Bibbia, Cristo, santi

Gesù sta con Equitalia

21 settembre – San Matteo Evangelista

Il giorno che tornerà Gesù, non lo troverai al Vaticano. Darà buca anche all’Onu, perché si sa, è Gesù. Se ti dico che hai più possibilità di trovarlo al bordello, tu sorridi perché in fondo ormai è una cosa da maudit il bordello: evoca più De Andrè che le piattole, il bordello è ok. Ma senti questa: lo sai dove sarà davvero più facile trovare Gesù? Dietro uno sportello di Equitalia.

Ecco, adesso sei scandalizzato.

Questo è l’effetto che faceva Gesù.

Un-due-tre, a invitarmi a pranzo tocca proprio a… te.

Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Vangelo secondo Matteo, 9,9-12).

Matteo è quasi tutto qui, di lui non sappiamo molto altro. Gli altri due vangeli sinottici non lo chiamano neanche Matteo (in greco: dono di Dio), ma Levi, nome così tipicamente ebraico. Il vangelo di Matteo è anonimo, ma è l’unico in cui Levi ha un nome nuovo, greco. Non sarebbe stato l’unico seguace ebreo di Gesù a rinnegare il nome: Saul divenne Paolo, Simone si faceva chiamare Pietro. Il caso di Matteo sarebbe particolare perché di tutti gli evangelisti è sicuramente quello che conosce meglio la Torah e i profeti – li cita continuamente. Marco se ne disinteressa, Luca è affascinato ma è chiaro che è un outsider, un autodidatta: Giovanni qualche libro l’ha letto bene ma è più un visionario che un biblista. Matteo è un ebreo (benché il suo vangelo ci sia arrivato in un buon greco) e ci tiene a farlo sapere; e ce l’ha con gli ebrei, e anche questo ci tiene a farlo sapere. Insomma il self-deprecating Jew esisteva già nel primo secolo.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci  (Matteo, 23,13).

Se la polemica coi farisei è una costante dei vangeli, è in quello di Matteo che questi diventano i personaggi che conosciamo, i benpensanti per antonomasia, sempre lesti a ficcare il naso e giudicare. Si capisce che tra loro e Matteo-Levi c’è ruggine; alla loro tronfia sicurezza di essere nel giusto, Matteo contrappone l’angoscia del peccatore che sa di essere l’ultimo nel Regno dei Cieli. “In verità vi dico, le prostitute e i pubblicani vi precedono nel Regno!” Le prostitute si sa che mestiere facessero; i pubblicani raccoglievano i soldi delle tasse dei Romani. Siccome i soldi i Romani li volevano in anticipo, fare il pubblicano comportava un certo rischio d’impresa: si investiva un capitale e poi si aveva carta relativamente bianca per spremere i creditori. I pubblicani insomma erano peggio dei ladri, che almeno rubano per sé e non per l’oppressore. Che Gesù potesse far comunella con loro era motivo di scandalo. Gli stessi evangelisti restano perplessi: Luca, soprattutto.

In un ipotetico parlamento degli evangelisti, se il monarchico Marco siede all’estrema destra, e Matteo al centro moderato, Luca come abbiamo visto è l’evangelista liberal, socialdemocratico: non è ebreo ma non mostra ostilità nei loro confronti, nutre qualche simpatia per i poveri e le loro rivendicazioni, e per le donne: appena può cerca di metterle in primo piano. Luca questa passione di Gesù per gli esattori non la capisce molto: la riferisce, perché rispetta le sue fonti, però cerca di spiegarsela: possibile che Gesù stia con Equitalia? C’è qualcosa che non torna, come si può stare coi poveri e con chi li vessa? Forse è andata così: Gesù stava con gli esattori buoni, quelli che fanno il loro mestiere in modo compassionevole. Ma esistono gli esattori buoni? Al limite si possono inventare. Luca propone il personaggio di Zaccheo, il pubblicano simpatico che quando passa Gesù si arrampica su un albero per riuscire a vederlo tra la folla; ma tra tutti Gesù ha scelto di farsi invitare a pranzo proprio da lui.

 «Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua» (Luca, 19,5)

Zaccheo è l’esattore modello: metà di quel che raccoglie lo dà ai poveri (il che significa che raccoglie il 200% delle tasse che i Romani pretendevano, ma questo è un dettaglio che a Luca sfugge. Matteo una cosa del genere però non l’avrebbe scritta, Matteo conosce i tranelli del denaro). Zaccheo, quando scopre di aver truffato qualcuno, gli rende il quadruplo della somma: Zaccheo è insomma quel tipo di pubblicano che il Gesù di Luca può frequentare volentieri. I farisei storcono il naso, ma Luca si è messo la coscienza a posto.

Ecco, questo tipo di riconciliazione con la propria coscienza, Matteo non la conosce. Prima ancora di auto-disprezzarsi come ebreo, Matteo ha iniziato ad auto-disprezzarsi come pubblicano. Gesù un giorno è passato e gli ha detto di seguirlo. Da nessuna parte si legge se dopo la chiamata Matteo continuò a fare il suo mestiere. La parabola del giovane ricco suggerisce di no (“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi”). Il Gesù di Luca sceglie Zaccheo perché è un pubblicano buono; il Gesù di Matteo sceglie Matteo perché è un pubblicano che si vergogna. Ciò che rende i farisei insopportabili a Matteo non è tanto l’ipocrisia, quanto la serenità di chi sa di essere nel giusto. Matteo non era sereno, Matteo a un certo punto ha scelto Gesù e ha rinunciato a qualcos’altro: forse alla carriera o alla sicurezza economica. I pubblicani che compaiono nel suo vangelo non sono particolarmente compassionevoli. Compaiono spesso in coppia con l’altra categoria di paria, le prostitute. Matteo non ammette nemmeno di aver organizzato un grande banchetto per Gesù: è Luca a raccontarcelo. Per Matteo (e Marco) era un pranzo qualsiasi.

Di lui sopravvive solo questa vergogna: che altro sappiamo? Dopo la pentecoste sparisce dai radar al punto che non è nemmeno stato dichiarato martire; Iacopo da Varazze lo segnala in Etiopia mentre cerca di impedire il matrimonio di un Negus con una vergine, facendosi accoltellare: è un modo di ammettere che non c’erano stati avvistamenti più vicini o verosimili. A un certo punto, ma siamo già nel 120, Papia vescovo di Ierapoli lascia scritto che l’apostolo Matteo avrebbe raccolto una raccolta di detti di Gesù in ebraico: un vangelo? Potrebbe anche essere la famosa fonte Q, o un altro cartiglio andato perso. Nel frattempo però a Roma sta prendendo piede questo Vangelo anonimo, più elegante del rozzo Marco e meno egualitario di quello di Luca (a questa altezza il vangelo di Giovanni ancora non si è visto in giro, e comunque è una cosa completamente diversa, ai limiti della fan fiction).

Il fatto che a Roma vada per la maggiore un testo evidentemente scritto da un ebreo, ricco di spunti anti-ebraici, non è così bizzarro: nell’Urbe c’era una cospicua comunità ebraica, che dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 era diventata un punto di riferimento ancora più importante. Ma a Roma c’erano anche diversi cristiani; forse fino a un certo punto la presenza dei primi aveva favorito il consolidamento dei secondi, ma già quando Luca scrive gli Atti l’ostilità tra i due gruppi è manifesta. In questa situazione non sorprende il successo di un vangelo che, oltre a dipingere i farisei nel modo più insopportabile possibile, si impossessa delle antiche scritture ebraiche e le rilegge come profezie riguardanti il Cristo. A un orecchio contemporaneo il vangelo di Matteo sembra un prodotto più maturo di quello di Marco e Luca: il primo è un resoconto grezzo, scritto in un greco approssimativo: descrive le vicende di un guaritore bizzoso che si arrabbia anche coi suoi discepoli. Luca scrive una cronaca più complessa, addolcisce di molto il carattere del protagonista e gli affibbia qualche istanza sociale. Matteo (che probabilmente non è il Matteo vero) è su un altro piano. Luca si sentiva cronista, teneva molto all’ordine cronologico; Matteo è più scrittore: ha preoccupazioni stilistiche e riorganizza in modo tematico il materiale degli altri due sinottici per non annoiare il lettore. Quando scrive, ha già in mente una comunità organizzata: lo spontaneismo di Marco e Luca è finito, e soprattutto le donne sono tornate al loro posto. Maria di Nazareth, che per Luca era il vero inizio del vangelo, in Matteo non solo non ha diritto di parola, ma non riceve nemmeno la visita dell’angelo, che invece appare in sogno a suo marito.

“Aspetta, me n’è venuta in mente un’altra:
il Regno dei Cieli è simile a…”

Il fatto che fosse più adatto alla lettura in pubblico, e che presentasse una versione più moderata di Gesù e dei fatti che lo riguardavano, ha fatto sì che la Chiesa per molto tempo considerasse quello di Matteo il primo dei vangeli – c’era anche la necessità di datarlo prima del disastro del 70, in modo che le cupe parole di Gesù sul destino del Tempio di Gerusalemme si potessero considerare una profezia. L’attribuzione all’apostolo Matteo-Levi serviva appunto a rafforzare questa impressione di primizia: Marco e Luca erano testimoni indiretti, solo Matteo era stato tra gli apostoli. L’ipotesi era basata su indizi labili, per quanto suggestivi: il fatto che solo in questo vangelo Levi si chiami Matteo, e poi la questione del denaro. Chi ha scritto il testo di Matteo aveva una dimestichezza col denaro che gli altri evangelisti non hanno. Magari Matteo ha davvero rinnegato la sua professione di pubblicano e rinunciato a tutti i suoi beni, ma non ha mai smesso di considerare il denaro un’efficace metafora di tutte le cose (continua sul Post)

essere donna oggi, Islam, razzismi, santi

Ogni santa ha il suo burqini

23 agosto – Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata “Rosa” per la tenerezza dell’incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un’agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un’altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent’anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
 a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima,
via Wiki.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

No, avete ragione. È senz’altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l’autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s’impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per “noi” o per “loro”. Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l’avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l’aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

D’accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l’era fatto costruire su misura. Quando cominciò a manifestare i suoi propositi claustrali, era ormai chiaro che la famiglia versava in difficoltà finanziarie. Se sei la decima di tredici figli sai benissimo cosa significa: che i soldi per la dote non ci sono e per sposarsi ci si dovrà accontentare. Caterina da Siena aveva visto tante sorelle accasate a uomini brutali, aveva visto una sorella morire di parto. In famiglia già si chiacchierava di farle sposare il vedovo. Caterina preferiva digiunare. Fu una libera scelta? Visse poco ma divenne famosa, tutti gli alti prelati leggevano le sue lettere, un Papa avignonese si fece persino convincere a tornare a Roma. È sui libri di storia e nelle antologie di letteratura: altre avrebbero preferito scodellare figli al vedovo.

Ah vabbe’ ma si era portata la chitarra.
Anch’io sono rimasto tappato in casa
qualche anno con la chitarra
(poi per fortuna hanno inventato l’internet).

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent’anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? (continua sul Post!)

santi, Storia

Che farai, Pier da Morrone?

19 maggio – San Celestino V, al secolo Pietro Angelario, il papa che abdicò.

Che farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone. Ogni tanto capita, in Italia più spesso che altrove, che un ruolo di grande responsabilità sia affidato a un individuo senza esperienza, una persona universalmente riconosciuta e stimata per i suoi ideali, a volte anche per la coerenza con cui li persegue – ma digiuna di politica. Il che a volte è considerato un valore, e in Italia più che altrove: se non capisci niente di politica è meglio, è una cosa sporca, fidati, magari ci firmi due carte e ci pensiamo noi. Può essere un sovrano, un dittatore, un ministro, anche solo un sindaco. Capitò anche a qualche papa. E ogni volta sembra di risentire la strofetta sardonica di fra Jacopone, poeta-frate-combattente contemporaneo di Dante, meno raffinato ma altrettanto italiano: che farai, Pier da Morrone? Vederimo el lavorato che in cella hai contemplato. Vedremo come si realizza nella pratica quello contemplavi nella tua povera cella. Ma s’è ’l monno de te engannato, séquita maledezzone!

Pier da Morrone, lo sanno tutti, non avrebbe davvero voluto fare il Papa. Era un anziano eremita, senza esperienza di politica, né di liturgia. Non parlava neanche bene il latino, in un secolo e in una situazione in cui gli sarebbe davvero servito. Nel suo volgare molisano (Isernia e Sant’Angelo Limosano se ne disputano la paternità), Pier da Morrone avrebbe potuto rispondere subito “No” ai messaggeri che gli portavano la notizia: dopo 27 mesi di stallo, i dodici cardinali in conclave avrebbero scelto te. Te la senti? Bastava un no. Pietro non lo disse. Secondo Petrarca cercò addirittura di fuggire; secondo i suoi biografi fu un po’ tirato per il saio dai monaci dell’ordine che aveva fondato, e che in suo onore si sarebbero poi chiamati celestini. Fratel Pietro, tu puoi cambiare tutto. Chi altri se non tu. Fratel Pietro, è Dio che lo vuole. Fratel Pietro, tu puoi risolvere i problemi che infangano la Chiesa, con una sola parola, che è il nostro motto: povertà. Povertà. Fratel Pietro, se i cardinali hanno scelto te, un motivo ci sarà.

La tua fama alta è salita,
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.

I cardinali in realtà non sapevano più a che santo votarsi. Era una di quelle elezioni che non finivano mai: situazione molto incresciosa per i fedeli, giacché se da una parte è normale che dodici teste abbiano dodici priorità diverse, non si capisce perché lo Spirito Santo non debba esprimersi chiaramente in tempi brevi. Già in passato, per evitare situazioni del genere, erano state adottate misure estreme: nel 1268 i viterbesi esasperati avevano chiuso a chiave i cardinali nella grande sala del palazzo papale, dando luogo al primo vero “conclave”. E siccome i porporati continuavano a litigare, avevano cominciato a scoperchiare il tetto. Alla fine era stato eletto un buon papa, Gregorio X, che aveva dato disposizioni molto dure onde evitare il ripetersi di un simile scandalo: dopo dieci giorni le porte dovevano essere sbarrate, e la dieta dei principi della Chiesa progressivamente ridotta fino al pane e all’acqua. Questo regolamento era poi caduto in disuso (sarebbe stato proprio Celestino a ripristinarlo), e così prima di eleggere Pietro da Morrone i porporati avevano già passato due anni a litigare, anche solo per decidere dove proseguire la discussione: a Roma, no che c’è la peste, a Rieti, anzi, facciamo a Perugia. Tra i dodici c’erano tre rappresentanti della famiglia Orsini, e due degli eterni avversari, i Colonna. L’equilibrio era quasi perfetto, al punto da suggerire l’idea che tirassero avanti sperando che qualche anziano morisse – un francese effettivamente morì. Nel frattempo i fedeli davano segni di impazienza.

Ma chi me lo fa fare di scendere.
Il segno più evidente lo diede Carlo d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia anche se sulla Sicilia propriamente detta non regnava: dal tempo dei Vespri l’isola era passata agli Aragona e Carlo doveva contentarsi della “Sicilia al di qua dello stretto”, quella che oggi chiamiamo Italia meridionale. Da tempo Carlo lavorava a una soluzione diplomatica. Era persino riuscito a dividere il fronte degli aragonesi, alleandosi col fratello maggiore, Giacomo II che regnava a Barcellona, contro il fratellino Federico che era reggente a Palermo e non aveva intenzione di andarsene. Ma per firmare una pace seria aveva bisogno di un pontefice che la suggellasse. Se gli Orsini erano chiaramente dalla sua parte, i Colonna stavano con gli Aragona, forse perché finanziati da Federico o semplicemente per il gusto di mettere i bastoni nelle ruote degli Orsini.

A un certo punto Carlo d’Angiò decise di recarsi a Perugia, col manifesto proposito di metter fretta ai cardinali e allo Spirito Santo. Un gesto di arroganza inaudita. Quando irruppe nel conclave, i cardinali riuscirono a sbatterlo fuori, e pare che nell’occasione il più risoluto si mostrasse il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani: sì, il futuro Bonifacio VIII. La discussione proseguì finché il decano, Latino Malabranca Orsini, non ebbe la pensata di mostrare una lettera che gli avevano recapitato. Il contenuto, una cosa del tipo ‘se non vi sbrigate ci sarà l’apocalisse, sciagure e cavallette, ecc.’ era forse la parte meno interessante. Di lettere così dovevano arrivarne di frequente, a tutti i presuli. Più stuzzicante era l’identità del mittente: Pier da Morrone. Non il solito eremita pazzo. Cioè. Eremita senza dubbio, e mediamente pazzo come tutti, ma universalmente conosciuto e stimato. Molto prima di varcare il Sacro Soglio, fratel Pietro era già una celebrità, un santo in terra, sin dai tempi in cui si era recato a piedi a Lione, per il concilio in cui Gregorio X sperava di sanare lo scisma d’oriente, nel 1273. Pietro poco o nulla sapeva di scismi, ma era preoccupato per la sorte del suo ordine, che come tutti quelli di più recente fondazione rischiava di essere sciolto. Tecnicamente si trattava di un ramo dei monaci benedettini, ma la povertà radicale che predicavano e praticavano li inseriva nel più vasto movimento pauperistico del Duecento.

Como segno a saietta,
tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.

La Chiesa ufficiale non si era mai trovata a suo agio coi pauperisti. Predicare la povertà radicale poteva portare a forme di ribellione contro la proprietà privata e l’ordine costituito – era da secoli che succedeva. Con alcuni pauperisti ci si poteva ragionare: ad esempio Francesco d’Assisi aveva ottenuto il via libera da Innocenzo III, e il suo estremismo iniziale era diventato minoritario nel suo stesso ordine (Francesco probabilmente non era contento della piega che avevano preso gli eventi, ma era morto presto). La differenza tra essere bruciati come eretici e venerati come santi era minima e poteva dipendere da un niente, magari dal sogno di un pontefice che ha fatto indigestione. Gregorio X non solo aveva accolto il povero fratel Pietro con tutti gli onori, ma gli aveva chiesto di celebrare una messa per tutti i padri conciliari. Nessuno ne era più degno di lui, aveva affermato. Gregorio era in contatto diretto con tutti i più grandi personaggi della Chiesa del suo tempo: Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Luigi IX re di Francia: l’Europa brulicava di futuri santi e Gregorio li conosceva tutti. Per cui no, Pietro da Morrone non era il solito eremita convinto che tutti i problemi si possano risolvere digiunando. Perlomeno, era un eremita stimato da papa Gregorio.

MA CHI ME LO FA FARE DI SCENDERE GIU'.
Tutto questo comunque era successo vent’anni prima. Da lì in poi, nulla di particolarmente eclatante era successo nella vita di Pietro: era tornato negli Abruzzi, dove si divideva tra il suo eremo preferito sulla Majella (Santo Spirito) e quello un po’ meno estremo, più accessibile a visitatori e fans: Sant’Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona. A parte digiunare e inviare ai potenti della terra qualche profezia di sventura, Pietro non è che facesse un granché, né nessuno si aspettava molto altro. Era idea corrente che l’uomo più santo e meno corruttibile della terra vivesse una vita di privazioni da qualche parte negli Appennini, pregando per i peccati di tutti. Finché al cardinale decano non viene l’idea: e se incoronassimo lui? Ha più di ottant’anni, che male vuoi che faccia. Monsignor Latino Malabranca aveva più fretta degli altri, forse sapeva che non avrebbe passato l’estate (morì in agosto).

A quel punto a Perugia erano rimasti in sei cardinali: gli altri accorsero quando ormai l’idea si era conquistata un nocciolo duro di sostenitori. Non avendo i verbali possiamo ricamare a piacere: immaginare i cardinali che sbattono il pugno sul tavolo e dicono basta, qui mentre chiacchieriamo i cristiani perdono ogni fiducia nelle istituzioni, è ora di dare un segnale forte. Pensiamo fuori dalla scatola, allarghiamo il quadro, e qualche altra di queste menate da consiglio d’amministrazione che in ogni secolo si scrivono in una lingua diversa senza perdere la loro fumosa consistenza. Bisogna mostrare che recepiamo le istanze della base, insomma, quelli non fanno altro che gridare povertà povertà, credono che sia la chiave di tutti i problemi, e noi diamogliela. Pietro è perfetto, non ha mai scritto o detto nulla di lontanamente eretico, e soprattutto… è anziano. Già, quanti anni ha? Non si sa, ma va per i novanta.

Si se’ auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.

Che si trattasse di una soluzione transitoria, in attesa di mettersi d’accordo su un nome più importante, era forse chiaro allo stesso monaco, che dopo qualche esitazione scelse di ereditare il nome dal titolare di uno dei pontificati più brevi della storia: Celestino IV, nel 1241, aveva regnato per appena 17 giorni. Pietro non si aspettava di durare parecchio di più. Il fatto è che mentre certi pauperisti muoiono molto presto, stroncati dalle privazioni che si autoinfliggono (Francesco d’Assisi, Caterina da Siena), altri viceversa sono molto longevi (Francesco da Paola). Probabilmente azzeccano la dieta giusta, riducono le frustrazioni e passano la novantina in tutta tranquillità. Un papa povero, digiuno di tutto e quindi anche di politica, poteva essere facilmente manovrabile: ma da chi?

Non ci volle molto tempo per scoprirlo. Re Carlo lo Zoppo da Napoli andò a prenderlo direttamente alla Majella, e non lo avrebbe più mollato. Pietro non riuscì nemmeno a raggiungere i cardinali a Perugia: fu probabilmente Carlo a sconsigliarlo di uscire dai confini del suo regno. Papa Celestino V non risedette mai a Roma, né la cosa dovette dispiacergli troppo: c’era stato da giovane, per studiare, e se n’era andato appena aveva potuto. Fu incoronato nella cattedrale più vicina al suo eremo, all’Aquila: quella basilica di Santa Maria di Collemaggio che secondo la leggenda era stata costruita su sua richiesta (quand’era un semplice eremita aveva trovato riparo in una chiesa diroccata, e la Vergine in sogno gli aveva chiesto una Basilica più grande in loco). Celestino entrò all’Aquila come Gesù a Gerusalemme, a dorso di un asino a cui re Carlo teneva le briglie. La metafora si prestava a diversi piani di lettura (continua sul Post)

razzismi, santi

El negher di Sicilia

San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)

Brut negher, torna all’infer’n. Immaginatevi la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell’Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli ammazzano i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori…

Il ritratto (anonimo) più credibile.

Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. E insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora abbastanza. L’eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: “Ma di chi sono questi buoi?”

“Della mia famiglia”.

“Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?”

“Li ho comprati io”.

“Due buoi? Con che soldi?”

“Avevo dei risparmi”.

“E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?”

“Non ascoltavo”.

Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da creare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato – l’ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l’invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li chiameremmo nemmeno lumbard: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non riuscivano a capire una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio Lunaria: oppure qua potete trovate qualche poesia in gallo-italico siciliano, e verificare come quello di San Fratello sembri il meno siculo di tutti). Per dire non credo proprio che oggi si dica “negher” in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.

“Senti, perché non ti disfai di questi buoi?”

“Ma sono miei”.

“Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri”.

“I miei sono poveri”.

“A maggior ragione”.

“E poi che faccio?”

“Vieni con me”.

“A fare il frate?”

“Molto meglio che fare il pastore. E poi cos’hai da perdere?”

“Due buoi!”

“Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi”.

“E perché non dovrebbero…”

“Perché sei un negher!”

(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).

“Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s’è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare…”

“Un frate negro?”

“Un santo”.

“Un santo negro?”

“E quelli vanno forte”.

“I santi negri?”

“Fidati di me. Vendi quei buoi”.

sao_beneditoAnche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d’ebano “Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio“. Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito “schiavo negro“. Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull’altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così… poi ci sono le madonne nere, tipiche dell’iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell’arrivo degli arabi. E poi a un certo punto arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c’è il Beato Antonio l’Etiope, detto anche Catagerò d’Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che “etiope” poteva semplicemente significare “nero ma cristiano”: il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l’incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio (continua sul Post, come ai vecchi tempi!)

cristianesimo, razzismi, santi

Anche oggi tutti teologi

10 gennaio – San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

“Anche oggi c’è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che ascoltare o dire cose nuove o insolite. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che tutto a un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando; questa città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi… venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Se chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono filosofeggiando sulla natura del Generato e dell’Ingenerato; se vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l’acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla…

padri cappadoci

Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano memi, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti – no, non l’ultimo – neanche il terzultimo – forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l’argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell’invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l’esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po’ liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell’incompetenza popolare… sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell’Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l’errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell’orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un’occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l’aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell’invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto. L’altro Gregorio – non quello di Nissa – fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po’ in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell’incredulità di una saga fantasy – pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato “creato” o “generato” dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d’altro. Ma, ecco, di che parliamo? (continua sul Post)

santi

Xavier, cuore di tenebra

 3 dicembre – San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

…apud campum babylonicum ducem impiorum in cathedra ignea et fumosa sedere, horribilem figura vultuque terribilem (Ignazio di Loyola, Exercitia Spiritualia, 140)

Suppongo che vi ricordiate quando sono diventato, per un po’, marinaio di acqua dolce.

Ma cominciamo con ordine. In quel tempo ero tornato a Goa, al collegio. Ufficialmente ero in ritiro spirituale. Stavo cercando di smettere con l’oppio, anche. Non ridete. Me lo aveva prescritto un dottore indiano contro l’ulcera. Senza accorgermene avevo aumentato le dosi. È difficile spiegare a chi non l’ha provato. Ti sembra di entrare in un mondo diverso, che al risveglio non sai raccontare nemmeno a te stesso. Potrebbe essere il paradiso, ma più probabilmente è un altro luogo. In ogni caso, avevo visto uomini migliori di me partire e non tornare, ed ero determinato a non seguirli. Così mi ero chiuso in una cella col mio Eymerich tascabile e il flagello. Quando i miei nervi cominciavano a tendersi e a chiedere il frutto del papavero, io cercavo di strapparmeli a nerbate. Poi il dolore mi teneva sveglio tutta notte e un po’ d’oppio dovevo prenderlo comunque, per non impazzire. Vedevo le pareti della cella stringersi intorno a me, e pensavo alla giungla. Sentivo di diventare sempre più debole, e vedevo gli idoli diventare sempre più forti – stavo sbagliando metodo, evidentemente.

D’altronde, ognuno ottiene quello che vuole. Io volevo una missione; e per scontare i miei peccati me ne assegnarono una davvero speciale; una volta conclusa, non ne avrei volute altre.

Non posso raccontarvi tutto, naturalmente. Ricevetti un invito a pranzo che non si poteva rifiutare. Mi buttai sotto un getto d’acqua gelida per togliermi la giungla dalle palpebre, e nel giro di un paio d’ore ero di nuovo un domenicano nel suo saio pulito e profumato, al cospetto dell’Inquisitore Generale di Goa.

Si era fatto arredare un bell’ambientino, nel palazzo di un Khan locale. Il disprezzo per gli idoli, e le vacche sacre in particolare, lo manifestava facendone arrostire generose porzioni per gli ospiti.

“Buongiorno padre”.
“Buongiorno fra Marcelo. Ha già conosciuto il Generale?”
“No padre, non di persona”.
“Lei ha lavorato molto in autonomia, è vero?”
“Sì padre, è così”.
“Nel suo dossier si parla di un paio di autodafè nei distretti a nord di Goa”.
“Al momento mi dichiaro non disponibile a parlarne, padre”.
“Lei non ha già lavorato per l’Inquisizione?”
“No padre”.
“Non ha bruciato tre idolatri e due musulmani in un villaggio a venti leghe da qui?”
“Non… non mi risultano le attività da lei menzionate. Ne sarei propenso a parlarne qualora tali attività…”
“Cos’è quel brutto taglio sul collo?”
“Un incidente di pesca durante le attività ricreative, Padre”.
“È profondo. Sembra un gatto a nove code. Lei fa uso del gatto a nove code nella sua cella?”
“No padre”.
“Lo sa che è proibito?”
“Certo padre”.
“Va bene, si sieda. Ha l’aria di uno che digiuna da un mese. Vediamo quello che abbiamo qui. C’è dell’arrosto, di solito è buono. Ma se vuole provare i crostacei, non dovrà fornirci ulteriori prove di coraggio”.
“Grazie, padre”.
“Mi serve nel pieno delle forze. Ha mai sentito parlare di Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier?”
“Nato in Navarra nel 1506, al collegio fu compagno di cella del fondatore dell’ordine noto come Compagnia del Gesù, Íñigo López Loiola. Inviato da questi a Goa nel 1541 su richiesta di sua maestà il re del Portogallo, estese l’opera di evangelizzazione delle Indie fino a Malacca, alle Molucche e a Cipango, battezzando milioni di indigeni e compiendo centinaia di prodigi…”
“…Non tutti risultanti al nostro Sacro Ufficio. Vada avanti”.
“Nel 1552, desideroso di portare il messaggio di Nostro Signore Gesù Cristo nell’impero della Cina, parte su una giunca diretta all’estuario del fiume delle Perle, ma muore di febbre nell’isola detta di Sanclan. Dio dà, Dio toglie, Dio sia benedetto”.
“Amen. Tutto qui, figliolo?”
“Più o meno sì”.
“È sicuro di non aver sentito altre voci?”
“Niente di rilevante, padre”.
“A proposito di un padre gesuita che addentrandosi nel fiume delle Perle con un carico di fucili, avrebbe portato la coltivazione del papavero nel cuore del Guangdong?”
“Lo apprendo da voi, padre”.
“Francisco Javier è stato uno dei migliori pastori che la Chiesa abbia mai inviato nelle Indie. Un cavaliere e un santo. Spiritoso, intelligente. Ma in un qualche modo non riusciva ad accontentarsi. Lo avremmo voluto più spesso presso di noi, a Goa. Come sa, c’è tantissimo lavoro da fare per le anime dei sudditi indiani del Re, senza andare in capo al mondo. Sappiamo che lo stesso Loyola gli aveva chiesto di fermarsi. E invece… le Molucche, e poi il Giappone, e poi… la giungla. Lei conosce la giungla, fra Marcelo?”
“Ci sono stato”.
“Poi però ha dovuto andarsene… ha conosciuto i tormenti dell’ulcera, mi hanno detto”.
“Cibi troppo speziati”.
“Che altro ha conosciuto?”

L’orrore.

“Si sta ancora curando?”
“No, padre, sono guarito”.
“Me ne rallegro. Stavo dicendo… quando Francisco si addentrò nel Fiume delle Perle, le sue lettere cominciarono ad apparirci… insane. Abbiamo pertanto stabilito di non divulgarle. Eccole qui” (continua sul Post!)

Islam, razzismi, santi, terrorismo

Islam non è la risposta

20 novembre – San Dasio († 303), martire.

A San Dasio, un martire qualsiasi, caduto ovviamente ai tempi di Diocleziano presso Durostorum (oggi sarebbe Bulgaria), un monaco che s’annoiava associò una leggenda curiosa. Dasio non aveva ancora fatto il suo coming out di cristiano, quando fu acclamato dai suoi concittadini re dei Saturnali, il carnevale di quei tempi: al termine del quale il re sarebbe stato scannato dai suoi sudditi in festa. Era un’usanza che magari il monaco si inventò lì per lì per conferire ai legionari pagani i costumi più turpi possibili: finché James Frazer non la trovò e in un qualche modo decise che si trattava dell’unica testimonianza rimasta di un antichissimo rito comune a tutta l’antichità greca e romana, in fondo perché no? Se l’ha detto Frazer.

sacrifice Solo a quel punto Dasio, vedendosi comunque condannato a morte, decise di rivelarsi per un cristiano: e così, invece che sacrificato a Crono, morì da martire. La storia sembra escogitata apposta per provocare una discussione: benché sia morto esattamente sotto le stesse armi di tanti altri colleghi di martirio, Dasio potrebbe sembrarci un po’ meno eroico: mentre ad altri fu offerto di rinnegare il loro Dio, e rifiutarono, Dasio sapeva che sarebbe morto in ogni caso. L’unica scelta a sua disposizione era cambiare il senso della sua morte. Voi dite che io muoio per X, e invece io muoio per Y. Per noi, che non crediamo più né in X né in Y, la cosa sembra quasi irrilevante. Ma la stessa cosa penseranno i posteri di noi.

Un giorno scrolleranno un papiro, un microfilm, un’immagine a mezz’aria, e leggeranno dei dibattiti che facevamo nel novembre del 2015 sugli stragisti di Parigi: se fossero morti perché (x) islamici o perché (y) vittime della mancata integrazione, del degrado delle banlieues (z), del pasticcio geopolitico medio-orientale (w), della carestia che col riscaldamento globale cominciava a bussare a un bordo del Mediterraneo (v): e tutti questi concetti per loro saranno ugualmente astratti. I fatti di cronaca in sé, invece, li afferreranno benissimo: c’era una fazione che voleva seminare il terrore sparando a obiettivi precisi ma anche a casaccio; questo è comprensibile, è successo altre volte e probabilmente non smetterà mai di succedere, per cui possiamo essere ragionevolmente sicuri che finché ci saranno individui della nostra specie, la violenza terroristica non sarà loro aliena: ma avranno parole diverse per spiegarla, parole che a loro sembreranno molto più semplici. Scrolleranno la testa, invece, di fronte alle nostre astruse spiegazioni, alle nostre razionalizzazioni così poco razionali.

Quando per esempio parliamo di Islam, e ci domandiamo se possa avere o meno a che fare col terrorismo. È una domanda seria? Voglio dire, sono musulmani integralisti, brandiscono il Corano, ci definiscono infedeli e crociati, e muoiono come martiri: così a occhio direi che l’Islam un po’ c’entra. È curioso anche solo il fatto che ci poniamo il problema. Perché abbiamo difficoltà ad ammettere che la religione sia un fattore determinante, se non scatenante, di un fenomeno terroristico? Probabilmente perché abbiamo paura di offendere quei musulmani che non sono integralisti, né fanatici, né terroristi (è la stragrande maggioranza) e che anzi, sono il primo obiettivo degli integralisti, dei fanatici, dei terroristi. I cosiddetti “islamici moderati”. Bene.

India France Paris AttacksMa è una paura che si spalma sull’ipocrisia. Se davvero fossero “moderati”, non dovrebbero offendersi, tanto è evidente il fattore religioso in un terrorismo di dichiarata matrice islamica. Allora forse siamo noi per primi a non crederci molto, a questa cosa dei “moderati”. Abbiamo paura di urtare la loro suscettibilità – e se poi si radicalizzano? Se smettono di essere “moderati”? (Noto qui per inciso che in italiano il termine esiste solo per gli islamici: non ho mai sentito parlare di cristiani o di ebrei “moderati” – al massimo di cristiani integralisti, o ebrei ultraortodossi. L’islam è l’unico grande monoteismo che sentiamo di dover “moderare”).

Il vero motivo per cui almeno io percepisco una certa difficoltà a individuare l’Islam come un agente patogeno del terrorismo, è molto più terra-terra: non voglio darla vinta alla Fallaci. E a tutti quelli che la citano, ovviamente, ormai senza neanche leggerla più (resterebbero sorpresi nello scoprire, per esempio, che era scettica sugli effetti della Guerra al Terrore di Bush; e del disprezzo con cui liquidava la Lega e il suo leader di allora). Per un sacco di gente, dall’11 settembre di 14 anni fa, “Islam” è diventata la risposta più comoda, e in molti casi l’unica. Perché ci vogliono ammazzare? Perché sono islamici. Ma non sarà che provengono da Paesi disastrati dalle fallimentari strategie geopolitche delle superpotenze? Naaah, è solo che sono islamici. Sicuri che non c’entri per niente il modo in cui abbiamo corrotto la loro classe dirigente, mettendo un Paese contro l’altro e vendendo armi un po’ a tutti, senza riflettere su che fiori tossici sarebbero nati dalle macerie? No, no, guarda, è molto più semplice: loro leggono un solo libro e su quel libro c’è scritto che ci devono ammazzare. E la fragilità del benessere di Paesi basati sull’esportazione di idrocarburi, praticamente privi di una classe media che possa creare le premesse per una democratizzazione e laicizzazione della soc… Uff, perché la fai tanto lunga? Islam. E la questione israelo-palestinese, questa ferita aperta che non si ricuce mai? Anche lì, è semplicissimo: i palestinesi sono islamici, gli islamici sono antisemiti, quindi… E il malessere delle banlieues? Dovevano stare a casa loro. Ma le migrazioni sono inevitabili, cioè guarda qualsiasi proiezione demografica, è chiaro che un sacco di gente arriverà in Europa da sud in cerca di cibo e lavoro, parliamo di milioni di persone, mica li puoi tenere fuori… non essere buonista, loro vengono perché sono islamici e sul loro libro c’è scritto che ci devono conquistare. Ecc. ecc.

libero

Nota per il postero: non sto riassumendo dei discorsi da bar. Ovvero, è chiaro che se ne sentono anche al bar, di discorsi così: ma sono gli stessi che fanno autorevoli leader di partito, intellettuali, opinionisti anche loro “moderati”: quelli del Corriere che si nascosero dietro le urla scomposte dell’anziana Fallaci (nessun editorialista maschio ebbe il coraggio di prendersi una fatwa in quell’eroico momento: tutti dietro la vecchietta). Quelli un po’ bricconcelli, un po’ situazionisti del Foglio; gli sciacalli del collasso del berlusconismo, Salvini e la Meloni. Per loro ormai “Islam” significa “ci odiano”, il che rende i loro ragionamenti perfettamente circolari, se non puntiformi. Perché ci odiano? Perché sono islamici. Perché sono islamici? Perché ci odiano. Quel corto circuito tautologico che attirava l’attenzione di Roland Barthes. “Islam” per noi è ormai un mito, nel senso che lui dava al concetto; una parola svuotata del suo senso originario, delle storie complesse che rappresentava, e trasformata in un dato di natura. “Ci odiano”, e non c’è bisogno di altra spiegazione. Ormai lo possiamo scrivere sulla cartina, proprio dove una volta scrivevamo “Hic sunt leones”. Non c’è bisogno di indagare, studiare, capire. Ci odiano. Perché? Islam (continua sul Post…)

antisemitismo, autoreferenziali, cristianesimo, giornalisti, giustizia, santi

Un articolo disgustoso (ma non abbastanza)

Il caso è molto piccolo, ma potrebbe tornare utile a chiunque: l’estate scorsa, mentre qui ci divertivamo con procioni e Copernico, qualcuno pensava bene di segnalare alcuni miei articoli disgustosi all’Ordine dei Giornalisti, il quale non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.

Così ha aperto un procedimento a carico di Luca Sofri.
Violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica.

Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).

Postilla inutile: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L’ho cancellato – mi sembrava un po’ troppo personale – e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.

autoreferenziali, santi, segnalazioni

Domenica sono a Perugia (liberate il drago)

Ciao a tutti, volevo dirvi che domenica do il mio contributo all’allegro settembre festivaliero (ormai agli sgoccioli) partecipando alle celebrazioni di San Michele di Perugia, con un intervento su come si ammazzano i draghi. Si parlerà ovviamente di angeli – anzi arcangeli – di riti misterici, pestilenze e altre eccitantissime cose che mi verranno in mente. L’appuntamento è alle 11 presso 11 presso la biblioteca di San Matteo degli Armeni. Perlomeno qui è scritto così. A presto.

(Poi forse mercoledì vado qua, ma non dovrebbero inquadrarmi, tranquilli).

lingue morte, santi, traffici di senso

In una parola, Klopstock.

Ancora una graticola? Ma è roba vecchia.
22 gennaio – San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant’Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po’ che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice “Voltami, son cotto”, come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un’originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell’Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l’ho detta! questa forse sì, ma intendevo l’esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l’Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l’esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene “quam minimum credula postero“, più o meno “credi al futuro quanto meno puoi”. Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Che ci importa del futuro, qui e ora prendere tutti sette in condotta ci sembra una splendida idea.
D’altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo “Faccio cose vedo gente”. Diciamo “ho visto cose”, e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo “digitale” e le dita sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all’incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

Un altro esempio. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c’è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C’è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo – se ce l’hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance, e non ditemi che avete mai letto davvero il Giornalino di Gian Burrasca. Chi dice “casanova” quasi mai ha letto l’Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro “bartsimpson” per dire “bimbo iperattivo” non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni… bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi. Abbiamo già visto che “Bartolomeo” è un ibrido curioso: il prefisso aramaico “Bar” sta per “figlio”, mentre “Tolomeo” è una voce greca per “guerriero”, come si conveniva al nome di una dinastia egizia fondata da un soldato macedone. Bart è il figlio di un guerriero (quanti secoli di significato in quella misera t). Ed è Simpson, ovvero figlio dei semplici – ma questa è l’etimologia più superficiale. In realtà “Simp-” è una corruzione dell’anglo “Simme”, che può essere sia la versione nordica dell’ebraico “Simon” (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso “Sig” starebbe per vittoria, “mund” per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell’uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, “Bart” e “Simpson” sono quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di “brat”, e “Simpson” era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo. Uscire dal museo e buttarsi nella mischia. Carpe diem, come disse Renzi.

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe – in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l’autore di quell’agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo – e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili – i Dolori del Giovane eccetera. Se l’avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s’innamora di lei. L’espressione “colpo di fulmine” forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è “Klopstock”.

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

(continua sul Post…)

Francia, Islam, santi, terrorismo, vignette sataniche

Charlie è un martire, e io l’ho tradito

13 gennaio – Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam

Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall’imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant’anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un’ottantina.

I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II – il più grande santificatore della storia – nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l’occasione si legge che “il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell’Oriente”. Sarà.

Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato – lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina – qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell’Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c’è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.

Ci ho ripensato domenica, dando un’occhiata come tutti agli oceanici funerali dei caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l’attentato di tre anni fa), e l’hanno corso fino alla fine. “Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”, aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l’opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un’epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l’icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?

Si è visto nell’occasione che non eravamo disposti poi a molto. Da qualche tempo lo Stato non forniva più una scorta, e Charb ne aveva una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po’ fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.

Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l’islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po’ leziosa. Charb è vittima dell’integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa – come è stato da molti notato – il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone. 

Siamo tutti Charlie… ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un’altra legge sanziona l’incitamento all’odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l’Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po’ meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.

La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant’anni in su sono entusiasti – ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l’Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l’arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee – quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz’ora dopo il primo combattimento, l’idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un’ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.

Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l’unico diritto in discussione è quello di offendere l’Islam: per loro è una religione che incita all’odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c’è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.

Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall’altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però… stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall’altra parte qualche columnist dall’altra parte dell’Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione intepretata da un’élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall’alto sui cittadini riconoscenti. Dall’altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua sul Post…)

santi

Il francescano volante

La sua gabbia a Osimo. Neanche un trespolo.
San Giuseppe da Copertino (1603-1663), frate e mistico, patrono degli astronauti, amico degli studenti e protettore degli esaminandi

Comporre le classi, in particolare le prime medie, è più un’arte che una scienza. Non ci sono parametri oggettivi, non c’è modo di sapere se quello che stai facendo funzionerà o no. Se tutti si lamentano è un buon segno: se fossero in pochi a lamentarsi probabilmente avresti commesso un’ingiustizia, favorendo qualcuno a scapito di qualcun altro. Se si lamentano tutti almeno sei sicuro di non aver favorito nessuno, il che è già qualcosa.

Una delle difficoltà fondamentali, quando componi le classi, è far vuotare il sacco alle maestre elementari. Esse sanno molto dei ragazzi che tu devi mescolare in un pastone il più possibile uniforme. Sanno senz’altro distinguere i ragazzi talentuosi e i criminali in erba, e tuttavia neanche sotto tortura ti diranno “Omar Pascià è un ragazzo talentuoso!” o “Livio Barazzutti è un criminale in erba”. Li hanno avuti in custodia per cinque e più anni, e quindi non glieli tocchi, sono i loro bambini. Sono tutti bravissimi. Sono tutti meravigliosi. Al limite, a volte, aggiungeranno espressioni sibilline come “…è da capire”. Per intenderci: se la sua maestra dice che Livio “è da capire”, Livio non è semplicemente da capire. È da guardare a vista per evitare che mangi gli altri bambini, o i loro astucci, o li faccia mangiare agli altri bambini (i loro astucci).

“E Giuseppe?”
“Eh, Giuseppe, Giuseppe… è meraviglioso”.
“Naturale. Ma a parte questo? Morde?”
“No… no… tendenzialmente no”.
“Tendenzialmente”.
“È un ragazzo straordinario, con una sensibilità, una fantasia…”
“Quindi non lo mettiamo in prima G”.
“Ma no, perché?”
“Perché sarebbe il ventesimo straordinario, sensibile e dotato di fantasia. Anzi facciamo così: da qui in poi, mi dici soltanto quando non sono straordinari e sensibili. Se non dici niente do per scontato che sono straordinari e sensibili. C’è il completamento automatico, vedi?”
“Però Giusi non è come gli altri, lui è un po’ di più… come dire…”
“Più sensibile?”
“Insomma va capito“.
“O mio dio. Un altro?”
“Ma no, non in quel senso…”
“Non è un maniaco oppositivo violento, mi vuoi dire”.
“No, tendenzialmente…”
“Tendenzialmente”.
“Anche la neuropsichiatra ci ha confermato che è tutto a posto, non ha niente che…”
“Ehi ehi ehi, ferma, è uno da neuropsichiatria?”
“No, no, assolutamente”.
“Ma qualcuno ce l’ha portato”.
“Noi no, noi non c’entriamo, per noi era solo un ragazzo che…”
“Senti, ne ho altri settanta da piazzare entro sabato, e non è che io voglia sapere vita morte miracoli. Soltanto se graffia o no”.
“Non graffia”.
“Oh, grazie”.
“Però… vola un po’, ecco”.
“Ricevuto, lo mettiamo al piano terra”.

GIU'! PORTATELO GIU'!

Giuseppe da Copertino volava. Per un santo è quasi una cosa banale. È un po’ meno banale il modo in cui confratelli e gerarchie reagivano al miracolo: con fastidio. Il francescano volante passò parecchio tempo in gabbia. Dopo aver tanto penato sui libri per riuscire a diventare sacerdote, alla fine gli toccò officiare nella sua cella, da solo. Questa cosa di levitare a ogni menzione della Madonna o di Gesù, o anche solo per aver fissato un’immaginetta santa, dopo un po’ riusciva snervante. Ok, lo abbiamo capito, sei santo, ma adesso vieni giù, comportati come una persona normale. No, niente da fare. Giuseppe non ce la faceva. Guarda che chiamiamo l’Inquisizione!

Per fortuna quella spagnola era impegnata. Si scomodò l’Inquisizione napoletana, forse meno intransigente. Ma chi è questo tizio? Perché non riesce a star fermo? Siamo nel Seicento, è un po’ prestino per diagnosticare un deficit dell’attenzione.
“Non riesce a farci niente. Anche mentre gli parli: un momento è qui che ti ascolta, l’attimo dopo è in orbita”.
“Ha sempre fatto così?”
“Difficile dirlo, ha già cambiato molte classi… volevo dire, molti conventi”.
“Ahi”.
“Copertino (Lecce), Martina Franca, Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone, Osimo…”
“Non riesce a tenerlo nessuno. Nel faldone cosa c’è scritto?”
“Bambino meraviglioso”
“Naturale. E poi?” (continua sul Post…)

Leonardo sells out, madonne, santi

Altre cinque straordinarie Madonne che ti lasceranno senza fiato

15 agosto – si celebra l’assunzione in cielo di Maria, ratificata da Pio XII nel 1950, dopo diciannove secoli di precariato. Quale occasione migliore per proseguire la carrellata delle Dieci madonne più incredibili della Cristianità?

Clicca qui per le altre incredibili Madonne (dal sesto al decimo posto).

La Madonna ti dà una mano

5. Madonna con tre mani (o Tricherusa).
Se vi capita di vederla in un’icona, non scappate terrorizzati. È una tipologia mediamente diffusa in ambito ortodosso. Non è che le sia spuntata una mano in più – la terza mano in origine era staccata. È la mano che ha fatto spuntare al teologo San Giovanni Damasceno, al secolo Mansour Ibn Sarjun, dopo che il califfo gliel’aveva fatta tagliare. Il califfo in realtà aveva avuto un’alta considerazione di Mansour, ma era stato manipolato dall’imperatore bizantino Leone III, che stava mettendo in giro idee false e tendenziose su quel teologo siriano che difendeva apertamente l’iconodulia (la venerazione delle icone). Leone era invece fieramente iconoclasta. La Madonna che apparì da un’icona dopo la mutilazione esortò Mansour a non mollare la sua lotta per la libertà delle icone, e gli promise una mano nuova entro il mattino. Così fu, e Mansour per ringraziarla appese una mano d’oro all’icona stessa. Nasce così la simpatica abitudine di ritrarla con tre mani, una delle quali è sempre pronta per te se ne hai bisogno.

4. Madonna di Zaro
Alcune madonne moderne sono particolarmente assidue. Quella di Zaro, nell’isola di Ischia, appare ogni 8 e 26 del mese dal 1994 – vent’anni! E siccome i messaggi vengono pubblicati con regolarità sul suo sito, direi che abbiamo trovato la Madonna dei blogger. Che ne avevano bisogno.
Tante cose ha detto la Madonna di Zaro ai suoi ragazzi (ormai ne sono rimasti soltanto due in contatto con la vergine), che gli stessi veggenti ormai hanno difficoltà a ricordarsi le profezie e a verificare se per caso si siano esaudite. Furono ad esempio i giornalisti nel 2001 a ricordare a Simona di aver raccontato in un’intervista di sette anni prima una visione in cui le crollavano le Twin Towers (ma anche la Statua della Libertà). Particolarmente suggestiva è la visione che qualche anno dopo è stata interpretata come una profezia delle dimissioni di Benedetto XVI (ma quelle le avevo previste persino io, senza aiutini dall’alto):

Ho visto il Vaticano, il grande piazzale, l’obelisco, l’intero colonnato. Tutto era come in una grande cartolina che lo rappresentava nella sua immensa bellezza. Poi mi sono trovata all’interno della chiesa, ero come sospesa e guardavo tutto dall’alto. Il Santo Padre Benedetto sedicesimo presiedeva la celebrazione, era circondato da vescovi e cardinali, non c’erano altre persone. Il Papa ad un certo punto ha lavato le sue mani in una bacinella d’oro. All’improvviso gli si è sfilato l’anello dal dito ed è caduto nell’acqua, quindi ha rimesso le mani nella bacinella e quando le ha rialzate erano piene di sangue, ma l’anello non lo ha ritrovato. Poi ha alzato le braccia al cielo come per mostrarle a tutti; lui non sembrava stupito di tutto questo.

Clicca qui per conoscere finalmente le tre Madonne più incredibili di tutta la cristianità,

santi

INCREDIBILE: San Francesco aveva un’amica. LEGGI TUTTO:


11 agosto – Santa Chiara (1193-1253), fondatrice delle Clarisse, amica di Francesco, patrona della TV.

C’è questa proposta di legge di cui avrete sentito parlare, che vorrebbe introdurre il “reato di istigazione a pratiche alimentari idonee a provocare l’anoressia, la bulimia o altri disturbi del comportamento alimentare”. Nel mirino ci sarebbero soprattutto i siti pro-ana, di cui da qualche tempo non sentivo più parlare; e invece nella bozza della legge c’è scritto che in Italia ce ne sarebbero almeno trecentomila. Io è da molti anni che bazzico nell’internet italiana, e ormai avevo la sensazione di conoscere tutti perlomeno di vista – quel tipo di percezione che ti è nota se passi i tuoi vent’anni in una cittadina di medie dimensioni – niente, mi stavo ormai convincendo che l’internet italiana fosse una cittadina di settantamila anime nei giorni feriali. Poi improvvisamente salta fuori che nascosto da qualche parte (in un sotterraneo?) c’è un capoluogo di regione tutto di ragazze magre magre magre che vogliono essere ancora più magre, ancora più magre, finché muoiono. Boh. Comunque una legge del genere avrebbe falciato anche un sacco di trattati di mistiche e sante medievali, per le cronache dei digiuni che compivano o che raccomandavano (e che le mandavano in paradiso molto presto). Ma in un certo senso è sempre stato così, non è che procurarsi i loro libri fosse molto semplice nel medioevo e durante la controriforma. I digiunatori – e ancor più le digiunatrici – hanno sempre creato qualche preoccupazione nell’autorità costituita, che si preoccupa per la nostra salute ma anche delle eventuali difficoltà che abbiamo a prendere il posto che ci è stato assegnato.

Il caso di Chiara Scifi è un po’ diverso. Non che non digiunasse – era anzi una campionessa della categoria – ma le sue lettere non ci lasciano nessun compiacimento morboso. Nessun delirio mistico. È anche vero che ne scrisse poche, ma ci danno la sensazione di una persona poco incline alle esperienze estreme. Ad Agnese di Boemia lascia intendere che dovrebbe anzi sforzarsi di mangiare qualcosa di più:

Siccome però, non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito, anzi siamo piuttosto fragili e inclini ad ogni debolezza corporale, ti prego e ti supplico nel Signore, o carissima, di moderarti con saggia discrezione nell’austerità, quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata.

Santa Chiara è un caso forse unico di mistica non visionaria: l’unica esperienza che si può paragonare a un’allucinazione fu quella famosa messa di Natale a cui avrebbe voluto tanto partecipare – celebrava il suo amico Francesco – ma siccome era malata a letto, se la vide scorrere davanti come, come… come una diretta televisiva! (Pare che fu Ugo Gregoretti a suggerire l’episodio a Pio XII che stava cercando un patrono del nuovo media audiovisivo). A dire il vero fu una tv un po’ più interattiva di quella che abbiamo in casa, visto che in Chiara riuscì persino a fare la comunione. Forse a monte dell’aneddoto c’è soltanto una metafora colloquiale, qualcosa come “mi sembrava che tu fossi qui davanti a me”, che gli agiografi hanno sviluppato nel modo più miracolistico possibile. In ogni caso è molto significativo che l’unica visione miracolosa di Chiara non riguardi né il Santissimo, né Maria, né Madonna Povertà: Chiara vide il suo amico Francesco.


Credo che per capirla dovremmo partire da qui. Chiara amò Francesco per tutta la sua vita, che fu più lunga di quella dell’amico. Fu la prima ragazza a seguirlo – forse non aveva 18 anni – entrando in rotta con la famiglia nobile che l’avrebbe preferita accasata con qualche cavaliere, o persino monaca, se proprio ci teneva: ma in un monastero come si deve, servita e riverita da monachelle di rango inferiore. Chiara invece voleva vivere del sudore della sua fronte e se ne scappò in quella comune della Porziuncola che forse non aveva ancora ottenuto l’approvazione papale: in sostanza, quando Chiara si fece tagliare i capelli, Francesco era ancora il capo carismatico di una piccola comunità di giovinastri di buona famiglia scalzi e vestiti di sacco che andavano in giro cantando e restaurando chiesette diroccate. Prima o poi si sarebbero stancati, come si erano già stancati di altre cose, degli amorazzi e della guerra. Oppure si sarebbero montati la testa come i patarini o i valdesi, e sarebbe stato necessario bruciarne un po’. La situazione era talmente rischiosa che lo stesso Francesco cercò di allontanare la ragazza, indirizzandola presso un monastero benedettino. Chiara non ci restò a lungo… (continua sul Post…)

madonne, santi

Le 10 madonne più incredibili della cristianità e oltre

Se la Madonna della neve ha un po’ ceduto il passo, non è colpa sua. La cristianità trabocca di madonne incredibili, si può dire che ogni nazione e ogni generazione ha le sue. Ecco la top 10 delle madonne da qui in poi potrai invocare nei casi più strani della vita:

10. Madonna (falsa) di Marpingen
Si dà per scontato che la Madonna appaia sempre al momento giusto e nel posto giusto, ma non è affatto così. La Madonna che apparve a Marpingen, Saarland, nel 1878, non poteva forse scegliere un luogo e un periodo peggiore. E dire che a poche centinaia di chilometri, la Francia della Terza Repubblica era travolta dalla Lourdemania – ma nel Secondo Reich tedesco si era in piena Kulturkampf, l’offensiva culturale bismarckiana contro il cattolicesimo. Così, a differenza di Bernadette Soubiros, la giovane Margarethe Kunz non riuscirà a convincere nessun sacerdote delle sue visioni; verrà più volte interrogata dalle autorità e ammetterà, qualche anno dopo, di essersi tutto inventato. Oggi Lourdes è il secondo sito turistico di Francia; Marpingen quasi nessuno sa dove sia. Molti hanno anche difficoltà col Saarland (è vicino al Belgio).

9. Madonna della medaglia miracolosa
Tra le altre cose, la Madonna ha inventato il merchandising. Il primo gadget omaggio della storia – e probabilmente il più diffuso al mondo – lo ha disegnato lei, e illustrato a suor Catherine Labouré, giusto in tempo per confortare i parigini durante la spaventosa epidemia di colera del 1832. Da lì la medaglia miracolosa ha fatto il giro del mondo, contribuendo a spargere il messaggio mariano – era al collo di Bernadette quando vide la misteriosa Signora che pure non riconobbe. Sulla medaglietta ci sono anche le dodici stelle che coronano la misteriosa Donna gravida dell’Apocalisse, e che per una curiosa serie di circostanze sono finite sulla bandiera dell’Unione Europea.

8. Erzulie Dantor
Che ci fa uno spirito Vudù haitiano in una raccolta di madonne? Niente, salvo che Erzulie Dantor, fiera protettrice di bambini e madri single (ma anche delle lesbiche), è identica alla Madonna nera di Czestochowa. Il vudù nasce sulle rotte del commercio di schiavi; i culti pre-esistenti vengono riciclati, e in mancanza di pittori si riutilizzano le immagini religiose già a disposizione o in commercio. E tuttavia il modo in cui l’icona bizantina più famosa della Polonia sia diventata il volto di uno spirito vudù rimane un mistero. Forse la portarono i soldati polacchi coinvolti nella rivoluzione del 1802; ma in effetti chiunque avrebbe potuto mettere in circolazione un santino. Le cicatrici che le deturpano la guancia destra sarebbero state causate da una rissa di gelosia con un altro spirito. Erzulie come sacrifici ama molto i maialini neri, la crema di cacao, le sigarette senza filtro e il rum.

Per conoscere le altre sette incredibili madonne che ti lasceranno di stucco clicca qui!!!

Leonardo sells out, madonne, santi

Neve ad agosto

santamariamaggiore
5 agosto – Madonna delle nevi

La notte tra il 4 e il 5 agosto del 352, il ricco patrizio Giovanni riceve una visita in sogno della vergine Maria, che si congratula con lui per il proposito recentemente espresso di finanziare una chiesa in suo onore, e gli suggerisce di erigerla nel luogo che il mattino dopo sarà ritrovato ricoperto di neve. La mattina dopo la moglie gli riferisce di aver fatto un sogno molto simile. Vanno immediatamente a raccontarlo a Papa Liberio (siamo tra l’Editto di Milano e quello di Tessalonica, la Chiesa non è più clandestina ma non è ancora Chiesa di Stato, e anche i papi sono ancora tizi alla buona che ti ricevono in giornata, specie se sei patrizio). Il quale papa Liberio risponde: ma sapete che credo di aver fatto lo stesso sogno anch’io? Proprio in quel momento irrompe in scena un figurante: Santità, sull’Esquilino è successa una cosa molto singolare. È nevicato. Non dappertutto, no. Solo in uno spiazzo. Uno spiazzo a forma di basilica. Chissà cosa vuol dire.

La basilica liberina, o “Ad nives”, è il primo nucleo di Santa Maria Maggiore, la più antica delle quattro basiliche papali di Roma. In realtà la parte più antica della costruzione dovrebbe risalire al papato di Sisto III, nel secolo successivo – poi rimaneggiata e ingrandita più volte nel corso dei secoli. Prima di questa doveva esserci una chiesa ancora più antica, consacrata però al Credo niceano. Quella di Sisto è invece dedicata alla Madonna, che era stata da poco proclamata “madre di Dio” durante il concilio di Efeso (i nestoriani, che la ritenevano soltanto madre della parte umana di Cristo, furono contestualmente dichiarati eretici). Il nome di Madonna delle Nevi fu progressivamente accantonato, specie a partire dalla Controriforma, quando l’antico miracolo delle nevi fu accantonato in quanto privo di fonti serie. La festa del 5 agosto divenne, ufficialmente, la “dedica della basilica di Santa Maria Maggiore”. Ma ancora viene ricordata con un lancio di petali di rosa dalla cupola. (Continua sul Post…)

Bibbia, santi

Lazzaro che morì due volte

(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
29 luglio – San Lazzaro, amico di Gesù

Tutti dobbiamo morire, e secondo la dottrina cristiana Gesù a tempo debito ci resusciterà. Tranne Lazzaro: lui è stato risorto prima. Così presto che è probabilmente già rimorto. Ma perché con lui Gesù si è comportato così? A prima vista sembrerebbe una debolezza: Lazzaro ha un trattamento di favore perché… è suo amico.

Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell’ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all’estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.

Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po’ prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta (“Sono passati tre giorni, puzzerà”). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l’ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.

Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Ovvero, no, ci sarebbe l’episodio della figlia di Giairo, “capo di una sinagoga”, riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell’amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.

…e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!

A questo punto ci accorgiamo che la decisione di risorgere Lazzaro non è una semplice debolezza, ma è parte di un piano. I tre giorni di attesa sono fondamentali, non solo perché preannunciano la morte di Gesù, ma perché legalmente sono necessari affinché la resurrezione non possa essere derubricata a risveglio da un coma (quel che era successo nel caso della figlia di Giairo). Anche il dettaglio della puzza non è un semplice tocco di realismo: il testo vuole eliminare qualsiasi dubbio sul fatto che quella di Lazzaro sia stata una resurrezione, non una guarigione. Gesù ha scelto il suo amico per farne il cardine di tutto il Vangelo.

(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto “vangelo dei segni”, e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i “segni” necessari affinché credano che lui è il Messia – e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono… i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l’ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l’inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L’idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:

“Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”.

Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l’attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani – che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. “Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero”, dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero, e infatti probabilmente Caifa non la pronunciò. Tutto l’episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po’ di sentimenti qua e là). (Continua sul Post…)

futurismi, miti, santi

Dormire come in sette

Questa è una versione turca27 luglio – Sette dormienti di Efeso

In una grotta, dalle parti di Efeso (Lidia, oggi Turchia sudoccidentale), forse riposano ancora i Sette Dormienti. Si chiusero nella grotta ai tempi di Decio imperatore, per sfuggire alle sue violente persecuzioni. Si coricarono, e il mattino dopo mandarono uno di loro a comprare il pane. Al tizio la città sembrò subito un po’ cambiata. In ogni foro, grandi edifici sormontati da croci. La gente non voleva il suo denaro, e sì che era argento buono, coniato sotto Decio imperatore. Ci misero un po’, i Sette, a capire che avevano dormito duecento anni. La loro religione, già proibita, ora era obbligatoria. Inoltre fra Decio e Teodosio imperatore vi erano state almeno tre riforme monetarie, quindi forse era difficile capire cosa si potesse comprare ora col denaro che si erano portati nella grotta, al di là del valore intrinseco. Racconta la leggenda che i Sette morirono quello stesso giorno, dopo aver ringraziato il Signore per averli tenuti in stand-by tutto quel tempo; il che non ha molto senso da un punto di vista narrativo, ma è una pezza necessaria se sei un agiografo e vuoi conservare il loro status di santi – in alcuni calendari vengono chiamati anche martiri, il che è abbastanza incongruo.

È facile immaginare che il mito esistesse già prima dell’avvento del cristianesimo (che a Efeso arrivò prestissimo, già ai tempi di Paolo). Da un punto di vista cristiano, non ha molto senso sottrarsi al martirio durante una persecuzione – anzi in certi periodi era considerato un vero e proprio tradimento: il vero cristiano dimostrava la sua fede andando incontro ai supplizi, non imboscandosi in una grotta. D’altro canto, la leggenda era troppo bella per rinunciarvi. È in sostanza il primo viaggio nel tempo della letteratura di tutti i tempi. Non si può però venerare un dormiente: finché dorme non è in cielo. Deve dunque essere morto, possibilmente subito dopo il risveglio miracoloso.

Che la leggenda sia antica, e famosa, lo dimostra anche la sua presenza in un testo d’eccezione, il Corano. Nella Sura della Caverna, Maometto afferma che i giovani dormirono 300 anni “più nove” (309 anni lunari = 300 anni solari?). Poi si svegliarono freschi e decisero di mandare in città qualcuno ad acquistare il cibo, con gentilezza; questa parola (“comportarsi con gentilezza”) pare sia il centro esatto di tutto il Corano. In città vengono scoperti e onorati. Ma quale città? Efeso o Ahl al-Kahf, in Giordania? O a Chenini, in Tunisia, dove si ritiene che dormano ancora senza aver mai smesso di crescere, e quindi non potranno che risvegliarsi giganti? Maometto non lo dice. Non chiarisce nemmeno quanti fossero i giovani, ma di una cosa è sicuro: con loro c’era un cane. Quel cane che ancora è udito dai viandanti nei pressi di Azeffoun, Algeria.

Diranno: “Erano tre, e il quarto era il cane”. Diranno, congetturando sull’ignoto: “Cinque, sesto il cane” e diranno: “Sette, e l’ottavo era il cane”. Di’: “Il mio Signore meglio conosce il loro numero. Ben pochi lo conoscono”. Non discutere di ciò, eccetto per quanto è palese e non chiedere a nessuno un parere in proposito. Non dire mai di nessuna cosa: “Sicuramente domani farò questo…” senza dire “…se Allah vuole” (Sura XVIII,22-24)

Il cane è del tutto assente nella versione cristiana. Secondo il Corano anche lui dormì per tutto il tempo, assolvendo comunque la funzione di guardiano: stava sulla soglia e dissuadeva chiunque passasse di lì a curiosare nella caverna. Il cane non è un animale molto apprezzato in ambito islamico, anche se Maometto non sembra considerarlo impuro (si raccomanda però che siano lavate molto bene le stoviglie e i vestiti in cui ha ficcato il muso). Impossibile non pensare al dio egiziano Anubi, guardiano del mondo dei morti, e al suo padrone Osiride, anche lui congelato in uno stato di sonno o animazione sospesa, fino alla vittoria finale del figlio Horus sul suo assassino, il fratello Seth. Anubi per l’occasione dovrebbe anche avere inventato l’imbalsamazione – sempre che non fosse un procedimento criogenico per ibernarlo in attesa dell’arrivo di qualcosa che poi non si è fatto vivo, magari rinforzi da Sirio su dischi volanti – da bambino devo aver letto qualcosa di Kolosimo in merito. Da bambino mi faceva un po’ paura Kolosimo, pensavo fosse russo o almeno americano. Poi ho scoperto che è nato a Modena (continua sul Post)

Bibbia, ebraismo, Israele-Palestina, santi

L’inventore d’Israele?

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
13 luglio – Sant’Esdra (V secolo a.C.), sacerdote, rovinafamiglie, forse inventore del giudaismo

I mormoni che nel 1846 fuggirono dall’Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l’imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all’altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un’altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi – tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l’ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un’invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest’ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l’inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell’impero Babilonese, sembra sensibile all’argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l’Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro firma l’editto, probabilmente senza pensarci più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di firmare tante altre carte che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent’anni…

L’Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l’esodo dall’Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l’immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c’è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall’empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.

Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un’impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all’esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo “io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele” è significativamente consonante con l’assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze – timore che riflette lo stato d’animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 

Esdra porta con sé un’ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch’essa, una lunga fortuna: la purezza etnica (continua sul Post…)

Bibbia, ebraismo, Israele-Palestina, santi

Il primo pogrom

La più famosa alla fine resta l'Ester di Benouville.
1 luglio – Santa Ester (V secolo aC), da reginetta a salvatrice

Ester è la protagonista di una delle storie più divertenti della Bibbia – anche se non ha avuto presso i gentili lo stesso successo di Mosè o David. La sua vicenda è molto più popolare presso gli ebrei, che sin dall’antichità rileggono il breve libro di Ester una volta all’anno in occasione dei festeggiamenti primaverili del Purim. Invece i cattolici la celebrano il primo luglio, senza un apparente motivo. Alcuni la confondono con un’altra eroina assai più discutibile, Giuditta: la ragazza di buona famiglia che si concia da prostituta per far abboccare un generale antisemita e tagliargli la testa, offrendo un buon pretesto a generazioni di pittori e pittrici per ritrarre indumenti sexy e schizzi di sangue. Giuditta però non è stata ammessa né nella Bibbia ebraica, né nel calendario cristiano. Ester, al contrario, per salvare il suo popolo non commette nulla di riprovevole: anche lei si tira da urlo, ma soltanto per convincere il suo legittimo convivente a non ammazzarla, e magari a sospendere un pogrom.

Siamo a Susa, a corte del potente re Assuero. Chi sia questo potente re che governa “dall’India all’Etiopia” non è ben chiaro, anche se tradizionalmente viene identificato con Serse I, sì, il cattivo delle Termopili. Erodoto ha scritto parecchio su Serse, ma senza menzionare nessuna Ester. A un certo punto però ricorda l’episodio in cui promette alla moglie di concederle qualsiasi cosa ella chiederà, ed ella ovviamente chiede che Serse tagli la testa a una sua amante. È un esempio molto antico di “don contraignant”, il tropo narrativo in cui un re firma una specie di promessa in bianco che gli costa sempre molto caro.

Lo stesso tropo torna nel libro di Ester, che se fosse davvero ambientato ai tempi di Serse descriverebbe fatti successi nel V secolo a.C. Più probabilmente è stato composto tre secoli più tardi, da un bravo narratore senza molte preoccupazioni di verosimiglianza storica, all’epoca dei Maccabei – una dinastia di sacerdoti che lottava per conservare l’autonomia e l’identità del popolo ebraico, contro l’imperialismo assimilatore dei tiranni seleucidi. Per sopravvivere arrivarono al punto di allearsi coi Romani, che nel primo secolo a.C. finirono per sostituire i tiranni precedenti, e il resto della storia più o meno la sapete.

Ma torniamo a Serse, anzi, Assuero. Siamo a una festa in grande stile a Susa, più o meno al settimo giorno di festeggiamenti, quando al re dei re, un po’ brillo, vien voglia di esibire la regina Vasti davanti ai suoi invitati. Mandata a chiamare dagli eunuchi, Vasti si nega, senza neanche accampare la scusa di un mal di testa. Per il re dei re non è solo una figuraccia insopportabile: come gli spiegano i consiglieri, una cosa del genere rischia di devastare l’istituto famigliare in tutto l’impero: appena la notizia si saprà in giro, dall’India all’Etiopia, c’è il rischio concreto che le mogli smettano di correre in salotto quando il marito le chiama, bisogna fare qualcosa. Vasti viene immediatamente detronizzata e, secondo una tradizione successiva, messa a morte; per rimpiazzarla viene lanciato un concorso che porta a Susa le più avvenenti (e obbedienti) fanciulle vergini di tutto l’impero. A vincere è la giovane Hadassa, un’orfanella ebrea che Mardocheo, funzionario del re, aveva allevato come una figlia, e che forse per nascondere le sue origini si fa chiamare “Ester”, stella del mattino.

Il fatto che il nome richiami Ishitar, la dea babilonese della fertilità, e abbia per cugino un Mardocheo (Marduk è il re degli dei babilonesi, cugino di Ishitar) lascia sospettare che il canovaccio sia un antico mito mesopotamico, ripreso dagli ebrei quasi in chiave di farsa. il Mardocheo del libro ha probabilmente dovuto assumere il nome pagano per poter lavorare a corte. Proprio qui gli capita di sventare un complotto di eunuchi che vogliono attentare alla vita del sovrano. Mardocheo avvisa Ester, Ester avvisa Assuero, Assuero fa arrestare e interrogare i due eunuchi e premia Mardocheo con una promozione. La vita di un re dei re è però molto intensa, e in poco tempo Assuero finisce per dimenticarsi sia dello zelante funzionario che dell’avvenente reginetta. Nel frattempo splende a corte la stella di Aman (BOOOOOOOOOOOOOH! SCRASHSBDANGANGDANG), un principe agaghita – non che nessuno sappia chi siano gli agaghiti e donde vengano. Infatti la versione greca, un po’ più tarda, lo nazionalizza macedone. Questo Aman (BOOOOOOOOOOOH!), investito di un’autorità inferiore solo a quella di Assuero, si monta immediatamente la testa e impone che tutti si inginocchino davanti a lui. L’unico a non inginocchiarsi davanti ad Aman (BOOOOOOOOOOOOH!) è proprio Mardocheo. Quando Aman (BOOH!) se ne rende conto, decide di fargliela pagare, sterminando completamente il suo popolo. Per decidere il giorno del genocidio si affida ai purim, pietruzze adoperate per estrarre i numeri a sorte. Esce il tredici del dodicesimo mese (Agar, tra febbraio e marzo). Quindi tutto contento si reca dal suo re e gli propone, in cambio di un indennizzo di diecimila talenti d’argento di sterminare un popolo disseminato nel suo regno “che non osserva le leggi del re”. Il re gli passa tranquillamente l’anello col sigillo reale, che Aman (BOH!) usa per controfirmare uno dei primi discorsi antisemiti in nostro possesso – se non il primo in assoluto.

…Amàn, distinto presso di noi per prudenza, segnalato per inalterata devozione e sicura fedeltà ed elevato alla seconda dignità del regno, ci ha avvertiti che in mezzo a tutte le stirpi che vi sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile, diverso nelle sue leggi da ogni altra nazione, che trascura sempre i decreti del re, così da impedire l’assetto dell’impero da noi irreprensibilmente diretto.
Considerando dunque che questa nazione è l’unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano tenore di leggi, e che, malintenzionata contro i nostri interessi, compie le peggiori malvagità e riesce di ostacolo alla stabilità del regno, abbiamo ordinato che le persone a voi segnalate nei rapporti scritti da Amàn, incaricato dei nostri interessi e per noi un secondo padre, tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz’alcuna pietà né perdono, il quattordici del decimosecondo mese, cioè Adàr; perché questi nostri oppositori di ieri e di oggi, precipitando violentemente negli inferi in un sol giorno, ci assicurino per l’avvenire un governo completamente stabile e indisturbato».


È la versione greca; l’originale ebraico è molto più stringato. Ma insomma la sostanza è già familiare: vivono tra noi, ma non sono come noi. Vanno eliminati. È un rotolo di ventuno o ventidue secoli fa, pensate. E già allora la situazione, per quanto terribile, ispirava i toni di una farsa. Perché il libro di Ester, secondo alcuni lettori contemporanei, è una spietatissima commedia.

Quando Mardocheo viene a sapere dell’Editto di sterminio, si lacera le vesti e si cosparge il capo di cenere; coperto di un umile sacco viene a chiedere udienza al re, ma ovviamente viene bloccato prima di entrare. Ester lo vede dalla finestra e gli fa mandare dei vestiti; Mardocheo rifiuta di indossarli e le spiega (tramite un eunuco) cosa sta per succedere. Ricordati dei giorni della tua povertà, di chi ti ha nutrito! Intercedi per noi presso il tuo re, che aspetti? Il guaio è che Ester non è più la favorita del re. Succede a molte reginette: adorabili, ma stancano subito, non ti entrano nelle vene. Pensa che è da trenta giorni che il re non mi fa chiamare. Credi che io possa andare da lui così, come se niente fosse? Lo sai cosa succede a chi cerca di incontrarlo senza essere stato convocato? Gli tagliano la testa all’istante.

Mardocheo reagisce con una certa durezza: credi di salvarti perché sei nella reggia, ma sei ancora un’ebrea. Morirai comunque se non fai qualcosa. Chissà, forse c’è un motivo per cui ti è capitato si essere lì dove sei.

È solo a quel punto che Ester cessa di essere la reginetta timida e noiosa. Manda a dire allo zio di radunare tutti gli ebrei di Susa: ché preghino e digiunino tre giorni. Anche lei, nei suoi appartamenti, farà la stessa cosa. Nella versione greca seguono due lunghe preghiere di Mardocheo ed Ester, aggiunte probabilmente da un ebreo di Alessandria, forse un po’ impensierito dallo spirito laico del libro – uno dei due della Bibbia in cui non viene mai nominato Dio (l’altro è il Cantico dei Cantici). E tuttavia anche le due poesie ottengono un effetto narrativo, perché dopo tante accorate invocazioni, quando al terzo giorno Ester depone i vestiti di sacco e si leva la cenere dal capo e si veste da principessa, è un po’ come in quel film in cui la Mangano da suora si trasforma improvvisamente in ballerina: ecco, adesso sì che non è più una reginetta slavata, adesso sì che è sexy. La vediamo procedere nel corridoio, rosea nel volto, ma col cuore stretto dalla paura: sta andando al supplizio. Quando il re la vedrà, le guardie verranno a coprirle il capo e l’ammazzeranno. La sua unica speranza è che il re stesso stenda lo scettro verso di lei. Il re è seduto sul trono, “tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto terribile” (continua sul Post…)

santi

La puttana di Don Milani

scuola_ultima26 giugno –  Don Lorenzo Milani (1923-1967), priore di Barbiana

Questo è il periodo dell’anno in cui mi capita più spesso di pensare a don Milani, alle sue classi e alle sue lettere. L’anniversario della morte (47 anni oggi) non c’entra molto. Un giorno magari finirà sui calendari, ma per ora non risulta nemmeno avviata una causa di beatificazione. E dire che qualche miracolo da esibire davanti a una commissione Milani ce l’avrebbe: il solo fatto che stiamo parlando ancora oggi di un sacerdote che morì a 44 anni, dopo aver servito e insegnato in due piccole parrocchie, non ha del miracoloso? Ma i tempi non sono ancora maturi: per adesso i suoi seguaci cattolici devono accontentarsi di poter finalmente leggere le Esperienze pastorali senza incorrere nella censura del Sant’Uffizio, ritirata in aprile dopo più di cinquant’anni. Bella e saggia mossa di Francesco, dopo il silenzio dei quattro pontefici che l’avevano preceduto. Milani continua a essere un prete molto più popolare al di fuori dalla Chiesa.

Questo è il periodo dell’anno in cui penso più spesso al priore di Barbiana, e ai suoi studenti, perché è il mese degli esami: quel bizzarro momento in cui il bistrattato insegnante, da nove mesi zimbello di studenti genitori e riformatori, si ritrova improvvisamente investito di un potere enorme, sproporzionato: la facoltà di rovinare al fanciullo un’estate, un anno, eventualmente anche la vita. Proprio così: da settembre a maggio il professore soffre, supplica, corregge, sorregge; ma a giugno boccia. O perlomeno potrebbe. Ma prima di brandire un’arma tanto ingombrante, così poco adatta a lui, pensa sempre a don Milani. Da qualche parte – non necessariamente l’Alto dei Cieli – il priore lo guarda, scuote la testa e dice: lo sai cosa sei, vero? Un cane da guardia del sistema? Sì, ma non basta. Una bestiolina ammaestrata dai padroni? Certo, ma c’è di più.Lo sai.

Sei una puttana.

È in fondo a pagina quarantuno.

Tutti noi, quando ricordiamo un libro, o un film – quando crediamo di ricordare un libro, o un film – in realtà peschiamo dal pozzetto della nostra memoria due o tre situazioni o immagini, sempre le stesse. Sono il riassunto estremo di quell’opera d’ingegno, come lo schema finale che ci siamo fatti la notte prima di un esame. A volte ci aiutano a recuperare il resto; altre volte finiscono per assorbirlo, sicché alla fine molti libri che crediamo di aver letto in realtà non li ricordiamo più, a parte quella paginetta, quella frase. La maggior parte delle persone che conosco, quando pensa a Lettera a una professoressa, ricorda Gianni e Pierino. In effetti sono due personaggi sbozzati in modo molto efficace. Io però quando ripenso alla Lettera, ripesco sempre mio malgrado quel passo volgare in fondo a pagina quarantuno: “Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere”.

Mi viene sempre in mente questo passo a fine giugno, perché non è solo il mese degli esami; è anche quello dei commiati, che a scuola sono sempre frettolosi e informali. L’esame è finito. Buone vacanze. Di solito me la sbrigo così, e in alcuni casi sarà l’ultima cosa che dirò a quella persona in tutta la mia vita. Ho diviso con lui ore, settimane, mesi, anni. Gli ho voluto bene, l’ho detestato, l’ho aiutato quando non ne avrebbe avuto bisogno, l’ho ignorato quando invece gli serviva un aiuto; in ogni caso è tutto finito, buone vacanze. Loro mi dicono “arrivederci”, e poi qualche volta mi saluteranno per strada, un po’ imbarazzati. Io non ho mai tempo per piangerli perché, in effetti, sono una puttana. A pagina quarantuno è spiegato molto bene, da qualcuno che evidentemente aveva sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere maestro, essere prete: voler bene alla gente per mestiere. Con tutto il rispetto per le puttane e la loro professione complicata e pericolosa, mentre per noi maestri o preti si tratta semplicemente di voler bene tutti i giorni a un sacco di gente che poi, improvvisamente sparirà dalla nostra vista senza che ci sia il tempo per rimpiangerla – stiamo già preparando le prime dell’anno prossimo, ci sono già centinaia di nuovi sciagurati a cui voler bene. Da settembre a giugno. È strano, però. Alienante, si sarebbe detto una volta.

A meno di non fare come don Milani: abolire le vacanze, i pomeriggi, la domenica, il tempo libero, la famiglia. Allora sì, l’amore smetterebbe di essere finzione. Noi però alle vacanze ci teniamo, e alle domeniche, e anche i pomeriggi non li passiamo proprio tutti a correggere, ad aggiornarci, ad amare i nostri piccoli clienti a distanza. Perché siamo delle puttane, e Don Milani ce lo diceva in faccia – no, peggio. Ce lo faceva dire dai suoi studenti.


Alla scuola di Barbiana si parlava molto schietto. Sulla porta di tutte le scuole della Repubblica gli studenti di Don Milani avrebbero voluto scrivere LA SCUOLA SARÀ SEMPRE MEGLIO DELLA MERDA. L’aforisma è attribuito al giovane Lucio, che quando non era a scuola dal priore aveva una stalla con 36 mucche da gestire. A me piacerebbe ogni tanto parlarne nelle mie classi, sollecitare un’inchiesta: tu che ne pensi? Secondo te è meglio la scuola o la merda? Ma ho paura di finire sul giornale.

Dici: potresti sempre usare un eufemismo. Potresti chiedere se è meglio la scuola o la deiezione vaccina. No, non potrei. Merda si dice merda. Puttana si dice puttana. Non solo don Milani si lasciava evidentemente sfuggire queste parole di fronte ai suoi ragazzi; non solo permetteva che le scrivessero in un libro, e resistessero alle decine di stesure e ristesure; ma le sottoponeva al vaglio dei suoi amici colti e raffinati, ad esempio David Maria Turoldo che sale a Barbiana per farsi leggere le bozze e “si sganascia dalle risa a ogni parola grossa”. Lettera a una professoressa è un testo molto elegante nella sua rozzezza. Profondamente toscano, azzarderei, ma poi dovrei spiegare il perché solo ai toscani è concesso di maneggiare la nostra lingua letteraria come se fosse un coltellaccio da cucina, senza quella distanza, quel disagio in cui consiste l’uso della lingua per tutti noialtri non toscani – quella maschera che indosso continuamente, qualsiasi cosa io scriva, come se io la stessi traducendo da un’altra lingua che ho in testa (quale lingua, se non so nemmeno bene il mio dialetto?) Eppure questa distanza c’è: la sentiamo tutti ogni volta che rileggiamo quello che scriviamo e ci sembra sempre fuori fase, distorto come la nostra voce registrata. Un diaframma che forse è responsabile di intere età letterarie, di barocchi, classicismi e linee lombarde, mentre ai toscani basta scrivere come si mangia. Papini, Malaparte, la Fallaci. Ma anche i ragazzi di Barbiana, e il loro priore che non poteva più pubblicare niente a nome suo (continua sul Post…)

santi

Kizito e il vizioso re di Buganda

3 giugno – San Carlo Lwanga, San Kizito e i loro undici compagni, martiri d’Uganda (1886)

La vetrata che ricordo io però è più bella.
C’è una chiesetta da queste parti, in cui nessuno mette piedi da due anni ormai. È una piccola pieve romanica molto rimaneggiata, che a dispetto dei sigilli e dell’incuria non vuole saperne di crollare. Nel coro della chiesetta c’è una vetrata istoriata che risale agli anni Ottanta del secolo scorso – il momento in cui l’astrattismo simbolico conciliare cede al riflusso del realismo e dopo tanti agnelli, anelli, croci e mani giunte, finalmente si rivedono sulle finestre le sane vecchie storie di santi. I due protagonisti della vetrata, che pregano sommersi dalle fiamme, hanno qualcosa che li rende particolari: sono neri, neri dell’Africa. Una didascalia in calce li chiama Carlo Lwanga e Kizito, martiri in Uganda. La vetrata testimonia la passione missionaria di quella minuscola parrocchia, accennando a una storia che da piccolo nessuno mi sapeva raccontare. Prima o poi, pensavo, qualche missionario in vacanza al paese mi avrebbe ragguagliato su quei due neri in un roveto ardente. Ma non successe mai, e ci ho messo anni a scoprire il perché. Il martirio del robusto lottatore e catechista Carlo Lwanga, del suo più giovane studente Kizito, e di altri undici compagni dai nomi molto difficili da trascrivere, non è una semplice storia di eroismo e testimonianza della fede.

C’entra anche il sesso.

E c’è poco da scherzare. Un anno fa mi capitò di raccontare la leggenda del martire Pelagio, fatto a pezzi dal sultano malvagio perché non rispondeva alle sue avances. Pura propaganda omofoba e antislamica messa in giro dalla prima drammaturga europea, Rosvita di Gandersheim, durante la riconquista cristiana della Spagna. Mentre dalla Germania alla Castiglia si spacciavano storie di califfi sodomiti e pedofili, i califfi veri lanciavano i gay dalle torri. Dalle due parti del fronte rimbalzavano le stesse accuse di virilità deviata. Pelagio probabilmente non è mai esistito, è il fantasma di una purezza che esiste solo nei sogni di chi non ha mai visto una guerra dal vero. Ma non facciamo in tempo a derubricarlo a leggenda medievale, che inciampiamo in Kizito.

L'unica foto che ritrae Kizito e compagni
Kizito non è medievale e non è una leggenda. È realmente vissuto, almeno per 14 anni, nel cuore dell’Africa: un mondo alieno che gli europei scoprono soltanto nell’Ottocento, dove al loro passaggio molti fantasmi occidentali prendono vita. Kizito ebbe il dubbio onore di essere scelto tra i paggi di Mwanga II, kabaka (re) di Buganda, al tempo una delle nazioni più importanti dell’Africa orientale. Gli agiografi del XXI secolo lo descrivono come un sovrano dissoluto, dedito a vizi d’importazione:

“Da mercanti bianchi venuti dal nord, ha imparato quanto di peggio questi abitualmente facevano: fumare hascisc, bere alcool in gran quantità e abbandonarsi a pratiche omosessuali. Per queste ultime, si costruisce un fornitissimo harem costituito da paggi, servi e figli dei nobili della sua corte.” (continua sul Post…)

calcio, santi

Il santo che fermò il Brasile (due a uno).

E lo stadio era pieno.
San Cono di Diano o Teggiano (XIII secolo), patrono ufficioso di chi si rovina al lotto e della nazionale di calcio dell’Uruguay. 

L’Uruguay è un piccolo Paese con un record calcistico impressionante: schiacciato tra Brasile e Argentina, ha vinto più Coppe America di entrambi. In effetti, ha vinto più Coppe America di qualsiasi altro Paese. È stata la prima nazione a organizzare una Coppa del Mondo (1930) e a vincerla; nelle due edizioni successive – vinte dall’Italia – non partecipò nemmeno. Si ripresentò nel 1950, al primo mondiale disputato in Brasile: e proprio contro il Brasile si trovò a disputare l’ultima partita, decisiva per aggiudicarsi il torneo. Al Maracanà, figuratevi.

Non era una finalissima vera e propria perché, per la prima e fin qui unica volta nella storia della FIFA, la fase finale del torneo era un girone all’italiana con quattro squadre: ma le due europee qualificatesi, Spagna e Svezia, si erano dimostrate molto inferiori al gioco delle sudamericane. Il Brasile, in particolare, aveva infierito su entrambe: 7-1 contro la Spagna, 6-1 contro la Svezia. L’Uruguay aveva più modestamente superato la Svezia per 3 reti a 2, e contro la Spagna aveva addirittura pareggiato. Dunque quella sera al Brasile bastava un pareggio. Già, ma voi avreste mai scommesso su un pareggio del Brasile, al Maracanà appena costruito, davanti a duecentomila spettatori paganti, nella finale di Coppa del Mondo?

Era stato un mondiale stranissimo, un difficile tentativo di recuperare la normalità dopo la lunga interruzione dovuta alla guerra mondiale. Su 16 squadre qualificate, solo 13 si erano presentate. L’India era stata squalificata perché si faceva un punto d’onore di giocare a piedi nudi. La Scozia non era venuta perché non sopportava l’idea di non essere testa di serie come l’Inghilterra. L’Inghilterra non aveva molta esperienza del gioco oltremanica, e si ritrovò sbigottita a perdere per uno a zero contro gli Stati Uniti d’America. L’Italia – detentrice del titolo, conquistato dodici anni prima in camicia nera – si era presentata stremata da un viaggio di tre settimane in transatlantico. Le altre squadre avevano preferito prendere l’aereo, ma la federazione italiano aveva appena perso gran parte dei titolari nel disastro di Superga, e non se la sentiva di rischiare. Il transatlantico si era rivelato un pessimo ambiente per un ritiro: tutti i palloni dopo qualche giorno erano finiti nell’oceano. Inseriti in un girone a tre con Svezia e Paraguay, perdemmo con la prima che pareggiò col secondo, e a quel punto eravamo già fuori: vincemmo comunque col Paraguay ed eravamo già pronti a re-imbarcarci.

A quel punto non restava che tifare Uruguay, una delle nazioni più italiane del mondo. Italiani erano i cognomi dei titolari più titolati: Ghiggia, Schiaffino. Entrambi avrebbero qualche anno più tardi indossato la maglia della nostra nazionale. Il capitano, Obdulio Varela, prima della partita invoca addirittura un santo italiano, Cono da Diano. Promette, in cambio della vittoria, di compiere un pellegrinaggio a piedi da Montevideo al santuario di San Cono a Florida, ridente cittadina dell’Uruguay. Ma perché proprio San Cono?

La cappella di San Cono a Florida (Uruguay)
Cono Indelli nacque a Diano (in seguito conosciuta come Teggiano, provincia di Salerno) alla fine del dodicesimo secolo, e scappò appena poté in un monastero benedettino a Montesano della Marcellana. Lì visse una vita breve, santa e, per i nostri parametri, noiosissima, ravvivata da qualche saltuario evento miracoloso: come quella volta che vennero a trovarlo i genitori e lui dimostrò l’amore che riservava loro nascondendosi in un forno acceso. Quando se ne andarono ne saltò fuori incolume: miracolo! Pur di non dire ciao papà, ciao mamma.

Del resto il forno era il suo habitat, ci entrava dentro per cucinare; col tempo aveva magari sviluppato una certa resistenza. È anche vero che morì giovane: e che a un anno dal decesso ancora non avevano deciso dove seppellirlo. Ne reclamavano le spoglie ancora incorrotte sia Diano che Padula – quest’ultimo centro non so a che titolo –  finché non si decise di tirare a sorte, abbandonandole a metà strada su un carretto legato a due buoi. I due buoi presero di buona lena la strada per Diano e si fermarono solo davanti alla chiesa del paese. Vince Diano, perde Padula (continua sul Post…)

santi

Un tuffo in Boemia

Monumento a Giovanni Nepomuceno, a Praga sul ponte di Carlo. 

16 maggio – San Giovanni Nepomuceno (1340-1393), patrono degli annegati, dei confessori e della Boemia.

Nel centro dell’Europa, perenne spina nel fianco destro tedesco, c’è una nazione che da quattordici anni non sappiamo come chiamare. Sulle cartine c’è scritto Repubblica Ceca. Manco fosse l’unica repubblica d’Europa: per dire, e invece l’Italia cos’è? L’Estonia? E il Lussemburgo? No, aspetta, il Lussemburgo è un Granducato. Però non leggerai su nessuna mappa d’Europa “Repubblica Estone” o “Granducato di Lussemburgo”, anche perché ti occuperebbe mezzo Belgio e tutta la Renania. Non è che i cechi siano più repubblicani degli altri: è che in italiano abbiamo l’aggettivo ma non il sostantivo. “Cechia” è una parola che proprio non riusciamo a dire. Qualcuno ci prova: ricordo in tal senso il coraggio di Claudio Lippi nel presentare Giochi Senza Frontiere. E però a un certo punto dovremmo anche rassegnarci: ci sono parole che funzionano e altre che non prendono mai il largo, e “Cechia” in italiano non ce l’ha fatta.

Io sarei per tornare a “Boemia”, che suona infinitamente meglio. E però ogni volta che su internet provo a proporre questa cosa, qualcuno protesta che sarebbe un’offesa ai moravi. In realtà non sono mai riuscito a capire perché un moravo dovrebbe offendersi meno se invece che “ceco” lo chiamiamo “boemo” (conoscete un moravo? Glielo chiedete per favore? grazie). I moravi in verità non sono né cechi né boemi. Sono una cospicua minoranza etnica all’interno della Repubblica Ceca: costituiscono il 30% della popolazione e occupano il 30% del territorio. Però non sono cechi. Sono moravi, appunto. Se ci tenessimo davvero alla loro opinione, dovremmo chiamarla Cecomoravia. Per fortuna non sembrano tenerci troppo neanche loro.

Nel Settecento, una volta fatto santo, Jan divenne anche piuttosto bello, grazie a un anonimo di scuola fiorentina che ne dipinse il ritratto più famoso.
“Cechi” è il termine slavo occidentale con cui gli abitanti della Boemia chiamano sé stessi sin dall’alto medioevo. “Boemia” è una parola ancora più antica, derivata probabilmente dai Galli Boi che abitavano nella stessa zona prima di emigrare in Valpadana (non tutti), strappare Felsina agli Etruschi e ribattezzarla Bononia. Similmente agli ungheresi, che tutti chiamano così anche se tra loro preferiscono chiamarsi magiari, i cechi fuori dai loro confini erano conosciuti come boemi: Böhmen in tedesco, bohémiens in francese (che però era anche sinonimo di “zingari”, perché si riteneva che venissero da lì; finché per estensione diventarono bohémiens gli studenti squattrinati con ambizioni artistoidi, a metà strada tra hipster e pancabbestia). L’aggettivo “ceco” arriva nelle lingue occidentali nell’Ottocento, il secolo in cui incubano i nazionalismi e i tedeschi per primi scoprono la necessità di distinguere tra boemi di lingua tedesca (Deutschböhmen, concentrati nei Sudeti) e boemi di lingua… ceca (Tscheschien). I moravi però non c’entrano: perlappunto, non sono cechi, sono moravi. La tesi per cui Ceco=Boemo+Moravo non ha nessun serio fondamento, anche se ormai si sta consolidando (vedi la voce di Wiki Italia). Io non sono d’accordo, per cui da qui in poi dirò “Boemia”, e credo che tutti dovrebbero imitarmi. Questa sciocchezza della Repubblica Ceca è durata fin troppo.

D’altro canto come potrei definire San Jan Nepomucký patrono della Repubblica Ceca? Una delle nazioni più agnostiche al mondo, dove i cattolici non superano il 10% della popolazione, e nell’ultimo censimento il 35% si è definito “irreligioso” e il 40% non ha nemmeno risposto alla domanda? Jan di Nepomuck era un pio suddito del Regno di Boemia, Stato piccolo ma importante; specie quando alla fine del Trecento il suo re, Venceslao (Václav) il Pigro, riesce a farsi eleggere Sacro Romano Imperatore. Non deve fare una campagna elettorale a tappeto: gli elettori sono sei, uno dei quali è proprio lui. Non solo, ma essendo re di Boemia e principe del Brandeburgo, la Bolla d’Oro gli riconosce il doppio voto (come il jolly ai GSF).

Essendo Imperatore, Re e Principe, Venceslao ritiene di avere il sacrosanto diritto di nominare vescovo un suo sodale; purtroppo nessuna diocesi è vacante. In compenso è appena morto l’abate del monastero di Kladruby; Venceslao converte l’abbazia in diocesi e ordina ai monaci di sospendere le procedure per l’elezione dell’abate. I monaci non lo ascoltano e nel marzo 1393 eleggono il loro collega Olenus. Jan è il vicario generale dell’arcivescovo di Praga, che ratifica la nomina. Venceslao lo fa arrestare insieme ad altri tre membri dello staff; li fa torturare finché gli altri tre non cambiano idea, e infine condanna l’irremovibile Jan a morte per annegamento nella Moldava (il fiume che attraversa Praga – da non confondere con l’omonima repubblica che sta molto più a est). Fin qui Jan ha tutte le carte per diventare il Thomas Becket boemo: un ecclesiastico tutto d’un pezzo che non si arrende ai diktat del potere temporale e difende fino alla morte l’autonomia della Chiesa. E però la fortuna di Jan sarà molto inferiore a quella del collega inglese: i tempi stanno cambiando. Proprio in quel 1393 a Praga un giovane studente squattrinato sta prendendo la laurea breve in filosofia. Si chiama Jan Hus (continua sul Post…)

cultura, religioni, santi

Il giglio dei Mohawk


17 aprile – Santa Kateri Tekakwitha (1656-1680), vergine mohawk

Di solito gli irochesi attaccano su due fronti; accerchiano il villaggio; uccidono i guerrieri feriti, gli anziani, i bambini troppo piccoli e in generale chi non reggerebbe la fatica di un lungo viaggio a piedi. Ai restanti prigionieri viene tagliato un dito a scopo di identificazione; nel frattempo un messaggero viene mandato al villaggio per avvertire che la piccola guerra è andata bene. Lungo il cammino i prigionieri che cadono vengono terminati rapidamente a colpi d’ascia e abbandonati insepolti. Quando finalmente arrivano al villaggio, una piccola folla si fa avanti per percuoterli un po’. Vengono spogliati e torturati con più professionalità dalle donne, specie le più anziane ed esperte. A questo punto venivano nutriti e potevano riposare; quindi erano fortemente invitati a danzare in cerchio mentre il consiglio del villaggio deliberava sul loro destino. I nuclei famigliari che avevano avuto un lutto recente avevano la facoltà di adottare uno dei prigionieri, che in caso contrario veniva ulteriormente torturato, ucciso e parzialmente mangiato. Il prigioniero adottato diventava membro della famiglia a tutti gli effetti, e dalla sua disponibilità a impersonare il parente precedente morto in guerra o in malattia dipendeva la sua sopravvivenza: se non riusciva a integrarsi poteva essere ucciso anche dopo qualche anno. Anche la madre di Kateri Tekakwitha divenne mohawk in questo modo, quando era bambina. Di nascita era algonchina, di una tribù cattolica e filofrancese; gli irochesi (di cui i mohawk facevano parte) in questa fase acquistavano armi da olandesi e inglesi, e attaccavano i francesi che si ostinavano a comprare pelli di castoro da altri popoli.


Gli irochesi erano tutto meno che un popolo in simbiosi con la natura. Giunti da sud nel medioevo, miravano a diventare la potenza egemone di tutta la zona tra i Grandi Laghi e il Mississippi che in alcune mappe europee si chiamava invece Nuova Francia. La loro idea di egemonia prevedeva il genocidio e l’assimilazione delle tribù nemiche. Da un punto di vista economico, miravano al monopolio della vendita di pelli del castoro gli europei, e questo era un buon motivo per combattere contro le tribù alleate dei francesi. Pazienza se nel frattempo la caccia sistematica dell’animale lo stava portando all’estinzione in una vasta porzione del suo habitat. Cacciatori e guerrieri erano costretti a viaggi sempre più lunghi, il che aumentava il prestigio e l’importanza delle donne che restavano a casa. Alle donne appartenevano terreni e abitazioni; soltanto loro conoscevano i misteri delle “tre sorelle” (mais, fagioli, zucche), senza le quali anche i più potenti guerrieri non avrebbero saputo come riempire la scodella quotidiana. E tuttavia le donne dovevano sposarsi e avere figli: era l’unico destino concesso. L’infertilità era connessa con la stregoneria e con altre sciagure. D’altro canto, divorziare sembrava straordinariamente facile: bastava posare i mocassini del marito fuori dalla casa.


Kateri però non voleva sposarsi. Quando le presentarono un pretendente (a 14 o a 17 anni), se la squagliò senza tante cerimonie. Ora faccio l’avvocato del diavolo: Kateri non era un buon partito. Non per via delle origine algonchine, dal momento che l’abitudine a rimpolpare le famiglie con prigionieri di altre tribù aveva reso gli irochesi un melting pot più amalgamato del nostro: dopo l’epidemia del vaiolo del 1662 gli etnologi calcolano che il 90% dei mohawk non fossero di origine mohawk.

Nella stessa epidemia però Kateri aveva perso la famiglia e la bellezza: i segni del vaiolo le sfiguravano la fronte. Aveva anche una vista assai debole, il che non le impediva di essere un’artigiana molto abile. La zia che l’allevava non aveva probabilmente né l’interesse né la possibilità di trovarle un guerriero bello e forte: bisognava arrangiarsi. Le fonti gesuite ovviamente non scrivono così, bensì:

Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.

E può anche darsi che abbiano ragione; che Kateri non disprezzasse unicamente il suo promesso sposo, ma il matrimonio e il congiungimento carnale in sé. Persone del genere esistono in tutte le culture e a tutte le latitudini. Fu la scelta di non sposarsi – che nella cultura mohawk l’avrebbe portata dritta a un’accusa di stregoneria – ad avvicinarla ai “vestenera”, i missionari gesuiti. Ogni villaggio ne aveva uno: lo prevedeva una clausola di una pace da poco firmata coi francesi. Qui bisognerebbe aprire una parentesi enorme sul ruolo dei gesuiti, che abbinavano a una devozione fanatica una duttilità etnologica veramente in anticipo sui tempi. Ovunque arrivano – e arrivano ovunque, sprezzanti dei rischi di martirio – i gesuiti sanno di non trovarsi semplicemente in mezzo a selvaggi, ma al cospetto di culture da interpretare e studiare. Saranno i primi a pubblicare grammatiche giapponesi e azteche; ma a differenza degli antropologi di oggi, che sono portati a considerare ogni popolo come una nicchia da preservare, anche a costo di impedirsi di conoscerla, i gesuiti sono in missione per conto di Dio. La cultura che si portano con sé, dall’Europa sconvolta dalle guerre di religione, la vogliono spargere nel Nuovo Mondo, innestandola su piante autoctone ed esotiche, nella speranza che da qualche parte nella foresta o nella jungla nasca qualcosa di simile a un regno dei cieli, o anche solo una Repubblica di Indios conversi come in Paraguay. Anche in Nuova Francia erano riusciti a farsi intestare delle seignuries, dei feudi. Il piano era infettare le Sei Nazioni come un virus, portando armi e sacramenti (continua sul Post…)

cristianesimo, Francia, madonne, religioni, santi

La pastorella e la Bella Signora

Ha degli occhietti furbetti.
16 aprile – Santa Bernadette Soubirous (1844-1879), pastorella e mistica di Lourdes

La Madonna è contagiosa, chi la conosce lo sa. Chi la vede, di solito, ha già sentito parlare di altri che l’avevano vista. Proprio come le malattie infettive, il fenomeno è particolarmente evidente nei collegi. Un’allieva intravede Nostra Signora in fondo a un corridoio; lo dice a un’amica; la vede anche lei; il resto della camerata le prende in giro; nel giro di un mese l’hanno vista tutte. È successo in più casi. Da bambino mia zia ogni tanto andava a Medjugorje, molti anni prima che Paolo Brosio si accorgesse delle potenzialità mediatiche del fenomeno. Però non è che ci si potesse recare così spesso in quel Paese relativamente lontano che ancora si chiamava Jugoslavia (la Madonna spesso sceglie nazioni sulla via del disastro: in quegli anni si faceva vedere anche in un collegio in Ruanda). Così a volte si contentava di Fossoli di Carpi, perché tra i cultori locali di Medjugorie si era diffusa questa storia, che la Madonna stesse apparendo anche a Fossoli, poco distante dal vecchio campo di concentramento. E un giorno, in effetti, mentre una folla pregava da qualche parte a Fossoli, si sentì una voce ben distinta dall’alto che diceva: peccatori, pentitevi. Non era esattamente Nostra Signora, come si vedrà.

La natura virale delle apparizioni mariane è un grande argomento in mano agli scettici: chi vede la Madonna in realtà sa già cosa deve vedere. È stato, per così dire, istruito da una tradizione secolare. Questo spiega il perché la madre di Dio frequenti di preferenza contrade cattoliche: altrove, del resto, può capitare che ti curino a elettroshock, o ti recludano finché non confessi che ti eri inventato tutta la storia, prima per prendere in giro i compaesani e poi per non deluderli (così accadde per esempio alla giovane Margarethe Kunz nel 1878, appena qualcuno cominciò a parlare di una “Lourdes tedesca” a Marpingen, nel Saarland). Anche i veggenti in buona fede non farebbero che riprodurre, nelle loro allucinazioni, un immaginario cattolico condiviso da secoli.

Bernadette davanti alla grotta (ma è passato qualche anno).
A questa obiezione i credenti rispondono col modello della Pastorella, di cui la piccola Bernadette è l’incarnazione più famosa. Se è abbastanza naturale che una collegiale o una suora sogni le madonne e i sacri cuori che si vede intorno dappertutto, come la mettiamo con le pastorelle? Sono ignoranti, analfabete; frequentano cappelle disadorne; non riconoscerebbero la Madonna nemmeno se la vedessero, e nel caso di Bernadette andò proprio così: non la riconobbe. La chiamava “aqerò” (“quella là” in dialetto occitano); la descriveva come una piccola, bellissima signora biancovestita con una cintura blu e una rosa gialla su ciascun piede. Chiunque a quel punto penserebbe, se non a uno scherzo, a Maria di Nazareth; ma bisogna concedere che il vestito biancoazzurro non era così diffuso: entrò nell’iconografia standard proprio dopo le apparizioni di Lourdes. Nostra Signora dal suo canto ci mise più di quaranta giorni, e sedici apparizioni, prima di presentarsi con quelle fatali parole, que soy era immaculada concepciou, che, a detta di tanti lourdologi, Bernardette sarebbe stata troppo ignorante per capire: come poteva una pastorella sapere che appena quattro anni prima papa Pio IX aveva dichiarato dogma di fede l’Immacolata Concezione di Maria, al termine di un dibattito che aveva messo contro per secoli il fior fiore dei teologi? Anzi, se Bernadette riuscì a riferire la curiosa espressione allo scettico abate Peyramale, fu soltanto perché nel tragitto non smise di ripeterla sottovoce: quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou. Padre! Ho rivisto la bella signora! Mi ha detto di dirle quesoyeraimmaculadaconcepciou.

Per il povero parroco fu un bel colpo. Sei sicuro che ti ha detto così? Ma lo sai cos’è… lo sai chi è l’immaculada eccetera? No, certo che non lo sai, poveretta. Fin lì l’abate aveva diffidato della pastorella allucinata. Quando era venuta a riferirle la pretesa della bella signora di costruire un santuario nella grotta, aveva preteso un segno: di’ alla tua signora che faccia fiorire il roseto lì sotto. Chissà se aveva in mente il miracolo della Vergine della Guadalupe a Città del Messico.

Io ne avevo una, una volta mio cugino ne ha bevuto un sorso ed è ancora vivo.Il roseto non rifiorì. In compenso la fonte che Bernadette aveva trovato scavando lì sotto con le unghie cominciava ad attirare i malati. Era stata un’amica della pastorella, Catherine, a immergere per prima un braccio paralizzato e a trarne, diceva, un subitaneo giovamento. Non poteva certo immaginare di essere la prima di settecento milioni di visitatori, nonché di una settantina di guarigioni ritenute inspiegabili e pertanto miracolose – una ogni dieci milioni, percentuale tutto sommato ragionevole. Fu l’acqua benedetta a fare di Lourdes la Madonna più famosa del mondo: le altre si limitavano a sorridere e sussurrare segreti angosciosi a pastorelli perplessi, ma quella della grotta ti guariva. O perlomeno ti lasciava un segno tangibile, imbottigliabile: un sorso d’acqua pura – a patto di intercettarla molto vicino alla fonte, perché qualche metro dopo il miracolo è non prendersi il colera, con tutti quei malati intinti nella fanga.

Se l’acqua rese famosa la Madonna di Lourdes, la dichiarazione raccolta da Bernadette (quesoyeraimmaculadaconcepciou) la rese canonica: Pio IX riconobbe ufficialmente le apparizioni quattro anni dopo (1862) un record. Per dire: i veggenti di Medjugorje stanno aspettando lo stesso riconoscimento da trentaquattro anni. E d’altro canto l’apparizione a Bernadette era stata straordinariamente tempestiva. Proclamando l’immacolata concezione nella sua enciclica Ineffabilis Deus, il pontefice aveva sfidato i suoi stessi vescovi: era la prima volta che un papa proclamava un dogma senza consultarli in un concilio. Parecchi probabilmente borbottavano, specie quelli di formazione domenicana che avevano osteggiato il concetto di immacolata concezione sin dai tempi di Tommaso d’Aquino. Per metterli a tacere, niente di meglio che un intervento della diretta interessata, anche nel dialetto dei Pirenei. Quando alla fine il concilio si farà – nel 1870 – Pio IX ne profitterà per farsi dichiarare infallibile ex cathedra. Notevole prova di forza per un pontefice che stava per perdere l’ultimo brandello di Stato della Chiesa. Bernadette per quanto possibile, gli aveva dato una mano, recapitando un messaggio dal Cielo con la sua voce pura, immune da contaminazioni culturali e intellettuali. Perlomeno la tesi è questa: Bernadette era troppo ignorante per essere stata anche solo imbeccata da qualcuno meno che santo.

È una tesi che trasuda malafede (continua sul Post…)

santi

Gemma

Nel 1902?
11 aprile – Santa Gemma Galgani, mistica, ragazza (1878-1903)

Rientrano fra le gemme tutte quelle specie e varietà minerali (oltre ad alcune rocce ed alcuni materiali di origine vegetale od animale) che, suscettibili di taglio o lucidatura, possono essere utilizzate in lavori di gioielleria.
La preziosità di queste pietre è determinata dalla loro purezza e dall’intensità del loro colore oltre che dalla loro rarità.

Santa Gemma ha rischiato di chiamarsi Sant’Umberta Pia. Almeno il nonno pare che la volesse chiamare così in onore del nuovo re. Il nome Gemma, suggerito da uno zio, lasciava perplessa la madre, che non trovava nessuna santa omonima sul calendario. Si tratta in realtà di un nome attestato in Toscana già nel medioevo: ma nel lucchese, a fine Ottocento, un nome senza santo in paradiso era una scelta da anarchici o da socialisti. Non era il caso dei Galgani, stirpe di dottori e farmacisti generalmente timorati di Dio. A tagliar corta la questione fu il parroco: se non c’è ancora una santa Gemma, pazienza: magari il posto se lo prenderà la vostra bambina. Bella leggenda, parzialmente guastata dal fatto che il 13 maggio si veneri Santa Gemma di San Sebastiano di Bisegna (AQ).

La gemma è un organo vegetativo che rappresenta il primordio di un nuovo asse vegetale, da cui possono avere origine foglie, rami e fiori.

Gemma Galgani invece è una santa di fine Ottocento. Un secolo complicato per questa rubrica, ci avete fatto caso? Dal Novecento in poi è facile parlare di santi: sono nostri contemporanei, protagonisti o comparse di una storia condivisa. Per contro, i santi anteriori all’Illuminismo sono completamente alieni alla nostra sensibilità, il che in fondo ci libera dalla fatica di capirli: possiamo reinventarli un po’ come preferiamo. Tra gli alieni del passato e i nostri contemporanei c’è una frontiera mobile lunga un secolo, che per ora occupa tutto l’Ottocento. I santi ottocenteschi (Giovanni Bosco, Jean-Marie Vianney, Teresina del bambin Gesù, Pio IX) sono particolarmente indigesti, refrattari a qualsiasi trattamento meno che devoto. O li stronchi o li veneri, una terza via è quasi impossibile.
la foto più iconica

L’Ottocento, in generale, è un secolo che sta scivolando giorno dopo giorno oltre l’orizzonte della nostra sensibilità: e forse per un effetto ottico, nell’ultimo istante prima di sparire ci sembra che scorra più lentamente, come il sole al tramonto. La restaurazione e il risorgimento, il romanticismo e il patriottismo, ci abbandonando lentamente, un po’ alla volta: facciata ritinteggiata dopo facciata ritinteggiata, convento dopo convento ristrutturato e adibito a hotel o sala convegni. Delle passioni di un secolo ormai ci restano formule vuote, frasi tronfie su targhe di marmo e la geolocalizzazione di ogni tetto sotto cui dormì Garibaldi. Forse ci fu anche un Ottocento felice, di garzoncelli scherzosi, ma il loro lieto rumore è il primo a essere svanito nel frastuono contemporaneo. A resistere, tenace, è una sensazione di tristezza che impregna ancora certi androni: l’Ottocento è lo spettro di molte scuole che abbiamo frequentato, infestate ancora negli sgabuzzini da anime in ginocchio sui ceci. Come si chiamavano? Non lo sanno più, ma i colletti lisi delle loro camicie non potrebbero appartenere a nessun altro secolo.

Le scuole poi stanno migliorando, secondo me, anche nei colori: certi gialli sporchi, certi verdi marci penitenziari ho smesso di vedermeli attorno da un pezzo. Dobbiamo restare lì seduti per sei mattine a settimana e quindi facciamo il possibile per trovarci tutti a nostro agio: un bell’azzurro pastello è in molti casi la soluzione migliore. Ma i muri, e certi sbraghi dell’intonaco da cui affiora l’anima in mattoni, ci ricordano ogni mattina la natura concentrazionaria della nostra istituzione.

In una scuola così, diversi anni fa, ebbi un’allieva che somigliava un po’ ai fotoritratti di Gemma Galgani, Di molte altre ricordo ancora meno che il volto. Non sono fisionomista e ho già avuto mezzo migliaio di alunni/e. Altri mi tornano in mente tutti i giorni, come le battaglie devono tornare in mente a un soldato (nel mio caso sono più o meno tutte sconfitte: forse è normale, o forse sono io). Di questa ragazza ricordo lo sguardo vitreo che mi rivolgeva dall’ultimo banco, e che a volte mi dava qualche pensiero: era in trance? o mi guardava? mi giudicava? aveva senz’altro avuto insegnanti migliori. Ripeteva le lezioni diligentemente e consegnava elaborati molto corretti, benché fosse chiaro che la sua anima fosse da qualche altra parte. A me andava bene così, non sono uso nutrirmi dell’anima dei miei studenti.

Gemma con la sorella Angiolina che da piccola la picchiava e che dopo il processo di canonizzazione campava smerciando reliquie della sorella.
Anche Gemma a scuola se la cavava. “Molto silenziosa e sempre obbediente”, ebbe a dichiarare la direttrice che la dispensò negli ultimi anni dalla tassa scolastica. Altre colleghe non erano d’accordo: la trovavano “canzonatoria” e “ipocrita” e sabotarono la sua richiesta di ammissione nel convento delle oblate. L’apparente incoerenza delle testimonianze si lascia facilmente comporre con un po’ di esperienza di consiglio di classe: alcuni insegnanti si contentano del tuo silenzio, della tua obbedienza. Altri no, vogliono scavarti dentro. Chissà cosa cercano poi, cosa pretendono: e se non riescono ad aprirti, ogni tuo vago sorriso diventa canzonatorio; ogni lezione memorizzata diventa ipocrisia. Il percorso di studi di Gemma si sarebbe interrotto di lì a poco in seguito alla morte del fratello Gino, seminarista, per tisi: aveva 17 anni. Gemma, che ne aveva due di meno, cercò coscientemente di trarre il contagio dai suoi indumenti. Lo stesso male le aveva portato via la madre quando aveva otto anni. Non morì, ma interruppe gli studi. Quattro anni dopo avrebbe perso il padre, raro esempio di farmacista senza senso degli affari: lasciava quattro figli sul lastrico. Gemma cominciava a sentire fitte lancinanti ai reni e alla testa. L’unico conforto erano i discorsi edificanti di Giulia Sestini, una sua ex maestra che l’andava ancora a visitare, molto legata ai padri passionisti: la biografia di un sacerdote passionista in via di beatificazione, Gabriele dell’Addolorata, letta tra un’emicrania e l’altra, la impressionò tantissimo.

La Sestini non fu l’unica maestra che segnò profondamente la vita di Gemma (continua sul Post…)

santi

Le origini calabresi della Paulaner

Tre uomini in saio, attraverso lo stretto di Messina.
2 aprile, San Francesco di Paola o da Paola (1416-1507), eremita d’esportazione.

Essere eremiti di successo è complicato. La logistica, ad esempio: devi vivere in un luogo lontano da tutti, ma non del tutto irraggiungibile, sennò rischi che i pellegrini si scelgano un altro venerato maestro. A Paola (provincia di Cosenza) a un certo punto si decise di costruire un ponte tra le due sponde scoscese di un torrente, che avrebbe accorciato di molto il faticoso percorso dei devoti all’eroe locale, Francesco detto Ciccio. Per fare i ponti, però, bisogna venire a patti col demonio: ciò è noto sin dal tempo dei Longobardi, e anche i santi più facili al miracolo si sono rassegnati: Dio fa tante cose, ma i ponti sono una specialità demoniaca.

Persino Francesco di Paola, che aveva attraversato lo stretto di Messina sul suo mantello per non pagarsi il traghetto; Francesco di Paola che aveva resuscitato il suo agnellino preferito facendolo uscire illibato dal forno da dove gli operai si aspettavano uscisse un abbacchio cotto e croccante; Francesco che per i suoi prodigi fu invitato alla corte del re di Francia; persino lui dovette chiedere una consulenza ingegneristica al demonio. In cambio il demonio, come sempre in questi casi, richiese l’anima del primo essere vivente che avrebbe transitato sul ponte. Francesco accettò e, a lavori ultimati, fece attraversare il ponte a un cane.

Il demonio si arrabbiò molto, o almeno così dice la leggenda: ma siccome il trucco era vecchio di secoli, e adoperato in dozzine di ponti medievali in tutta Europa, viene il sospetto che sia tutta una messinscena, e che il demonio sia al contrario piuttosto ghiotto di anime di cani, maiali o altri animali. Non si spiega altrimenti la buona volontà con cui è disposto a edificare ponti a qualsiasi altezza, dimostrando capacità ingegneristiche molto elevate, sempre col pretesto di pigliarsi la prima anima che passa, e sempre costretto ad accontentarsi della povera bestiola il cui transito è una specie di cerimonia inaugurale, forse di origine pagana, tanto è diffusa in tutto il continente. Ponti del diavolo ce n’è dappertutto anche in Italia: quello di Paola è anzi uno degli ultimi, il medioevo ormai è finito. Il diavolo che finge di adirarsi col santo sembra volersi prestare a un’ultima sacra rappresentazione: la colluttazione lascia sul ponte una traccia, una buca in cui ancora oggi i viandanti sputano, anche chewing-gum se capita di averne uno in bocca.

Dai, non dite che non ci somiglia.
Sospeso tra medioevo ed epoca moderna, Francesco di Paola è un santo attualissimo: è difficile impedire alla fantasia di visualizzarlo con i tratti di un altro meridionale frate dei miracoli, Francesco Forgione, più noto come Padre Pio di Pietrelcina. Non si può escludere che tra le cause del successo di quest’ultimo ci sia la facilità con cui la sua figura aderiva a un modello già elaborato e diffuso da secoli: un frate barbuto, burbero e penitente, la cui severità è temperata dalla generosità con cui dispensa i suoi prodigi. Entrambi sembrano ricevere il loro destino insieme al nome di battesimo: Forgione chiese di entrare in convento a 14 anni, Francesco “Ciccio” di Paola a 13 fu contattato in sogno da un frate che gli ricordò il voto fatto dai genitori, già in età avanzata: se avremo un primogenito lo consacreremo a Francesco d’Assisi. Già da bambino del resto gli era stato imposto per un anno il saio francescano, affinché guarisse da un’infezione agli occhi.

Nel 1429 entra quindi in un convento a Cosenza, ma vi resta solo per l’anno di prova, quanto basta per stupire i confratelli con un primo assaggio di effetti speciali: Ciccio si sta già esercitando a reggere i carboni ardenti nelle mani, è in grado di accendere le candele con un semplice sfioramento; a volte riesce a essere simultaneamente sia nella cappella sia nel refettorio (è la bilocazione, un altro grande classico di Padre Pio). Ma il saio dei francescani regolari gli sta troppo stretto, o troppo largo, a seconda dei punti di vista. L’anno successivo coinvolge i genitori in una specie di grand tour della spiritualità nell’Italia centrale: visita Assisi, Loreto, Montecassino, nonché ovviamente Roma, dove rimprovera un cardinale per i suoi abiti sfarzosi. Al suo ritorno, decide di fare il francescano in proprio, ritirandosi sui monti. È una scelta estrema e anche un po’ pericolosa: non solo l’epoca d’oro degli anacoreti era tramontata da secoli, ma da almeno cent’anni le gerarchie ufficiali della Chiesa guardavano con sospetto a chi interpretava la povertà francescana in senso troppo letterale. Lo scontro tra frati conventuali e spirituali era terminato con l’espulsione di questi ultimi; altre esperienze borderline, come quella dei fraticelli, erano state represse con la spietatezza riservata alle correnti eretiche. La povertà era potenzialmente rivoluzionaria.

Ciccio in realtà non rischia niente finché nessuno si accorge di lui: le cose cambiano quando i cacciatori cominciano a parlare di un sant’uomo ritirato sulle montagne. Ai primi ammiratori che lo raggiungono, Ciccio impone un regime durissimo: niente carne né latticini o uova, una quaresima di trecentosessantacinque giorni che si aggiunge ai tre voti francescani (povertà, castità, obbedienza). Anche all’ispettore ecclesiastico inviato da Roma, Baldassarre de Gutrossis, Francesco non nasconde la sua dieta vegan. Questo regime è impossibile, gli obietta il prelato. Nulla è impossibile a chi ama Dio, ribatte Ciccio, prendendo in mano un tizzone ardente a mo’ di dimostrazione. Baldassarre riparte in fretta per Roma, deposita una relazione entusiastica, e ritorna a Paola, dove aiuterà il santo verdurista a organizzare un vero e proprio Ordine. Quando l’approvazione del Papa arriva, nel 1474, Francesco ha quasi sessant’anni, e anche se tra la corte di Napoli e la Sicilia ha viaggiato molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da un eremita, tutti si aspettano che termini i suoi giorni in uno degli eremi da lui fondati. E invece, nel 1782, l’imprevisto: Francesco riceve un invito che non può rifiutare, dal più potente regnante europeo, Luigi XI detto il prudente (Continua…)

cristianesimo, Cristo, santi

Canonizzato in direttissima

Il ladrone è un film del 1980 di Festa Campanile, con un'Edvige Fenech molto in forma. Ho ricordi vaghi ma positivi.
25 marzo – San Disma, il ladrone buono.

One of the thieves was saved. It’s a reasonable percentage. (Waiting for Godot)

Il vangelo di Marco, forse il più antico, parla in effetti di due ladroni: uno a destra e uno a sinistra di Gesù. Così si avvera tra l’altro una profezia di Isaia: “È stato messo tra i malfattori”. Dopo Marco, Matteo riprende l’episodio, ma è più ricco di particolari e aggiunge quello degli insulti a Gesù: anche i ladroni sulla croce lo scherniscono. Nessun accenno a un pentimento da parte di uno dei due. È Luca a mettere loro in bocca le parole: “Non sei tu Messia?”, dice il primo, “salvati da solo e salva anche noi”. E il secondo, con un po’ di buon senso: ma lascialo stare. Non ce l’hai un po’ di timor di Dio? Io e te ce la meritiamo, ma che ha fatto lui di male? Bellissime parole che Luca, cronista di razza, potrebbe aver recuperato da un testimone orale (Maria di Nazareth, ad esempio: Luca sa molte più cose di lei degli altri tre evangelisti). Ma potrebbe anche anche essersele inventate per dare più colore alla storia.

E però Luca è bravo e sa dove fermarsi prima di trasformare la cronaca in leggenda: il ladrone non rinnega la sua vita di peccato, non chiede a gran voce perdono: si comporta in modo semplicemente umano, rifiutandosi di passare le ultime ore della vita a ingiuriare un innocente compagno di sofferenze. Si potrebbe persino sostenere che ad avere più fede sia l’altro ladrone, quello che non si rassegna e si aspetta un miracolo in extremis – da un Messia è il minimo. Sarà stato senz’altro molesto, come molti disperati prima di morire, ma il Cattivo non fa che chiedere a Cristo quello che tutti si aspettano che Cristo faccia: staccati dalla croce e sàlvati, e già che ci sei salva anche noi. Il Buono però soggiunge:

“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”.

È quasi certamente un Tiziano, custodito alla pinacoteca di Bologna, impaginato in modo molto singolare e moderno - ma forse è il ritaglio di una tela più grande. In alcuni quadri il Buon Ladrone non è inchiodato ma (a differenza degli altri due condannati) semplicemente legato.
Tutto qua e tanto basta: In verità ti dico, gli risponde quegli, oggi sarai con me in paradiso. Il processo di canonizzazione più rapido della Storia: l’unico a cui per ora Gesù Cristo ha partecipato direttamente e non mediante vicari facenti funzione. La semplificazione burocratica è tale che secondo alcuni il Buono è già assunto in cielo in carne e ossa, uno dei pochissimi a non dover aspettare la fine dei tempi affinché il corpo si ricongiunga con l’anima (è la condizione di Maria, forse di Giuseppe, di altri non si sa). La Chiesa non si è mai pronunciata ufficialmente, ma la credenza è così diffusa e radicata che non esistono reliquie del Ladrone Buono: neanche un ossicino, un dente, nulla. La croce, viceversa, è spezzata in varie schegge, la più grande custodita a Roma presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, che come dice il nome è una specie di parco a tema gerosolimitano che custodisce anche frammenti della Croce di Gesù, più alcune spine, il cartiglio di Ponzio Pilato, il dito dell’apostolo Tommaso e tanti altri souvenir della Terrasanta. Il Cattivo, per contrappasso, sarebbe stato inghiottito direttamente dall’inferno, attraverso una voragine che metterebbe tuttora la collina del Golgota in comunicazione con il fuoco eterno (continua sul Post…)

santi, vita e morte

Rinuncia a Cristo e fatti un bagno caldo

È anche il nome di una porta monumentale di Treviso (e di una casa editrice lì nei pressi).
È anche il nome di una porta monumentale
a Treviso, e di una casa editrice lì nei pressi.

9 marzo – Quaranta santi martiri di Sebastea (320 ca.)

Erano quaranta, giovani e forti (meno uno). Militavano tutti nella Legione XII, fondata da Giulio Cesare, detta anche “Fulminata” per la folgore che portava sui propri vessilli, duemila anni in anticipo su qualsiasi brigata di paracadutisti. La legione nel corso dei secoli si era coperta di gloria ma anche un po’ di guano – durante alcune guerre di successione aveva scommesso sul Cesare sbagliato – ed era finita tra le truppe di frontiera, dislocata sul fronte orientale, la tipica destinazione punitiva da usare nelle minacce in caserma: se non fate silenzio vi spedisco nella Fulminata. Verso il 320 si trovavano appunto dalle parti di Sebastea, oggi Sivas, in Turchia centrale, a quel tempo Armenia, una delle zone di incubazione del primo cristianesimo. Quaranta legionari fulminati vengono appunto tratti in arresto con l’accusa di professare questa religione empia e sgradita all’imperatore d’oriente Licinio. Questo è a dire il vero molto strano, dal momento che pochi anni prima Licinio aveva controfirmato col cognato Costantino l’editto di Milano che garantiva ai cristiani la libertà religiosa.

Sia come sia, i Quaranta vengono messi di fronte a una scelta secca: rinnegare la loro fede o morire. La solita storia, insomma, riscattata però dall’originalità del supplizio: ai Quaranta viene proposto il martirio per ipotermia, immersi fino al collo nelle acque gelide di uno stagno. È una morte orribile ma abbastanza lenta, che offre discreti margini di ripensamento: a chi durante il supplizio manifesta il desiderio di rinnegare il proprio dio, viene promesso un bagno caldo. Lo stagno è effettivamente contiguo a uno stabilimento termale romano provvisto di tutti i comfort, un fumante invito a rinunciare Cristo e farsi una bella sauna tonificante (continua sul Post…)