio di beppegrillo che prima di ogni clic dà una controllata alla pressione per non sforzare troppo le coronarie.
MILENA GABANELLI SMASCHERA L’INGANNO
Ultim’ora direttamente da Milena Gabanelli. Governo smascherato. Ecco cosa stanno facendo: (Leggi…
Oh, per una volta si legge invece di guardare. Vado a cliccare e non finisco in una pagina di Report o comunque gestita da Milena Gabanelli, ma in un altro sito pieno zeppo di pubblicità video, dove si riporta una notizia (“la Commissione Bilancio ha stralciato quella parte della cosiddetta “web tax” che riguarda l’e-commerce”), segnalando che “lo scrive sul proprio profilo Facebook, Report, il programma di Milena Gabanelli”. C’è il link diretto? Certo che no.
TUTTO INTORNO A LEI!
Mariarosaria Rossi, assistente personale di Silvio Berlusconi. Diffusa questa imbarazzante notizia. …
Tutto così, sempre così. Incredibile, colossale, clicca. Siamo senza parole, guarda il video. Per molti questa è l’esperienza quotidiana con internet: tant’è che appena escono dal sito di Beppe cercano di riprodurla su altri siti. Ad esempio vengono qui nei commenti e si portano sempre delle verità importantissime che però ti possono comunicare soltanto attraverso i video. Guarda che ti sbagli, guarda il video.
Ora, per carità, sono sicuro di sbagliarmi tantissime volte. Ma i video non li guardo quasi mai. Niente di personale, ma mi annoio mentre si caricano. L’idea di restare fermo mentre i video mi spiegano una cosa, senza poter scorrere con lo sguardo e cercare i punti salienti (come faccio quando leggo un testo più o meno rapidamente) mi rende nervoso. Se proprio ci tieni al mio parere, fammi un riassunto. Sono abituato a leggere e a scrivere, e anche internet mi piaceva di più quando era tutta così: scrittura, lettura, di nuovo scrittura. A quel tempo lui i pc li spaccava, ricordate. Veniva dalla tv.
Poi un giorno è arrivato su interneta casa mia. E si è portato tutti questi noiosissimi video. E la sua corte di videoamatori. Perché la gente si annoia. La gente vuole vedere i video. Con tanta pubblicità intorno. Almeno Berlusconi se ne stava nell’altro scatolone, e per escluderlo bastava una pressione sul telecomando. http://leonardo.blogspot.com
cinema, coccodrilli, essere donna oggi

La scena cult

Muore Mariangela Melato (la meravigliosa, magnifica, Mariangela Melato) e sulla home di Repubblica compare, accanto ai coccodrilli del caso, il link tutto in maiuscolo: VIDEO: LA SCENA CULT . Siccome hai un debole per i culti, specie quelli che sembra che tutti condividano tranne te, clicchi, e ti trovi di fronte a una clip brevebreve in cui Giancarlo Giannini, dall’alto di una rupe (e di una trucida superiorità antropologico-culturale) le grida, testuale: M’HAIRROTTO LAMMINCHIA!
IO FACCIO QUELLO CHE STRATACAZZOMMI PARE!
TROIA!
MA CHI TI CREDI DI ESSERE!
MAVAFFANCULO, VA’!

Che per carità, forse può essere davvero un modo divertente, intelligente, e soprattutto non snob (bisogna stare sempre attenti a non sembrare snob) di ricordare una grandissima attrice. Mariangela Melato fu Medea, lavorò con Ronconi e Visconti, però se ce la ricordiamo tutti per i film della Wertmüller un motivo ci sarà.

A questo punto viene in mente che quando compì ottant’anni l’altra grandissima, bravissima protagonista del cinema italiano di quegli anni, Monica Vitti, una delle prime cose che si vide in tv fu un montaggio di tutte le botte che aveva preso nelle commedie all’italiana. Botte tremende, con rumori che oggi userebbe soltanto Neri Parenti, ammesso che Parenti faccia ancora dei film, non so, magari ha smesso. Qualche ceffone con lo schiocco se lo prese anche la Melato, d’altronde la commedia all’italiana funzionava così: mostrava l’Italia per quel che era, un posto dove le donne finivano all’ospedale. Ci finiscono ancora adesso che i registi preferiscono mostrare altre cose, quindi forse le cose non sono così migliorate. Anche se, forse.

Forse il punto non è tanto che in Amore mio aiutami Alberto Sordi si vanti delle costole che è riuscito a incrinare alla moglie (anche se non è vero che mandò la controfigura Fiorella Mannoia in ospedale). O che Giannini in Travolti da un insolito destino violenti la sua datrice di lavoro. Il fatto è che entrambi i film sono congegnati in modo da stimolare la complicità dello spettatore – almeno dello spettatore maschio. Quando a metà del film Sordi chiude il pugno e decide di passare alle maniere forti, è come se quel pugno glielo piegasse telepaticamente lo spettatore, che ha visto la Vitti rendersi sempre più insopportabile e non la regge più, Quella lì ha scassato la minchia. Quando Giannini urla il suo proclama, siamo tutti con lui, finalmente qualcuno ha il coraggio di dire a voce alta cosa pensa delle insopportabili borghesi di Milano: troie. E scatta il cult. È lo stesso fenomeno che ha fatto sì che la frase più famosa degli ultimi trent’anni di cinema italiano (almeno in Italia) sia diventata La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca. Non è vero (d’altro canto chi l’ha mai vista, la corazzata in questione, da Fantozzi in poi nessuno ha sentito la necessità di verificare), ma dirlo era tantissimo liberatorio, e il sospetto è che i nostri padri andassero al cinema soprattutto a fare questo: a liberarsi. Un’esigenza tra il fisico e il morale che oggi si sfoga attraverso altre valvole, se siamo incazzati con Berlusconi o Monti o le donne fedifraghe e arroganti che non sanno stare al loro posto gliene diciamo quattro su twitter o facebook e poi stiamo subito meglio. Forse i cinema, quando erano pieni, erano pieni di gente che non avrebbe mai menato la moglie, ma che a vedere una donna menata, giustamente menata, si metteva di buon umore. Con l’alibi della commedia, del paradosso, della critica sociale eccetera.

È morta Mariangela Melato, e la scena a cui tutti pensano, la scena “cult”, è quella in cui si sente dare della troia. Un ruolo come un altro in fin dei conti; e poi che senso ha prendersela, gli attori interpretano quello che la gente vuole. Si sarebbe probabilmente meritata film migliori, qualche ruolo meno macchiettistico, e un pubblico meno finto-progressista, meno intimamente devoto al culto del ceffone. Ma è un rimpianto senza senso, ognuno vive la vita che può, recita al meglio i copioni che la vita gli offre. Meglio di Mariangela Melato, qui da noi negli ultimi trenta o quarant’anni, poche. Forse nessuna.

cinema, ebraismo, essere donna oggi, giornalisti, Islam

L’Aspesi inesplosa

Questa è la storia di un putiferio che non è scoppiato. Credevo che sarebbe successo, e mi sbagliavo. È una buona notizia dopotutto.

Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un’orda di polemiche. Nell’articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l’Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l’emozione che “le libere donne laiche italiane” potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt’altro che laiche, tutt’altro che libere. Donne la cui vita consiste in “casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare […]”

da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera.

Ecco, andando a vedere questo film, le libere donne laiche italiane (secondo la Aspesi) resteranno sedotte e turbate, di fronte a “un’oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce”.

Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia […]

Io il film ovviamente non l’ho visto, ma dell’Aspesi mi fido. Posso immaginare che un film del genere abbia il pregio di descrivere dall’interno situazioni che non solo non capiamo, ma più spesso ci vantiamo di non capire. Non trovo così scandaloso che una donna occidentale, libera, laica, possa trovare il tempo per andare al cinema a lasciarsi sedurre da un’oasi di reclusione; dopotutto qualche anno fa uscì un film sul monachesimo maschile che, almeno dalle recensioni, risultava altrettanto seducente, e allora in fondo perché una donna non potrebbe lasciarsi affascinante da qualcosa del genere? al limite ci si potrebbe chiedere se lo stesso diritto di andare al cinema e lasciarsi sedurre da modelli diversi lo abbiano anche le donne segregate di cui parla il film; domanda retorica da cui partirebbe la solita polemica a base di santanché e corani e le magliette antimaomettane. Ecco, appunto. Dove sono le santanché coi corani e le magliette? Io me li aspettavo già in edicola al lunedì. Niente. È anche vero che c’era il dibattito sulle primarie, il maltempo, il caso Petraeus. Però, accidenti, almeno il Giornale se la poteva un po’ prendere, con questa Aspesi affascinata dalle donne segregate, no?

No. Anzi. L’unico riferimento all’Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l’Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:

Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt’altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po’ invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall’apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall’allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell’orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.

Dove si capisce tra l’altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia “Holly”, una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov’è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po’ paura.

Ma forse non c’è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.

O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l’ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L’importante è che non sia in nome di Allah.

cristianesimo, essere donna oggi, miti, santi

Maria 12 ci perdona, tutti.

5 luglio – Santa Maria Goretti (1890-1902)

La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d’estate, col caldo che fa, c’è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c’è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio – sarà che hai caldo anche tu – sei in un’altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all’inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c’è Maria Goretti: l’ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po’ arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile, se scavi un po’ ti accorgi che sotto c’è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c’è chi compra.


Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall’altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell’uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un’altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano (continua sul Post…)

essere donna oggi, santi

Sangue, politica e anoressia

29 aprile – Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d’Italia (1347-1380).

Tiepolo

Caterina Benincasa è la patrona d’Italia che gli italiani non conoscono. La schiaccia il confronto con la popolarità trasversale dell’altro patrono, Francesco d’Assisi, al punto che fuori da Siena molti la confondono con Chiara, l’amica e confidente di Francesco e fondatrice delle Clarisse. Caterina invece è tutta un’altra storia, un altro ordine (le domenicane mantellate), un altro secolo (il quattordicesimo), un altro mondo che non conosciamo. Per dire, la Rai non ci ha ancora fatto una fiction. Una fiction non si nega a nessuno, Filippo Neri ne ha avute già due. Caterina ancora niente. Uno pensa: per forza, è una contemplativa, non c’è niente da raccontare. Non è proprio così. Caterina una sua storia ce l’ha. Magari è un po’ deprimente, ecco.

Tanto per cominciare, Caterina è figlia della peste nera, l’epidemia più orribile mai abbattutasi sul continente. Questo però spiega solo fino a un certo punto un dettaglio singolare della sua biografia, l’avere avuto cioè 24 tra fratelli e sorelle. Per molte famiglie la prolificità fu un modo di reagire a un morbo che svuotò interi villaggi e quartieri (a Firenze forse morirono quattro quinti degli abitanti). Ma quando arriva la peste Lapa Benincasa di figli ne aveva già messi al mondo 24: metà erano morti in giovane età, cosa perfettamente in linea con le statistiche (morì subito anche Giovanna, la sorella gemella di Caterina), ma per gli standard dell’epoca la famiglia era comunque numerosa.


Questo non significa che Caterina fosse destinata al chiostro per risparmiare i soldi della dote, come qualche malizioso lettore sta già immaginando. Va bene, lo abbiamo letto tutti Manzoni, ma molto spesso nelle vite delle sante si presenta l’esatto contrario: la famiglia vorrebbe destinare la figlia riottosa al matrimonio, e lei non vuole. Del resto giudicate voi, tra una vita di castità e meditazione e una spesa a rincorrere una decina di pargoli nella contrada dell’Oca, quale fosse la più attraente. Il caso della 16enne Caterina è reso più drammatico dal fatto che il promesso sposo fosse il vedovo della sorella più grande, Bonaventura. Caterina aveva cominciato a vedere Gesù a cinque anni, e aveva fatto voto di castità a sette, ma soprattutto aveva assistito all’agonia della sorella, morta di parto, e non doveva avere molta stima per il cognato. Memore dell’esempio di Bonaventura, che per punirlo delle sue scarse attenzioni si infliggeva lunghi digiuni, Caterina rifiutò di mangiare finché i genitori non cedettero e il matrimonio andò a monte.

Il disturbo alimentare di Caterina, quello che gli studiosi oggi chiamano anorexia mirabilis, nasce in questa situazione: Caterina non possiede nemmeno il suo corpo, ma sa come tenerlo in ostaggio, e detta le condizioni. Si taglia i capelli ed entra nelle domenicane, ma come terziaria, restando dunque nella casa dei genitori. Impara a leggere e a scrivere: le sue opere di misericordia e le sue prime lettere ai potenti del mondo attirano l’attenzione, chi è questa ragazzina che tratta i grandi uomini alla pari? I domenicani, che per farla entrare in un ordine di solito riservato alle pie vedove hanno chiuso un occhio, temono uno scandalo e la invitano al Capitolo Generale di Firenze per interrogarla. Là Caterina fa l’incontro che le cambia la vita: Raimondo da Capua, dottore in teologia, a cui la ragazza prodigio viene affidata una volta certificata la sua ortodossia. In principio diffidente, Raimondo imparerà ad apprezzare le doti di Caterina, soprattutto dopo essersi salvato dalla nuova epidemia del 1374, racconta, grazie alle sue preghiere. Raimondo sarà per tutta la sua vita il confessore di Caterina, il suo manager, e dopo la morte il suo biografo. Chissà se senza questo sodalizio con la santa avrebbe fatto tanta carriera. (Continua sul Post)

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La meretrice nel deserto

Qui è ancora vestita.

1° aprile – Santa Maria d’Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, ormai gli anni ruggenti dei martiri sono finiti, adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va’, va’, attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche “santo padre antico solitario”. Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un’ombra, un miraggio, si direbbe… una donna, una vecchietta dai capelli d’argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. “Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami”. “Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi”. Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma… per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un’allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né…

“Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un’allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti…”

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d’Egitto, una donnaccia si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. “Ah, ecco cos’era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?” “Se hai il denaro per il naviglio, volentieri”. “Il denaro non ce l’ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah”. Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l’ha riconosciuta: costei è Maria d’Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:

Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.

Piccola parentesi dotta. La vita di Maria d’Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze (o da Varagine). Varazze è un po’ il Moccia del Medioevo, nel senso che come scrittore non lo si direbbe veramente un granché, un compilatore senza particolari abilità: senonché doveva avere intuito qualcosa che ancora non abbiamo capito, perché la sua Legenda Aurea divenne presto un best seller e lo rimase per tutto il medioevo, quel millennio famoso in cui i libri non li mettevano in vetrina, ma li ricopiavano a mano, se necessario raschiando via l’inchiostro di altri libri magari più interessanti. Ecco, fa un po’ piangere il cuore che di tante opere celebri dell’era antica non ci restino che brandelli, e di una compilazione tutto sommato banalotta come la Legenda Aurea ci siano arrivate più di millequattrocento copie manoscritte. Cioè, almeno le teenager che leggono Moccia non stanno raschiando via Nabokov o Proust, anche se in un certo senso sì, lo stanno facendo. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l’avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c’era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l’unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio, ma forse anche dopo. Diciamo fino a D’Annunzio. Ma forse anche dopo. Pasolini? Boh. (Continua…)

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Povera piccola infanticida

Aborto aborto, sentimento e ipocrisia… 

In questi giorni sono successe tante cose incredibili, tra cui una che può essere passata inosservata: il direttore della rivista della diocesi di Trento, Marco Zeni, ha dichiarato di comprendere la decisione di una sedicenne che (su pressante invito dei genitori) ha interrotto una gravidanza. E non parlava a titolo personale: parlava per conto della Chiesa, con la C. “La Chiesa non può certo dichiararsi a favore dell’aborto, ma capiamo le difficoltà della famiglia”. A meno che Zeni sappia cose che noi ignoriamo, le difficoltà della famiglia consistono in un fidanzato albanese geloso e manesco.

Io la posizione dei cattolici sull’aborto la capisco. Non la condivido, ma la posso capire, se non altro perché è piuttosto chiara. Per i cattolici la vita comincia dal concepimento: questo non so se si possa considerare un dogma, ma possiamo tranquillamente definirlo un postulato, nel senso che la morale cattolica di oggi si fonda su questo assunto, non dimostrabile e non discutibile: dal concepimento in poi la madre non è sola, c’è un altro individuo con lei che ha gli stessi diritti che ha lei.

Quindi se lei decide di interrompere la gravidanza commette un infanticidio, punto. Il fidanzato manesco e geloso lo puoi lasciare, ma da che pulpito lo giudichi, se nel frattempo mediti di far fuori un bambino? È una posizione che ha almeno il pregio della chiarezza. Puoi contestarla, ma probabilmente stai semplicemente affermando che non condividi un postulato (la vita inizia dal concepimento) partendo da un altro postulato (la vita inizia qualche tempo dopo il concepimento, forse tre mesi, forse boh). Per inciso, io sono convinto che tutti i sistemi morali partano da assunti arbitrari, ma sono sicuro che non v’interessi una mia lunga dissertazione sull’argomento. Stasera a dire il vero non appassiona nemmeno me. Stasera sono solo curioso di capire come sia possibile che il portavoce di un prestigioso vescovado abbia dichiarato di poter capire le ragioni di un’interruzione volontaria di gravidanza. Capire un infanticidio? Al massimo si può perdonare, per esempio a Giuliano Ferrara gliene sono stati perdonati almeno tre; ma bisogna che prima il soggetto si penta.

Ho due ipotesi. La prima è che sotto sotto Zeni, e tutto il mondo intorno a Zeni, non ci creda per davvero, in questa storia della vita a partire dal concepimento. Non è vero che sia un postulato incrollabile; è solo la conseguenza un po’ maldestra di un’ideologia che parte da altre premesse. Dalla determinazione della Chiesa a mettersi al centro della cura del corpo, soprattutto: per cui la cosa davvero importante non è che i poveri embrioni abbiano salva la vita, ma che la Chiesa sia consultata sull’argomento, che la Chiesa abbia voce in capitolo. Il vero scandalo della 194 non sta nel fatto che una ragazza possa abortire – come se non fosse mai successo – ma che possa farlo senza chiedere il permesso a un prete, che se magari è in buona, se conosce la situazione… ti può anche capire, via, lo sa anche lui come va il mondo, no? Insomma, tutta questa recentissima dottrina della sacralità della vita dell’embrione potrebbe essere semplicemente una reazione nervosa degli ecclesiastici al fatto di essersi trovati messi in un angolo dalla medicina e dalla cultura laica. Sta bene, però scegliete: o vi tenete la vostra rigida, arbitraria ma chiarissima legge morale, oppure mettete la maschera del padre comprensivo. Ma tutti e due no: non potete gridare ‘infanticida!’ e poi soggiungere ‘povera ragazza’. O è povera o è infanticida, tertium non datur.

La seconda ipotesi mi è venuta molto più grezza: a sentire Zeni sembra che per la Chiesa di Trento nulla sia peggio dell’aborto, tranne una cosa, una sola cosa di fronte alla quale l’interruzione di gravidanza è un male minore: e che questa cosa sia dar figli a un albanese. Decidete voi.

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Sporco maschio guardami

Io queste attiviste ucraine che si spogliano per protesta è da un po’ che le vedo in giro – su internet e riviste, intendo, non pensiate che io abbia una vita altrove ormai – e devo dire che non mi convincono.

Non è che mi scandalizzi, però sono diffidente. È la mia educazione: diffido di chiunque mi si spogli davanti, sono convinto che abbia qualcosa da nascondermi (vedi com’è tortuosa l’educazione). Da una parte, posso capire, manifestare significa attirare l’attenzione, e da questo punto di vista spogliarsi funziona – basta andare su Repubblica.it in questo momento, ma quest’estate tennero l’homepage anche sull’Unità, insomma, l’attivista nuda tira. Non è soltanto una pratica funzionale, è anche una delle meno violente che si possano immaginare: invece di tirare estintori o bruciare SUV, mostrarci per quello che siamo. Salvo che non siamo quasi mai così belli come le attiviste ucraine che si vedono spesso in foto sulle riviste o su internet (le foto di oggi non rendono loro giustizia).

Non so esattamente quanto il loro attivismo abbia a che fare col movimento internazionale degli SlutWalk, i cortei in cui le femministe si vestono da “sluts” (traduciamo “sgualdrine”, via) per protestare contro la violenza maschile. Gli SlutWalk sono cominciati a Toronto la scorsa primavera e stanno andando piuttosto bene, tanto che anche in Italia c’è chi comincia a pensarci. Visti in foto sembrano un po’ la versione femminista dei gay pride (un’affermazione che immagino mi farà amare tantissimo da femministe, gay e femministe gay), una gara a conciarsi peggio non indenne da una certa dose di esibizionismo che però, diciamolo, quando vai in piazza c’è sempre. In piazza ci vai per attirare l’attenzione, e il tuo ego di solito non lo lasci a casa. Io perlomeno non lo facevo, e se non mostravo il corpo era semplicemente perché non avevo tutto questo gran corpo da mostrare (altrimenti chissà).

Comunque: dietro agli SlutWalk c’è una filosofia controversa. Quando un ufficiale della polizia di Toronto dichiarò che ci sarebbero state meno molestie se le donne avessero evitato “di vestire come sluts”, le femministe canadesi sfilarono mostrando il loro diritto costituzionale a vestirsi come volevano, e quindi anche come sluts. Non fa una grinza. Salvo che poi sui giornali non ci va la foto dell’impiegata cinquantenne con la panzetta, alla quale conciarsi da slut costa magari qualche sacrificio. Ci vanno sempre tipe in forma come le attiviste ucraine, per la gioia di noi guardoni di internet (mi ci metto anch’io ma devo dire che ormai guardo pochissimo). Il messaggio che ne ricaviamo è un po’ diverso da quello che forse prevedevano le femministe: non è più “sono una donna e non mi devo vergognare di avere un corpo”, ma più qualcosa del tipo “guardami, te lo sogni di spogliare un corpo così”. Insomma, un corpo nudo brandito contro di me, maschio guardone. Non è contundente come un estintore, ma si suppone comunque che debba ferirmi, frustrarmi nei miei desideri, nelle mie pulsioni. E ammettiamo pure per un istante che in quanto maschio io debba vergognarmi per i crimini di tutti i maschilisti del mondo – ma quello che finisco per provare è un po’ la sensazione che qualcuno mi voglia farmi vergognare del fatto che guardo una donna nuda. Come ai bei tempi dell’oratorio, insomma. Ma almeno all’oratorio non me le squadernavano in faccia, le donne nude. Invece qui ci sono donne nude che mi gridano: vergognati maschilista delle tue pulsioni. Tutto quello che mi viene da rispondere è: no, non mi vergogno. E a quel punto mi sale pure in punta di lingua una parola che in generale non amo usare, la traduzione letterale di slut, diciamo. Qualcosa di becero, di maschilista davvero, ecco: l’effetto pratico dell’attivista-nudista è farmi sentire un po’ più maschilista di prima. Dura solo pochi istanti, ma non credo che sia l’effetto voluto. O no?

La prima volta che sentii parlare di questo gruppo di attiviste ucraine che si spogliavano era su una rivista, non mi ricordo più se D o Vanity Fair, però le foto erano notevoli. Donne nude aggredite da poliziotti. Protestavano contro lo stupro mettendolo in scena, praticamente. Ho cercato di guardare quelle foto da una prospettiva non guardona, ma temo di non averla trovata. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno scenderà a stuprare una ragazza perché ha visto una scena di stupro attizzante su D o Vanity Fair.

Ma la cosa che mi lasciò più interdetto è che nello stesso servizio spiegavano che queste donne bionde e molto belle (magari non sono tutte belle, ma in foto ci vanno quelle più belle) in quell’occasione stavano protestando contro il turismo sessuale degli italiani in Ucraina. E così, grazie al loro attivismo, il risultato è che io lettore italiano stavo guardando bellissime ucraine nude su una rivista. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno correrà a prenotare un fine settimana a Kiev perché ha visto delle attizzanti ucraine nude su D o Vanity Fair o… o no?

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Dillo ancora che lo ami

E ieri dunque si celebrava Monica Vitti, giustamente, e un tg (non mi ricordo neanche quale) ne ha approfittato per montare un’antologia delle sue pizze più celebri. Perché è vero, la Vitti ha lavorato con Bunuel e con Antonioni, è stata la musa dell’incomunicabilità, bla bla bla, ma noi la conosciamo soprattutto per le pizze che si prendeva in faccia nella commedia all’italiana. Con quel rumore classico di pizza in faccia che se ci pensi è impressionante – il cinema è tanto cambiato negli ultimi cinquant’anni, la resa del sonoro ha fatto passi da gigante – eppure continuiamo a sentire pugni e schiaffi con gli stessi rumori assurdi di quarant’anni fa, e non facciamo una piega. Voglio pensare che sia un buon segno: che il rumore vero dei pugni e degli schiaffi non lo riconosceremmo. Ma è innegabile che di pugni e ceffoni la Vitti ne abbia presi tanti, francamente troppi. Può darsi che a suo modo fosse un tormentone pre-televisivo: per dire, così come un artista finissimo come Totò per contratto doveva anche piazzare quattro o cinque smorfie per far ridere i bimbi piccoli; così come Sordi probabilmente avrebbe potuto essere molto meno macchietta di come gli chiedevano di essere da un certo punto in poi; può darsi che un certo pubblico da un film con la Vitti si aspettasse soprattutto una scena in cui strilla e si fa menare, una specie di madrina nobile di Bud Spencer e Terence Hill. E i rumori infatti erano gli stessi. Però Bud Spencer ci faceva ridere da bambini; la Vitti presa a botte da Sordi, o da Mastroianni, o da Giannini, era uno spettacolo per gli adulti.

Ripensandoci, non un gran spettacolo. Vale la pena di ricordarselo, ogni dieci o venti volte che i film italiani bruttini di oggi ci fanno rimpiangere la Commedia all’Italiana dei bei tempi che furono: non furono dei tempi così belli, dopotutto. In particolare per le donne, quasi sempre subalterne, in ruoli ritagliati a tavolino da sceneggiatori anche sensibili, anche geniali, anche anticonformisti, ma quasi sempre maschi, e anche abbastanza maschilisti. E fieri d’esserlo. A rivederla, quella scena di Amore mio aiutami, sorprende per il meccanismo di complicità che scatena: la Vitti procede a rendersi insopportabile finché lo spettatore maschio non riesce a piegare telepaticamente la volontà di Alberto Sordi, a serrargli i pugni. Era un film che prendeva in giro le coppie aperte, nel 1969: La donna ha appena messo il naso fuori dal sacro matrimonio e già gli autori della commedia all’italiana si affrettano a romperglielo – con tanta ironia, ovviamente. Poi c’è questa storia che Fiorella Mannoia facesse la stunt per la Vitti, e che durante la scena riportò ecchimosi sufficienti a convincerla a cambiare mestiere. Però è una cosa che ho letto solo su internet, non ho tanta voglia di crederci.

essere donna oggi, santi

Questo non è un orgasmo

E basta, non è che devo fare altro per vendervi il pezzo. Ho già scritto nel campo titolo “orgasmo”, sarà comunque il più cliccato dell’anno.
Eh, lo so, con tutti i problemi che ci sono al mondo.
Comunque oggi era la festa di Santa Teresa d’Avila, santa un po’ meno orgasmatica di quanto si creda in giro, o no? No? Boh, sul Post se ne parla.

15 ottobre – Santa Teresa d’Avila (1515-1582), Vergine e Dottore della Chiesa

Il primo orgasmo della Storia dell’arte: quando pensiamo a Teresa d’Avila di solito pensiamo a questo. La Santa in questione ha scritto migliaia di pagine, è passata per il tribunale dell’Inquisizione, ha riformato un ordine religioso, fondato diciassette conventi, percorrendo la brulla Spagna del Siglo d’Oro a dorso di mulo. Nel frattempo probabilmente soffriva di epilessia e aveva nausea e malesseri tutti i giorni. Con tutto questo, è arrivata lucida a 77 anni. Poi è successo che nel secolo successivo il più grande architetto-scultore del barocco romano, Gian Lorenzo Bernini, le abbia dedicato il suo capolavoro, un vero film di marmo e luce, ispirato a una pagina della sua biografia. È un film di un solo fotogramma, ma chi l’ha visto non se lo dimentica. La Santa guarda l’angelo e si sente trafiggere il cuore. È una sensazione dolorosa e piacevole, la trasverberazione, che la pervade totalmente. È un orgasmo? Lacan non aveva dubbi (“elle jouit, ça ne fait pas de doute”), e per qualche tempo nessuno ha osato avere dubbi su Lacan. Come dire che Bernini (mica un qualsiasi pornografo, uno degli artisti più autorevoli della Chiesa romana post-tridentina, zelante lettore di Ignazio di Loyola), si sarebbe lasciato sfuggire un orgasmo di Santa così, per distrazione, come ad altri sfugge un sogno o una parola di troppo: un lapsus di marmo. Ma sul serio possiamo dire che orgasmo ed estasi siano la stessa esperienza? Sulla base di quali conoscenze? Abbiamo mai sperimentato un’estasi? (abbiamo mai sperimentato un orgasmo?)

Nel testo Teresa descrive un dolore-piacere che parte dal muscolo cardiaco. È una sensazione ineffabile che decidiamo di chiamare “orgasmo” perché non ci viene in mente niente di meglio. In effetti, non ci viene mai in mente niente di meglio di un orgasmo. Ma è un limite nostro, non di Teresa. Lei ha passato una vita a meditare e coltivare sensazioni che noi non abbiamo mai provato (quando non era impegnata a dirigere conventi e a litigare con altri direttori di conventi). Anche stavolta, più che di una suora carmelitana del Cinquecento, stiamo parlando di noi. Sul testo rimbalzano le nostre ossessioni. Ha scritto che le è piaciuto “un po’, anzi molto”, quindi dev’essere per forza un orgasmo. Ora crederete che scherzo, ma leggete per esempio questo passo del catechismo di Odifreddi (Perché non possiamo dirci cristiani, p. 103):

L’esempio più tipico è quello in cui l’ipersensibilità e l’autoesaltazione di una giovane le fanno scambiare una fantasia autoerotica, sensuale o sessuale, per l’incontro con un vero essere, angelico o divino. È probabilmente successo nell’annunciazione di Maria, ed è certamente successo nella famosa Estasi di Santa Teresa, raffigurata dal Bernini nel 1652 in Santa Maria della Vittoria a Roma, sulla base del vivido racconto della stessa protagonista nella sua autobiografia:

“Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento”.

L’abbiamo provato, Teresa, l’abbiamo provato. Solo che lo chiamiamo con un nome un po’ più prosaico di trasverberazione, “esperienza indicibile”, e lo celebriamo un po’ più spesso di una sola volta l’anno.

Va bene, Odifreddi, siamo contenti se celebri anche più orgasmi all’anno, ma ti dovrebbe comunque restare un po’ di tempo per studiare le cose di cui parli. “L’autoesaltazione di una giovane”… Teresa aveva già quarant’anni. E sul serio: come fai ad affermare che si sia trattato “certamente” di una fantasia autoerotica? Sulla base di che studi, qual è la branca delle scienze che ti consente di trarre conclusioni “certe” dal resoconto di una mistica del Cinquecento? Perché io non mi fiderei nemmeno se me lo dicesse Freud. Per il quale del resto Teresa era un’isterica, il che non stupisce affatto, visto che Freud curava per lo più pazienti isteriche, e che i suoi metodi li aveva messi a punto studiando l’isteria, e si sa, se hai un martello in mano tutto ti sembra un chiodo. Oggi l’isteria neppure esiste: è stata tolta dall’elenco delle malattie mentali (DSM).

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Un ministro entra in un cesso, plof

Don’t feed the clown

Anche ieri sera al tg7 provavano a rivendere la barzelletta di Sacconi come un diversivo tattico, l’indizio di una strategia comunicativa affinata con gli anni. Io, alla luce delle recenti mosse del Ministro, e del grado di lucidità mostrato da tutti i suoi colleghi in questa inutile estate, ho maturato un parere differente, un po’ meno articolato. Secondo me il tizio è fuori. Come un balcone. Non so se si sia sporto di recente o sia lì appeso da generazioni, ma a questo punto poco cambia.

Sacconi, ricordiamolo, era nel pool di professionisti che a un certo punto, tra un ridimensionamento delle province e un ritocco alle aliquote, partorì l’idea probabilmente più geniale dell’agosto 2011: mangiarsi i contributi di laureandi e militari, ché tanto non li riscattano quasi mai, no? Per Sacconi infatti si trattava di danneggiare al massimo 4000 contribuenti, robetta. Nel giro di 24 ore si scoprì che invece erano 600mila, io dico che nemmeno il corvo Rockfeller, nominato ministro in sua vece, riuscirebbe a fare peggio di così. Perché a un certo livello non capire un cazzo non basta, bisogna passare a un livello ulteriore, dimenticarsi le tabelline, le addizioni, le schede con le frecce e gli insiemi che ti danno nella sezione dei cinque anni. Nel frattempo al Giornale bloccarono i commenti, in giro per le città semivuote si percepiva una vibrazione irosa ogni volta che ti avvicinavi a un professionista, un avvocato, un dentista, un operatore immobiliare, probabilmente è stato il giorno in cui Berlusconi ha perso più punti gradimento negli ultimi vent’anni.

Sacconi insomma è uno di quelli che in agosto doveva decisamente andare al mare, invece è rimasto tra uffici e conferenze, ed evidentemente ha sbroccato. Ora racconta le barzellette, ma potrebbe anche ruttare, recitare scioglilingua, cantare i successi dei Ricchi e Poveri quando erano ancora un quartetto, e Mentana con molto acume ci farebbe notare la sottile strategia diversiva. Seduto di fianco a Bonanni, che di tutti i sindacalisti al mondo è probabilmente l’unico ad appartenere a una setta cattolica radicale (i neocatecumenali), Sacconi per spiegarsi meglio decide di raccontare una storiellina, e di tutte le storielline si fa venire in mente proprio quella in cui stuprano delle suore. Cosa direbbe Freud? Mah, non saprei, mai sentito un ebreo austriaco bestemmiare. Ora dirò una di quelle cose che poi la gente s’incazza e scrive alla De Gregorio vergogna licenzialo (sì, è successo).

Ho sentito barzellette peggiori.

Certo, non c’entrava nulla. Era fuori dal contesto, surrealismo puro, era suggerita da una di quelle labili concatenazioni di idee che vi vengono mentre vi strofinate sul cuscino e vi consegnate a Morfeo (la CGIL può dire di no come… come… come la suora nella barzelletta in cui le stup…ronf…) Era l’ultima cosa da dire di fianco al cattolicissimo Bonanni, una palese dimostrazione di incapacità, e anche un patetico tentativo di scimmiottare il Caro Leader proprio negli aspetti più imbarazzanti. Però, se non fosse stata raccontata da un ministro durante una grave crisi internazionale, la storiellina in sé un mezzo sorriso poteva strapparlo. Una smorfia, via.

E’ una barzelletta sulle suore, che fanno le santarelline, ma poi… E’ una barzelletta sessista. Diciamo pure maschilista. E racconta di uno stupro di massa! Ma le barzellette sono così. Giocano sugli stereotipi. Nelle barzellette i neri hanno organi smisurati e barlano sembre gome dei devigiendi. Le donne non sanno guidare. Alle suore non spiacciono i rapporti illeciti. Gli italiani sono geniali e i francesi e gli inglesi rosicano, eccetera. Proprio per questo, potendo, sarebbe meglio evitare le barzellette nelle comunicazioni istituzionali, ma anche nella comunicazione tout court, e tenersele per le lunghe notti intorno al fuoco con amici fidati che sono sulla tua stessa lunghezza d’onda.

Non a caso nella sua replica Sacconi confessa (l’infame) di averla sentita da Guido Carli, che gliel’aveva raccontata “per sdrammatizzare un momento critico”. E qui c’è tutta la differenza tra un grande professionista, che in un momento difficile fa la battutina scema per alleggerire un po’ la tensione del gruppo di lavoro, e il discepolo che non ha capito niente del maestro, e crede che la battutina abbia un valore in sé, sia estrapolabile dal contesto, e si possa riprodurre anche davanti alle telecamere e di fianco a un sindacalista neocatecumenale, un exemplum retorico di raffinata fattura. 

Insomma, Sacconi ha fatto una piccola, immensa cazzata, che dimenticheremo presto soltanto perché lui e i suoi colleghi ne fanno a un ritmo vorticoso, insostenibile. Ma che per questa barzelletta debba “chiedere scusa alle donne”, beh, mi sembra la solita esagerazione controproducente. Sacconi ha offeso tutti gli interlocutori, che meritavano un discorso serio, da parte di un ministro serio che rappresenterebbe un governo serio. Sacconi ha offeso la sua nazione, mostrando una spettacolare inettitudine nell’esercizio delle funzioni. Sacconi però non voleva dire che lo stupro in generale è un atto consenziente. Allo stesso modo in cui chi racconta la barzelletta del fantasma formaggino non sta dichiarando di credere ai fantasmi e alla vita dopo la morte. Sono barzellette. Sono paradossali, scorrette, razziste, scioviniste, campaniliste, sessiste, reazionarie. E’ folle che un ministro della Repubblica le usi per comunicare. Ma è anche folle che qualcuno (qualcuna) lo prenda sul serio. Non stava incitando allo stupro delle monache, non stava negando il concetto di violenza sessuale; stava soltanto facendo il buffone, come ha visto fare il suo capo. Questa è la cosa grave. Poi le donne italiane hanno miliardi di motivi per sentirsi esasperate, ma per favore, non prendete sul serio una barzelletta idiota, non scandalizzatevi per una freddura da oratorio, non date al buffone questa soddisfazione.

essere donna oggi, le 21 notti, repliche, scuola

L’ombelico è un problema complesso

(2004)

Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l’idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l’altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d’accordo… “Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween”.

L’amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. “Avevo un caldo…”. Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l’ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L’ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell’anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l’altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l’amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l’igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un’istigazione all’automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l’ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c’è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

“Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell’identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l’ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno”.

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell’ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
“E dire”, pensa lui, “che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l’anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…”
Sull’autobus Esso continua a riflettere sull’apparente mistero: ogni anno, ‘ste ragazzine si scoprono un po’ di più, e lo eccitano un po’ di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l’impressione di invecchiare. “Quand’è l’ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…”
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall’eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi –
– Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un’uniforme! L’uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell’autobus, ripensandoci ha un timido accenno d’erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
“Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l’ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c’è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C’è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà”.

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE

*******

“Un… ‘timido accenno di erezione’, professore? Chiedo un racconto sull’amore carnale, e tutto quello che ottengo è un timido accenno di erezione’?” Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?”
“Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia”.
“Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei… a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?”
“Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che…”
“Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai”…
essere donna oggi, le 21 notti, racconti

Storia di Carola e di sua sorella

(Introduzione)

Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un’avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questa senza volerla sprovvista di un’intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d’arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l’amava e invidiava con alternante intensità.

Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l’anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l’augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell’aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l’ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell’alcova presidenziale, vi trovò il diletto marito abbrancato a una robusta domestica circassa?

Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell’orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L’episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”

Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell’allegrezza per l’incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un’ombra ostinata di malinconia raffreddava l’umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull’insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell’ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all’orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L’indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d’acqua avevano il potere di rimettere in sincronia il suo cuore intermittente.

Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all’estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt’altro che ansiosa di farsi riconoscere dall’ospite di cui non apprezzava i modi un po’ villani, né l’umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.

Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un’uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall’acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.

Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma è il Tempo piuttosto a prendersi gioco di lui? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d’umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell’alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato…

essere donna oggi, ho una teoria

Ana contro Ana

Adesso magari qui non si vede proprio bene, ma questa rivista sta fieramente conducendo una campagna contro l’anoressia, andando alla radice del problema. E alla radice non ci sono certo le riviste di moda (ci mancherebbe altro) ma nemmeno le famiglie (un po’ passée anche quest’abitudine di incolpare le famiglie), bensì… indovinate cosa c’è alla radice di tutto il problema, indovinate.

Ci sono i blog. Vogue vuole la vostra firma per chiuderli. I dettagli sull’Unità.it. Commentate laggiù.

Se vi dicessi che qualche giorno fa mi hanno chiesto di aderire a una petizione di Bob Marley contro i fumatori di cannabis(1), mi credereste? E a una raccolta di firme lanciata da Valentino Rossi contro i motociclisti che fanno rumore e inquinano? Oppure una raccolta di firme contro la piccola criminalità, patrocinata da Matteo Messina Denaro? No, in realtà volevo dirvi che mi hanno chiesto di firmare una petizione contro i siti pro-anoressia; petizione lanciata da Franca Sozzani, gloriosa direttore di Vogue Italia. Non sto scherzando. Bob Marley che ti chiede una firma contro le canne, quella ero uno scherzo. Franca Sozzani che combatte l’anoressia on line è una cosa reale.
E siccome l’anoressia è cosa fin troppo reale, non ci scherzerò sopra ulteriormente. Quello che mi interessa è capire. Per molti anni, ogni volta che un esponente del mondo della moda (stilista o giornalista) veniva invitato a un dibattito televisivo su questa malattia, la sua linea di difesa era più o meno la stessa: la colpa non è della moda, la moda non c’entra, le modelle magre valorizzano i vestiti, ma quelle anoressiche vengono licenziate, è tutta colpa della famiglia, certi genitori sono pazzi. Le cause dell’anoressia risiederebbero nelle carenze affettive; il fatto che molte vittime dell’anoressia sfoglino riviste come Vogue sarebbe un sintomo, non una causa. L’ideale di una bellezza tanto ossuta quanto lontana dalle misure standard delle nostre adolescenti, propagato dalle riviste di moda, non avrebbe nessuna conseguenza sul fatto che alcune di queste adolescenti rifiutino il cibo e facciano diete estreme. Bene, questo è un punto di vista. Discutibile, ma rispettabile.
Però adesso saltano fuori i blog pro-ana, i siti pro-anoressia. Che esistono, per carità: sono anni che gli esperti li studiano. Sono i diari on line in cui si racconta con dovizia di particolari come fingere di mangiare, come vomitare, quali lassativi assumere, e così via. Ecco, per Franca Sozzani questi siti sono pericolosi, perché sono alla portata di tutti. Esattamente come le copertine di Vogue e degli altri magazine di moda. Ma i magazine di moda non dovrebbero avere alcun effetto sulle adolescenti; i siti pro-ana sì. Com’è possibile? Se sbatti in prima pagina un mostro ossuto su una rivista patinata con una tiratura di migliaia non ottieni nulla; se metti lo stesso mostro ossuto su un piccolo blog con cento lettori diventi un pericolo? Non è un tantino illogico?
Mi spiace, non firmerò la petizione. Anche perché non mi è chiaro in che modo migliaia o milioni di firme possano ottenere “l’obiettivo finale di chiudere questi siti”. Non è che su internet non valgano le leggi del mondo reale: se un blog commette un reato nel Paese in cui è stato registrato (il che equivale più o meno ad ammettere che in quel Paese esistano reati di opinione), può essere chiuso dall’autorità senza bisogno che nessuno ci metta la firma. Purtroppo abbiamo scoperto che in Italia un blog si può chiudere per molto meno, anche soloper il sospetto di un inquirente. Detto questo: difendere l’anoressia, in Italia, è un reato? Se sì, le firme non dovrebbero servire; se no, qualcuno ritiene che dovrebbe esserlo? Ogni tanto si potrebbero raccogliere le firme per proporre una legge, invece che per obiettivi un po’ fumosi come quello di chiudere “migliaia di siti” (che possono benissimo riaprire il giorno dopo su server e con domini diversi).
E tuttavia bisogna ringraziare la Sozzani, non soltanto per l’attenzione che dedica al problema dell’anoressia, ma anche al piccolo mondo dei blog, che sembra sempre sul punto di passare di moda: e invece guardaci, siamo su Vogue. Eppure c’è sempre qualcuno che tira fuori quella vecchia storia per cui i blog sono out, i blog sono il passato di internet, il futuro è second life (nel 2007), twitter (nel 2009), facebook (adesso), eccetera. In effetti i blog sono un fenomeno ormai antico, eppure sono quelli che fanno più paura di tutti. Nelle prime righe della petizione sembra che la Sozzani voglia soprattutto scagionare facebook, nel momento in cui qualcuno comincia ad accusarlo di essere la “causa principale dell’anoressia”. Per lei non è possibile “che un network da solo possa prendersi carico della diffusione di questo fenomeno”: basta studiare e documentarsi per scoprire che sotto il network esistono “migliaia di siti e blog pro-anoressia”. Si potrebbe anche ipotizzare che la Sozzani decida di prendersela coi blog perché sono i più sfigati, ormai, mentre il popolo di facebook va tenuto buono…
Ma io preferisco pensare che il Direttore stia riconoscendo quello che altri non ammettono più: Facebook non può essere la causa scatenante di nulla, perché Facebook è solo una rete che socializza i contenuti; ma i contenuti sono altrove. Li fanno i blog (e quindi no, professor McLuhan, il medium non è esattamente il messaggio; perlomeno le due cose non coincidono). E di questo voglio ringraziare Franca Sozzani, a nome di tutta la categoria di blogger, compresi i diari on line delle anoressiche, dei bombaroli, degli erotomani e di quelli che sognano di avere storie sentimentali con animali pelosi immaginari (esistono): i contenuti, belli o brutti o pericolosi che siano, in rete ce li mettiamo noi. Certo, ormai dipende solo da facebook o da twitter se qualcuno li legge o no. Però chi li produce siamo noi. Grazie, direttore di Vogue, per avercelo riconosciuto.
Io poi resto convinto che qualche contenuto lo producano anche i giornalisti, e perfino quelli di moda; e che un contenuto preciso (grosso modo “magro è bello”) lo contenga anche un mostro ossuto in prima pagina su una rivista patinata. Che sta in edicola, o in sala d’aspetto, o sul tavolino di casa, dove anche un adolescente (con carenze affettive, certo) può dare un’occhiata. Ma questa resta solo una mia teoria.


(1) Courtesy of Livefast
essere donna oggi, ho una teoria, prostituzione

Barbie e Cleopatra

Insomma, è successo: mentre l’Africa sanguina, io ho scritto un pezzo su Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis. Però leggetelo, è davvero bellissimo, come direbbe lui.

Barbie Ballerina contro Cleopatra a Sanremo è on line sull’Unita.it, e si commenta… su Facebook, come tutti i pezzi sull’Unita.it d’ora in poi. Tanto un account su FB ce l’avete ormai tutti quanti, no? Insomma, probabilmente è la soluzione più snella. Per stavolta comunque tengo aperti anche i commenti qui sotto, vediamo come va.

Una volta era davvero tutto più semplice. Per rappresentare le donne a Sanremo bastava la par condicio tricotica: la Bionda e la Mora. La coppia di vallette di quest’anno è stata scelta con una simbologia ben più raffinata, anche se probabilmente inconscia. Così, al primo sguardo, avremmo potuto dire: la Straniera e l’Italiana. In realtà il confronto è più complesso, stratificato: Belen Rodriguez è l’argentina che trova l’America in Italia; Elisabetta Canalis, la soubrette che dall’Italia si proietta verso Hollywood. Cominciamo quindi col registrare la minore benevolenza del pubblico nei confronti della compatriota che spicca il volo, rispetto all’aliena che atterra: quasi che le regole del desiderio e dell’invidia (i due sentimenti che ci hanno tenuto davanti al video a guardarle) seguissero leggi speculari a quelle del buon senso quotidiano, che ci portano ad aver paura degli immigrati e a esortare figli e amici a viaggiare, a trovare la propria strada anche fuori dal Paese. E invece siamo così grati all’extracomunitaria Belen di essere scesa tra noi, e così invidiosi che la Canalis abbia fatto il salto…

Se un giorno qualche studioso vorrà sintetizzare la condizione della donna nella società dello spettacolo in Italia a cavallo dei due millenni, probabilmente isolerà il caso di Elisabetta Canalis, anche solo per l’esemplarità del suo cursus honorum: proprio mentre la “velina che sta col calciatore” diventava un luogo comune delle conversazioni anni Novanta, Elisabetta Canalis ballava gli stacchetti di Striscia la Notizia e si fidanzava con Bobo Vieri. Il Sogno Italiano Standard, di milioni di fanciulle cresciute negli ultimi quindici anni, si realizza in lei, e al termine del sogno c’è il matrimonio con l’uomo-più-sexy-del-mondo. Tutto perfetto, salvo un orribile dettaglio: nulla è credibile. Sì, ormai ci siamo rassegnati e rassegnate: la Canalis sta davvero con George Clooney. Ma resta poco credibile lo stesso: sembrano fuori fuoco anche nelle foto di passerella, come se intorno a loro una bolla di sapone attendesse di scoppiare da un momento all’altro: tanto che quando Silvio Berlusconi consigliò a Ruby di spararle grosse, la panzana più enorme che venne in mente alla giovane incallita mentitrice fu proprio evocare l’incredibile coppia del lago di Como: cosa c’è di meno probabile di una cena a cinque con Silvio, la Santanché, George ed Elisabetta?

Insomma, non ci crediamo. Non perché non sia vero, ma perché non vogliamo crederci. Se Elisabetta è l’una su mille che ce l’ha fatta, noi siamo i 999 che tiferemo fino alla fine contro di lei, continuando a scommettere che la bolla scoppi presto, a gioire per gli infortuni di percorso. Anche a Sanremo, non ci bastava che presentasse le canzoni e sorridesse, come qualsiasi altra valletta professionale. No, lei era convocata per un esame: doveva dimostrare alla commissione del popolo italiano che aveva maturato una buona conoscenza della lingua inglese. Senza la quale, è sottointeso, resta una legnosa Barbie Ballerina che mai George potrà amare veramente. Elisabetta è l’Italia che si crede – chissà poi perché – migliore di noi, e quindi dev’essere umiliata, punita, messa di fronte all’inconsistenza delle proprie pretese: se ne devono mostrare in eurovisione tutti i difetti: solo allora spegneremo il telecomando, sazi e rassicurati nella nostra mediocrità.

Dall’altra parte c’è Belen Rodriguez: la donna straniera, che viene da lontano, a cui non si chiede che di essere quello che è: e quindi ballerà il tango, suonerà la chitarra perché lo ha imparato in famiglia; sarà docile e si farà abbracciare e rimirare da tutti. Sarà anche per il bombardamento televisivo degli ultimi mesi, ma è oggettivamente difficile anche per un telespettatore distratto come me vedere la Rodriguez e non pensare alle decine di sudamericane e nordafricane che negli ultimi mesi sembrano aver soppiantato, nel cuore del premier, le donne italiane. È solo una libera associazione del nostro inconscio, che non è mai innocente; in realtà Belen non fa parte di quel mondo, se non per una curiosa proprietà transitiva: ha legato il suo destino a quello di Fabrizio Corona, che lo aveva legato a quello di Lele Mora, che lo ha impigliato a Silvio Berlusconi. Sia come sia, scendendo sul palco dell’Ariston Belen finisce per rappresentare il supremo trofeo: e l’ombra che proietta sulla platea allude forse alla decadenza di una civiltà. Si sa che abbiamo puntato tutto sulla famiglia, noi italiani: altrove si aiutavano i figli a uscire di casa il prima possibile, noi abbiamo preferito mantenere sontuose pensioni ai genitori. In realtà lo spaghetti-welfare per un po’ ha funzionato: bastava che i figli avessero un po’ di pazienza e avrebbero ereditato le sostanze dei padri. La sabbia nelle macine del sistema l’hanno messa queste conquistatrici straniere bellissime e disponibili a prezzi modici, leste a intercettare i risparmi del nonno e a farsi intestare i beni che avrebbero dovuto spettare al nipotino.

Così, forse abbiamo tollerato che Berlusconi ci derubasse del nostro futuro, finché era implicito che prima o poi lo avrebbe reso ai nostri nipoti. Quello che forse non potremo perdonargli è che lo stia devolvendo alle straniere, buttandolo via: ora persino chi fino al Noemigate sosteneva di non voler fare il moralista, si domanda se non sia il caso di interdire il nonnetto che fa il bunga bunga con presunte nipoti di leader extracomunitari. Il personaggio Belen incarna tutto questo: è la Cleopatra che sedusse Cesare e travolse Marco Antonio, a cui il prossimo imperatore dovrà mostrare di saper resistere. Ma non se ne vedono, all’orizzonte. Solo una generazione di barbie ballerine, cresciute nel sogno cantare, recitare, sfondare, fidanzarsi con un VIP; mentre i loro coetanei su internet cercano la loro cleopatra, docile e sorridente, a un prezzo sostenibile. http://leonardo.blogspot.com

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Il peggio di Leonardo 2010 (2)

Quello che sto facendo, disse il vecchio, è una cosa sommamente reazionaria. Parlare di contatori, di accessi, nel 2011! Molti lo hanno addirittura tolto, il contatore, o finto di. A un certo punto – più o meno verso il 2005, quando gli accessi hanno smesso di crescere in modo rettilineo – ci siamo convinti che i dati dei contatori non fossero attendibili, o comunque interessanti. L’unico modo di valutare l’importanza di un blog era il ranking, e siccome quallo lo decideva google senza spiegarci il perché, e non c’era insomma modo di specularci su – abbiamo iniziato a sviluppare ranking alternativi, classifiche basate sui link. Più uno era linkato, più era importante. Notate che essere i più linkati non significa necessariamente essere i più letti: i tumblr per esempio non fanno che linkarsi, ma portano pochi accessi; per contro ci possono essere personaggi più o meno sconosciuti fuori dalla loro cerchia che hanno comunque accumulato zoccoli duri di migliaia di lettori. Ma questo era abbastanza irrilevante. Stare in classifica significava semplicemente essere al centro della nuvola. Poi però secondo me la nuvola si è dissolta, oppure è entrata in un’altra nuvola più grande, insomma, la butto lì, ma secondo me da facebook in poi le classifiche hanno smesso di avere senso. Non segnalano più il vero traffico, che oggi passa per i social network ed è oggettivamente molto più difficile da tracciare. Ma insomma, il mio pezzo più linkato su blogbabel risale al 2007, votate Rosy Bindi alle primarie del PD, rendetevi conto. È possibile che non abbia più scritto nulla di altrettanto interessante? Voglio dire che l’altra sera, mentre mi addormentavo, ho scritto un pezzo praticamente con un occhio solo, mi è uscito un po’ approssimativo, ebbene, nel giro di due giorni quel pezzo ha totalizzato più di tremila accessi, se fossimo ancora nel 2010 sarebbe a metà di questa classifica, e stavolta non è neanche servito facebook, sapete cos’è successo? L’ha linkato Ok No Virgilio, esatto, esiste ancora, e se ti trova qualcosa d’interessante ti manda tremila accessi in due giorni. Ma le classifiche non se ne accorgono. Ma a questo punto vale la pena, mi chiedo, accorgersi delle classifiche? Ci rispondiamo da soli: abbiamo smesso di leggerle, piuttosto andiamo su friendfeed a contare i like. Comunque secondo Google Analytics i cinque pezzi più letti del 2010 sono i seguenti:

5. Cattiva Giovanna
Io non ho cambiato idea: lo spot è divertente e autoparodico, e non offende il corpo delle donne più di quanto non prenda per il culo il desiderio maschile (le donne dello spot sono vestite, brave a verniciare, fanno tutto loro, il maschio è un pirla guardone). Però probabilmente in luglio non avevo idea della posta in gioco. Insomma, c’è una guerra, là fuori, e gli spot beceri sono campi di battaglia. Poi un bel giorno arrivo io, pretendo di fare il solito pezzo semiologo un tanto al chilo, fenomenologia del fernovus + abbasso qualsiasi censura, e scoppia il casino. Lì si è vista la potenza di facebook, perché un certo pubblico qui non c’era mai arrivato. Hanno lasciato cose fantastiche, una mi ha scritto che le donne non fanno più le serve, al sud ce ne sono che portano i camion. Mi hanno detto che non potevo costringerle a vedere questo spot – in effetti no, non posso e nemmeno ci tengo, ma forse vi sfugge il problema: al massimo siete voi che avete costretto me a non vederlo più in tv. Va bene, ho sbagliato, volevo far salotto nel bel mezzo di una guerra. Del resto avete ragione, tutti questi culi e queste tette sono una vergogna – però spiegatemi perché Brava Giovanna siete riuscite a rimuoverla mentre il sedere di Belem è rimasto sodissimo al suo posto. Ah, no, pare che lo stiano togliendo. Ok, state vincendo, mi arrendo.

4. Uno, cento, mille Cossiga
Non si sa mai cosa può decidere il successo di un pezzo, ma in generale non è quasi mai quello che c’è scritto sopra. Certe volte è il titolo. In questo caso piuttosto le foto. In margine a un articolo tutto sommato sensato in cui si ipotizzava la presenza di infiltrati alle manifestazioni studentesche, le foto di un manifestante ragazzino che durante gli scontri di Milano sembrava collaborare con la polizia, foto che anche grazie a questo sito hanno fatto il giro d’Italia. Di solito non cancello gli errori che faccio, mi sembra giusto che finiscano nell’archivio anche loro. In questo caso le foto le ho tolte, perché mi è sembrato che danneggiassero il messaggio. Si è saputo che quel ragazzo non era un infiltrato, ma appunto, il pezzo diceva che chiunque può essere infiltrato senza volerlo: basta fare esattamente la cazzata che si aspettano che tu faccia. Cossiga insegna, dobbiamo esser fessi per non voler imparare.

3. Nella polvere ci ritroveremo
In gergo si chiama OS war. Scrivere un pezzo anti-Apple, o filo-Apple (ma funzionano meglio i primi). Come sparare ai pesci in un barile, salvo che i pesci fanno un po’ pietà, i fanboy Apple no, nessuna. Diciamo che è troppo facile così, diciamo che a ogni blog è concesso scrivere un pezzo del genere una volta ogni cinque, vah, dieci anni. È una promessa. NdB da un anno a questa parte ho rotto solo un laptop e un disco mobile.

2. Alle mie quotidiane verginelle
Pezzo di berlusconologia emotiva. Ve l’ho detto, questa roba invecchia in fretta, ma se la scrivi al momento giusto è irresistibile. È buffo, a distanza di mesi è difficile ricordarsi di cosa si trattasse – dunque, il PdL era stato escluso dalle elezioni della regione Lazio per un problema di timbri, ed era partita tutta una mobilitazione stile Repubblica, Noi Non Ci Stiamo, Noi Abbiamo Sempre Avuto Tutti I Timbri In Regola (che posso dirvi, beati voi), Fotografiamoci con il nostro certificato del  catasto in ordine. Insomma, si sentiva nell’aria la necessità di un pezzo cinico. Questo è stato anche segnalato dal New York Times, che deve avere un algoritmo strano; ho persino provato a tradurlo, non so se ci sono riuscito.

1. Eliminato
In un anno in cui ci hanno lasciato, tra gli altri, Beniamino Placido, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, Edoardo Sanguineti, Bekim Fehmiu, Lelio Luttazzi, Cossiga, Monicelli, Bearzot, l’unico coccodrillo a finire nella top 10 (ma al primo posto) è quello su Pietro Taricone. Anche in questo caso il titolo ha fatto discutere, per via del cinismo. Ecco, vorrei dire che a volte io faccio tutto il possibile per sembrare cinico, ma stavolta mi è venuto spontaneo, non me ne ero assolutamente reso conto. Il titolo l’ho trovato alla fine, era la conclusione di un ragionamento che stavo facendo: il vero show Taricone lo ha giocato dal 2001 in poi, quando uscito dalla casa ha smesso di “essere sé stesso” per cercare di diventare qualcosa di migliore. Ogni tanto ci capitava di ritrovarlo, al tv, o al cinema, e in generale si faceva il tifo per lui, sembrava che potesse farcela. E poi un giorno ha smesso di esserci, di colpo; e la cosa mi fa ancora, se ci penso, una certa impressione. Eliminato. Non volevo offendere nessuno, non mi pare ci sia niente di male nel prendere la vita come un gioco. Mi sembra perfino una bella epigrafe, “eliminato”, personalmente non la vorrei sulla mia tomba, ma solo perché non sento di meritarmela: mi sembra piuttosto (soprattutto se mi confronto con uno come Taricone) di essere un panchinaro storico. Fine della top10.

Non trovate che manchi qualcosa?
Io sì. I pezzi belli. Ecco, tra i dieci più letti, o segnalati, o visitati, non ce n’è nessuno che avrei votato io. Sembra proprio che abbiamo gusti diversi: a me piacciono i raccontini, ai lettori le parolacce. Veniamo a un compromesso: raccontini con più parolacce? Non so, ditemi voi.

essere donna oggi, medio oriente, rivoluzioni, Veltroni

Ma quest’Africa, poi, dove sta?

Professione Disastro

Quello che è riuscito a fare Walter Veltroni nelle ultime settimane è incredibile. Stupefacente anche per chi pensava di conoscerlo un po’, Walter Veltroni; di essersi assuefatto, a Walter Veltroni. No. Veltroni ha questo, che riesce a essere sé stesso e a stupirti lo stesso sempre.

Vogliamo riassumere? Due settimane fa – Silvio Berlusconi era già discretamente a mollo nelle sue stesse secrezioni – Veltroni pensò bene di convocare un’adunata della sua corrente, un Lingotto Due dove lanciò, tra le altre, l’idea fantastica di una patrimoniale. Fantastica, sì, peccato che la presentò in un modo per cui praticamente la dovremmo pagare un po’ tutti, la patrimoniale di Veltroni. A questo punto, ed è un’incredibile coincidenza, no? Un vecchio amico di Veltroni, praticamente uno di famiglia, Giuliano Ferrara, si è scrollato di dosso la polvere clericale che si era accumulata in anni di abbandono, ed è tornato a contare qualcosa nello staff berlusconiano. Esempio commovente di topo che non abbandona la nave che affonda, Ferrara ha scritto per conto di Berlusconi una commovente letterina in cui scongiura Bersani di non fare la patrimoniale. Bel colpo, no? Bersani (che ovviamente ha dovuto respingere la proposta) si è ritrovato cucito addosso una patrimoniale che non era nel programma del PD. La ha anche sconfessata pubblicamente a Ballarò – troppo tardi, tra un po’ si va a votare e il PD sarà presentato come il partito che vuole carotare tutti gli italiani con una casa di proprietà. Tutto questo dimostra che Ferrara non è ancora un vecchio arnese, e poi? Che altro dimostra? Ah, sì. Che Veltroni è… Veltroni. Ma si può essere più disastrosi di Walter Veltroni? Si può fare? Qualcuno può superarlo?

Ma certo che si può. Veltroni stesso, ad esempio: lui può. Non c’è limite. No limits. Ieri è morta la dolce Maria Schneider, e voi direte vabbe’ che c’entra. Cosa vuoi che c’entri. Assolutamente nulla, uff questi blog che saltano dal palo alla frasca. Sì, ma aspettate. Vi ricordate, vero, che Veltroni è uno studioso di cinema? Che ne conosce a mucchi, di cinema? Che scriveva le trame dei film in tv per il Venerdì, nello stesso periodo in cui faceva non so se il Ministro alla cultura o il Vicepremier o il segretario dei DS al minimo storico o tutte e tre le cose? Ebbene, Veltroni ha voluto scrivere il coccodrillo per Maria Schneider. Bene: è un esperto, scriverà cose belle su di lei. Bof. Cinque righe, non molto originali, senza un solo apprezzamento per le sue qualità di attrice.

Maria Schneider era bellissima. Di una bellezza assai rara. Era sfrontata, con il suo corpo rassicurante. Era angelica, con quello sguardo da adolescente impertinente. La sua sensualità era moderna, un impasto di solitudine e nevrosi. Era, esteticamente, figlia del ‘68 e della rivoluzione femminista. Era una ragazza del suo tempo. Un tempo giovane, per la vecchia Europa.

Par di capire che era bella e basta. Ma aspetta. Dove sta andando a parare?

Ci pensavo guardando in queste ore le immagini delle rivolte nel Nord Africa. In piazza sono tutti giovani, segno di società dinamiche. Ma, in piazza, sono tutti uomini. Indice di comunità che negano diritti fondamentali e protagonismo alle donne.

No, ma sul serio? Quindi insomma Walter “Vado-in-Africa” Veltroni non ha la minima idea di quello che sta succedendo al Cairo? E ci tiene comunque a dircelo? A lanciare il suo messaggino di ignoranza benpensante ad usum del lettore della Stampa, affinché tutti noi possiamo, domani, al bar, sentire più forte e chiaro il tizio che Signora mia, se va via Mubarak quelli metteranno le donne sottochiave? Roba che neanche Christian Rocca, ormai?

Via Lia, allego una gallery di foto di donne che stanno manifestando al Cairo. Adesso. Si trovano su Internet, una rete di condivisione delle informazioni di cui forse Veltroni non ha sentito ancora parlare. Va bene, non importa, è ancora un giovane, diamogli tempo, ne abbiamo così tanto.

arti contemporanee, dialoghi, essere donna oggi, pubblicità, vita e morte

Secoli di secoli di frrrrrrrrrrrr


Attenzione: Questo pezzo contiene lessico piuttosto esplicito. I minori possono leggerlo solo se accompagnati.

Toc toc.

“Chi osa bussare alla Cripta del Creativo?”
Dunque, ecco io… avevo un appuntamento, rappresento un consorzio di pellai…”
“Parola d’ordine”.
“Chi mi ama mi segua”.
“Puoi entrare”.
“Grazie. Dunque, non so se ci siamo presentati al telefono, io… vengo a nome di questo consorzio di pellai che vorrebbe rilanciare la propria immagine e così… avevamo pensato di rivolgerci al Sommo…”
“Guarda, personalmente a me non fotte una sega di chi sei e cosa vuoi. Basta che tu abbia portato ciò che ci occorre. Hai il sangue?”
“Ma certo, ecco qui. Sette litri di sangue di vergine”.
“Bella tanica. Sicuro che è di vergine?”
“Eh, mi fa una bella domanda”.
“Perché se non è di vergine poi succedono i casini. Gruppo sanguigno?”
“Ecco, appunto, io… non volevo rischiare, e così ho preso un misto”.
“Mmmh. Ce lo faremo andar bene. Seguimi nel fondo della cripta, occhio al…”
“Ouch!”
“…Terzo capitello a destra, vedo che lo hai già incontrato”.
“Certo che fa freddo qui”.
“La temperatura ottimale per la conservazione. Eccoci arrivati. Il Sommo è lì, oltre la soglia di questo portale funerario. Sei pronto a incontrarLo?”
“Ho i brividi”.
“È comprensibile. Dunque, per prima cosa: non parlare e non Lo guardare negli occhi finché non Gli avrò somministrato il sangue. Solamente dopo, forse, potrai parlare. Ehi, ma ti senti bene?”
“Io… cerchi di capirmi, l’immagine del mio consorzio dipende da questo meeting”.
“Fidati di noi, sei in buone mani. Ora entriamo”.

Screeeeeeeeeeeeeeeeak

“Dio mio”.
“Dio non c’entra molto, come puoi ben capire. Non guardarLo!”
“Ma… non mi sembra che respiri”.
“Sssssssssssssst! Non ne ha bisogno! Ora Gli apro la bocca… uff, non viene. Certi giorni è proprio duro… Senti, dammi una mano”.
“Eh? Cosa devo fare?”
“ReggiGli la testa mentre cerco di aprirGli la bocca… su”.
“Ma non morde?”
“In linea di massima no”.
“Dio mio, chi potrebbe crederci, io sto… sto tenendo in mano la testa del Maestro”.
“Dio non c’entra niente, ribadisco. Ecco, ora infilo l’imbuto, tu versa pure dalla tanica”.
“Sette litri di sangue? Ma non sborderà?”
“Eh, anche a me sembrava strano le prime volte. No, è insaziabile. Guarda come va giù, non ne lascia un goccio”.
“Certo che è una dieta costosa, eh”.
“Vale tutti i soldi che è costata, come ben sai. Ecco”.
“Sta… sta cambiando colore!”
“Allontanati, adesso può mordere”.
“Si sveglia?”
“Non è mai veramente sveglio, e non è mai veramente… in sonno”.

Wrgrwgrgrgrggrgrg”.



“Sta parlando! Cosa dice?”
“Nulla di intellegibile per ora. Parla tu”.
“Ma cosa Gli devo dire?”
“Adulalo. È assai sensibile ai complimenti”.
“Sì, dunque, ehm…. O Maestro, o Luce dell’italico ingegno”.

Wgggrrrgrgrgrgrgrgr



“Vado bene?”
“Vai, vai, ti ascolta”.
“O Creativo dei Creativi, anzi, unico Creativo Italiano, del passato del presente e del futuro; nulla esisteva prima di Te, nulla sussiste dopo di Te, se non copiato da Te…”

Wgrrgrgrgrgrgccccucucucuc”.



“O Sommo Maestro, fosti tu e tu solo a rivoluzionare la pubblicità italiana, con quel cartellone di cui ancora oggi tutto il mondo parla, la campagna per i jeans… tu solo sapesti trovare l’immagine adatta al prodotto”.

WrrgrgrgrgrgrgrgrgcccccCULO!

“Vai bene, vai bene, lo hai svegliato.”

“CULO! grgrgrgr CULO! CULO!”


“O Maestro, come possiamo ricordare una per una le tue geniali innovazioni… le centinaia di campagne in cui tu mostrasti al mondo le…”


wrgrrgrgrggrg PUPPE!”



“Le nuove frontiere del comunicabile”.

“TETTE!”



“…Sì, anche quelle, sì”.

CHIAPPE! Werrghgewheg. CHIAPPE!”



“O Maestro, passano gli anni, eppure il tuo sguardo puro sul mondo non si appanna e ci regala sempre nuove…”

TETTE!”



“…Formidabili campagne, tra le quali vorrei ricordare quella meravigliosa elaborata più di dieci anni fa per Famiglia Cristiana”.

“CHIAPPE!”

“…E quella ancor più geniale, elaborata dieci anni dopo, per l’Unità”.

CHIAPPE!”


“O Maestro, così pura e originale è la tua arte, che tu riesci a trasformare in un capolavoro anche un’affissione di cibo per cani, mostrando...”

PUPPE!”



“Che il tuo genio non decade con gli anni. Ebbene, è a te – e a chi altri? – che ha pensato il mio consorzio, o Sommo”.

CU-LO! TET-TE! CU-LO! CU-LO! TET-TE!”



“Maestro sì, forse siamo stati troppo impudenti a ricolgerci a Te, che hai lavorato con i più grandi maestri del….”

“CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE



“…d’altro canto, o Sommo, che dovevamo fare? Rivolgerci a un giovinastro? a un cialtrone dilettante che senz’altro avrebbe copierebbe una Tua idea?”

“IDEA?”

“Ehi, ha detto Idea, hai sentito?”
“Sì, capita”.

“TETTE!”



“… e quindi insomma, Maestro dei Maestri, Tu solo hai parole di successo sempiterno, ed è Te pertanto che prostrati supplichiamo di rinnovare la nostra immagine”.

“IMMAGINE?”



“Sì”.

“TETTE-TETTE-TETTE-TETTE!”

“Sento che stai già elaborando qualcosa, o Maestro. Vedi, noi del consorzio pellai, stavamo pensando a un calendario, e così…”

“TETTE!”

“Sì, maestro, ho capito, le tette, un’idea senz’altro interessante, però… Maestro, noi vorremmo qualcosa di nuovo”.

“PUPPE!”

“…perché francamente, adesso, non vorrei offenderTi, però… un calendario con le puppe, da qualche parte… s’è già visto”.

“CHIAPPE!”

“Ecco, Maestro, sì, le chiappe, che idea brillante, perché no… e tuttavia…”

“CHIAPPE-CHIAPPE-CULO-CULO”.



“Insomma Maestro, io non so se ti rendi conto di quanto mi costa questo meeting, in termini di sangue di vergine al litro”.

“WRG? RGR?”



“Ops”.

“GRGRGGRGRGRGRGRG!”

“Ehi, attento a dir così. Lo ecciti”.
“Il fatto è che… insomma, Maestro, io credo tantissimo in Te… Possibile che Tu non abbia un’altra idea, qualcosa di veramente nuovo? Sono realmente venuto qui soltanto per sentirti dire Culo e Tette? Per carità, non dico che siano brutte idee, ma…”

“Wrrrhgrgrgrggrrgrgrgrgrf f ff f ff”

“E adesso cosa fa?”
“Non lo so. Mi sa che lo hai offeso”.
“Ah sì?”
“Nessuno gli aveva mai osato rispondere come gli hai risposto tu. Hai avuto del coraggio”.

“Rrgrgrgrgrf f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”



“Si sta addormentando, forse”.
“No. Mi sembra piuttosto che… elabori”.
“Elabora?”

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”



“Sicuro che non stia per esplodere?”
“No”.

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fff”.



“Maestro, ti scongiuro, perdonami per la mia impudenza… non esplodere… non lasciare il mondo orbato di Te, unica fonte di creatività… che mondo triste resterebbe… un mondo senza colori, senza culi, senza tette, senza…”

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fRRRRRRR! FRRRRRRRRRRRR!”



“Maestro, stai forse cercando di dirci qualcosa?”

“f f ff f fFFRRRRRRREGNA! FREGNA! FREGNA!

“Mio Dio! È successo!”
“Dio non c’entra niente. Dio non c’entra niente”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”



“Ha avuto un’idea. Nuova. E io c’ero. L’ho visto”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“C’ero mentre la concepiva, mentre la portava alla luce! Ho assistito al parto, all’illuminazione!”
“Sei davvero fortunato. Non è capitato a molti”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Sommo Maestro, se mi è concesso interpretare le Tue parole oracolari, Tu vorresti che nel nostro calendario noi mostrassimo una fregna, è così?”

“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“Geniale. E gennaio è sistemato. Ma, o Sommo, a febbraio che si fa?”

“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Fantastico. Uno dopo gennaio si aspetta un’altra cosa, e invece… tac, uno-due, irresistibile. Maestro, Tu sei l’unico vero genio creatore della postmodernità, ma perdonami… a marzo?”

“FICA!”

“Ecco! È chiaro! Due mesi fregna, e poi fica. Devo prendere appunti. E ad aprile?”

“PATONZA!”

“Ma come Ti vengono. Come Ti vengono. Incredibile. Beh, a questo punto è maggio e si potrebbe anche mettere, che ne so, un unicorno che scorrazza in un prato fiorito, che ne pensi?”

“PASSSSSERA!”

“Ma sì, è chiaro, che sciocco che sono. L’effetto sorpresa, chi si aspetterebbe che a maggio mostriamo una passera, e invece noi… e a giugno?”

“FREGNA! PELOSA! FREGNA! GLABRA! FREGNA! NEGRA! FREGNA! ALBINA!”

“E io che ho osato dubitare di Te. Maestro, sei davvero l’Unico e il Sommo”.

“FICA GRINZOSA! FICA SPANATA! FICA QUALSIASI!”

“Penso già ai lanci di agenzia. Le polemiche. I giornalisti. Le femministe. Boxino del Corriere e Gallery di Repubblica assicurati”.

“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“E mediante questa accorta strategia mediatica, noi presto raggiungeremo la…”

“FREGNA! FREGNA! FRFRFRRRRRRRRRRRRRR!”

“L’attenzione del nostro target. Maestro, vale ogni goccia del sangue che ho versato, questa idea che…”

“IDEA?”

“Sì, Maestro, una grande, grandissima Idea.

“FREGNA!”

“Appunto. Lunga vita a Te, Maestro”.

“VITA?”

“Se così si può chiamare, non lo so”.

“FREGNA!”

“Mi auguro comunque che possa durare nei secoli dei secoli”.

“SECOLI!”

“Sì”.

“FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! SECOLI NEI SECOLI DI FREGNA! FREGNA FREGNA FRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
Berlusconi, essere donna oggi, ho una teoria

Bunga bunga bufala

Alla fine, se prendi una marocchina scappata di casa e diventata quasi maggiorenne tra la mensa della Caritas e i privè, e le chiedi di raccontarti una storia, lei che ti fa? Che ti può fare? Ti mette insieme quel poco che sa del mondo per averlo letto sotto le foto di Chi: Clooney, la Canalis, la Santanchè, e per regalo Silvio mi fece… boh, un’Audi r8, diciamo. E noi ci caschiamo.

Ho una teoria #47 (il Bunga-bunga è una bufala) è solo sull’Unita.it, e si commenta qui.

Ognuno alla fine è libero di credere in quel che vuole: io, per esempio, in Karima “Ruby” El Mahroug non ci credo. Non credo al bunga-bunga, né ai 7000 euro o all’Audi di Silvio-Caritas. Non credo a nessuna delle versioni che ha fornito, e diffido preventivamente anche in quelle che fornirà di qui in poi. Le sue ex compagne di classe messinesi, intervistate ieri dall’Unità, suggerivano di non credere al 90%: io mi cautelo e getto anche il restante 10%. A farmi dubitare di ogni parola mi basterebbe il racconto del suo terzo incontro con Berlusconi (già abbondantemente ritrattato, ma ci fa capire chi ci troviamo davanti): una cena di sogno in cui Ruby si mette a tavola con Silvio, Daniela Santanchè… George Clooney ed Elisabetta Canalis. Non mi dilungo sui vari motivi per cui un adulto un po’ informato non dovrebbe trovare plausibile una tavolata del genere. Mi domando, piuttosto: a chi può venire in mente di inventarsi una patacca così? A una escort di lusso? No. A una cortigiana di alto livello? No. A una ragazza sotto stress, costretta ad attingere a quel poco che ha imparato del mondo sulle rivistine di gossip? Più probabile. 
In fondo tutto quello che ci restituisce Ruby non è che un collage di foto sforbiciate da un’enorme rivista. La foto di Clooney-con-la-Canalis è quella che stona più delle altre, anche se Ruby è un po’ troppo piccola per farci caso. L’Audi R8 è presa di pacca da qualche pubblicità: il regalo più incongruo che si possa fare a una minorenne non patentata, ma tanto ci beviamo di tutto: inquirenti, giornalisti, lettori; non avremmo nessun motivo per credere in tutto questo. Anzi, in fondo sappiamo che probabilmente di vero non c’è quasi nulla: ma ci piace lo stesso. Ci riconosciamo. La rivista che sta sfogliando Ruby è anche la nostra. 
E il bunga-bunga? Possiamo realmente immaginarlo nei dettagli forniti da Ruby? Tutti nudi tranne lei, che serve un Sanbittèr a Berlusconi? Se davvero il bunga-bunga è una pratica diffusa da almeno un paio d’anni nell’ambiente degli scambisti, è molto più semplice pensare che Ruby ne abbia sentito parlare in quell’ambiente. Per quel che sappiamo dei gusti del presidente (e da un paio d’anni ne sappiamo molto più di quanto dovremmo), l’uomo, memore della sua antica carriera di talent-scout, ama seguire i primi passi in società di ragazzine non necessariamente maggiorenni; quando però si tratta di andare al sodo preferisce l’esperienza di donne “vissute” come la D’Addario. In realtà, se Ruby è mai stata una sua protetta, lo è stata per un periodo molto breve. Prova ne è che a pochi giorni da quel famoso arresto, Ruby si sia trovata di nuovo in questura; e che nessuna telefonata, stavolta, nessun consigliere o igienista siano intervenute per salvarla. Ecco, questo è interessante: cosa è cambiato tra il primo arresto e il secondo?
Ho una teoria: la donna veramente interessante in questa storia non è Ruby, ma la sua amica/nemica, Conceicao Santos Olivera Michele, nata in Brasile, classe 1978. Ruby è importante per il premier soltanto finché Michele si preoccupa per lei. Quando viene arrestata per furto il 27 maggio, Berlusconi viene avvisato prontamente: forse addirittura da Michele, che avrebbe un numero d’emergenza per conferire direttamente con lui. (Questa, se confermata, sarebbe la vera notizia, altro che bunga-bunga: c’è una signora brasiliana che ha un numero d’emergenza a cui risponde Berlusconi). Michele riuscirebbe a convincere Berlusconi alla follia di una telefonata in questura, per far consegnare Ruby a Nicole Minetti. Questa a sua volta la riporterebbe immediatamente a Michele. Finché Ruby è con Michele, non corre alcun pericolo: è intoccabile, come la figlia di un Presidente.
Ma quando Ruby litiga con Michele, la “figlia di Mubarak” ridiventa una minorenne scappata di casa come tante. Il 5 giugno in un appartamento della periferia milanese la polizia interviene per interrompere “un litigio tra donne che si ingiuriavano reciprocamente accusandosi di meretricio” (gli stralci del verbale sono stati pubblicati ieri dal Corriere). Ruby riporta “arrossamenti su braccia, schiena e volto”, oltre a un labbro gonfio. Sostiene di essere stata malmenata dalla brasiliana, “che indica come sua affidataria”. Quest’ultima nega: l’affidataria sarebbe “una cara amica di nome Nicole…”, “all’estero e non rintracciabile”. Nessuno chiamerà più Berlusconi sul numero d’emergenza per salvare Cenerentola. Se Ruby ha avuto una vera possibilità di entrare nell’harem, se l’è giocata venendo alle mani con la sua vera protettrice. Ma ora che è sotto i riflettori, nessuno può impedirle di immaginarsi a un passo dal presidente, mentre gli serve da bere durante un complesso rituale orgiastico: e poi tutti in piscina, lei “in pantaloncini e top bianchi, che Silvio mi cercò“. Può essere vero? Non ha nessuna importanza. Quel che importa è che sia verosimile. E purtroppo per Berlusconi (ma anche per noi) lo è.
Ammesso che cada, Berlusconi non cadrà per il bunga-bunga. Cadrà perché ha promesso miracoli, e non ne ha esaudito uno. Cadrà perché i padroncini della Confindustria si sono davvero stancati; perché il problema della monnezza napoletana è strutturale, e certi interventi dell’ultima ora sono peggio del male. Cadrà perché Fini da anni sta cercando il momento buono, e un momento migliore del bunga-bunga sarà difficile trovarlo. Cadrà perché, se andasse avanti, Bossi dovrebbe vedere il bluff del federalismo fiscale: il solo pensiero ha fatto venire al Senatur voglia di tornare all’opposizione, dove può rimettersi a vendere ai suoi elettori secessioni e rivoluzioni impossibili. Ammesso che cada, Berlusconi cadrà per centinaia di motivi, tutti buoni. Ma tra qualche anno forse ci rammenteremo soltanto il bunga-bunga. Perché è facile da ricordare, come tutte le barzellette. E perché assolve tutti i suoi complici.
Hanno creduto in Berlusconi per quindici anni. Lo hanno sostenuto. Quando c’era una torta da spartire hanno avuto la loro fetta. Hanno finto di non vedere gli abusi, le leggi ad personam e quelle ad aziendam. Hanno voluto credere alla bufala del Silvio Statista (una balla credibile quanto quelle di Ruby), e continueranno a crederci. Non è colpa nostra, diranno, se alla fine si è rimbecillito con le ragazzine. Qualcosa di simile successe al re Salomone: il più saggio, il più grande, eppure il suo regno non gli sopravvisse; crollò quasi di schianto. Possibile che il grande re non avesse nemmeno un difetto? Pare che negli ultimi anni avesse esagerato con le concubine. Ma guarda un po’. http://leonardo.blogspot.com
Berlusconi, essere donna oggi, repliche

Il sexgate di San Martino

Sarà che anche il cielo è tornato pulito, ma questo rigurgito di sexgate mi ricorda i bei giorni di primavera in cui si scherzava su Noemi e il misterioso tassista di lei padre. Com’eravamo giovani, e ingenui, pensavamo che su argomenti del genere B. potesse perdere le elezioni… beh, a dire il vero qualche punto in percentuale lo ha pure perso, tempo al tempo… mi piacerebbe scherzarci su con l’energia di un tempo, ma la verità è che non è aprile, è Novembre, ho un sacco di roba da fare e vi mando in onda le repliche. Questo pezzo è del 29 aprile ’09. Spero sia ancora divertente.

Ma Berlusconi, chi lo scuote più?
Una scossa magnitudo 7 gli fa il solletico: va persino a farsi fotografare tra le macerie; regala la dentiera alla vecchietta, e tutti gli vogliono più bene che prima.
Contro il nuovo blocco al potere, nemmeno l’emergenza rifiuti può nulla. Ve la ricordate? Sembrava che dovesse inghiottirsi Napoli. Ma è bastato spiegare ai leghisti del nord e ai masanielli del sud che gli inceneritori andavano rimessi a regime, e voilà.

No, non sarà un terremoto, né lo smaltimento di rifiuti. In questo momento l’unico punto debole del Pdl, il tallone vulnerabile che potrebbe costargli qualche punticino alle Europee, è

lo smaltimento della gnocca.

Perdonate il sessismo – anzi, no, perché mai dovreste perdonarlo? Accusatelo, fatelo risuonare nei lobi frontali come gesso spezzato alla lavagna, saggiatene la volgarità ottusa alle ironie. La gnocca è un annoso problema di questa maggioranza, di questo premier. Ne consumano troppa, non sanno più dove smaltirla. La spatolano sui palinsesti tv fino all’esaurimento, e ancora ne avanza. Ne hanno stoccata un po’ a Monte Citorio, ma adesso per cinque anni il sito è pieno e non possono riaprirlo – e quindi? Si sente parlare di un convoglio che dovrebbe partire, un treno per Bruxelles. Ma non sarà facile spiegare agli europei che il loro parlamento è stato individuato come sede di stoccaggio.

Il principale responsabile, una volta tanto, è lui. Berlusconi adora la gnocca, è cosa nota: ma la passione che fino a qualche anno fa poteva ancora avere un significato virile, a settant’anni suonati ha assunto aspetti parossistici, inquietanti. Un uomo che da molti anni dovrebbe aver soddisfatto qualsiasi desiderio, realizzato qualsiasi fantasia, si circonda di gnocca, ci si avvolge, se ne fa schiacciare. Non è più *sesso* nel senso che diamo alla parola noi monogami malsicuri. Berlusconi sembra aver trasceso da un pezzo il regno animale, per approdare a una dimensione vegetale in cui la gnocca gioca il ruolo di fertilizzante: si sparge tutt’intorno, e la pianta riprende vigore. Tutto bene, anzi no, perché il fertilizzante esaurisce in fretta le sue proprietà, e va sostituito costantemente. In mancanza di dati certi, è ragionevole supporre che la stessa portatrice di gnocca non possa essere riutilizzata che tre, quattro volte: dopo basta, fine, non serve più, andrebbe sbattuta via. Ma lo smaltimento comporta grossi rischi.

Non importa che sia ancora giovane, bella e ambiziosa. Importa molto di più che sia in grado di parlare, di comporre un banale numero di telefono e contattare questo o quel giornalista incauto. Tra qualche anno forse il problema non si porrà più, i giornalisti saranno tutti sul libro paga giusto e capiranno che non è cosa: ma fino a quel momento la possibilità di alienarsi qualche voto (e la simpatia dei preti) è concreta, più concreta delle polemiche sulla Costituzione. Da qui la necessità di uno smaltimento compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle signorine. Per esempio, hai sempre sognato di fare l’attrice, la presentatrice, la soubrette? E come si fa a negare una carriera tv a chi è stata adoperata per fertilizzare Berlusconi (o per comprare uno dei suoi collaboratori, succede pure questo)? Lo scambio di favori tuttavia è estremamente sproporzionato. Se devi assicurare dieci o più anni di carriera a tutte le signorine che hanno passato un week end col capo, o coi suoi alleati più influenti… ti rendi conto rapidamente che sei, sette frequenze nazionali non ti bastano. E si arriva a programmi-monstrum, come Bellissima.

Bellissima era un programma del Bagaglino senza i due comici del Bagaglino, ma con… quattro quintali di gnocca in più. Cioè, muore il grande Oreste Lionello? Compensiamo con la gnocca. Il grande Gullotta dà forfait? E noi ci sbattiamo dentro altra gnocca, non importa se over 40 e un po’ fanée. Si capisce che tutta questa gnocca crea problemi strutturali, ovvero: prima tra un balletto e l’altro ci stavano le scenette, ma adesso? Adesso ci mettiamo la lapdance, in prima serata, per la gioia di vecchi e bambini. Il tutto nella settimana del terremoto, perché ci sono priorità che vengono sopra ogni considerazione di audience, e una di queste è l’allocazione di gnocca in surplus. Poi hai voglia a dire che è stato un flop – non credo che si aspettassero un successo di critica e pubblico. Hanno tagliato una puntata su quattro, ok, ma intanto per tre serate abbiamo potuto rifarci gli occhi con, con, con… Pamela Prati. Dico, voi ce l’avete presente Pamela Prati? Piantatela di dire che Berlusconi è immortale, concentratevi su Pamela Prati. In una soffitta di casa sua deve custodire il ritratto di un cadavere purulento. Io non mi ricordo di averla mai vista giovane, era una milf quando frequentavo le elementari, e adesso guardala, dà punti alla Novic. Se davvero non vogliamo più programmi come Bellissima la dobbiamo abbattere, non c’è altra soluzione.

No, una soluzione ci sarebbe: riconvertirla in parlamentare. Un vero uovo di Colombo, anche perché di solito le onorevoli portatrici di gnocca sono docili e non creano problemi. Certo, qualche caso imbarazzante c’è stato e tuttora c’è (ex presentatrici che vogliono chiudere internet, ecc.), ma di solito attirano l’attenzione di un pubblico di nicchia e non provocano nessuna crisi di governo; nel contempo, accrescono l’immagine di Berlusconi-galletto nel pollaio, che piace ai giovani. In questi casi, più che di smaltimento della gnocca, si potrebbe anche parlare di riciclaggio: le scorie della gnocca vengono riconvertite in consenso politico. A Bruxelles questo potrebbero anche capirlo, e provare a venirci incontro. In fondo Berlusconi sta facendo quel che può in direzione di un consumo della gnocca eco-sostenibile…

…ma non ci cascheranno. Nessun tipo di riciclaggio politico, cinematografico o televisivo, può davvero reggere i ritmi attuali di consumo. Pensate a quella ragazza che ha appena avuto Berl. al suo 18mo compleanno. Non so cosa B. abbia fatto o intenda fare con lei o la di lei mamma, e nemmeno m’interessa, ma facciamo due conti: questa vorrà essere sistemata prima o poi, e comprensibilmente. È convinta di essere brava (“perché io so fare tutto”), una nuova Cuccarini, e chi si prenderà la briga di dirle di no? Va messa a contratto. A Cologno, a Saxa Rubra, Monte Citorio, Strasburgo, vedete un po’ voi, dipenderà anche dalle inclinazioni. Ma non hai fatto in tempo a sistemarne una così che tutt’intorno te ne sono spuntate altre cinque, è una gara persa in partenza.

E allora? Che fare? Si potrebbe semplicemente attendere che Berlusconi ci resti – in fondo non c’è fine migliore da augurare a un nemico. Ma l’impressione è che la gnocca, lungi da indebolirlo, lo tenga in vita. È il bromuro che lo schianterebbe. Il che vuole anche dire che l’uomo che ha comprato l’Italia, in fin dei conti non sa che farsene. Non è mai veramente riuscito a sublimare in brama di potere le sue banalissime pulsioni carnali. Qualcuno ha detto che comandare è meglio di fottere, ma non pensava a lui.

L’unica soluzione in vista è l’irrigidimento. Quel che rende instabile il sistema non è l’insaziabilità di B., ma i margini di libertà e di espressione che ancora vengono concessi ai cittadini, comprese le portatrici di gnocca. Bisognerà concentrare un po’ di più l’editoria, ed educare le giovani generazioni a darla a B. per il gusto di farlo, senza pretendere contropartite televisive o parlamentari. Tempo al tempo, e intorno al Palazzo fioriranno leggende: il mostro che vi abitava pretendeva due vergini ogni primo giorno del mese.

essere donna oggi, ho una teoria, migranti

Le nostre parole, la vostra pelle

Safiya Husaini e Amina Lawal vivono in Nigeria. Quando sono state condannate a morte, l’opinione pubblica si è indignata. I politici hanno recepito. Il governo si è mosso. La diplomazia italiana ha fatto tutto il possibile per salvarle. Se fosse servito, magari le avremmo anche offerto asilo, come prevede la nostra Costituzione. Un posto per loro lo avremmo trovato. O no?

…no, temo di no. Per Faith, per esempio, non c’è più posto (sull’Unita.it, i commenti sono qui).

Quando nel 2001 una corte islamica nigeriana condannò Safiya Husaini alla lapidazione per adulterio, la politica italiana non rimase a guardare. Una cinquantina di senatori sottoscrisse una mozione che impegnava il governo Berlusconi “a promuovere un’azione diplomatica diretta ad impedire l’orrenda esecuzione; più in generale ad adoperarsi affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all’asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Al di là dei discorsoni è difficile ricostruire cosa abbia fatto in concreto il governo: magari un richiamo all’ambasciatore, questo tipo di cose. Alla fine comunque la Husaini fu assolta.
Un anno dopo un’altra corte nigeriana condannò Amina Lawal Kurami alla stessa pena capitale per lo stesso reato. E anche in questo caso la politica italiana non si tirò indietro. Il nostro ambasciatore andò a parlarne col Ministero degli esteri nigeriano. Come riferì poi alla Camera il Sottosegretario di Stato, Margherita Boniver, il Ministro si dimostrò “molto comprensivo dell’interesse riservato al caso da parte dell’opinione pubblica, della società civile e delle istituzioni del nostro paese”. Nel frattempo a Roma l’incaricato d’affari della Repubblica federale di Nigeria veniva convocato alla Farnesina, che gli comunicava “l’emozione enorme suscitata nel nostro paese dalla vicenda giudiziaria della signora Lawal”. Anche questo diplomatico volle rassicurarci, confermando che “che il Governo federale è ben consapevole delle reazioni suscitate in Italia e nel mondo dalla sentenza e della necessità che la Nigeria rispetti i suoi impegni internazionali in materia di diritti umani”.
Tutte queste, beninteso, sono solo parole.
Ma non significa che non siano importanti. La diplomazia si fa con le parole, la politica è fatta di chiacchiere, e la vita di Safiya Husaini e Amina Lawal è stata salvata anche dall’enorme volume di chiacchiere che l’opinione pubblica e i politici hanno prodotto sull’argomento. Se tutto quello che puoi fare per salvare la vita a una persona è parlarne, tu ne parli. In parlamento, alle ambasciate, ovunque puoi.
Nelle prossime settimane un’altra donna nigerianaFaith Aiworo, dovrebbe essere processata. Il suo caso è un po’ diverso (Faith avrebbe ucciso un uomo che cercava di stuprarla), ma il rischio di una condanna a morte è comunque concreto. I giornali italiani ne hanno parlato – non tutti, per la verità. Ora si tratta di vedere cosa farà la politica, come si muoveranno le istituzioni. Il Senato produrrà un’altra mozione, com’è successo con Safiya? Convocheremo i diplomatici, come successe con Amina? Arriveremo al punto di disturbare il Ministro degli esteri nigeriano? Possiamo sperarci, ma per come si sono messe le cose è difficile che accada. E questo non perché Senato e Camera siano assorbiti dalle scissioni e compravendite degli ultimi giorni. Il problema è un po’ più grave.
Il fatto è che Faith Aiworo, ai nigeriani, l’abbiamo consegnata noi.
Per salvarsi dal boia, Faith era scappata in Italia. Un Paese storicamente molto sensibile al problema dei rifugiati, anche perché molti antifascisti sopravvissero rifugiandosi nei Paesi vicini. Quando tornarono, e il fascismo fu sconfitto, vollero iscrivere nei principi fondamentali della nostra Costituzione il diritto d’asilo, per “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (art. 10). Ma Faith è entrata in Italia da clandestina, e con i clandestini sembra che la Costituzione non funzioni più. A un certo punto abbiamo stabilito, senza dirlo troppo in giro, che non sono esseri umani; e quindi possiamo impacchettarli e renderli al mittente senza preoccupazioni.
Per questo è difficile che stavolta la politica italiana faccia qualcosa per “promuovere un’azione diplomatica diretta ad impedire l’orrenda esecuzione”; che si adoperi sul serio “affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all’asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Del resto cosa potrebbero fare, ormai, parlamentari e diplomatici, a parte produrre un po’ di chiacchiere. Certo, ogni volta che chiacchierando potevamo contribuire a salvare una donna condannata a morte, non ci siamo risparmiati. Ma stavolta occorreva qualcosa di più: l’ospitalità. Safiya, Amina, più che donne per noi erano teorie. Si potevano tranquillamente salvare da lontano. Ma Faith viveva tra noi, occupava un posto; e un posto per salvare una donna schiava, senza diritti e senza dignità, in Italia evidentemente non c’è più.