cinema, essere donna oggi, fumetti, miti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici – ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un’arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti – neri, bianchi, grigi – non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz’altro lo sanno. Magari – se sopravvivono – te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l’uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman – e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d’azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),

No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man…), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell’anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 – Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d’azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell’esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c’è davvero chi ha aspettato il 2017, e l’arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c’è un’eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l’hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.

C’è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! – malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale… (Continua su +eventi!)

1500 caratteri, famiglie, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Emiglio è ancora meglio?

Secondo me è andata così: a metà anni Novanta qualcuno alla Giochi Preziosi scrisse un numero sbagliato su un documento. Una virgola spostata, o uno zero in più. Cose che succedono.

Il risultato è che il signor Preziosi ha capannoni dismessi pieni di Robot Emiglio, e continua a comprare spazi pubblicitari sotto le feste per ricordarci che Emiglio è meglio. Lo stesso spot (non questo) da dieci anni. Lo stesso robot di plastica che andava ai tempi della Fiat Tipo. Stavano sostituendo i telefoni a gettone coi telefoni a schede magnetiche. Se siete passati per qualche negozio di giocattoli sotto le feste avrete visto uno dei simboli del lato oscuro del Natale – la piramide degli scatoloni di Robot Emiglio. Costa pure un sacco di soldi.

Voi però nel negozio ci andavate per cercare i Paw Patrol.

Non li ha promossi nessuno. Sono introvabili. Quando arrivate alla corsia giusta, tra l’oggettistica dell’orsetto Paddington e il merchandising di Peppa in offerta speciale da due anni, c’è il classico buco. Sono gli animaletti di Paw Patrol. Nessuno intendeva venderteli a Natale. Poi Cartoonito aveva un buco nel palinsesto e lo ha riempito con le repliche del simpatico cartone animato in cui i cuccioli forniscono servizi socialmente utili in cambio di crocchette.

E adesso Skye è introvabile.

Skye è la cucciola che pilota l’elicottero – è anche l’unica di cui si può desumere il sesso femminile (secondo me è femmina anche il dalmata pompiere, ma non è chiaro). Il lupetto poliziotto e il bulldog cantierista te li tirano dietro, ma Skye non si trova. Tutti i negozi di giocattoli di tre popolose province italiane. Amazon. Ebay. Niente. Santa Lucia non ce l’ha fatta, e ha passato la pratica a Babbo Natale. Babbo Natale ha chiesto alla Befana. La Befana ha proposto uno sconto sul robot Emiglio.

(E anche queste feste ce le siamo messe alle spalle. Sarà un grande 2016).

cristianesimo, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Il Natale è solo relativista culturale (rassegnatevi)

Ci sono idee talmente buone che hanno funzionato per millenni. Ad esempio qualcuno a un certo punto (terzo secolo?) prese la festa pagana in cui si onorava il Sole, trionfante dalle tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno, e ci appiccicò la storia evangelica di una sposina in cerca di alloggio per la notte che partorisce il salvatore dell’umanità.

Vedo l’asino, vedo le pecore, ma dov’è il bue?

Quel tizio sconosciuto trasformò la festa dell’imperatore nella festa dei pastori, e dei poveracci in generale; si impadronì del giorno in cui si celebrava l’unità dell’impero, e lo trasformò nella notte in cui un forestiero bussa alla tua porta, ti chiede ospitalità e ti porta la Luce del Mondo. Quel tizio era un genio, basti vedere quanto la sua idea ha funzionato.

Per contro, quei signori che vogliono prendere la festa del bambino galileo nella stalla giudea, e trasformarla in un Vessillo dell’Occidente da sventolare in faccia ai nuovi arrivati, ecco, siccome non sono i primi che ci han provato, per loro credo di avere una cattiva notizia.

Non funziona. Magari per qualche anno, ma più probabilmente no. Vi si sgonfierà il pandoro, vi cascheranno gli angeli dalla stalla del presepe. Lo spumante saprà di tappo e anche quest’anno nessuno vi porterà il regalo che avevate chiesto. A chi lo avevate chiesto, poi: al Dio che chiude la porta in faccia ai forestieri?

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, tv

(In tv) un altro Natale è possibile!

Prima o poi arriva per tutti il momento. Non importa quanti Natali abbiate già alle spalle, e quanti ne abbiate passati imparando a memoria Una poltrona per due, o Tutti insieme appassionatamente, o La vita è meravigliosa. Prima o poi arriverà, anche per voi, il momento in cui in cui sbadigliando sul divano vi accorgerete che vi si siete rotti le… come chiamarle… palle di Natale, ecco, quelle dell’albero ovviamente. Eppure un altro Natale è possibile. Ecco qualche titolo assolutamente natalizio ma un po’ meno banale.

  • La vita sarà anche meravigliosa, ma alla lunga…


No, non farlo, non buttarti. Ci sono tantissimi altri vecchi film in bianco e nero che ti aspettano per infonderti tutta la natalizia gioia di vivere che ti serve. Persino in tv, se aspetti un po’ o frughi col telecomando un po’ più in basso, puoi trovare altre cose meravigliose: Angeli con la pistola è l’altro titolo di Frank Capra che finisce più spesso nel palinsesto, ma non è così rigorosamente natalizio. Comincia invece e finisce a Natale un altro suo capolavoro invecchiato benissimo, Arriva John Doe (Meets John Doe): è del 1941 e sembra parlare di noi. In tv passa di rado, ma è di dominio pubblico e quindi legalmente scaricabile da internet, che aspettate? Capra non è l’unico grande regista che potete ripassare con la scusa del Natale: un altro titolo consigliatissimo è Scrivimi fermo posta (The Shop Around the Corner, 1940) di Lubitsch, che ispirò C’è posta per te con Meg Ryan e Tom Hanks, ma non è proprio lo stesso campionato. Da lì puoi risalire a tutti i titoli di Lubitsch, tra i quali Vogliamo vivere (To Be or Not to Be), che purtroppo non è un film natalizio… ma se ancora non lo hai visto è un regalo bellissimo che puoi fare a te e ai tuoi cari.

  • Basta coi soliti cartoni animati!

E invece no! Senti che idea. Perché invece di guardarli un po’ a caso, a seconda di quello che ti cucinano le televisioni o ti impongono i cuccioli di famiglia, non prendi il controllo della situazione e imponi una retrospettiva rigorosa? Una rassegna, per dire, di tutti i Pixar in senso cronologico, dal primo Toy Story a Monsters University? (magari integrati coi cortometraggi, soprattutto quelli del primo dvd che documenta gli epici primordi dell’animazione digitale). Se avete le vacanze lunghe (i vostri figli di sicuro), potreste anche cimentarvi in un’esperienza unica: tutti i film del canone Disney da Biancaneve a Frozen. Ok, tutti no. Se Taron e la Pentola Magica è introvabile c’è un motivo, e quelli musicali degli anni Quaranta non supereranno la prova-bambini. Oppure: tutti i film di principesse (compreso Pocahontas e Brave). Tutti i film di animali (Bambi,DumboBongoMr Toad). Può essere un modo per gustarsi i soliti cartoni e trovarne altri sorprendenti: perché magari la Carica dei 101 vi ha stufato, ma siete sicuri di aver mai visto La bella addormentata Red e Toby? Ehi, parliamo di capolavori.

  • Ho sempre adorato Una poltrona per due, ma ormai lo so a memoria. Cosa posso guardare?


Ti capisco. (Continua su +eventi!)

elzeviri, Mondo Carpi, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Le luci dei natali passati

Frozen

Ma al tramonto del nove gennaio che ci fanno ancora le luci di natale al mercato. Facessero almeno allegria.
Invece sono bianche.

Non si dovrebbe mai generalizzare la propria angusta esperienza della vita, e però a un certo punto qualche anno fa ho avuto la sensazione che ci si sbiadisse il natale. Era sempre stato un affare pacchiano, di luci gialle e rosse intermittenti. Ci fu anche quella breve e scelleratissima moda dei babbi natale appesi alle finestre; poi a un certo punto qualcuno deve aver detto che erano brutti e deve essere stato molto convincente, perché da un anno all’altro nessuno li ha visti più – centinaia di migliaia di babbi natale buttati via, discariche intere di materiale natalizio ancora in buone condizioni ma definitivamente out – e nello stesso periodo le luci hanno smesso di essere rosse, verdi, gialle, e si sono tutte convertite al bianco.

All’inizio era glaciale e meraviglioso. Elegante, persino. Io non credo che il natale debba essere elegante, in generale; voglio dire, è una festa per i bambini e le famiglie – ma almeno per un paio d’anni funzionò. Passavi sotto queste stalattiti fosforescenti che sporgevano dai cornicioni e ti sentivi il degno abitante di una fiaba nordica, non le nostre solite zampognate. A dare l’impulso fu il comune, ma anche i privati si adeguarono presto. Quando un anno al mercato montarono di nuovo le luci dorate, le tennero due sere e poi tornarono all’argento. L’oro era diventato cheap, insostenibile. Resisteva soltanto qualche vecchia traccia di un’antica civiltà colorata sulle porte delle case; lampadine rosse e verdi intermittenti che avvisavano della presenza di pensionati fuori del mondo.

Poi forse è successo qualcosa, che non posso dimostrare – se almeno avessi fatto una foto – ma insomma, le luci bianche sono diventate tristi. Forse sono state sostituite da illuminazioni dello stesso colore ma meno sontuose, più semplici. C’entrerà il risparmio energetico. Ma può anche darsi che siano esattamente le stesse luci di tre o quattro anni fa; che svanito l’effetto “wow” sia rimasta soltanto la freddezza. Il freddo è bello, per qualche istante è persino piacevole. Ma non dura.

Non sarà primavera per altri tre mesi. Tra qualche giorno sulla repubblica o sul corriere pubblicheranno uno studio di scienziati che dicono che il giorno più triste dell’anno è intorno al 20 di gennaio. Lo fanno più o meno tutti gli anni, e io li leggo sempre. Spiegheranno che è il punto critico in cui svaniscono gli effetti delle vacanze natalizie, e le speranze e i tremori della primavera sono ancora lontani. Chissà se poi esiste davvero quello studio e se dice davvero così. Ci credo come credo a certi oroscopi fuori contesto, riferiti ad altri giorni mesi e segni zodiacali: faccio finta che siano il mio oroscopo del giorno e a volte funzionano. E poi non sono davvero meteoropatico, è uno di quegli abiti che si mettono da adolescenti per darsi un tono. Posso essere felice tutti i giorni che voglio, se voglio.

Togliessero quelle luci bianche alla finestra.

non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

"È Natale, presto, scalda gli avanzi!"

Buone feste a tutti (i soliti postpanettoni per chi si annoia a Natale):

Odino + Turchia = Babbo Natale, 2012.
Il secondo avvento, 2011.
Mite agnello redentor, 2009.
Gli spettri dei Natali passati, 2006.
Ungaretti, 2002.

Per chi si sveglia direttamente il 26: Stefano il Saccente.

Infine non dimenticare che a Natale tu festeggia la nascita di un extracomunitario, Gesù!

Islam, miti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, santi

Né tre, né re, né magi

Non solo, ma lo vedete questo ragazzo qui sotto, e questo cane? Ecco, non esistono. Non sono mai esistiti.

Revisionismo storico, sul Post! Oro incenso e kryptonite per tutti! (Tranne per i giuslavoristi, per loro ho solo carbone, mi spiace).

6 gennaio – Epifania e Adorazione dei Magi

Guarda che ori, che broccati, che levrieri… Gentile da Fabriano è un po’ tamarro, diciamolo.
Non erano necessariamente tre (Matteo non dice mai il numero: lo si desume dai tre doni, oro incenso e mirra). Non erano re, anche questo l’evangelista non lo scrive; e la situazione geopolitica del primo secolo ci è abbastanza nota da permetterci di escludere l’esistenza di re itineranti, con molto tempo da perdere dietro a stelle e profezie. Non erano neanche “magi”, perché se ci pensate bene la parola in italiano non ha molto senso, è stata coniata apposta per loro: diconsi magi i tre re venuti ad adorare Gesù. Matteo in greco scrive magoi, termine imbarazzante, perché ai cristiani i maghi non piacciono: sin dall’inizio li percepiscono come i loro più insidiosi concorrenti (a partire da quelSimon Mago che negli apocrifi tormenta Simon Pietro come un gemello cattivo). “Magoi” erano chiamati dai greci i sacerdoti zoroastriani, il che lascia pensare che i non-re provenissero dalla Persia, oggi Iran. Non seguivano una cometa, perlomeno non necessariamente: Matteo si limita a parlare di una stella (“vidimus enim stellam“, 2,2). Non arrivarono a una grotta, né a una capanna: Matteo scrive che trovarono il bambino entrando in una “casa” (“intrantes domum invenerunt puerum“, 2,11). Insomma se Matteo vedesse un presepe moderno, con la cometa in cima alla grotta e i tre re cammellati, non riconoscerebbe la scena. Anche a causa di tutti quei pastori nei dintorni, di cui nel suo Vangelo ovviamente non v’è minima traccia. Che cosa è successo?
Ci sono state delle contaminazioni, evidentemente. La prima è col Vangelo di Luca (posteriore?), che dipinge una scena molto più familiare: c’è il censimento “di tutta la terra”, c’è almeno un albergo tutto esaurito, la mangiatoia, i pastori, gli angeli cantano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli”… ecco, siamo già in pieno presepe. Tranne un piccolo dettaglio: i magi. Luca non ne parla, e sì che dei tre sinottici è quello che sembra aver fatto più indagini. Suona quasi come una smentita. Luca, poi, lo abbiamo visto, è il più liberal degli evangelisti, quello di “beati i poveri” (non “in ispirito”: beati i poveri e basta): il suo Gesù deve per forza nascere in un contesto di disagio sociale ed essere adorato dai pastori: si capisce che questi maghi venuti dal nulla che portano doni preziosi non rientrano nel suo quadro. Si capisce altresì che Luca non è un vero povero, perché ai poveri i re bardati d’oro venuti da lontano non dispiacciono affatto, sono i punti luci del presepe. Alla fine i natali di Matteo e di Luca si amalgameranno, assorbendo altri dettagli dalla fervida fantasia degli apocrifi: così scopriremo per esempio che i magi erano re – giusto per realizzare un altro paio di profezie veterotestamentarie – che si chiamavano Gaspare Melchiorre e Baldassarre, che ognuno rappresenta un continente diverso, eccetera. Gli esegeti arricchiranno il brodo spiegandoci che l’oro allude alla regalità (Gesù Cristo è Re, non scordiamolo), l’incenso al sacerdozio, mentre la mirra, questa benedetta mirra che assomiglia a uno di quei regali di Natale che nessuno vorrebbe, i calzini di lana, la cravatta à pois… la mirra rappresenta effettivamente il ruolo più difficile, di vittima sacrificale: l’olio di mirra era adoperato per l’unzione sacerdotale, ma anche per l’imbalsamazione. Ancora oggi i magi fanno discutere astronomi e fantastorici: sulla questione della “stella” si sono riempite biblioteche di congetture (era una cometa o una supernova? O un banale allineamento planetario?) Alla fine insomma la nostra concezione dei “re magi” dipende molto più dal folklore del presepe che dalla lettera del Vangelo. La cosa interessante è che il folklore non si è sostituito alla lettera. Vi si è per così dire incrostato, ma chiunque sappia leggere può rimuovere gli addobbi posticci e ritrovare il testo di Matteo. In altre religioni non è successo così. Miti e racconti si sono contaminati e mescolati per secoli, prima di arrivare alla forma che conosciamo (e che magari non è nemmeno la definitiva). (Continua…)
Nella sua Vita di Maometto, Muhammad Ibn Garir al-Tabari (IX secolo) racconta più di una storia sulla tormentata infanzia del profeta. Un giorno, al pascolo, il suo fratello di latte vede tre uomini vestiti di bianco che aprono il ventre del piccolo Maometto e ne svuotano il contenuto. Il bambino torna a casa a dare l’allarme, ma quando gli adulti accorrono, trovano il bambino vivo, anche se il suo aspetto “era alterato”.
Lo presero, lo baciarono sulla testa e sugli occhi e gli chiesero: “Maometto, cosa ti è accaduto?” Egli rispose: “Tre uomini, con un catino e una bacinella d’oro, sono venuti e mi hanno aperto il ventre, hanno preso tutte le mie viscere e le hanno messe in quel catino; poi me le hanno rimesse in corpo dicendomi: “Tu sei nato puro e ora sei più puro”. Poi uno di loro ha immerso la mano nel mio corpo, ne ha strappato il cuore, lo ha tagliato e ne ha levato il sangue nero, dicendo: “È la parte di Satana che c’è in tutti gli uomini, ma io te l’ho tolta dal petto”. Poi mi ha rimesso il cuore a posto. Uno di loro aveva un anello, col quale mi ha marchiato. Il terzo ha immerso la mano nel mio corpo e tutto è tornato in ordine”.

Qui ci starebbe una bella immagine del giovane Maometto, ma curiosamente non sono riuscito a trovarne.
Al-Tabari è un biografo molto generoso: qualsiasi storia o storiella sul profeta è per lui degna di essere raccolta. Come facciamo a capire che la leggenda dei “tre uomini” è una sovrapposizione di molto posteriore ai racconti più antichi sulla vita di Maometto? Per prima cosa, è inutile. lo dicono anche i tre maghi-macellai: “tu sei nato puro”. A che pro allora tutto questo sviscerare, marchiare, sigillare? Sono tutti particolari ridondanti, tipici delle fiabe. E, come le fiabe, somiglia in qualche modo a tutte le altre: altrove al-Tabari mostra di conoscere la leggenda dei magi che visitarono Gesù, e che nell’800 sono già stati fissati nel numero di tre. Come nel vangelo di Matteo, siamo davanti a una precoce epifania, o manifestazione del divino, che però confligge lievemente con l’idea che Maometto riceva la sua rivelazione soltanto a quarant’anni. Del resto anche tra i cristiani non c’è accordo sulla prima epifania della divinità di Gesù: gli ortodossi preferiscono partire dal battesimo nel Giordano, quando si sente distintamente una voce dal cielo affermare “tu sei il mio figlio prediletto”. Il vangelo più breve (il più antico?), Marco, comincia appunto da lì. Tutto quello che a Gesù è successo prima potrebbe anche essere stato aggiunto dopo.
In generale, i racconti sull’infanzia degli eroi e dei profeti sono sempre posteriori al mito portante. Nascono come per riempire un vuoto: cosa è successo al Profeta nei suoi primi quarant’anni, al Messia nei suoi primi trenta? Possibile che il divino non si fosse già manifestato in lui? Così è tutto un fiorire di miracoli grandi e piccoli, ma spesso anche minimi, come in quell’apocrifo in cui il giovane Gesù rimedia coi suoi miracoli agli errori di falegnameria di mastro San Giuseppe. Gli autori di questi racconti e raccontini sono ovviamente anonimi, ma è lecito supporre che molti di loro siano donne, e che stiano raccontando fiabe davanti a un focolare, a bambini troppo curiosi: com’era Gesù (o Maometto) quando era piccolo come me? Non sembra un caso che in primo piano si trovino spesso personaggi femminili, come Maria nel vangelo di Luca, o la balia Halimah che salva il piccolo Maometto dalle grinfie di un altro mago malvagio. Quando poi gli eroi e i profeti diventano grandi, le donne passano in secondo piano.
Diventati adulti, poi, molti uomini mostrano di non gradire questo prolificare di racconti e favolette sull’infanzia dei personaggi importanti. Il più delle volte sono inutili: distraggono dal racconto fondamentale, la predicazione dell’adulto agli adulti. Persino gli autori di Superman hanno più volte cercato di disfarsi di Superboy (e del cane Krypto), senza successo: le nuove generazioni continuano a chiedere dettagli sull’infanzia degli eroi e degli Dei, e finché non gliele inventi non si addormentano.
musica, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, santi

Solo per i tuoi occhi

Caruso. Elvis Presley. Julian Lennon. John Lennon. La Svezia luterana. La Sicilia tangentara già ai tempi di Diocleziano. Dante Alighieri e le sue emicranie. Gregorio XIII e i suoi calendari. Ragazze con le candele in testa. Occhi sui vassoi. Ragazze nel cielo coi diamanti. Truffe finanziarie. Vergini nei lupanari. Bambini che non credono in Babbo Natale, perché si fa prima a scrivere le letterine a…

…che passa dodici giorni prima. Sul Post c’è tutto quello che serve sapere su Santa Lucia, la Santa più luminosa che ci sia. Mancava solo De Gregori, allora l’ho messo qui. Fa’ che ci sia dolce anche la pioggia nelle scarpe.

13 dicembre – Santa Lucia, vergine e martire (283-304).
Sono un po’ emozionato: è la prima volta che mi capita di scrivere di una Santa nel momento in cui è trending topic su Twitter. D’altro canto voi non avete idea del baccano che è già iniziato a Correggio, o Montichiari, o Bussolengo; i negozi sono pieni persino in quest’anno difficile, e a scuola i bimbi friggono da stamattina. È la notte più lunga dell’anno.

Sì, lo so, la notte più lunga dell’anno è il 22. A Roma, almeno. A Milano. Già verso Lodi le cose cambiano. Ovviamente non è una questione di fuso orario. Non si sa neanche bene il perché, fatto sta che i bambini di Lodi (e Reggio nell’Emilia, e Bergamo, e Udine) stanotte aspettano i regali, quelli che a Milano o Roma sono attesi solo per il venticinque. Da noi vengono prima, e non li porta Babbo Natale, quel San Nicola secolarizzato (ma ha ancora il mantello rosso dei vescovi) che in realtà gratta gratta è il Dio Odino sotto mentite spoglie. No. A Brescia, a Piacenza, a Cremona, in una regione intermedia tra Emilia Veneto Lombardia e Trentino, la letterina si scrive a Santa Lucia, che te li porta il 13, la notte più lunga che ci sia.

La ragione per cui a Carpi, per dire, la notte più lunga è questa, mentre sull’altra sponda del Secchia il sole sorge regolare, non è chiara. Comunque sappiamo precisamente quando si aprì questa frattura nello spaziotempo: nel 1582 Papa Gregorio XIII decise di rimettere mano al calendario di Giulio Cesare, che tutto sommato per millecinquecento anni si era difeso egregiamente, guadagnando però ogni anno undici minuti e 14 secondi rispetto alla rivoluzione della terra intorno al sole. Del resto, nemmeno lo stesso Cesare avrebbe potuto supporre che il suo calendario sarebbe rimasto in vigore per milleseicento anni. Ai tempi del Gregorio in questione ormai le stagioni stavano sballando: Pasqua da festa dei germogli rischiava di diventare sagra della mietitura, e in giro qualcuno cominciava a sussurrare che non esistessero più le mezze stagioni. Anche l’equinozio d’inverno, la notte più lunga dell’anno, si era stabilmente assestata intorno al 13 dicembre, Santa Lucia.

Potrei inserire centinaia di immagini di giovani svedesi con candelieri in testa, ma non riesco a liberarmi da questa.

Considerate che sofferenza doveva essere mettere a letto i bambini in un’epoca senza orologi meccanici, in cui ci si leva e ci si corica col sole: in estate c’era tutto il tempo per uscire di casa e stancarsi, ma in inverno? Come convinci il bambino a stare buono per quattordici ore (in Scandinavia anche diciotto)? Gli si dice: buono, che sennò San Nicola / Santa Lucia / Gesù Bambino / i Re Magi /la Befana non ti portano niente. E quella notte almeno il monello sta quieto, se non dorme farà finta, perché Santa Lucia se la guardi scappa via. Non è un caso che sia Lucia che Nicola siano santi amatissimi in Svezia, un Paese luterano che in teoria con la venerazione dei Santi dovrebbe avere chiuso nel Cinquecento, ma i bambini non viene mica in casa ad addormentarteli Martin Lutero. In teoria la festa svedese ha antenati antichissimi: l’originale “Lussi” svedese sarebbe un demone che cavalca in cielo nella notte più lunga (una brutta copia di Odino, evidentemente); forse era la Lucy che Julian Lennon disegnava nel cielo coi diamanti? I suoi compagni di caccia si chiamano Lussiferda, che in alto germanico immagino voglia dire qualcosa come “seguaci di Lussi”, ma suona anche così simile al latino “Lucifer”(“portatore di luce”) da far pensare che la tradizione si sia presto sporcata con elementi d’importazione. La contaminazione non si è fermata lì: le ragazze biancovestite che sfilano con una pericolosa ghirlanda di sette candele cantano un popolarissimo inno svedese che in realtà è Santa Lucia, la barcarola ottocentesca di Cottrau, che Caruso ha reso famosa in tutto il mondo (qui c’è la versione di Elvis, in un italiano dignitoso). Loro ci hanno dato gli Abba, noi Cottrau, giudicate voi chi sia in credito con chi. Addirittura da Stoccolma ogni anno parte una Santa Lucia che va a presenziare alla processione di Siracusa: perché la Lucia cristiana è nata e morta laggiù, dove ovviamente è festeggiatissima con fastosi cortei, anche se la tradizione dei regali nella notte più lunga sotto il 45° parallelo è molto meno sentita. Cosa sappiamo di lei? Niente, come al solito. (Continua)…

anniversari, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, repliche, terrorismo

Un Natale anarchico e informale

Io sulla Federazione Anarchica Informale ho, più che una teoria, una sensazione; non sono in grado stasera di dimostrarlo, ma mi pare proprio che colpiscano sempre a fine anno. Questa cosa li rende un po’ più simili a dei maniaci seriali che a dei rivoluzionari. Come rivoluzionari anzi faccio sempre più fatica a immaginarmeli, di solito un rivoluzionario o ha molta pazienza o molta fretta; uno che smolla due pacchetti bomba sotto le feste ogni anno, e qualche volta salta pure l’anno, che razza d’insurrezione ha in mente?

Quel che è peggio è che ormai gli anarchici informali si sono impregnati di quello spirito natalizio ancora lieve dei primi di dicembre, privo delle angosce che ci attanagliano dal venti dicembre in poi: senti che hanno messo una bomba e ti viene in mente che è ora di addobbare l’albero e telefonare agli amici lontani. Forse c’è una spiegazione tecnica, forse sotto le feste è più facile contrabbandare esplosivi in mezzo ai botti di fine anno, non lo so. In realtà non ne sa niente nessuno.

Due anni fa (avevo appena cominciato a scrivere sull’Unità), trovai su un forum anarchico un testo che è la cosa più vicina a un manifesto della Federazione Anarchica Informale. Anche in quel caso si respira a pieni polmoni l’atmosfera della notte di San Silvestro, con quell’acre sentore di petardo. Ci scrissi un pezzo che coi suoi difetti mi sembra ancora interessante, anche se ormai di difficile reperibilità. Lo ricopio qui, credo di fare cosa non troppo inutile.

“Abbiamo scelto di colpire dove meno ve lo aspettate”, scrivono le “Sorelle in armi” nel comunicato in cui rivendicano la bomba alla Bocconi. E invece non c’è mai stata una bomba tanto prevedibile, nel luogo e nel momento in cui più avremmo potuto aspettarcela. 

Una bomba anarchica a Milano, nell’anniversario della morte di Pinelli. Una bomba anarco-insurrezionalista, mentre al vertice di Copenaghen i black bloc attiravano (o distoglievano, a seconda del punto di vista) l’attenzione del pubblico mondiale. Una bomba in un ateneo privato, mentre gli studenti italiani manifestavano per la scuola pubblica. Una bomba gravida d’odio proprio mentre Berlusconi, percosso al volto ma non domo, si dichiarava sicuro della “Vittoria finale dell’Amore”. Tanto maldestre in fatto di detonatori, queste Sorelle, quanto raffinate nella scelta dei luoghi e dei momenti più suggestivi. Raffinatezza che molti hanno voluto trovare sospetta – non saremmo più in Italia se pochi minuti dopo il ritrovamento della bomba non fosse già fiorita una specifica dietrologia. Ma bisogna anche capirci: abbiamo stragi che aspettano un colpevole da trent’anni, poliziotti che piazzano molotov… con simili precedenti è effettivamente dura per un’organizzazione terroristica alle prime armi farsi prendere sul serio. 

Il comunicato non aiuta, perché le citazioni che fino a qualche anno fa avrebbero dimostrato inoppugnabilmente il radicamento delle Sorelle nell’anarcoinsurrezionalismo ‘latino’ (la citazione dell’anarchico spagnolo Pombo da Silva, il richiamo all’anarchico cileno Mauricio Morales), nell’era di google diventano facilmente falsificabili: chiunque può farsi una cultura su da Silva o Morales in dieci minuti, e magari condirla con un verso di De Andrè che fa sempre anarchia. Questo in effetti è il punto meno credibile del comunicato: un anarchico che cita De Andrè è un po’ banale, ma un anarchico che cita De Andrè fraintendendolo così (il Bombarolo che vuole terrorizzare per non “ammalarsi di terrore” è un borghesotto figlio di papà) o è un ragazzino o un impostore. Brutta storia in entrambi i casi.

L’attenzione dei giornalisti si è concentrata sulla sillaba finale
. Bastano infatti tre lettere, la sigla Fai, per trasformare la bomba di un gruppo sconosciuto nell’ultima azione del più temibile gruppo terroristico italiano. La Fai, spiegano, sta per Federazione Anarchica Informale: e se ti dicono così, significa che la Fai ha già vinto. Non la guerra, ma almeno una battaglia di immagine contro la vera FAI, la Federazione Anarchica Italiana nata nel 1945, editrice della malatestiana Umanità Nova e depositaria della storia più nobile dell’Anarchia italiana. La storica FAI non ha mai perso un’occasione per dissociarsi dal gruppo di bombaroli che ne usurpa la sigla: anche in questo momento sul suo sito compare un comunicato che “denuncia la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d’Isonzo”. Fatica sprecata: ormai per il grande pubblico la Fai sono gli anarchici che mettono le bombe. “La principale minaccia terroristica di matrice anarco-insurrezionalista a livello nazionale», secondo l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Se non proprio l’unica. 

Una “galassia”, scrive Paolo Colonnello sulla Stampa, addirittura un “universo che nel 2003 provò a colpire Prodi”. Visti gli effettivi attentati portati a termine sarebbe il caso di parlare, più che di galassia, di una costellazione. Una manciata di gruppetti, disseminati in tutt’Italia, senza nessuna velleità di costituire un movimento armato unitario (anzi, la frammentarietà è quasi rivendicata), che tra il 2003 e il 2006 hanno piazzato e spedito ordigni che anche quando sono scoppiati non sempre sono riusciti a guadagnarsi le prime pagine. Unico risultato concreto: oggi la sigla Fai è cosa loro. Fino al 2006 le periodiche consegne esplosive della Fai informale ribadivano l’esistenza di una corrente sotterranea violenta annidata tra le pieghe del “Movimento dei Movimenti”. Per i Movimenti invece la Fai informale non è mai esistita: si trattava di infiltrati, servi del potere. I loro comunicati, come s’è visto, non appaiono molto convincenti.

Forse la sola testimonianza a favore della ‘genuinità’ della Fai è l’unico bizzarro comunicato divulgato su internet, dal sito Anarchaos.it (ma “a semplice scopo informativo”). Risale al Natale del 2006 e porta il nome di “Documento-Incontro della Federazione Anarchica Informale a 4 anni dalla nascita”. Dopo una cronistoria accurata delle azioni compiute dai gruppi prima e dopo la nascita della Fai informale, il Documento riporta i verbali di una riunione natalizia in… “casa di Paperino”. Sì, perché per ragioni di segretezza i nomi degli esponenti dei vari gruppi (“COOPERATIVA ARTIGIANA FUOCO E AFFINI, BRIGATA 20 LUGLIO, CELLULE CONTRO IL CAPITALE, IL CARCERE, I SUOI CARCERIERI E LE SUE CELLE, SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALE”) sono sostituiti da quelli della banda Disney. 
E così, insieme a Paperino abbiamo Paperina (che milita nello stesso gruppo, ma con qualche dubbio in più), Pippo che insiste per vedere il bicchiere sempre mezzo pieno (“la crescita anche se minima c’è stata”), Archimede Pitagorico, che opera da solo e sembra il più pratico di esplosivi, Qui Quo e Qua che vorrebbero passare alle pistole, (“noi invece andiamo avanti a dinamite, diserbante e qualche manciata di polvere nera”), eccetera. Si capisce che siamo a mille miglia dallo stile serioso e contorto dei comunicati brigatisti. I quali, proprio perché seriosi e contorti, non erano poi così difficili da falsificare. Mentre la lunga conversazione dei Paperi con Pippo ha tutta la freschezza di una bicchierata in un casolare di campagna, il camino in un angolo, i cani sotto il tavolo a rosicchiare costolette. I Paperi che festeggiano il Natale del 2006 e i quattro anni di Fai Informale non hanno per niente l’aria di infiltrati dei servizi: sono i primi a riconoscere che qualcosa non ha funzionato, ad esempio le bombe (“Magari fossimo degli specialisti, con tutte ste bombe e bombette in questi anni siamo riusciti a fare solo un paio di sbirri feriti! Fanno di più allo stadio la domenica!”), ma anche la comunicazione (“Internet per noi, che con l’informatica siamo a zero, è un problema”). Da bravi anarchici informali, non si troppo il problema di stabilire obiettivi comuni. L’unica idea accettata universalmente è la propaganda armata, poi ognuno per sé. E Archimede, che termina la riunione ansioso di “socializzare” con gli altri gruppi i suoi “fuochi d’artificio”, è il ritratto perfetto del bombarolo isolato, un po’ criminale e un po’ bambino, affamato di botti la notte di Natale. 

Troppo realista per essere finto?
 Diciamo che se è un falso, nel suo genere è un capolavoro. I dialoghi sono credibili e vanno giù che una meraviglia, come nei romanzi di Wu Ming (in effetti, se fossi un agente dei Servizi e dovessi inventarmi dialoghi del genere, da chi altri scopiazzerei?) Gli errori di ortografia non sono troppi, né troppo pochi. I paperi si scambiano le esperienze, battibeccano un po’, poi brindano all’Anarchia, senza trovare nessuna sintesi, perché la sintesi non c’è. “Mi sembra che l’indicazione sia quella di continuare”, dice Archimede, ed è il Natale del 2006. Ma nei tre anni successivi, la Fai informale non piazzerà più nessuna bomba. Un lunghissimo “silenzio operativo”, come lo chiama l’AISI, interrotto una settimana fa alla Bocconi. Eppure c’è qualcosa di veramente singolare in un gruppo che non è un gruppo, ma una costellazione di gruppetti scarsamente coordinati tra loro, che in quattro anni piazzano una trentina di bombe, e poi all’improvviso tacciono all’unisono. È difficile immaginare Paperina, Pippo e Qui Quo Qua che da città diverse aderiscono a un “cessate il fuoco” unilaterale. Se anche qualcuno l’avesse proposto, certo qualcun altro lo avrebbe rigettato. E allora cos’è successo?

Magari niente di speciale. Forse Paperina è tornata a casa con più dubbi di quelli che aveva prima, ha mollato l’eterno fidanzato vestito da marinaretto e si è laureata in zootecnia. Forse Qui ha trovato una rivoltella, si è sparato in tasca e ha accantonato la propaganda armata. Forse Archimede è esploso mentre preparava un attentato a capodanno, passando inosservato nei bollettini dei caduti del primo gennaio. Forse. Forse, più in generale, tra 2006 e 2007 è stato l’intero Movimento dei Movimenti a sfaldarsi, con migliaia di Paperine e Paperini che hanno cominciato a disertare cortei e centri sociali, mentre i loro leader si trovavano sistemazioni istituzionali (l’onorevole Caruso!) che alla lunga avrebbero danneggiato il loro carisma. Forse, svaporato il Movimento, non c’era nemmeno più bisogno delle frange anarco-insurrezionaliste con le loro bombe demodé.

Finché, all’improvviso, tre anni dopo quel Natale anarchico… non ve l’aspettavate, scrivono le Sorelle in armi, lontane parenti di Paperino e Paperina. In effetti no, ma è solo perché non sappiamo guardarci intorno. La scuola e l’università sono in fermento, la piazza si riempie di antiberlusconiani a cui non serve più nemmeno un partito per radunarsi (basta Facebook). Il Presidente, colpito da un pazzo, denuncia un clima d’odio montato da internet e dai giornali… no, decisamente, una bomba avremmo potuto anche aspettarcela.

Cristo, dialoghi, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, preti parlanti

Et itervm ventvrvvs est cvm gloria

Il secondo avvento

“Allora, Don Peppino…”
“Oh, Agnese, eccoti”.
“Si tratta di due persone. Un signore di mezza età e una…”
“Fammi un favore intanto, allungami un Mago”.
“Un mago?”
“Un Re Mago, avrai presente com’è un Re Mago, no? Nella scatola delle statuine, quelli grossi a dorso di cammello”.
“Aaaah, un magio! ma me lo poteva dire… pensi che avevo capito un mago con la bacchetta magica e il cappello…”
“Seh, Harry Potter. E allora, ‘sto Mago arriva o no?”
“Vuole il bianco o il negro?”
“E dammeli tutti e due, che non si dica mai… oh. Ecco. Se li metto qui dietro le palme, cosa dici?”
“Ma don Peppino, io sapevo che i Magi si mettono alla Befana”.
“All’Epifania. Lo so. Però sono i pezzi più belli che abbiamo. Artigianato napoletano dell’Ottocento. Parliamoci chiaro, Agnese, non fosse per questi magi, il nostro presepe parrocchiale sarebbe…”
“’na mezza ciofeca”.
“E bada a come parli, nella casa del Signore. Mi dovevi dire qualcosa?”
“Sì, don Peppino, per via di quei due… un signore di mezza età e una ragazzina”.
“Ah”.
“Lui dice che vengono da fuori, erano qui per rinnovare il permesso di soggiorno, se ne ripartono appena possono”.
“Certo, certo, come no”.
“Lui dice che pensava di ripartire in giornata, ma si è trovato una coda lunghissima in questura che non se l’aspettava… quando ha visto venir sera hanno provato a cercare un albergo, ma sa com’è. E gli hanno detto di provare qui”.
“Ovviamente”.
“Don Peppino, ma scusi, ma di Re Magi quanti ce ne vuol mettere?”
“Te l’ho detto, sono i pezzi più belli che abbiamo”.
“Sì, però così tanti non vanno bene”.
“È che sono indeciso. Vedi questi qui, più piccoli, sui dromedari… sono meno antichi degli altri, però… mi sembrano più eleganti, cosa dici?”
“Mah, per me…”
“Con queste finiture in oro che riflettono l’illuminazione… li mettiamo un po’ più lontani alla stalla, così non si nota la differenza di proporzioni, e vedrai che…”
“Don Peppino, insomma, qui stiamo a fare un’eresia”.
“Ma cosa dici, un’eresia. Non sai nemmeno di cosa parli”.
“Sarò anche ignorante e quel che vuole lei, però sei Re Magi in un presepe non si sono mai visti”.
“Ne sei sicura?”
“E insomma lo sanno tutti che i Re Magi sono tre”.
“Lo sanno tutti. E dove starebbe scritto?”
“E che ne so io… nel Vangelo”.
“Che Vangelo? Matteo, Marco, Luca… Che Vangelo?”
“Me lo dica lei”.
“Perché vedi Agnese, se tu il Vangelo l’avessi preso in mano sul serio, anche una volta sola, lo sapresti che il numero di magi non c’è, né in Luca né in Matteo. Non è specificato, capisci? Tu pensi che siano in tre perché li hai sempre visti in tre. Ma è un numero come un altro. Due sembravano pochi, quattro sarebbero costati troppo, e così la gente ne metteva tre. Ed è rimasta l’usanza. Però io qui ho due serie, e sono tutti pezzi molto belli, e francamente se devo scegliere tra quei pastori lerci e questi re Magi…”
“Ma dopo non ci sta più spazio per le pecore”.
“Le pecore son tutte grigie. Si son prese il fumo di cent’anni di candele, sembrano sorci giganti. Allora, qui i casi sono due: o usciamo a comprarne di nuove…”
“S’era deciso di fare economia”.
“Ecco, appunto. Oppure lasciamo perdere le pecore e aumentiamo i Magi, che fanno una più bella figura. Ma mi stavi dicendo di quei due. Cosa vogliono?”
“E cosa pensa che vogliano. Chiedevano un posto per dormire”.
“Gliel’hai detto, che in canonica siamo al completo?”
“Gliel’ho spiegato. Hanno chiesto di dormire qui”.
“Eh, certo, come no. Nella casa del Signore. Ci mettiamo due materassi e il vaso da notte”.
“Don Peppino, lo so che è una cosa che non andrebbe fatta. Però fuori sta notte va sottozero… lei li mette qui, li chiude a chiave, e domani sul presto io…”
“Se vogliono escono lo stesso”.
“Ma pensa che possano rubare? Ma non c’è niente di prezioso”.
“Le statuine”.
“Don Peppino, andiamo, le statuine”.
“Artigianato dell’Ottocento. Agnese, noi qui abbiamo un servizio da offrire. Quando vengono i fedeli sotto Natale, e avrai notato che magari si svegliano tardi tutto l’anno, ma sotto Natale non mancano mai, ci sono certe cose che vogliono vedere. Ci sono delle cose a cui tengono, e noi gliele dobbiamo dare, Agnese, sennò tanto vale piantare baracca e burattini”.
“Ma aspettiamo domani a montarlo, il presepe, li mettiamo a dormire qui, e domani…”
“Domani è domenica, e cosa gli mostriamo ai nostri fedeli? Al posto del presepe, un materasso con due stranieri? Da dove dicono di venire?”
“Palestina”.
“Come no. La balla dell’asilo politico. Ci provano tutti. Fidati che sono marocchini come tutti gli altri. Ti hanno mostrato documenti?”
“No. L’uomo dice che si chiama Yussuf. La ragazzina non dice niente”.
“Seh, Yussuf. Tutti Yussuf, si chiamano. E secondo te io domattina ai fedeli, al posto del presepe, ci devo mostrare Yussuf”.
“Don Peppino, lo so, ma se li svegliamo presto…”
“Quello che mi fa più rabbia, Agnese, è che tu magari mi prendi pure per un fanatico. Uno che potrebbe salvare la vita a ‘sto Yussuf e invece si preoccupa per le statuine. Perché tu alla fine pensi che io sto giocando con le statuine, che questo è un gioco per me. È questo che mi fa ammattire”.
“Ma io lo so che lei…”
“Il problema è che queste statuine sono il mio lavoro e la mia fede, Agnese, lo capisci o no? Che se volevo fare l’assistente sociale non studiavo per prendermi questo vestito, e non stavo a venire qui, e che va bene l’accoglienza, va bene tutto, ma c’è un limite anche per don Peppino. Adesso mi dici di metter via il presepe per far posto a Yussuf. E il prossimo Yussuf che ha bisogno? Spostiamo la Madonna di Lourdes?”
“Ma è solo per una notte..”
“Una notte, come no. E avranno freddo. Però magari potremmo bruciare un po’ di roba, qui, per scaldarli. Tutte ‘ste croci, eh? Potremmo infilarle nella stufa a legna”.
“Don Peppino, non dica così”.
“E anche queste statuine. Cosa vuoi che siano delle statuine dell’Ottocento davanti a Yussuf. Questo bambino di legno qui, per esempio, Agnese, lo riconosci?”
“E certo che lo riconosco”.
“E invece magari dopo cinquant’anni che ci passi davanti ti rendi conto che non l’hai mai visto davvero, non ci hai mai riflettuto sul serio. Allora avanti, Agnese, cosa ci vedi?”
“Cosa vuole che ci veda, don Peppino… il bambino, ci vedo”.
“Ma tu ci credi, Agnese, che questo bambino è Gesù Cristo Dio, che si è fatto uomo per salvarci dai nostri peccati, e di nuovo verrà nella gloria, per giudicare… continua tu, Agnese, per giudicare?”
“…i vivi e i morti”.
“Ma ci credi o no?”
“E certo che ci credo”.
“Che lo vedrai, nella sua gloria, quando ritorna, nel Secondo Avvento”.
“Certo”.
“E quindi lo sai che noi siamo qui per testimoniare, e che queste statuette, questo giochino, sono un modo per rendere testimonianza, per ricordare alla nostra gente, ai bambini, agli anziani, che Gesù è in mezzo a noi, per ricordare che bisogna fargli spazio, al momento giusto”.
“Massì…”
“E il giorno che tornerà, il giorno che lo vedrai, perché hai detto che ci credi, Agnese: cosa gli dirai? Signore, scusa, ma quel giorno invece di renderti testimonianza dovevamo far posto a uno nemmeno battezzato, Yussuf, e a sua figlia che…”
“Non è sua figlia”.
“Andiamo bene. Non è sua figlia. E perché sta con lui?”
“Non me l’ha voluto dire”.
“Ma quanti anni avrà?”
“Don Peppino, lei lo sa, queste donne straniere… non me ne intendo”.
“Dimmi quanti anni ha, secondo te”.
“Non più di quindici”.
“Perfetto, allora chiamiamo i carabinieri, che un tetto glielo trovano”.
“No, Don Peppino, non si può. La ragazza ha bisogno di stare tranquilla stanotte. Molto tranquilla”.
“Perché. Cos’ha questa ragazza”.
“Parecchia pancia”.
“Che tipo di pancia?”
“Quella di nove mesi, secondo me”.
“Ma che ne sai, tu, mica ti intendi di donne straniere”.
“Di donne no, di pance sì”.
“Massì, in fondo, che male c’è. Veniamo pure in Italia. Sposiamo pure le bambine, mettiamole pure incinta. Tanto se non si trova un tetto alla fine c’è sempre un prete che ci mette la pezza”.
“Don Peppino, ho capito, allora facciamo così: lei li mette nella mia stanza e col presepe ci resto io”.
“Agnese, per carità non mi fare la santa”.
“E che sarà mai. Mi metto su quella panca lì dietro, lei non sa quante ore ci ho già dormito su quella panca”.
“Lo so, Agnese, però non ti ci addormenti, se non ci sono io che attacco la predica”.
“E lei mi metta il musimatic, vedrà che a mezzo nastro mi addormento. Così, se proprio deve venire stanotte Gesù a giudicare i vivi e i morti, qui trova tutto regolare, va bene?”
“Agnese…”
“Punto la sveglia alle sei”.

Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.


Era il Post sotto l’Albero. Buon Natale.

contro l'identità, Cristo, migranti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, razzismi

Identità è una statuetta pitturata

Presepi viventi, presepi morti

Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali… dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.

Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.

Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?

Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.

Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?

No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.

Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.

Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell’integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.

Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.


E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.

Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.

La prossima volta che vi friggono un discorso a base di paroloni come Identità o Tradizione, pensate, per favore, al presepe di Panebianco. Secondo lui i preti sono “troppo accoglienti”: da un punto di vista razionale potrebbe avere anche ragione, qualsiasi spazio limitato non può accogliere tutti, e l’Italia non fa eccezione. Ma i preti non sono razionali: sono preti. Se accolgono tutti indiscriminatamente, è perché glielo ha detto Gesù, a chiare lettere, nel Vangelo. E quando a saper leggere il Vangelo erano ancora pochi, i preti hanno inventato strumenti come il Presepe, che servivano proprio a ricordare il principio: Giuseppe e Maria erano due viaggiatori senza un tetto, e Dio si è incarnato in mezzo a loro. Prima di essere una tradizione, il Presepe era una lezione sull’ospitalità. Ma Panebianco non lo sa, o se l’è dimenticato, o non gli interessa. A lui interessa il Presepe in quanto tradizione, ovvero statuetta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, rimandando solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo se ci toccano le statuette dipinte.
Bibbia, Cristo, Israele-Palestina, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo

Mite agnello redentor

Che toglie i peccati del mondo

Al mondo siamo sei, massimo sette miliardi, ciascuno con i suoi problemi: ciò che tutti ci consola è la possibilità di prendercela con chi è messo peggio di noi.
Di solito si tratta di islamici.
Gli islamici sono appena un miliardo, e se date un’occhiata al planisfero vi rendete conto che stanno proprio in mezzo, di modo che di solito le prendono un po’ da tutti; e probabilmente se le meritano. Un po’ per quel colore della pelle che non è bianco né nero, è… ambiguo; e poi quel profeta ultimo arrivato che nessuno ha visto in faccia, quelle usanze demodé, insomma con gli islamici vai sul sicuro: tu intanto dàgli addosso, ché un motivo si trova sempre.

E tuttavia, è inevitabile che a furia di prenderle diventino un po’ nervosi. Fortunatamente in mezzo a tutto quel miliardo di islamici (che visto da vicino fa un po’ spavento, dico, un miliardo! Tutto insieme!) c’è una nazione minuscola di cinque milioni di ebrei; si chiama Israele, e quando gli islamici vogliono sfogarsi possono sempre cominciare una guerra santa. Le fanno spesso nei giorni di festa, vecchio scherzo che funziona sempre.

Col tempo tuttavia anche i cinque milioni di israeliani hanno cominciato a seccarsi. E certo, in mezzo a un miliardo di islamici possono sembrarti pochi, ma visti un po’ da vicino, son pur sempre cinque milioni… però non sono sparsi in modo omogeneo; infatti all’interno del loro Stato c’è un territorio che non è proprio uno Stato, dove vive un altro popolo: si chiamano palestinesi, e quando Israele è nervoso corre a mazzolarli, è una gran valvola di sfogo.

I palestinesi però sono un popolo fiero, e quando hanno iniziato a prenderne troppe dall’esterno, si sono guardati dentro, chiedendosi: c’è qualcuno più piccolo di noi che possiamo a nostra volta mazzolare, al fine di sbollire la nostra troppo giusta ira? In effetti qualcuno c’è: nel bel mezzo dei territori dove vivono milioni di palestinesi (e visti da vicino sono tanti!) c’è… ma sì, c’è ancora qualche piccolo villaggio superaccessoriato dove alloggiano coloni ebrei, alcune centinaia. E quindi questi palestinesi cominciano a tirare razzi ai coloni ebrei.

I quali non è che sopportino sempre pazientemente. Per esempio c’è questo insediamento di coloni a pochi km. da Betlemme, dove vive Jesse, che di mestiere fa il pastore. Allora, quando un razzo
palestinese atterra nella fattoria di Jesse, a pochi metri dal lettino della figlia, cosa fa Jesse? Entra nel recinto delle sue pecore e si mette a prenderle a calci: poi sta meglio. In pratica è come se tutta la rabbia e la frustrazione dell’umanità andassero a finire nel recinto delle pecore di Jesse.

Ma l’umanità non è la fine di tutto: infatti anche le pecore di Jesse non è che accettino pazientemente la loro missione purificatrice. Appena Jesse se n’è andato, cominciano le discussioni: pee-e-rché le pre-e-endiamo se-e-empre? Cosa abbiamo fatto di male? C’è chi dice che è colpa dei loro pe-e-eccati.
Altre rispondono, ma quali pe-e-eccati? Non facciamo niente di male, siamo tutte fedeli al nostro montone (anche pe-e-rché è l’unico del villaggio), al sabato ci asteniamo dall’erba grassa, e quindi?
Forse si tratta di un pe-e-eccato originale, siccome la prima pecora nel Paradiso Terrestre brucò dall’aiuola del Be-e-ene e del Male, benché il Signore gliel’avesse espressamente….
“Son tutte balle”, dice a un certo punto una del mucchio. “Non esiste nessun peccato originale: sapete cosa esiste invece? La pecora nera, che ci rovina la reputazione a tutte quante”.

Le pecore si voltano verso Azazel, l’agnello dal manto un po’ più scuro delle altre, che in effetti qualche zoccolata se la merita, anche solo per quest’ambiguità cromatica… e poi sta sempre zitto, non si sa mai a cosa pensa… insomma, la circondano, loro sono tante, lui è solo, e dopo un po’ il suo manto grigio comincia a screziarsi di rosso sangue, l’agnello nero crolla in un angolo, e il morale del gregge è di nuovo alto.

Azazel guarirà – non è mica la prima volta che le prende, né sarà l’ultima. Si tratta ora di capire a chi tocca dopo di lei: a chi passerà inconsapevolmente il fardello di tutto il male, tutto il dolore, tutta la frustrazione dell’umanità. Potrebbe pestare un agnellino, o pianificare lo sterminio di una specie d’insetti, qualsiasi cosa. In fondo non è che un anello di una catena infinita che va dalle nebulose agli organismi unicellulari: ovunque ti guardi è pieno di entità più grandi che ti circondano e te la fanno pagare per qualcosa che viene da fuori, e adesso tocca ad Azazel.

Azazel invece non fa niente, non gli interessa. Non è che non gli dispiaccia essere odiata dai suoi simili, però non abbastanza da rifarsi contro qualcuno più piccolo di lei. Può darsi che sia una regola universale, però Azazel non la rispetta, si chiama fuori. Così il fardello di tutto l’odio, tutta la sofferenza dell’umanità, finisce lì: in un recinto a poche miglia di Betlemme.

Quando Gesù Cristo tornerà, a giudicare i vivi e i morti, non credo che la tirerà per le lunghe. Ci guarderà tutti quanti, scrollerà la testa e dirà: scusate il disturbo, dov’è l’agnello Azazel? Ero venuto per lui. Se lo caricherà sulle spalle e se ne tornerà al Padre suo, lasciandoci qui, alle nostre contese sempre molto interessanti. Perché in fondo non ci meritiamo un inferno peggiore di questo.

(Era uno dei Post sotto l’albero 2009. Lì ce ne sono senz’altro di più allegri. Buon Natale a tutti!)

giornalisti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, tg

Professione reporter

Si avvicinano le vacanze di Natale e la famiglie italiana media è inquieta: dove si va? I risparmi non sono proprio tantissimi: seccherebbe investirli tutti in biglietti andata ritorno per il prossimo obiettivo terroristico.

Il problema è che i terroristi diventano ogni anno più imprevedibili. Per dire, un anno fa l’India chi se la filava? E se avessero detto “rivolte in Grecia”, ci avreste creduto? Inutile dar retta ai tour operator, quelli sono tutti alla canna del gas e dispostissimi a spergiurare sulla sicurezza della Thailandia o a consigliarti un’oasi di pace e tranquillità nel centro della Repubblica Democratica del Congo.
Per fortuna che ci sono i blog, come ad esempio questo. La redazione di Leonardo ha deciso di non differire oltre il suo regalo di Natale ai lettori e di renderli partecipi del Sistema di Rivelazione RiotCon.

Il Sistema di Rivelazione RiotCon è un sistema empirico di valutazione del grado di pericolo di una località geografica, basato sull’identificazione dell’inviato Tg1 che ha frequentato la località per ultimo. Il RiotCon si ispira ovviamente ai DefCon delle forze armate USA (perché siamo cresciuti a DayAfter e WarGames, noi), e si articola in tre livelli principali.

1. Livello Scaccia


Concreto rischio di incorrere in scontri a fuoco, esplosioni, incendi, sequestri di ostaggi, pestilenze, invasioni di cavallette, piogge di batraci. Prima di partire rammentate di lasciare un’impronta delle vostre arcate dentarie ai parenti prossimi; in caso di scontri diplomatici la Farnesina si riserva comunque la possibilità di negare la vostra stessa esistenza. Insomma, se viaggiate in famiglia è un po’ sconsigliato. 

2. Livello Maggioni
Ma sì, una sparatoria una tantum è possibile, così come un uragano di media intensità, del resto si vive una volta sola.

3. Livello Mignanelli
Alla Sagra dello Zampone potrebbero essere finite le lenticchie.
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Grazie al delirante telegiornaliste per le ultime due foto.
crisi? che crisi?, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, pubblicità, tv

l’amico di famiglia

Ma il vero eroe pubblicitario del Natale ’07 è stato un altro.

Non il bimbo-buono-bauli, quell’angoletto insopportabile. Non il rincitrullito ing. dott. Balocco, che fa la predica ai suoi mandorlati. Il più grande di tutti è stato lui: Mr. Findomestik!


In sottofondo l’orchestrina suonava un cantabile (sciallallallallallallà), e intanto lui aiutava papà e mamma a fare l’albero, il bambino a scartare i regali, non era adorabile? Non era un amore?

Con l’anno nuovo ha rimesso fuori i canini.

(c) M.

fratelli d'I., migranti, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, tv

un italiano vero?

Mohamed

Il ragazzo che vedete qui a fianco è un italiano?
Chiedo a voi, io non lo so.

Nei termini di legge, direi di no. Anche se i suoi famigliari vivono e lavorano nel napoletano da vent’anni, e quindi lui potrebbe benissimo essere nato già qui. Per la legge, però, nascere in Italia non basta. Ci vuole un gotto di sangue italiano, che come è noto abbonda in Canada e in Argentina, ma in Mohamed e in suo fratello Karim, no. Questa è la legge.

E chi se ne frega della legge, d’accordo. Ci sono ben altri parametri. La lingua, per esempio. Mohamed parla l’italiano – eppure c’è qualcosa che non va. Niente di straordinario, ma neanche una sbavatura. Si muove nella lingua italiana con un’agilità che gli italiani della sua età di solito non hanno. Si vede che parla a braccio, eppure non dice sciocchezze e non si perde nella sua sintassi, come fanno ormai anche i vip in tv. Non sbaglia i congiuntivi – anche perché, saggiamente, non va a cercarseli. Insomma, parla bene l’italiano. Un po’ troppo bene per sembrare un italiano.

Ma la vera nota stonata è un’altra. Mohamed è davanti a una telecamera. Qualcuno ha sparato a suo fratello per nessun motivo al mondo, per la necessità selvaggia di festeggiare coi botti, di far annusare al mondo il proprio fucile. Mohamed ha a disposizione il quarto d’ora della vita, e invece di fare una sceneggiata… parla. Non piange in camera, non maledice nessuno, non tira in ballo neanche la pena di morte che affratellò tanti telespettatori col marocchino Azouz. Un italiano, colpito negli affetti ed esposto a un microfono, ci tiene a mostrarsi il più possibile irrazionale. Mohamed invece ha soltanto un piccolo discorso da fare. Ha viaggiato un po’ e si è accorto che l’Italia non è necessariamente così. Ammette di non aver dato troppa importanza all’“inciviltà”, finché non hanno sparato al fratello: adesso le cose cambieranno. E poi, con semplicità, chiede giustizia: secondo lui identificare il colpevole non dovrebbe essere difficile.

Chiedo a voi: tutto questo vi sembra italiano? A me no.
Ripenso a quando scesero i genitori di Meredith Kercher, la ragazza inglese uccisa a Perugia. Ci fu una conferenza stampa e i cronisti italiani scoprirono, allibiti, che i genitori sorridevano. Erano distrutti dal dolore, ma di fronte a una telecamera si sentivano forzati a un sorriso di cortesia. In Italia è esattamente l’opposto: se quando ti ammazzano un familiare non piangi verso l’obiettivo, sei freddo, insensibile, lucido, e nemmeno Taormina riuscirà a salvarti. Mohamed, seduto, chiede giustizia, quando un suddito italiano striscerebbe e invocherebbe la Vendetta.

Mi costa ammetterlo, ma quella stupida legge del sangue funziona. Mohamed è nato in Italia. Ha viaggiato in lungo in largo, ha imparato la lingua meglio di molti di noi. Ma non è italiano. Tutte queste cose non bastano per fare un italiano.
Mohamed è già qualcosa di più – un cittadino del mondo. Suo padre è nato in Tunisia, suo fratello a Napoli, suo figlio chissà. A Barcellona o Helsinki, o Tokyo, ovunque il mondo avrà bisogno di gente dignitosa e onesta. Gli italiani non sono così. Noi siamo i figli di quelli che non sono voluti andare via. Siamo quelli che non schiodano, anche quando la monnezza arriva al secondo piano. Ogni tanto qualcuno arriva, ci conquista e passa oltre. Passerà anche Mohamed, senza guardarsi troppo indietro.

non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, tg

Divertiti e/o Muori

Tanga rosso e maglia di lana

Ieri a Mantova è morto un ragazzo. Un egiziano 17enne, già senza fissa dimora, che viveva in una Comunità di recupero. Se ho capito bene, dopo i botti ha voluto fare un bagno nel porto, ed è annegato. Io lo so perché ne hanno parlato al tg1 delle otto.

Vedi come siamo, noi italiani. C’è uno straniero senza fissa dimora, e noi gli troviamo una comunità, cerchiamo di recuperarlo, ci preoccupiamo per lui. Se fa una cazzata, e muore, lo mandiamo al tg delle otto, e lo piangiamo con le stesse lacrime che usiamo per gli altri morti da botti di capodanno. Vedi che non siamo poi così male? E perché allora gli stranieri devono farci soffrire così, con cazzate del genere? Il bagno la notte del 31 dicembre, nel Mincio? Ma chi gli mette in testa queste stronzate, ai giovani?

Il servizio successivo parlava della tradizione dei bagni di Capodanno. Io fino a qualche anno fa non lo sapevo, ma poi i tg hanno cominciato a mostrarmi che c’è gente che assolutamente deve tuffarsi nei canali, in Capodanno. All’inizio erano immagini dall’Europa del nord, poi sono arrivate quelle dall’Italia, e da qualche tempo in qua comincio anche a sentirne parlare da persone in carne ed ossa: “c’è il mio-amico-tale” che a capodanno si tuffa dal ponte, “perché è tradizione”. E in fondo, gran parte delle feste “tradizionali” sono invenzioni degli ultimi sessant’anni: Babbo Natale, l’Albero, Halloween, San Valentino, l’8 marzo, il concertone del primo maggio, il bagno nella fontana appena la nazionale vince un ottavo di finale, eccetera. Che male c’è se ogni tanto ci inventiamo o prendiamo in prestito una “tradizione”? Di solito non c’è problema.

Finché qualcuno muore. Per una bomba carta, o una pistolettata nel cortile, o una congestione durante un bagno gelido. E allora i tg aprono i rubinetti della commozione. Ah, questi trafficanti senza scrupoli di botti abusivi . Ah, questi giovani a caccia di emozioni. E la società dei consumi, e la crisi dei valori, e qui e là. Tre minuti, e poi riparte il servizio sui meravigliosi fuochi artificiali del mondo, e sui vecchietti finlandesi che si tuffano nei laghi. Pura schizofrenia, tutte le sere a ora di pranzo e cena. Il direttore-tipo di un qualsiasi tg italiano è quel classico genitore frustrato – spesso separato – che ci tiene tanto che suo figlio si diverta, ma allo stesso tempo ha paura che prenda freddo; quello che gli fa una predica sui botti, e poi glieli compra; quello che si raccomanda guidate con prudenza, e poi riparte sgommando.

Da un lato è persuaso – poco giornalisticamente, in verità – di essere l’anima della festa: “cioè, lo capite, è capodanno! Ma no, che non capite, siete troppo stupidi! Probabile che ve lo dimentichiate, se non ve lo dico io, che sono il tg. Se non ti faccio vedere almeno 15 minuti di servizio sui fuochi d’artificio nel mondo, col veglione, gli oroscopi, e poi… che altro c’è? Il bagno di mezzanotte? Massì, mettiamoci anche il bagno, è una cazzata che fa colore”.

Dall’altro è totalmente privo di senso di responsabilità: se i teleutenti, cresciuti a servizi sui fuochi d’artificio e bagni di mezzanotte, si fanno del male da soli, sarà sempre colpa di qualcun altro. Molto spesso è la società (cattiva!), quasi sempre i genitori. Che non parlano coi figli, invece di guardare il servizio del tg1 sui meravigliosi botti di capodanno. E così via.
Se ti dicessero semplicemente: “divertiti, fregatene, spera soltanto che qualcun altro paghi i danni che farai”, sarebbero almeno sinceri. Ma no: ti mettono davanti agli occhi il divertimento, e poi pretendono di farti la morale. Auguri di buon 2008! Champagne! Ma guidate con prudenza. E poi tutti a fare il bagno… ma avete messo la maglia di lana?

anniversari, cultura, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, religioni

just one of my favourite things

(Ho pensato che se in tv continuano a dare Angeli con la Pistola, o Tutti Insieme Appassionatamente, io posso anche postare il pezzo di Natale del 2006, che è ancora buono):

Gli spettri dei Natali passati

Tutti mangiamo il panettone a Natale, ma solo i credenti sanno perché lo mangiano. Non è che il loro panettone sia necessariamente più buono di quello dei non credenti: è semplicemente più ragionevole.
(Cardinale Biffi)

1) Publio Plinio a Domizio Rufo:

“Carissimo, ti auguro con questa epistola di trascorrere un buon Natale del Sole. Non so da voi, ma qui a Mediolanum ormai lo festeggiano tutti: persino i cristiani! Sì, anche quella setta di santoni pseudoebrei, gli adoratori dei crocefissi, dopo qualche resistenza ormai si sono decisi a festeggiare come tutti gli altri.

Non c’è che da apprezzare la saggezza del nostro grande imperatore Aureliano, che volle rendere ufficiale la festa, l’ottavo giorno prima delle Calende di Gennaio. Noi cittadini dell’impero siamo diversi per lingua, razza e religione, ma tutti siamo scaldati dallo stesso Sole, che dopo il freddissimo Solstizio d’Inverno ora ricomincia timidamente a riallungare le giornate. Né Aureliano volle inventarsi una Festa di sana pianta, ma lungamente studiò il problema coi suoi collaboratori, scoprendo che la festa della Rinascita del Sole è la più universale; anche se alcuni lo chiamano Mitra, altri Elagabal, altri Helios: in fin dei conti è sempre lo stesso per tutti, e tutti ugualmente ci riscalda.

Solo i cristiani, nella loro superstizione, sono convinti di non adorarlo. Ho appreso da un mio servo, che partecipa alle loro riunioni, che pure loro mangiano gli stessi dolci impastati con frutta candita e miele: ma non per festeggiare il Sole a cui devono la frutta e i fiori, bensì la nascita del loro Dio, o profeta (essi non hanno chiara la distinzione tra i termini), Gesù Cristo.
Confesso di essere affascinato dall’ignoranza che nutrono per la loro stessa religione. Avendo dato un’occhiata, per curiosità, ai loro libri sacri, so bene che in nessun giorno del calendario è fissata la data di nascita del loro eroe. Stavo quasi per dirlo al mio servo, ma a che pro? Non sa leggere. Ma lasciamolo pure mangiare il suo pane dolce e i suoi canditi, anche se ignora l’autentico significato di ciò che fa”.

2) Ebrhardt a Kwenghjil

“Gran figlio di vacca visigota e padre ignoto, come va? Spero che in Hispania faccia meno freddo che qui. Tra un po’, grazie al cielo, le giornate si riallungheranno. Nel frattempo io me ne resto accampato in questa nebbiosa valle padana. E mi si gelano i coglioni.
Mi gelano anche perché la mia Orda ha deciso di convertirsi in blocco a quella religione del menga, il Cristianesimo.
Dicono che conviene farsi amici i vescovi, che sono i veri capi delle città. Mah. Fosse per me avrei giù brindato coi loro teschi disossati, ma forse hanno ragione. Ci vuole gente che sappia amministrare tutto questo casino.
Del resto mi conosci, io di religione mi sono sempre interessato quanto bastava per portare le fanciulle alle orge. Però, boia d’un Thor, non toccatemi Odino! Te lo ricordi, Kwenghjil, quando eravamo bambini e la mamma ci diceva di mettere fuori gli stivali pieni di carote per il cavallo del dio Odino?
Era due giorni dopo il solstizio d’inverno, come oggi. Nella notte lunghissima il dio con la barba bianca portava gli eroi caduti a una battuta di caccia. E quando si fermava alla nostra stalla, dovevamo essere a letto e non fiatare, se volevamo che ci riempisse gli stivali di nocciole al miele e altre leccornie.
E adesso mi spieghi, Kwenghjil? Se mi converto al cristianesimo, cosa ci racconto al mio nipotino? Ha il diritto di credere in Odino anche lui, o no?
Ieri sera l’ho preso davanti al fuoco e ho attaccato con la storia del dio che cavalca nella notte. Si è messo a piangere come un puledrino! Ben ti sta, mi ha detto mia moglie. Basta con queste storie di Dei barbari a cavallo, mi dice, sei vecchio, aggiornati! Se non fossi il vecchione che sono l’avrei impalata lì dov’era! E invece l’ho lasciata fare: ha preso in braccio il marmocchio e (non credevo alle mie orecchie) ha completato il racconto spiegando che Odino era un dio cattivo e feroce, che abitava nei boschi, ma poi ha incontrato un tale San Nikolao, Santa Nicola, non so, che ha convertito pure lui, e da allora è buono e porta i dolci dal camino!
…E poi dimmi se a uno non devono gelarsi le palle. Dove sono finite le tradizioni dei nostri padri? È tutta una schifezza. Meno male che posso mangiarmi ancora le mie nocciole al miele. Le mangio alla tua salute, vecchio scannagalline”.

3) Ing. Taddei Barnaba a Dott. Taddei Luciano

“Ciao dutùr, spero che ti passi un buon Natale. Qui a Milano è un freddo cane come sempre (e poi dicono il riscaldamento globale, bah). Ma se Dio vuole, da qui in poi ci si riallungheranno le giornate.
Ti saluta anche tuo nipote – perlomeno ti saluterebbe, se riuscissimo a staccarlo da quella plaistescion rivoluzionaria che gli hai regalato. Che sia l’ultima volta: siamo seriamente preoccupati. Da mezzanotte alle nove del mattino è rimasto lì impalato a dimenarsi davanti al televisore. Al che mia moglie gli ha detto: “Ma devi proprio giocarci da solo? Perché non inviti i tuoi amici?”
Gli amici di mio figlio: un cinese, un turco e un Di Gennaro. Tre ore chiusi nella stanza a dar di matto con quell’affare. A un certo punto blocco mia moglie nel corridoio con in mano un vassoio di panettone: ma sei sicura? Le ho detto io. E se è contro la loro religione?
Ma che religione e religione, fa lei. È un dolce, non lo proibisce nessuno. Appunto, faccio io, è un dolce di Natale, cosa vuoi che sappiano in Cina? Loro mica ci credono, in Babbo Natale. E poi c’è un turco, figurati.
Proprio in quel momento dal bagno salta fuori Giampiero, e alza le spalle: Papà, dice, veramente Babbo Natale viene dalla Turchia. Ma che Turchia e Turchia, dico io, chi te le racconta queste cose? La prof di religione, dice lui. Ci ha spiegato che Babbo Natale è San Nicola, e San Nicola è nato in una città che adesso è in Turchia. Ah, sì? Vorrà dire che l’anno prossimo ti esentiamo dalla materia, visto che la tua prof non sa nemmeno che San Nicola sta a Bari!
E vai!, ha detto lui. Che stronzetto ho messo al mondo.
Alla fine se lo sono sbafato, il panettone. Glie n’è fregato assai, di sapere perché lo mangiano. Che mondo. Che mondo.
Speriamo soltanto che torni un po’ di sole”.

(Un buon Natale di Sole a tutti quanti).

Chaplin, cinema, Moretti (Nanni), nicchia, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, snobismi, tv

"son pieni di energia gli uomini"

Alzati, Bordone

Anche noi, venerdì, invece di uscire e recarci in qualche covo di snobisti, siamo rimasti sul divano davanti alle Invasioni Barbariche. Così effettivamente non ci è sfuggito lo scoop più controverso dell’anno (il servizio di Matteo Bordone, travestito da Matteo Bordone, che passa un pomeriggio intero in un ipermercato e poi va a non-ballare la salsa).

E non ci è piaciuto. Forse per snobismo antisnobista di ritorno, boh. Ma sicuramente non per antipatia preconcetta nei confronti di Bordone, tutt’altro. Di tutto si potrebbe accusare la mia coinquilina, salvo di antipatia preconcetta nei suoi confronti. E tuttavia avreste dovuto vedere la tristezza nei suoi occhi.

Allora: ci sarà in giro chi odia Bordone per motivi suoi e ha voglia di parlarne male: ma forse c’è anche chi c’è rimasto male perché Bordone in radio e altrove sembra molto, molto più simpatico di quello andato in onda venerdì. Una simpatia che nel servizio non c’era più: annullata. La tv ha masticato Bordone e ha risputato l’ennesimo snob-demofobo alla Zecchi. Non doveva finire così.

Poi, per un colmo di snobismo, ha iniziato a pioverci in casa. Quando ho riattaccato il PC, ho visto che ne avevano già parlato tutti. A questo punto che faccio? Sono più snob se mi attacco anch’io, o se faccio finta di niente?


Ho finto di essere un laureando di scienze della comunincazzone e mi sono brevemente rivisto il servizio (via macchia), cercando di capire cos’è che rendeva Bordone così irritante. Il montaggio? Le luci? La fotografia? No, direi che è tutto ok. Ma sin dalle prime riprese è chiaro un fatto: non c’aveva voglia. Certo, sempre meglio che simulare finti entusiasmi. Ma per tre minuti il personaggio barbuto non fa che spostarsi da una poltrona a una panchina, sembra invecchiato di 30 anni. A un certo punto prova anche un divano automassaggiante e dice che sembra di stare sull’intercity (un treno da snob: ma anche i regionali non vibrano mica male). “A fine serata sono stravolto” dirà alla fine. Guarda, senza acrimonia ti giuro: sembravi stravolto da subito. Il servizio funziona male soprattutto perché non c’è trama: il personaggio nasce stanco e stanco muore. Ma la gente in tv vuole colpi di scena.

E poi vuole che tu faccia il primo passo. Cioè, lo sappiamo tutti benissimo che 6 ore in un centro commerciale sono da ricovero, ma almeno la prima mezz’ora ci devi provare. Devi prendere in mano un oggetto che ti piace. Solidarizzare col vecchietto o la commessa. E se ti chiedono un ballo, porco cane, devi ballare. Nella sua replica, Bordone cita il Battiato di E ti vengo a cercare, e attraverso Battiato (non so quanto consciamente), Nanni Moretti: l’archetipo dello snob barbuto italiano. Moretti è molto, molto più irritante di quanto Bordone potrà mai essere; eppure Moretti non si è mai negato il primo passo. Ci prova sempre. Se c’è da ballare, Moretti balla. In un campo da calcio si gioca a pallone. In un caffè si chiacchiera. Sulla spiaggia, ci si bacia. Poi finisce sempre male, ma Moretti ci prova. Prima d’esser buttato fuori.

Gratta gratta, il meccanismo è lo stesso dei grandi film di Chaplin: nel labirinto disumano della città moderna il Vagabondo prova qualunque mestiere, qualunque esperienza di vita. Non è mai a suo agio, ma riesce sempre a regalare all’ambiente qualcosa di originale. E tutto, per un attimo, funziona: finché non arriva qualcuno a dire che non si può stare lì. Ai tempi di Chaplin era un poliziotto-con-sfollagente. Moretti di solito si fa cacciar via da qualche “persona normale”. La banalità della prepotenza.

Io credo che la modernità debba essere esplorata con un po’ più di energia, di coraggio, al modo in cui lo faceva il Vagabondo: è un centro commerciale disumano in cui scavarti la tua nicchia, consapevole che l’estraneo, il poliziotto, la pioggia dai tegoli, può portarti via tutto in poche ore. Puoi lavorarci, ma puoi anche nasconderti, pattinarci, giocarci. Dopodiché capita anche a me di addormentarmi in piedi, se accompagno qualcuno lungo certe rotte dello shopping. E allora metto su una musichetta interna, uno di quei pezzi da pianoforte che accompagnavano i film muti. E guardo in camera e tiro avanti. Qualcuno, da qualche parte, ride di me: è una cosa che a volte consola.

il cattivo supplente, Ludwig Wittgenstein, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, parlare ai sordi, scuola

La verità sul supplente di italiano

C’è gente che è passata di qui, ha letto il pezzo sulla lezione di Ungaretti, e si è commossa: che sensibilità, che stile, che fine pedagogia. Chissà com’è bravo, questo prof. E chissà come gli vogliono bene i suoi studenti.

La realtà, naturalmente, è ben’altra.
La realtà è che io sono un povero incompetente, con la tendenza a cacciarsi nei guai e ad accettare le offerte di lavoro più inverosimili. La realtà è che dopo cinque mesi ho la netta sensazione di non aver cavato un ragno dal buco.
L’unico sensibile miglioramento: da un po’ di tempo in qua non mi capita più di chiudere la porta dell’aula a chiave e minacciare di buttar la chiave dalla finestra. Ma è dura. È così dura.

Sapete quand’è che uno capisce che non ama il suo lavoro (coliche a parte)?
Quando si mette a fantasticare di come sarebbe bello, tutto sommato, fare il commesso in un ipermercato, girare coi pattini tra gli scaffali tutto il santo giorno, e d’estate c’è l’aria condizionata. O il benzinaio – che preoccupazioni ha un benzinaio, se non fuma? Se facessi l’autista di furgone potrei ascoltare la radio tutto il giorno. E anche in fonderia pagano bene…

A volte mi sembra di aver davanti dei marziani. Simpatici, per carità, ma io non ho l’abilitazione per insegnare italiano ai marziani. Ammesso che serva a qualcosa l’italiano su Marte.
E vado a letto col batticuore, e mi sveglio con l’angoscia. Ho fatto il carabiniere, e non andava bene; ho fatto il pagliaccio, e non andava ancora. Ho urlato ed era inutile, sono stato zitto e loro urlavano. Vien voglia di corrompere il bidello, che suoni la benedetta campana, o fuggire sulla tazza del cesso, come Lodoli, che è quello il posto del letterato nella scuola dell’obbligo.

Quanto al famoso Ungaretti, ieri sono arrivati i compiti delle vacanze. Sentite un po’ – giusto per ristabilire la verità storica:

1) Secondo te, è una poesia allegra o triste?
triste

2) Cosa fa Ungaretti la notte di Natale?
Fa che non ha voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade

3) “Ho tanta stanchezza sulle spalle”. Perché è stanco?
Perché scrive molte poesie

4) “Gomitolo di strade”. Questa immagione è molto strana. Cosa vuole dire?
Doveva morire, invece no

Morale: sono più bravo a scrivere le cose che faccio che a farle. Non fidatevi di me, specie quando scrivo in prima persona.

***

Postilla su Wittgenstein (Ludwig):
Mi è venuta in mente un’altra cosa di lui: a un certo punto cercò di fare l’insegnante in una scuola media, ma non ce la fece. Fuggì, dopo aver bussato uno dei suoi scolari. Si rimise a fare il filosofo del linguaggio.
Beh, non è poi male, fare il filosofo del linguaggio. Almeno, dal di fuori parrebbe… bisognerebbe chiedere a Momo.

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Adesso è buffo pensarci, ma il proposito per il 2001 era di scrivere una poesia al giorno. Questa era la prima:

Stasera, sul finire del millennio
Un angelo (nero) mi ha visitato
Mi ha cercato a tutti i campanelli
per dirmi: Buana, ti portano via
la macchina.

Io (che ho un bell’anonimato da difendere
qui tra scuri chiusi sigillato
per risparmiare sul riscaldamento
e concentrarmi sull’ultimo concorso),
io penso sia il pappone della tipa
che abitava qui sopra quest’estate,
ospite di un sardo allucinato.
Il pappa diceva d’essere il fratello
di lei: ma non somigliavano per niente.

E giusto per sfatare questa storia
che s’assomiglino tutti, pure lei
da un mese all’altro mutava le forme.
A volte era più alta, direi somala,
a volte tracagnotta nigeriana
sbuffante con la spesa sui gradini
che poi scendeva agile, tigrina,
con tacchi da suicidio.

Vennero su due agenti a ferragosto
a chiedere se per caso era un bordello
il nostro condominio.
Ma perché pensare male di qualcuno
solo per i suoi orari? Certe volte
io e lei ci incrociavamo sul portone
(diciamo alle quattro e mezza del mattino).
“Sei stato a ballare?”, domandava,
io rispondevo e non chiedevo niente.

E – un po’ perché il sardo andava giù di testa,
e pare avesse ucciso già qualcuno
da giovane – un po’ perché l’angelo nero,
già conosceva il mio parcheggio fisso,
(e poi certo, per mancanza di prove)
non dissi niente neanche con gli agenti.

Perché, sia chiaro, io vivo qui per caso
com’è un caso finire qui il millennio
nel mezzo di un bel niente.
In piazza un carro attrezzi sgomberava
per i festeggiamenti, e la mia opel
(che mi somiglia ormai) non cooperava:
stava tra i piedi a tutti.

Concilio e mi tolgo dal disturbo
(non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo)
Buon anno angelo nero e niente grazie
È stato solo uno scambio di favori.

Un proposito per il 2002 potrebbe essere: lasciar perdere tutto, in particolare i buoni propositi.