La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).
Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana’a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio. La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent’anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un’occasione unica e non la spreca. La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt’altro che banale… (continua su +eventi!)
23 agosto – Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)
Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata “Rosa” per la tenerezza dell’incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un’agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un’altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent’anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.
Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima, via Wiki.
Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.
No, avete ragione. È senz’altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l’autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s’impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per “noi” o per “loro”. Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l’avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l’aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.
D’accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l’era fatto costruire su misura. Quando cominciò a manifestare i suoi propositi claustrali, era ormai chiaro che la famiglia versava in difficoltà finanziarie. Se sei la decima di tredici figli sai benissimo cosa significa: che i soldi per la dote non ci sono e per sposarsi ci si dovrà accontentare. Caterina da Siena aveva visto tante sorelle accasate a uomini brutali, aveva visto una sorella morire di parto. In famiglia già si chiacchierava di farle sposare il vedovo. Caterina preferiva digiunare. Fu una libera scelta? Visse poco ma divenne famosa, tutti gli alti prelati leggevano le sue lettere, un Papa avignonese si fece persino convincere a tornare a Roma. È sui libri di storia e nelle antologie di letteratura: altre avrebbero preferito scodellare figli al vedovo.
Ah vabbe’ ma si era portata la chitarra. Anch’io sono rimasto tappato in casa qualche anno con la chitarra (poi per fortuna hanno inventato l’internet).
A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent’anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.
Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? (continua sul Post!)
In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo per spiegare che anch’io, come tutti, ho paura. Di tante cose, tutte in realtà collegate: del fatto che questo sia l’ennesimo mese più caldo di sempre, delle migrazioni probabilmente inevitabili, della xenofobia che ne scaturisce nei Paesi di confine come il nostro, e non solo; delle pulsioni isolazioniste e identitarie che portano a infortuni come la Brexit e creano consenso intorno a personaggi come Trump o Erdogan; insomma ho paura di tutto, come tutti.
E in questo tutto c’è anche il terrorismo di matrice islamica, com’è normale che sia – benché continui a fare meno vittime del traffico, non c’è motivo per cui non debba spaventare un qualsiasi europeo di mezza età che ha una famiglia e ogni tanto vorrebbe andare al cinema o in ispiaggia. Quindi sì, ho paura anch’io. Se in questo periodo non ne scrivo, non è per paura di ammettere di non aver paura. Più banalmente: sono un adulto, e non credo che gli adulti dovrebbero fare spettacolo delle proprie emozioni.
Lo so che è strano scriverlo su un blog; che all’inizio del gioco nella melassa delle emozioni abbiamo tutti intinto la penna e non solo; ma se c’è un errore in archivio da cui mi piacerebbe prendere le distanze, è proprio questo. Quando sei un bambino, se hai paura urli e piangi. È giusto che sia così, è giusto che gli adulti si ricordino continuamente che hai esigenze, così non ti dimenticano in macchina nel parcheggio. Quando cresci – e intorno a te i bambini cominciano a piangere – tu sei quello che deve restare calmo. Anche se hai paura. Proprio perché hai paura.
Questa è una cosa che ho capito molto presto, credo grazie allo scoutismo. A distanza di mezza vita continuo a rendermi conto che lo scoutismo ha fatto un’enorme differenza nel modo in cui sono cresciuto. Non per i discorsi che facevamo e che mi sono quasi tutti dimenticato, ma per il modo in cui lo scoutismo ci prendeva a diciott’anni e ci intestava la responsabilità di una ventina di minorenni, tuttora se ci ripenso mi spavento – così che invece di preoccuparci dei soliti nostri problemi di generazione X dovevamo passare il tempo a tirar su il morale a questi monelli, anche quando si allagavano le tende o qualcuno si fratturava il femore. Eravamo incoscienti, certo, ma se anche avessimo avuto un po’ di paura, non ci era consentito esibirla. È così che sono cresciuto; forse è per questo che lavoro ancora coi minori e non vado in giro a strillare che il mondo sta finendo e l’eurabia trionferà. Non lo trovo razionale, ma soprattutto non lo trovo virile.
In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo del genere, finché stamattina mi sono imbattuto in uno sfogo estivo di Filippo Facci su Libero, trenta righe su quanto odia l’Islam. Un pezzo ai limiti dell’autoparodia, l’Uomo Bianco Che Strippa In Estate, ormai un classico. Facci ha sempre dato l’impressione di essere più intelligente delle cose che pubblica, e anche stavolta, mentre va avanti con la bava alla bocca gli scappa un’ammissione, è come quando in un film di zombie ne vedi uno a cui sfugge una lacrima da un occhio pesto, appena un sospetto di umanità. Guarda che roba mi sto riducendo a scrivere. Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle [ma parla per te, al limite parla per Giuliano Ferrara], anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, blablablà, va avanti a lungo.
Ma insomma, “eccone il risultato”. Invece di prendervi delle responsabilità, di esercitarvi a ragionare coi lettori scansando le reazioni più emotive, avete deciso che avreste venduto emozioni, amplificato emozioni, sdoganato le emozioni. Il risultato è che state sulla cinquantina e il vostro mestiere consiste nel vomitare odio su un giornalino di benpensanti razzisti che hanno bisogno di sentirsi dire che l’Islam è odioso, e il cui contributo alla guerra di civiltà si esaurirà nel farvi l’obolo di un euro, un euro e venti, e magari sputare sulla passante magrebina che incrociano al semaforo. Tu, Filippo Facci, che pure sembravi così intelligente: e il tuo collega Giordano, quella povera persona che chiama alle armi l’occidente con la sua vocina querula, una metafora vivente. Speculare sui bassi istinti dei vostri lettori non è soltanto spregevole e rischioso. Soprattutto, non è una cosa da veri uomini.
A Libero sì che sanno taggare
Nel senso un po’ machista del termine, sì.
Siete quei poveri isterici che nei film catastrofici urlano MORIREMO TUTTI!, e nessuno spettatore in effetti ritiene necessario che debbano sopravvivere. Va bene, la congiuntura è quel che è, ormai i giornali si vendono così – ma in realtà non li vendete lo stesso. Perché dovrei avere rispetto per gente come voi? Per quindici anni avete solo detto parole, parole, parole, e intanto io ad esempio lavoravo. Con un sacco di brava gente, alcuni anche musulmani. In questi quindici anni diversi li ho diplomati, alcuni li vedo ancora: hanno un lavoro, magari pensano a farsi una famiglia. Il famoso Islam moderato, che secondo le vostre teorie quindecennali non esiste. Magari davvero no, non saprei: posso dire che è da mezza vita che ho a che fare con bambini musulmani, genitori musulmani, ragazzi musulmani, e mediamente mi hanno dato meno problemi di quelli di origine italiana (mi hanno anche dato meno problemi di Filippo Facci). Insomma io non lo so se esiste l’Islam moderato, ma in questi 15 anni coi musulmani moderati ci ho lavorato. Voi non lo vedete perché non è il vostro target, da quel che scrivete si capisce benissimo che il vostro contatto coi musulmani si limita al kebab all’angolo e alla tizia che vi lava le scale e che secondo Gramellini dovrebbe subito andare in questura se sente discorsi strani in moschea. Ma c’è tanta gente che vive e lavora e studia: e voi non li vedete. Non studiano nelle vostre scuole, non lavorano nei vostri giornali, e nemmeno li compreranno mai, quindi perché preoccuparsi? Eh, ma io in quelle scuole invece ci lavoro. Quest’anno la mia alunna che si è diplomata col voto più alto era di origine pakistana, per dire.
Certo, ogni tanto i miei studenti mi raccontano cose che mi spaventano – anche se cerco di non mostrarlo. Per esempio raccontano di passanti che inveiscono contro di loro. Succede spesso dopo un attentato. Ragazzine di dodici anni che tornano a casa a piedi, magari una delle due porta un velo: passa un vecchio in bicicletta e sputa loro addosso. Queste cose non vanno mai in prima pagina, nemmeno in sedicesima, ma succedono un po’ tutti i giorni. Quel vecchio magari non legge gli sfoghi estivi di Filippo Facci su quanto è opportuno tirare calci all’Islam che siede sui nostri marciapiedi. Però Libero, quando pubblica una strippata di Facci sull’Islam, pensa esattamente a quel tipo di lettore.
Adesso viene la parte più inquietante. Una cosa che scrive Facci – che l’Islam sarebbe avrebbe portato una “permalosità sconosciuta alla nostra cultura” – è abbastanza ridicola, soprattutto se penso all’autore. Però sì, un certo tipo di permalosità è innegabile, anche se lo trovo un tratto comune di tutte le civiltà mediterranee. Comunque può essere un problema, anche considerato che le temperature non si abbasseranno per un po’. Ora, io ho avuto diversi studenti musulmani, e il rischio della radicalizzazione so cos’è. Se mi chiedi: quale fattore può portare un ragazzino o una ragazzina a radicalizzarsi, io a freddo ti risponderei: un vecchio in bicicletta che ti sputa addosso, o sputa a tua sorella.
Dunque, caro Facci, la situazione è questa: tu per vivere fai la tua tiratina isterica su Libero: un coglione razzista la legge, esce di casa e sputa addosso a una ragazzina. Quella ragazzina magari ha un fratello che lavora con me. Se è permaloso, se si radicalizza, non verrà a farsi esplodere a casa tua, figurati. Non saranno cazzi tuoi, mi rendo conto. Saranno cazzi tutti miei, se un giorno viene a scuola con un coltello o peggio.
Ma io non posso avere paura. Nessuno mi paga per averne. Nessuno mi paga per pisciarmi addosso le mie emozioni.
Invece mi pagano per aver coraggio. Quindi io continuerò ad avere coraggio, e tu continuerai ad avere paura. Così è la vita.
Volevo dirti un’ultima cosa ad effetto, del tipo: la prossima volta che ti sale il panico, cerca di essere un uomo, Filippo Facci. So già che mi risponderesti – senza un’ombra di islamica permalosità – vaffanculo imbecille. Già. Buone vacanze anche a te.
Caro musulmano non integralista che in privato hai confidato a Gramellini il tuo sgomento per l’eresia wahabita, e la tua rabbia verso la corte saudita che si atteggia a nostra alleata e invece finanzia quell’eresia dai tempi di Bin Laden, esci fuori.
Lo so che esisti, Gramellini ti ha tradito. Dai, esci, su.
Il piano degli aspiranti califfi è piuttosto chiaro: utilizzano ragazzotti viziati come gli stragisti del Bataclan, ma anche relitti umani come il camionista che ha seminato la morte sulla promenade di Nizza per alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, così da portare i razzisti al potere in Occidente e creare le condizioni per innescare una guerra di civiltà, insomma la qualunque, va bene tutto, qualsiasi commando improvvisato noi lo attribuiamo ai Sauditi Malvagi, se non direttamente a Sauron o al Veglio della Montagna, perlomeno il tuo amico Gramellini ormai ragiona così, un Vittorio Feltri dal volto umano, e tu ancora ci parli, chissà dove poi, magari uscite a cena, e al dessert tu gli fai: sono sgomento per l’eresia wahabita.
“La che?” “L’eresia wahabita, è la confessione della corte saudita”. “Sono i cattivi?” “Beh, senz’altro hanno finanziato diversi terroristi”. “Ah, il terrorismo, conosco, gli anni Settanta, sapessi, le Brigate Rosse, i compagni che sbagliano…” “Ecco, non c’entra niente”. “Ma è terrorismo, lo hai detto tu”. “Il terrorismo è un fenomeno complesso, sarebbe sbagliato leggere gli avvenimenti degli ultimi vent’anni con le lenti degli anni di piombo, che tra l’altro ormai ve li ricordate solo voi giornalisti italiani e…” “Ma non scaldarti, su, beviti un bicchiere”. “No, grazie”. “Ah già sei musulmano”. “No è che a quest’ora non lo reggo, e forse anche tu dovresti…” “Però sei stronzo che mi fai bere da solo. Vabbe’, ho capito, i sauditi vogliono fare la rivoluzione e i musulmani di tutto il mondo li considerano compagni che sbagliano, è così?” “Sigh”. “Negli Anni Settanta del secolo scorso il terrorismo di sinistra insanguinò le nostre strade con altri metodi (bersagli simbolici e non indiscriminati) ma identici obiettivi: scatenare la rivoluzione“. “In che senso identici obiettivi? La rivoluzione non è mica una guerra di civiltà”. “Vabbe’, dettagli. Comunque tu in questa storia saresti il sindacalista Guido Rossa, che pagò con la vita la rottura dell’omertà in fabbrica!“ “Cioè devo farmi ammazzare”. “Ma no, si fa per dire, anzi ti auguro lunga vita“. “Ma mi tocco i coglioni, guarda”. “Ah, lo fate anche voi?” “No, è che mi sto integrando”. “Bravo”. “Ma insomma cos’è che dovrei fare?” “Da te che ci aspettiamo il gesto che può cambiare la trama di questa storia. I farabutti che sgozzano in nome dell’Islam non vengono dal deserto: sono cresciuti in Occidente e quasi sempre ci sono anche nati“. “Embè?” “Frequentano i tuoi negozi“. “Io faccio la spesa alla coop”. “E la carne halal?” “Ce l’hanno anche alla coop”. “Ah”. “Tu non la fai mai la spesa, vero?” “Però frequentano anche le tue moschee“. “Cioè secondo te i jihadisti discutono di bombe davanti a tutti nel parcheggio della moschea? Che molti manco ci vanno in moschea. Si fanno le madrase in casa”. “Ecco, perché non li denunci?” “Li denuncio per cosa?” “Hai appena detto che si fanno della roba in casa”. “Le madrase, le scuole islamiche, si trovano in garage o nel seminterrato e pregano e insegnano l’arabo ai figli”. “E tu non li denunci?” “Ma per cosa? Per il reato di pregare insieme a casa propria e insegnare l’arabo ai figli?” “Lo vedi che non sei collaborativo? Eppure parlano la tua lingua!“ “Ma mica tanto”. “Come, non siete tutti arabi?” “Guarda, io son tunisino, e i marocchini già faccio fatica a capirli. Poi ci sono i pakistani che non sono proprio arabi, proprio per niente. L’arabo giusto per le preghiere”. “Ma te pensa. Comunque hanno figli che vanno a scuola con i tuoi“. “Perché con i tuoi no?” “Ehm, boh, non saprei. Senti, per troppo tempo hai guardato ai terroristi come a dei fratelli che sbagliavano ma che non andavano traditi“. “Eh?” “Non condividevi i loro comportamenti, ma non te la sentivi di denunciarli“. “Ma che cazzo dici?” “In qualche caso per paura, ma più spesso per una forma perversa di solidarietà religiosa e razziale“. “Cioè mi stai accusando di favoreggiamento ai jihadisti? Così? Mi inviti a cena e mi dici una cosa del genere?” “No, veramente la scrivo sulla prima pagina del giornale”. “Perché sono tuo fratello”. “Certamente, di me ti puoi fidare”. “E meno male che non ero solo tuo cugino, ma vaffanculo, va’”. “Lo dite anche voi?” “Mi sto integrando”. “Bravo. Adesso però il gioco si è fatto troppo duro e non puoi più restare sull’uscio a osservarlo“. “Ma osservare cosa, ma lo sai che c’è gente che dopo ogni attentato mi insulta per strada?” “Adesso anche tu, come l’operaio comunista di quarant’anni fa, hai qualcosa da perdere“. “Cioè dici che prima no, che prima ero un pezzente senza niente da… senti, ma sei venuto in macchina?” “Certo, perché”.
“Forse è meglio che andiamo, mi sembra che tu abbia già bevuto un po’ troppo”. “Aspetta, aspetta. Bene o male l’Occidente ti ha accolto, offrendoti la possibilità di una vita più dignitosa di quella che ti era consentita nella terra da cui sei scappato“. “Cameriere, ci porta il conto per favore?” “No, stavo pensando a un amaro. Mi fai compagnia?” “Io non sto bevendo, Gramellini”. “Ah già, dimenticavo. Senti. Cosa stavo dicendo?” “Niente di particolarmente intelligente”. “Non puoi continuare a negare l’evidenza o a girarti dall’altra parte“. “Ma chi si gira, ma cosa stai…” “Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il menefreghismo dalla complicità“. “Cameriere, sul serio, noi adesso andiamo, pago tutto io con la carta”. “Facciamo un patto“. “Che la prossima volta offri tu? sarebbe anche ora”. “Noi cercheremo di tenere i nostri razzisti lontani dal governo e di migliorare il livello della sicurezza, anche se è impossibile proteggere ermeticamente ogni assembramento umano“. “Dammi il braccio, non lo vedi che barcolli”. “Tu però devi passare all’azione“. “Sì capo”. “Devi prendere le distanze dagli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano“. “Dammi le chiavi della macchina, che è meglio”. “Denunciarli, sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte“. “Sissì, guarda, parto da domani”. “Denuncerai?” “Denuncerò”. “Sbugiarderai?” “Sbugiarderò”. “Controbatterai punto su punto le loro idee distorte?“ “Controbatterò… scusa, una curiosità, tu negli anni Settanta passavi il tuo tempo così?” “Eh?” “Passavi il tempo a controbattere punto su punto le idee distorte dei brigatisti?” “Ma che c’entra, io mica ero un operaio”. “Ah già”. “Sei tu l’operaio, ricordatelo!” “Sì capo”. “Bravo”. “C’è altro capo?” “Ah, e poi nelle moschee si dovrebbe parlare in italiano”. “Eh?” “Cioè, a seconda dei Paesi in cui uno è: sei in Francia? Francese! Sei in Italia? Italiano”. “Ma le preghiere sono in arabo”. “E non si possono tradurre?” “No”. “E perché no? Chi lo dice che no?” “Ma direi il Profeta”. “E chicazz’è sto profeta e profeta, tu sei in Italia adesso, hai capito? In Italia si parla italiano. Noi la Messa l’abbiamo pure tradotta”. “Dopo 1960 anni”. “Vabbe’ ma che c’entra, è casa nostra, facciamo quello che ci pare”. “È anche casa mia”. “Eh?” “Sono italiano, lavoro, pago le tasse, è anche casa mia. La mia religione è uguale alla tua davanti alla Costituzione”. “E dove sta scritto”. “Nella Costituzione”. “E quindi insomma continuerai a pregare in arabo”. “Credo proprio di sì”. “Come i tuoi fratelli wahabiti”. “Non mi stanno molto simpatici”. “Ma non li denuncerai”. “Per cosa?” “Perché fomentano l’odio razziale”. “Ma è una considerazione generale, non conosco nessuno che in pratica… oddio, uno forse sì”. “Ecco, vedi che uno lo conosci”. “Cioè è un brav’uomo, ma certe volte fa dei discorsi che ti fomentano, ti fomentano proprio”. “Denuncialo”. “Ma è un mio amico”. “Lo stai difendendo?” “Non credo che istigherà mai nessun terrorista, anche se”. “Anche se?” “In effetti i suoi discorsi hanno un certo effetto, circonolano tra migliaia di persone, cioè come si può escludere a priori che tra i suoi seguaci non ci sia qualcuno disposto a…” “Ecco, lo vedi? La connivenza! La zona grigia!” “Però è un mio amico”. “Un amico che sbaglia”. “Già”. “Ma che amico sei per lui, se lo lasci libero di spargere odio?” “Non so, devo pensarci”. “Pensaci, pensaci bene. Dove ho messo le chiavi?” “Le ho io, ti porto a casa”.
Caro fratello musulmano di Gramellini – lo sappiamo che esisti – esci allo scoperto. La tolleranza è una gran cosa, ma è chiaro che tu hai tollerato troppo.
Ognuno ha la sua ricetta, il suo rimedio al terrorismo, e Mario Adinolfi l’altra sera a Ballarò ha avuto la bontà di spiegarci il suo: bisogna tornare a Ratzinger, e non a un qualsiasi Ratzinger col cappellone rosso e le scarpine simil-Prada. Bisogna tornare al Ratzinger tosto, quello di Ratisbona.
La questione che pone Ratzinger nel discorso di Ratisbona dieci anni fa è una questione centrale. Dice Ratzinger all’Islam fondamentalmente: dovete fare i conti con la ragione così come ce li ha fatti il cristianesimo. Il cristianesimo è passato attraverso quella temperie: è stato in grado di fare i conti, e fare i conti con la Ragione e fare i conti con la Ragione non vuol dire abbassare le ragioni della fede. Vuol dire stare insieme: fides et ratio. L’Islam ha degli elementi in cui questo passaggio diventa complesso.
Si deduce da queste poche parole che Mario Adinolfi non ha mai letto la Lectio. (O non l’ha capita, o fa finta: decidete voi cos’è peggio). Per pensare che Ratzinger a Ratisbona abbia “detto all’Islam” “dovete fare i conti con la ragione così come ce li ha fatti il cristianesimo“, Adinolfi non deve solo aver frainteso un discorso di otto pagine in cui Ratzinger non si rivolgeva mai a nessuna autorità islamica, a nessun credente musulmano. Bisogna anche far finta di non aver letto le successive puntualizzazioni con cui il Vaticano rispose al putiferio di reazioni (anche violente), che ne seguirono. Bisogna per esempio aver dimenticato:
la dichiarazione del segretario di Stato Bertone che appena quattro giorni dopo, citando un documento conciliare, ricordava che “La Chiesa guarda con stima i musulmani, che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini”;
Quanto al giudizio dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, da Lui riportato nel discorso di Regensburg, il Santo Padre non ha inteso né intende assolutamente farlo proprio, ma lo ha soltanto utilizzato come occasione per svolgere, in un contesto accademico e secondo quanto risulta da una completa e attenta lettura del testo, alcune riflessioni sul tema del rapporto tra religione e violenza in genere e concludere con un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza, da qualunque parte essa provenga. (Il grassetto è nel testo).
le scuse e le precisazioni che lo stesso Ratzinger pronunciò appena ebbe tempo di affacciarsi alla finestra: “desidero solo aggiungere che sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Regensburg, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale” (Castel Gandolfo, 17 settembre 2006).
Insomma Ratzinger fu il primo ad ammettere che a Ratisbona (Regensburg) aveva commesso una gaffe. Prima di ogni altra cosa, la Lectio fu un disastro di comunicazione che pesò come un macigno sul magistero del papa teologo. Quando persino il presidente iraniano Ahmadinejad si scomoda per difenderti e per spiegare che sei stato mal compreso, ecco, è evidente che qualcosa non abbia funzionato. Più drastico di Ahmadinejad suonò il responsabile del dialogo con l’Islam per la Compagnia di Gesù: “Penso che utilizzando un autore mal informato e carico di pregiudizi come Manuele II Paleologo il Papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse“. Ratzinger si scusò subito, e oggi al suo posto c’è un gesuita. Magari è una coincidenza.
Chi tira fuori ancora oggi Ratisbona in funzione anti-islamica, infatti, ha in mente soltanto la famigerata citazione dell’imperatore Manuele II Paleologo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava“,e deve fare un notevole sforzo per ignorare tutto il resto. (Apro una parentesi: usare come campione del cristianesimo il cosiddetto imperatore Manuele è una cosa ridicola in sé. Il tizio governava un territorio non molto più grande di una signoria italiana, e almeno all’inizio del suo complicato regno era sostanzialmente un vassallo del sultano, a cui pagava regolare tributo. Addirittura a un certo punto agli ordini del sultano espugnò Filadelfia, città anatolica di fede ortodossa che formalmente si considerava ancora parte dell’impero romano d’oriente. Certo, a scuola leggiamo che l’impero bizantino finisce nel 1453, e questa idea che cinquant’anni prima un “imperatore” di Costantinopoli fosse un lacchè dei turchi ci mette un po’ a passare. Poi da est arrivò Tamerlano, gli ottomani andarono a loro volta a rotoli, e la storia si fece ancora più complicata – ma in sostanza l’aggressività di Manuele nei confronti di Maometto è quella di un combattente che si è misurato con l’Islam per tutta la vita, in guerra e in pace. Chiudiamo la parentesi).
Perché a dieci anni di distanza c’è ancora chi s’impegna a leggere una sfida all’Islam in un testo che conteneva tutt’altro (se non l’esatto contrario)? Diciamo che c’è una gran voglia di un Papa che chiami alle crociate, e l’infelice citazione di Manuele II Paleologo è l’unica cosa a cui ci si può attaccare se non si vuole risalire al, al Seicento.
Il testo in italiano però mi sembra molto chiaro: prima di citare Manuele, Ratzinger mette avanti tutte le mani che ha. Spiega che l’imperatore era in cattiva fede, visto che “sicuramente conosceva” il principio di tolleranza religiosa contenuto nella Sura 2. Lo accusa di non soffermarsi “sui particolari”: afferma di trovarlo “sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile“. Insomma, per vedere in queste righe un’identità di vedute tra il papa Ratzinger e il basileus Manuele bisogna stringere gli occhi finché non si cominciano a vedere le stelline, e non si confonde la realtà coi desideri. È quello che ieri ha fatto Adinolfi, l’altro ieri Renato Farina, e domani chissà a chi toccherà.
La citazione del discorso di Ratisbona è bellissima. È un discorso all’Europa. Sono otto pagine che andrebbero rilette, noi le ripubblicammo sul primo numero della Croce perché era immediatamente dopo la strage di Charlie Hebdo e capimmo che lì c’è la via d’uscita. Un grande discorso all’Europa fece papa Ratzinger.
Talmente grande che è dieci anni che vi attaccate a una citazione nella prima pagina, e vi ingegnate a leggerci una cosa che non c’è. Adinolfi è un personaggio fantastico: sembra disegnato a tavolino da un comitato di gay atei decisi a distruggere la famiglia tradizionale ridicolizzando il cattolicesimo. Il momento in cui qualche prete o animatore cattolico ha deciso che un pokerista divorziato con una vocazione da presenzialista televisivo poteva funzionare come portavoce, ecco: quello è il momento in cui Satana ha preso definitivamente il controllo. Ma di cosa stava parlando davvero Ratzinger?
Non è difficile. In effetti è il titolo della lectio: Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni (nessun riferimento all’Islam). Si trattava di un incontro con i rappresentanti della scienza (non con i rappresentanti di altre religioni, tra cui l’Islam). In questo discorso ovviamente Ratzinger non afferma quello che Adinolfi sostiene di aver letto, e cioè che a un certo punto il cristianesimo avrebbe “fatto i conti con la ragione”. Quel che ad Adinolfi sembra l’unica via di far conciliare le due cosa – prima c’era il cristianesimo, poi è arrivata la Ragione, si sono litigati un po’ e alla fine si son messi d’accordo e ora vanno a braccetto (e l’Islam dovrebbe fare altrettanto), un teologo non lo può ovviamente accettare, un papa nemmeno: e Ratzinger è entrambe le cose. Per lui non c’è stato mai un momento in cui si sono fatti “i conti”, perché il cristianesimo è già nato razionale, e del resto se fai il papa non può che essere così. Per Ratzinger tutto comincia con un evangelista, Giovanni, che prende il primo versetto della Bibbia, aggiunge la parola logos, et voilà, nasce una nuova religione che è Fede e Ragione nel medesimo momento.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος”. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione.
Il dio dell’Islam invece, in quanto “pura trascendenza”, rifiuterebbe qualsiasi categorizzazione, “fosse anche quella della ragionevolezza”. Ratzinger lo afferma citando un islamista francese (islamista nel senso di “studioso di Islam”). Nelle pagine successive però si dimentica dei musulmani e illustra come l’idea di un Dio al di sopra del logos abbia tentato più volte i cristiani (e gli occidentali in genere), animando almeno tre ondate di deellenizzazione, tre momenti storici in cui si è tentato di separare Dio dal Logos. La prima ondata, ovviamente, è stata la riforma protestante col suo ritorno alle Scritture. La seconda è stata la teologia liberale a partire dall’Ottocento, e qui il discorso si fa molto tecnico, son cose che il papa studiò da studente. La terza ondata è il relativismo culturale contemporaneo, la mentalità multiculturale che, trovandosi di fronte il Logos del vangelo di Giovanni, non può che incasellarlo in una categoria storica, descrivendolo come un tentativo spericolato di contaminazione tra ebraismo e neoplatonismo. A questa mentalità Ratzinger reagisce come temo reagiscano spesso i teologi a fine prolusione: ehm, si è fatto tardi, io comunque la penso così, arrivederci.
In quanto studioso di fine secondo millennio, Ratzinger si rende perfettamente conto che il “logos” di Giovanni non è un semplice sinonimo di “ragione” valevole per tutti i secoli e tutti i continenti. Sa benissimo che la scienza contemporanea non c’entra nulla col platonismo. Però si è fatto tardi, lui ha quel logos lì e non può che tenerselo ben stretto, e sforzarsi di vedere un po’ di Platone in Cartesio, in Kant, fino ai giorni nostri. Insomma la lectio di Ratisbona non era un disastro soltanto per quella citazione maledetta, ma anche per l’equivoco bello pesante che si portava con sé fino alla conclusione: gli uomini di scienza erano venuti probabilmente a sentire un discorso sulla scienza. Chissà che si aspettavano: Darwinismo, relatività, meccanica quantistica? Ce n’è di carne al fuoco. Ai poveretti il papa ha spiegato che la scienza nel cristianesimo c’è! C’è sempre stata, ed è… quella ellenistica neoplatonica. Che è come convocare un congresso di ferrotranvieri per illustrare la modernità della biga. A quel punto tanto vale farsi musulmano – o luterano – o al limite agostiniano: sul serio, un bel credo quia absurdum costa meno fatica di dover introiettare le categorie neoplatoniche e scambiarle per ‘scienza’.
Tutto questo Ratzinger lo diceva a Ratisbona dieci anni fa, nel disinteresse generale: disinteresse che si è prolungato fino a oggi. Di quelle otto pagine l’unica cosa che è mai interessata ai sedicenti ratzingeriani è una citazione malcompresa. Ancora Adinolfi:
L’Europa non può opporsi a questa follia che non è proprio una follia sradicata proponendo come propria bandiera semplicemente la libertà di fare l’aperitivo. L’Europa deve sapersi opporre a tutto questo in virtù di una radice forte che io non chiamo valoriale. La nostra è una radice storica. È quello per cui da 14 secoli l’Europa dice a un certo tipo di Islam che vuole venire a soggiogare l’Europa: no. Insomma c’è un certo tipo di Islam che ci vuole venire a soggiogare da 14 secoli. 14 secoli ininterrotti di attacchi al cuore dell’Europa. La famosa presa di Roma del 1099, col sangue che irrorava i fori. Il colonialismo ottocentesco, l’Europa spartita tra mamelucchi e ottomani. Adinolfi la pensa così, e a noi lascia il dubbio: in che tipo di scuole si sarà formato? Pubbliche o cattoliche?
(Forse li avete già visti: alcuni youtuber olandesi vanno in giro a citare versetti del Corano ai passanti; dopo averli scandalizzati, scoprono la copertina e rivelano che si tratta di una Bibbia. È divertente, ma non così originale.
Quando 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero – vi giuro, 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero – io scrissi questa recensione per Macchianera, che al tempo era uno dei blog più letti in Italia. Ci cascarono in parecchi – incredibilmente, un sacco di commenti sono ancora on line. È passato tanto tempo e siamo ancora convinti di parlare di qualcosa di attuale, di interessante).
Possiamo convivere con chi crede nel Corano? No
24 novembre 2004.
Ogni giorno è buono per imparare qualcosa, e io temo di avere imparato qualcosa da Vittorio Feltri. Sì, proprio lui, l’esegeta del Corano. L’avevo preso sottogamba, sapete. Credevo che valesse la pena di comprarlo per dedicargli uno sfottò, una di quelle cose che piace a noi frustrati di sinistra. Ebbene. La tesi di Feltri è scontata: il Corano è inconciliabile con l’Occidente. Si tratta di un pregiudizio? Magari. No, Feltri si è documentato, ha studiato il Corano, ed è giunto a conclusioni che sono inoppugnabili. Cioè, io ho anche provato, a oppugnarle. Ma quando uno ha ragione ha ragione, e stavolta devo dare ragione a Vittorio Feltri. Il Corano è inconciliabile coi principi della nostra Costituzione. Chi crede in quel libro non dovrebbe rimanere a lungo sul suolo italiano. Mi dispiace, ma è così. Giudicate voi:
Le donne? Per Maometto sono inferiori di Vittorio Feltri
Il Corano che cosa pensa delle donne? C’è un versetto molto chiaro. Sura II [detto della “vacca”], 228: «Ma gli uomini sono un gradino più in alto». Usa proprio questa formula il Libro Sacro: i maschi sono superiori. Non è una frase suscettibile di interpretazioni. [. . .] Questa inferiorità è strutturale, ed essa è la chiave di volta su cui è costruita la società. Insomma, la donna non è vittima di qualche incidente di percorso, per cui basta un ritocco qua e là delle leggi o della mentalità. No, è minorata per volontà divina, ed anzi la vita comune si regge su questo principio. Il resto discende come conseguenza: nessun ruolo direttivo, nessuna possibilità di organizzare per sé un minimo di vita individuale. La schiavitù è sancita e benedetta. Non sono teorie religiose, ma sono diventate immediatamente leggi politiche dove l’Islam è al potere, e pratiche familiari dove sono (per ora) in minoranza. Non illudiamoci: gli ayatollah imporranno a tutti questa visione del mondo appena potranno, perché per essi non c’è distinzione tra sfera spirituale e politica, tra morale cranica e legge dello Stato. Si pone un’altra questione seria. Le comunità musulmane presenti in tra noi possono trattare così le donne in barba alle nostre norme e consuetudini?
La risposta sarebbe scontata (no), ma lo sapete, io sono il solito malfidato, mica potevo fidarmi del primo versetto che mi citavano. Così sono andato a prendermi la mia copia del Corano, ché sapevo bene di averne una da qualche parte su una mensola alta (il Libro va sempre posato in alto). E ho iniziato a sfogliare. Ero convinto che avrei trovato subito qualche versetto che ribaltava la faccenda. Beh. Mi sono dovuto ricredere. Più andavo avanti, più era peggio. Ragazzi, c’è poco da essere politically correct. Quel libro è veramente misogino. Tutte le volte che compare la parola “donna”, da qualche parte lì intorno c’è anche la parola “sottomessa”. Non ci credete?
Si parte dalla Sura “della Genesi” (3,16): è Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”.
Tanto per mettere subito le cose in chiaro. Ma cos’ha fatto, la donna, di male? Lo spiega a chiare parole la Sura “del Siracide” (25,24):
Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo.
Per cui il minimo che possa fare è restare sottomessa. E infatti: Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza (Siracide 25,26)
E poi ci lamentiamo se le loro donne rimangono segregate in casa? Finché continueranno a credere in un Libro che ragiona così… Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo (Siracide 25,21)
…non c’è da aspettarsi che escano a cercarsi un lavoro. Né che partecipino a qualsiasi tipo di attività sociale. Perfino nella preghiera sono emarginate:
Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. (Sura “dei Corinti I”, 14,34-35)
Nella stessa Sura si motiva anche l’uso femminile del velo (e del burqa, eventualmente):
L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine […] (Sura “dei Corinti I”, 3,7-16)
Notate la grazia della chiusa finale: se qualcuno vuole contestare… noi non abbiamo questa consuetudine. Tante grazie. Noi sì, però. Come la mettiamo? E ancora:
Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie […] (Sura “degli Efesini” 5,22-23;
Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. (Sura “di Pietro I”, 3,1)
Per finire con questa botta:
“Di più! Dobbiamo cagarci addosso di più, perdio!”
La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia. (Sura “di Timoteo I”, 2,11-15)
Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo… e poi pretendiamo che abbiano rispetto per le nostre insegnanti? No, mi dispiace, io credo di essere una persona di aperte vedute e tollerante, ma ci sono dei limiti.
E che nessuno venga a dirmi che questi versetti vanno interpretati, inseriti nel loro contesto, mediati… interpretare cosa? Mediare cosa? È tutto chiaro qui, tutto nero su bianco: dalla donna ha avuto inizio il peccato, la donna stia sottomessa all’uomo, punto. E questo credo che non dovremmo tollerarlo. Mi dispiace, ma su questo sono più feltriano di Feltri: chi crede in questo Libro non ha il diritto di rimanere nel nostro Paese, dove vige una Costituzione che prevede per uomo e donna pari diritti. Perciò, cari amici musulmani, aria.
Un tizio negli USA entra in una clinica dove si programmano aborti, e si mette a sparare; uccide un po’ di personale medico ma da noi non fa quasi notizia. D’altro canto in Kenya hanno ammazzato una cooperante italiana, in Turchia un avvocato dei curdi, è un periodo difficile. Ci sono apprezzabili motivi storici e geografici per cui oggi in Italia possiamo aver paura più del terrorismo di matrice islamica che di quello antiabortista che da noi per ora non esiste. Peraltro, chi volesse approfittare di un fatto tanto estremo per attaccare gli antiabortisti italiani, si tirerebbe la zappa sui piedi: per quanto sia gente odiosa, non va in giro a sparare a medici o infermieri.
A me però un giorno piacerebbe discutere proprio di questo: perché gli abortisti italiani non vanno in una clinica e fanno una strage? Non per polemica, credo che sia una domanda interessante e meno retorica di quanto potrebbe sembrare.
Credo che ogni religione abbia una sua logica, che funziona magari solo se la osservi dall’interno – il che significa, per esempio, che in teoria potresti catechizzare un robot. Ma appunto, se a un robot spieghi che
1. La vita ha inizio dal concepimento 2. A chi muore prima del battesimo è negata la grazia di Dio, e di conseguenza il paradiso
“Genocidio o scelta?”
Questo robot non potrebbe che dedurne che ammazzare i medici abortisti è cosa buona e giusta, così come sarebbe stata cosa buona e giusta ammazzare Hitler prima che iniziasse a sterminare disabili, ebrei, rom, eccetera. Lasciatemi per una volta usare proprio il consuntissimo paragone col fuehrer, perché i numeri me lo consentono; se crediamo che la vita abbia inizio dal concepimento (e i cristiani ci credono!) quello che i parlamenti di tutto l’occidente hanno progressivamente legalizzato dal dopoguerra in poi è un vero e proprio sterminio di massa, degno di figurare accanto a quelli più o meno professionalmente organizzati da Mao o Stalin o altri.
Per il cristiano però l’aborto è ancora più grave: non soltanto strappa alle sue vittime la vita terrena (una proprietà, per i cristiani, trascurabile), ma pregiudica anche la felicità nella vera vita, quella eterna. Non è solo un infanticidio di massa – che già sarebbe grave – ma è uno sterminio di anime. Anche se su quest’ultimo punto si annida un po’ di provvidenziale bruma teologica. Forse la decisione del penultimo papa di eliminare l'”ipotesi” del Limbo nasce proprio dalla volontà di stemperare i toni: si trattava di una regione liminare dell’inferno dove i bambini non battezzati bruciavano a fuoco lentissimo (“damnatione omnium mitissima”, diceva Agostino), ma comunque bruciavano. Io a una cosa del genere mi rifiuterei di credere, ma se ci credessi non avrei alternative a farmi esplodere in un consultorio: come potrei sopportare di convivere con un’umanità che permette che dei bambini non nati brucino in eterno? Se però decidiamo di non porre limiti alla misericordia di Dio, il pensiero dell’infanticidio diventa un po’ più sopportabile. Ma pur sempre infanticidio resta.
Ecco, quando discutiamo del cosiddetto “islam moderato”, e ci sembra una contraddizione in termini, (come si possono “moderare” certi dettami del Corano?) forse potremmo fare un confronto con una situazione del genere: uno dei principi più strenuamente difesi dal cattolicesimo moderno – non quello medievale, tomista, no: quello post-conciliare – è la sacralità della vita dal concepimento. È un principio che non ha nulla di “moderato”, il famoso “valore non negoziabile”: chi abortisce è un’assassina, chi l’aiuta è complice di strage. La “moderazione” non interviene sul piano ideologico, ma su quello pragmatico. Cioè, nella teoria un cattolico non può non pensare che Emma Bonino sia una stragista dichiarata. Nella pratica, se la incontra in chiesa durante un rito funebre non si sbigottisce; addirittura può domandarsi come mai non la facciano salire sul pulpito per dire due parole. Questa ci sembra “moderazione”, ci sembra “buon senso”, ma se fossimo un po’ più estranei alla situazione potremmo anche chiamarla “doppiezza”, o “ipocrisia”. Come quando accusiamo i rappresentanti dell'”Islam moderato” di non raccontarcela giusta, di fingere di non vedere i passi più violenti del Corano che pure sono attualmente messi in pratica nelle teocrazie e nelle repubbliche islamiche.
Quando poi capita che un tizio entri armato in un consultorio e faccia fuoco su dei dottori, lo chiamiamo “matto”. Non ci attraversa nemmeno per un istante l’idea di accusare il Papa, o qualche pastore protestante, di averlo ispirato. Eppure.
Cari operatori locali del terrore: politici, opinionisti e semplici reporter a caccia di segni che l’Isis sta arrivando, è qui, non farà prigionieri; care quinte colonne della Jihad prossima ventura, che posso dirvi? Potreste persino aver ragione.
In effetti non c’è motivo di pensare che gli errori commessi in Belgio o in Francia, in materia di immigrazione o integrazione, non siano stati ripetuti anche da noi; e che nell’hinterland di qualche città italiana non esista un ghetto come Molenbeek, dove gli integralisti possono nascondersi e fare proselitismo indisturbati. L’ipotesi è plausibile, non si può liquidare con un’alzata di spalle. Una Molenbeek italiana magari c’è.
A questo punto però dovreste mostrarcela.
Perché se tutto quello che riuscite a trovare è Torpignattara; e anche per dipingere Torpignattara come un ghetto islamico siete costretti a sforbiciare vecchi spezzoni d’interviste, ecco, no. Topignattara sicuramente non è il paradiso, ma altrettanto sicuramente non è il quartiere marocchino di Molenbeek. Se la minaccia islamica in Italia esiste, perché vi riducete a inventarvela? I vostri dossier dovrebbero essere gonfi di fatti, di soprusi, prevaricazioni documentate, musulmani che minacciano salumieri, donne costrette a velarsi, ecc. È da vent’anni e più che ci state raccontando di un’invasione islamica dell’Italia, come minimo a questo punto dovrebbero essere riusciti a imporre la Sharia almeno in una circoscrizione, un isolato, un ballatoio. Voi dovreste essere là, e documentare la cosa con tutta la Rabbia e tutto l’Orgoglio di cui siete sicuramente capaci. E invece.
E invece l’altro giorno un giornalista come Filippo Facci, non esattamente un becero qualunque, si ritrova a scrivere una cosa del genere:
Non voglio leggere che una gita scolastica è stata annullata perché prevedeva la visita a un Cristo dipinto da Chagall: voglio che gli insegnanti responsabili vengano sanzionati, o, addirittura, come ha scritto Claudio Magris sempre sul Corriere, licenziati.
La Grande Minaccia Islamica 2015: una gita scolastica annullata. Peccato che non sia semplicemente vero: che la notizia di una classe che rinuncia alla gita per non offendere gli alunni musulmani fosse già stata smentita dal preside della scuola nel momento in cui Facci si sedeva a scrivere il suo laico grido d’allarme. Poco importa: in mancanza di niente gli operatori locali del terrore hanno deciso che il segno dell’Apocalisse musulmana è questo: un consiglio di classe che blocca una gita per mancanza di adesioni (una cosa che è sempre successa, anche quando i genitori che non volevano pagare non erano ancora musulmani ma semplicemente poveri). Ne sta parlando la Meloni in tv proprio adesso a Porta a Porta, in palese cattiva fede. Nel frattempo il Miur ha mandato gli ispettori in quella scuola, al cui dirigente va tutta la mia solidarietà.
(Non so se vi rendete conto. Durante un consiglio di classe decidono di bloccare una gita probabilmente per mancanza di adesioni. Nel corridoio qualcuno mormora che è colpa dei genitori musulmani. La scuola finisce sui giornali. Claudio Magris sul Corriere vuole licenziare gli “insegnanti responsabili”! Cioè se tu blocchi una gita scolastica perché un po’ di genitori non se la sente di pagare, Claudio Magris chiede al Corriere che tu sia licenziato, e il Ministero ti manda gli ispettori. Ma questo non è cavarsela a buon mercato? Forse si dovrebbe fare di più, magari iniziare a tagliare qualche parte del corpo al professore che non riesce a organizzare una visita d’istruzione. Non possiamo mica rischiare che vinca l’Isis).
Facci comunque non si preoccupa soltanto per le visite d’istruzione. Mali tempi incorrono:
Non voglio che la scuola pubblica elimini dai testi scolastici le parole «maiale» e «carne di maiale» (più tutti i derivati) per non offendere musulmani ed ebrei:
A me questa è sfuggita: qualcuno ha proposto di togliere “maiale” e “ciccioli frolli” dai testi scolastici? Che io sappia a musulmani ed ebrei è fatto divieto di mangiarne, non di sentirne parlare o di leggere la parola su un libro. Insomma questa è una cosa che è successa davvero o un’esagerazione? E che bisogno c’è di esagerare, se in giro per l’Italia vige davvero la Sharia? Ma fateci degli esempi concreti.
Facci non fa che ripetere lo stesso schema che dall’11 settembre hanno ripetuto tutti gli operatori locali del terrore: siccome la Minaccia Islamica tarda un po’ a manifestarsi, se la fabbricano in casa con quel che passa il convento. A Sarcazzo sull’Oglio un crocefisso è caduto da una parete e nessuno l’ha raccolto; nel comune di Massaveneta si sono rotti i coglioni di fare il presepe; la tal classe non va in gita: tutti segni che Maometto sta vincendo. In fondo l’Isis, quando proclama su Youtube di essere a poche miglia nautiche da Roma, non sta facendo la stessa cosa? Arrendetevi, abbiamo conquistato un quartiere di Tripoli, stiamo arrivando.
La grande maestra di questi professionisti del panico è stata ovviamente lei, Oriana Fallaci. Tre anni dopo aver vomitato tutta la sua Rabbia e il suo Orgoglio, pubblicò un testo che si presentava sin dal titolo come un’assai più ponderata riflessione sul tema Quei bastardi fottuti ci fanno il culo, tiriamo fuori le palle, Cristo! Il volume, il secondo della trilogia, si intitolava appunto La forza della ragione.
“Stavolta non mi appello alla rabbia, all’orgoglio, alla passione. Mi appello alla Ragione”.
In questo testo tanto ragionato, la Fallaci spiegava ai suoi lettori che lo Stato in quel momento (2004!) stava giungendo a una specie di concordato con le comunità islamiche operanti nel Paese. Cito da Cathopedia:
Le bozze d’intesa tra Stato italiano e comunità islamiche prevederebbero inoltre: il riconoscimento del venerdì come giorno di festa (per i soli musulmani, insieme alla domenica); la possibilità di interrompere il lavoro per recitare la preghierarituale quattro volte al giorno; l’esenzione dal lavoro per gli islamici in occasione delle loro feste e per poter effettuare il pellegrinaggio a La Mecca; la possibilità per le donne di avere sui documenti d’identità la foto con il velo; la facoltà di usufruire del contributo dell’otto per mille; il riconoscimento della validità del matrimonio islamico con relativa facoltà da parte del marito di ripudiare la moglie o praticare la poligamia (attualmente punita dal Codice penale); l’obbligo per ogni mensa aziendale, scolastica, ospedaliera, carceraria di distribuire cibi islamici; il permesso di praticare la sepoltura dei cadaveri secondo il rito islamico (cioè il cadavere avvolto solo da un lenzuolo e sepolto a fior di terra, in contrasto con le nostre norme igienico sanitarie)…
Sono passati undici anni: qualcuno sa che fine hanno fatto quelle “bozze d’intesa”? Nel caso, potrebbe anche ragguagliarmi su quali “comunità islamiche” stessero facendo pressione sul governo Berlusconi per depenalizzare la poligamia? Ci sono tracce di queste bozze, da qualche parte, onde verificare se davvero qualcuno aveva intenzione di seppellire cadaveri avvolti in un lenzuolo a fior di terra? Perché tutte queste cose le scriveva la Fallaci, e la Fallaci ci stava parlando con la Forza della Ragione.
Adesso ve li faccio io degli esempi concreti. Io abito in un piccolo centro dove non ci sono moschee. Ufficialmente. Se parli coi ragazzi ce ne sono cinque o sei. Almeno fino a qualche anno fa il principale problema di sicurezza era la tensione tra arabi e pachistani – presso la stazione autocorriere ci fu una rissa memorabile. A una decina di chilometri da casa mia, qualche anno fa una madre musulmana difese sua figlia con la vita – e fu uccisa dal marito. Di cose successe più vicino a me non posso parlare; dico solo che ogni volta che sento un giornalista o un opinionista montare a neve un caso come quello della scuola di Firenze, mi sento preso in giro. Solo con le madrase clandestine ci sarebbe di che riempire un libro non ridicolo, e tutto quello che riuscite a trovare voi cazzari anti-islamici è una classe che non va in gita. Non fate senso solo come giornalisti, incapaci di notare quel che succede appena un po’ oltre la punta delle vostre scarpe: fate pure pena come quinte colonne del terrore, bravi solo a spaventarvi a vicenda. L’Italia potrebbe anche diventare più pericolosa del Belgio, non lo so e non lo escludo; ma so che nel caso sarete gli ultimi ad accorgervene.
E così, orfani della Fallaci, alla disperata ricerca di un intellettuale-non-intellettuale che raccogliesse lo stendardo della guerra all’Islam e all’Eurabia, al Corriere si sono buttati su Houellebecq. Gli hanno chiesto un pezzo in esclusiva, l’hanno avuto. Probabilmente si aspettavano un tonante attacco alla Sharia, si sono ritrovati un fervorino contro François Hollande. Speravano in una chiamata alle armi anti-jihad, si ritrovano una specie di grillino che blatera di referendum e “democrazia diretta” – contro l’integralismo islamico? La democrazia diretta? Ci sta prendendo in giro? Scrive anche LOL – no, dev’essere il traduttore, i francesi non scrivono LOL.
Il fatto è che intorno a Houellebecq, in questo triste 2015, è cresciuto un equivoco che – non ci fossero tutte queste stragi in sottofondo – sarebbe persino divertente. Quando in febbraio la promozione della sua ultima fatica, Sottomissione, fu interrotta dalla strage di Charlie Hebdo, alcuni cominciarono a fantasticare di un Houellebecq autore di un libro finalmente, francamente anti-islamico: qualche frecciatina qua e là nei suoi romanzi l’aveva lanciata, e ora stava per darci dentro come soltanto un outsider come la Fallaci aveva saputo fare. Il libro vendette un sacco e poi non è che se ne parlò più tanto (in generale è interessante notare il contraccolpo emotivo seguito agli attentati di gennaio; per due settimane ci siamo preoccupati molto e poi ci siamo quasi dimenticati del problema, fino al 13 novembre). Di suo Houellebecq ci ha messo l’ormai distintiva trasandatezza stilistica, e una trama che non sembra concepita per catturare l’attenzione del lettore (le vicissitudini di uno studioso di Huysmans alla soglia della terza età, reggimi le palpebre). Insomma un sacco di gente che lo aveva comprato sperando nei nuovi Versetti Satanici col 150% di antislamismo in più magari aveva staccato a pagina venti.
Chi invece aveva avuto pazienza di proseguire, si era trovato davanti a una vera propria resa dell’uomo occidentale: per Houellebecq è tutto finito, forse già da un secolo: non resta che vendersi ai migliori offerenti (i sauditi?), i quali magari avranno la compiacenza di assumere qualche intellettuale e provvedere alla qualità dei suoi pasti, e soprattutto a che scopi regolarmente. Forza Islam purché magnam. Il tutto sviluppato su premesse che sì, riprendono alcune note problematiche della società francese (banlieues in rivolta, la crescita del Front National, la crisi di credibilità dei partiti istituzionali), però senza immaginazione, con una certa stanchezza che è ormai il marchio della fabbrica letteraria Houellebecq, la verve di un vecchietto in pantofole che mangia un pasto precotto davanti ai talk show e si domanda: ma i barbari, quando arrivano? Chissà se loro almeno sanno cucinare. Però al Corriere servirebbe una Fallaci e questo nelle foto fuma e fa le smorfie, perché non dovrebbe sbroccare alla Fallaci? Ci crede anche lui nel tramonto dell’Occidente, no? Sì, ma lui è della generazione successiva – e coi venerati padri degli anni Sessanta ha un conto in sospeso – è quasi più corretto dire che lui nel tramonto ci spera, lo auspica, in altri romanzi si domandava come accelerarlo. Per immaginarselo anti-islamico bisogna veramente evitare di leggerlo, e conferirgli l’ambito status di feticcio, quell’oggetto che in una libreria non sfigura, ma serve sostanzialmente a evitare che i volumi veri caschino di sotto.
Chi invece ha qualche familiarità con Houellebecq, nella paginetta concessa al Corriere ritroverà quasi tutto quello che ultimamente preme all’autore di Sottomissione. Niente Islam – più che giusto, alla fine l’Islam per H è poco più di una fantasticheria erotica. Si comincia con una negazione: i francesi non possono veramente essere angosciati dal terrorismo. Ai tempi degli attentati degli Hezbollah negli anni ‘80, forse, ma adesso no. “Ci si abitua, anche agli attentati”. In controtendenza con l’allarmismo che i media spargono per inerzia, Houellebecq insiste a descrivere una Francia blasé, apatica che di fronte all’attentato più grave dal dopoguerra sbadiglia e cambia canale.
Può persino darsi che H abbia inquadrato un dato di realtà che sfugge agli osservatori professionisti, tutti in disperata ricerca di emozioni un tanto al chilo; ma al di là di quanto assomigli alla Francia reale, la sua è soprattutto simile alla Francia descritta nel romanzo, dove, costretto a prevedere una fase di guerra civile tra identitari e musulmani francesi, H la liquida nel modo più sbrigativo, quasi nascondendola sotto il tappeto – al punto di immaginare che nel 2022 Hollande sia in grado di impedire ai testimoni degli scontri di filmarli e trasmetterli in tv e addirittura su Internet.
“In questi giorni ho provato: niente sulla CNN e nemmeno su YouTube, ma me l’aspettavo. A volte su RuTube si trova qualcosa, riprese di gente che filma con il cellulare; ma è molto casuale, e comunque non ho trovato niente neanche lì”. “Non capisco perché abbiano deciso il blackout totale; non capisco a cosa miri il governo”. “Questa, secondo me, è l’unica cosa chiara: hanno davvero paura che il Fronte nazionale vinca le elezioni. E qualsiasi immagine di violenze urbane significa voti in più per il Fronte nazionale”.
Da cui il dubbio: Houellebecq sta esprimendo il suo timore per una deriva totalitaria della società dell’informazione-spettacolo, per cui dopo esserci abituati a scambiare la realtà con Youtube basterà controllare Youtube per darci a bere qualsiasi cosa – o non sta semplicemente proiettando la sua apatia, il suo malessere sulla Francia intera, per cui tutti devono disinteressarsi ai fatti di sangue perché se ne disinteressa lui? Il suo personaggio, un asociale che attraversa i più grandi sconvolgimenti sociali e religiosi degli ultimi due secoli senza capirci nulla, unicamente guidato dall’istinto all’approvvigionamento di cibo e sesso; uno che fallisce ogni tentativo di conversione perché per convertirsi bisognerebbe essere già stati qualcosa, prima – è davvero il francese medio come lo immagina Houellebecq, o è Houellebecq come ce lo immaginiamo noi suoi abituali lettori? Sottomissione è un libro che parla della decadenza della Francia o della depressione cronica del suo autore?
In fondo diventiamo un po’ tutti apocalittici quando invecchiamo, è un normale tratto narcisistico; anche la Fallaci, più che l’antropologo-geo-politica in cui l’hanno trasformata, era una giornalista malata che intuiva che dopo di lei sarebbe venuto il diluvio. Houellebecq a dire il vero non è ancora così estremo, ha ancora consigli concreti da fornire, proposte in grado di incidere sulla realtà, speranze insomma. Peccato che (e anche qui, immaginiamoci lo sbigottimento dei lettori del Corriere), queste proposte non abbiano niente a che vedere con l’Islam. A Houellebecq l’Islam non frega più di tanto – in certi punti del libro ha il sospetto che sarebbe un modo efficace per scoparsi delle quindicenni, e che anche a quest’ultime la prospettiva non dovrebbe dispiacere, – i mariti le riempiranno di regali, avranno “la possibilità di restare bambine praticamente per tutta la vita”. Quindicenni a parte, quel che preme davvero a Houellebecq è la fine del semipresidenzialismo francese, l’introduzione della “democrazia diretta”. La democrazia diretta.
La democrazia diretta? Cioè, Houellebecq è un grillino?
A San Dasio, un martire qualsiasi, caduto ovviamente ai tempi di Diocleziano presso Durostorum (oggi sarebbe Bulgaria), un monaco che s’annoiava associò una leggenda curiosa. Dasio non aveva ancora fatto il suo coming out di cristiano, quando fu acclamato dai suoi concittadini re dei Saturnali, il carnevale di quei tempi: al termine del quale il re sarebbe stato scannato dai suoi sudditi in festa. Era un’usanza che magari il monaco si inventò lì per lì per conferire ai legionari pagani i costumi più turpi possibili: finché James Frazer non la trovò e in un qualche modo decise che si trattava dell’unica testimonianza rimasta di un antichissimo rito comune a tutta l’antichità greca e romana, in fondo perché no? Se l’ha detto Frazer.
Solo a quel punto Dasio, vedendosi comunque condannato a morte, decise di rivelarsi per un cristiano: e così, invece che sacrificato a Crono, morì da martire. La storia sembra escogitata apposta per provocare una discussione: benché sia morto esattamente sotto le stesse armi di tanti altri colleghi di martirio, Dasio potrebbe sembrarci un po’ meno eroico: mentre ad altri fu offerto di rinnegare il loro Dio, e rifiutarono, Dasio sapeva che sarebbe morto in ogni caso. L’unica scelta a sua disposizione era cambiare il senso della sua morte. Voi dite che io muoio per X, e invece io muoio per Y. Per noi, che non crediamo più né in X né in Y, la cosa sembra quasi irrilevante. Ma la stessa cosa penseranno i posteri di noi.
Un giorno scrolleranno un papiro, un microfilm, un’immagine a mezz’aria, e leggeranno dei dibattiti che facevamo nel novembre del 2015 sugli stragisti di Parigi: se fossero morti perché (x) islamici o perché (y) vittime della mancata integrazione, del degrado delle banlieues (z), del pasticcio geopolitico medio-orientale (w), della carestia che col riscaldamento globale cominciava a bussare a un bordo del Mediterraneo (v): e tutti questi concetti per loro saranno ugualmente astratti. I fatti di cronaca in sé, invece, li afferreranno benissimo: c’era una fazione che voleva seminare il terrore sparando a obiettivi precisi ma anche a casaccio; questo è comprensibile, è successo altre volte e probabilmente non smetterà mai di succedere, per cui possiamo essere ragionevolmente sicuri che finché ci saranno individui della nostra specie, la violenza terroristica non sarà loro aliena: ma avranno parole diverse per spiegarla, parole che a loro sembreranno molto più semplici. Scrolleranno la testa, invece, di fronte alle nostre astruse spiegazioni, alle nostre razionalizzazioni così poco razionali.
Quando per esempio parliamo di Islam, e ci domandiamo se possa avere o meno a che fare col terrorismo. È una domanda seria? Voglio dire, sono musulmani integralisti, brandiscono il Corano, ci definiscono infedeli e crociati, e muoiono come martiri: così a occhio direi che l’Islam un po’ c’entra. È curioso anche solo il fatto che ci poniamo il problema. Perché abbiamo difficoltà ad ammettere che la religione sia un fattore determinante, se non scatenante, di un fenomeno terroristico? Probabilmente perché abbiamo paura di offendere quei musulmani che non sono integralisti, né fanatici, né terroristi (è la stragrande maggioranza) e che anzi, sono il primo obiettivo degli integralisti, dei fanatici, dei terroristi. I cosiddetti “islamici moderati”. Bene.
Ma è una paura che si spalma sull’ipocrisia. Se davvero fossero “moderati”, non dovrebbero offendersi, tanto è evidente il fattore religioso in un terrorismo di dichiarata matrice islamica. Allora forse siamo noi per primi a non crederci molto, a questa cosa dei “moderati”. Abbiamo paura di urtare la loro suscettibilità – e se poi si radicalizzano? Se smettono di essere “moderati”? (Noto qui per inciso che in italiano il termine esiste solo per gli islamici: non ho mai sentito parlare di cristiani o di ebrei “moderati” – al massimo di cristiani integralisti, o ebrei ultraortodossi. L’islam è l’unico grande monoteismo che sentiamo di dover “moderare”).
Il vero motivo per cui almeno io percepisco una certa difficoltà a individuare l’Islam come un agente patogeno del terrorismo, è molto più terra-terra: non voglio darla vinta alla Fallaci. E a tutti quelli che la citano, ovviamente, ormai senza neanche leggerla più (resterebbero sorpresi nello scoprire, per esempio, che era scettica sugli effetti della Guerra al Terrore di Bush; e del disprezzo con cui liquidava la Lega e il suo leader di allora). Per un sacco di gente, dall’11 settembre di 14 anni fa, “Islam” è diventata la risposta più comoda, e in molti casi l’unica. Perché ci vogliono ammazzare? Perché sono islamici. Ma non sarà che provengono da Paesi disastrati dalle fallimentari strategie geopolitche delle superpotenze? Naaah, è solo che sono islamici. Sicuri che non c’entri per niente il modo in cui abbiamo corrotto la loro classe dirigente, mettendo un Paese contro l’altro e vendendo armi un po’ a tutti, senza riflettere su che fiori tossici sarebbero nati dalle macerie? No, no, guarda, è molto più semplice: loro leggono un solo libro e su quel libro c’è scritto che ci devono ammazzare. E la fragilità del benessere di Paesi basati sull’esportazione di idrocarburi, praticamente privi di una classe media che possa creare le premesse per una democratizzazione e laicizzazione della soc… Uff, perché la fai tanto lunga? Islam. E la questione israelo-palestinese, questa ferita aperta che non si ricuce mai? Anche lì, è semplicissimo: i palestinesi sono islamici, gli islamici sono antisemiti, quindi… E il malessere delle banlieues? Dovevano stare a casa loro. Ma le migrazioni sono inevitabili, cioè guarda qualsiasi proiezione demografica, è chiaro che un sacco di gente arriverà in Europa da sud in cerca di cibo e lavoro, parliamo di milioni di persone, mica li puoi tenere fuori… non essere buonista, loro vengono perché sono islamici e sul loro libro c’è scritto che ci devono conquistare. Ecc. ecc.
Nota per il postero: non sto riassumendo dei discorsi da bar. Ovvero, è chiaro che se ne sentono anche al bar, di discorsi così: ma sono gli stessi che fanno autorevoli leader di partito, intellettuali, opinionisti anche loro “moderati”: quelli del Corriere che si nascosero dietro le urla scomposte dell’anziana Fallaci (nessun editorialista maschio ebbe il coraggio di prendersi una fatwa in quell’eroico momento: tutti dietro la vecchietta). Quelli un po’ bricconcelli, un po’ situazionisti del Foglio; gli sciacalli del collasso del berlusconismo, Salvini e la Meloni. Per loro ormai “Islam” significa “ci odiano”, il che rende i loro ragionamenti perfettamente circolari, se non puntiformi. Perché ci odiano? Perché sono islamici. Perché sono islamici? Perché ci odiano. Quel corto circuito tautologico che attirava l’attenzione di Roland Barthes. “Islam” per noi è ormai un mito, nel senso che lui dava al concetto; una parola svuotata del suo senso originario, delle storie complesse che rappresentava, e trasformata in un dato di natura. “Ci odiano”, e non c’è bisogno di altra spiegazione. Ormai lo possiamo scrivere sulla cartina, proprio dove una volta scrivevamo “Hic sunt leones”. Non c’è bisogno di indagare, studiare, capire. Ci odiano. Perché? Islam (continua sul Post…)
Sprofondato in poltrona, una vaschetta da micro-onde sull’addome, François manovra stancamente il telecomando. Sta aspettando i barbari. Spera che sappiano far da mangiare, almeno loro.
Io non ho mai galleggiato nello spazio, così l’esperienza più simile a un Ritorno sulla Terra che ho avuto è stata attraversare il tunnel che dalla Francia sbocca nell’autostrada dei fiori. Ci sono passato dozzine di volte, ma almeno quella avevo la radio accesa, che in un varco improvviso cominciò a trasmettere Vasco. Ero in Italia. Un chilometro più indietro, Vasco era un perfetto sconosciuto.
Stiamo a immaginare universi paralleli, e a poche centinaia di chilometri abbiamo questo universo completamente alternativo e incomprensibile che si chiama Francia. Non è straordinario? Pensa al nuovo libro di Houellebecq. Non è incredibile che un’ucronia interessante, appena a venti miglia da Ventimiglia diventi inimmaginabile? La storia di un tizio profumatamente pagato dallo Stato per insegnare cose inutili a gente a cui non interessano. A un certo punto subentra un nuovo governo che guida una rivoluzione culturale tesa a rinnegare un millennio e mezzo di cristianesimo, il cui risultato concreto sulla vita del protagonista è che qualcuno lo paga un po’ di più per smettere di insegnare. Poi ci ripensano e lo pagano ancora di più per riprendere. Lui ci pensa un po’ e poi accetta. Fine.
Ora io non voglio dire che in Italia non esistano studiosi altrettanto inutili e inutilmente pagati – ma ve lo immaginate un libro che ruoti esclusivamente su uno di loro senza un intento esplicitamente anti-accademico? Un intento che in Houellebecq semplicemente manca. Ovvero, non è che a lui sfugga l’enorme vacuità di tutto il carrozzone accademico, un sontuoso castello gonfiabile che alla fine della fiera serve soltanto per procacciare fanciulle in fiore e tramezzini di qualità ai rinfreschi (nulla che l’Islam non possa allestirci meglio, ci sussurra). Però manca completamente quel disprezzo, quel sentimento anti-intellettuale che in Italia è egemonico da un secolo tondo. H. non dipinge un intellettuale inutile per denunciarne l’inutilità. Lo dipinge perché gli sembra un buon esemplare di francese medio. L’accademia inutile non è un obiettivo polemico in quanto accademia inutile. È solo un correlato oggettivo della Francia intera: per H. è fatta così, un posto dove tutti hanno un sacco di tempo libero e risorse per complicarsi l’esistenza intorno alle semplici esigenze di nutrirsi e fottere.
Una vita fa scrissi una cosa su Le particelle elementari di cui ovviamente mi vergogno, però a quanto pare quel che mi sorprende continua a essere la stessa identica cosa.
…I nostri eroi, invece, hanno tutti il posto fisso. Djerzinski e Desplechin sono ricercatori. Annabelle lascia il suo lavoro alla TF1 per fare la bibliotecaria; Bruno è un insegnante che non può più insegnare, per aver molestato una sua allieva: viene aggregato a una Commissione per il Programma di Francese (“mi giocavo gli orari da insegnante e le ferie scolastiche, ma il salario restava lo stesso”). La sua ex moglie è un’insegnante; la sua amante è un’insegnante: coincidenza sbalorditiva, ma nessuno dei personaggi ci fa caso. Ho la sensazione che non ci abbia fatto troppo caso neanche l’autore. Sembra una cosa normale: se sei insegnante finisci sempre a letto con insegnanti. […] Djerzinski è in anno sabbatico quasi per tutto il libro (il suo superiore quasi si vergogna di doverlo richiamare). Bruno e Christiane si fanno certificare una malattia fasulla da un medico compiacente per recarsi a Cap D’Agde dove, dice lei “è pieno di infermiere olandesi, di funzionari tedeschi, tutti molto corretti, borghesi, genere paesi nordici o Benelux. Mica male, ammucchiarsi con un paio di poliziotte lussemburghesi, no?” Funzionari ed infermiere, il cuore pulsante e libertino dell’Europa. Niente operai nelle ammucchiate, figurarsi. Ma nemmeno un artigiano. O un imprenditore. Niente. È uno dei romanzi contemporanei più classisti che mi sia capitato di leggere. Anche perché ho il sospetto che sia un classismo involuto: Houellebecq non parla di operai e artigiani perché per lui non sono rappresentativi, come se si trattasse di esigue minoranze in un’umanità di impiegati statali
Stavolta chi abbiamo? Un ottocentista, François – una versione un po’ più virile e affermata di Bruno Clément – che discute soltanto con accademici pari di lignaggio e un paio di escort, una delle quali comunque studia alla Sorbona. Siccome non è gente che più di tanto capisca di geopolitica, il narratore gli fa incontrare ogni tanto fortuitamente un analista dei servizi segreti (lo incrocia persino nel cuore della Dordogna, il che renderebbe chiunque paranoico, ma non François).
Questa percezione centralista, napoleonica della società – per cui il cristianesimo può anche tramontare, ma solo in seguito ai risultati di un ballottaggio, e all’Eliseo ci sarà sempre un Président, e sul tuo conto lo stipendio entro il 28 del mese – mi piacerebbe capire quanto sia condivisa dal pubblico francese e quanto non sia idiosincratica di Houellebecq, uno scrittore peraltro convinto di incarnare un qualche atteggiamento anarchico. Mi piacerebbe capire quanta consapevolezza ci sia nella sua decisione di ignorare completamente alcune dimensioni della società, ad esempio l’economia: si sa solo che la Francia è in crisi (non si capisce nemmeno che tipo di crisi), finché il nuovo presidente islamico non ha l’idea di tenere le donne a casa e rilanciare la piccola impresa a conduzione familiare: pochi mesi dopo “la Francia ritrovava un ottimismo che non ricordava dalla fine delle Trente Glorieuses”. Per tutto questo servirebbero come minimo misure protezioniste, ma Houellebecq viceversa immagina la Francia al centro di una nuova comunità euro-mediterranea, un nuovo impero romano napoleonico islamico. Ma l’aspetto veramente più paradossale è il modo in cui il libro narra la violenza. Non la narra. Dà per scontato che durante la campagna elettorale ci siano ovunque incidenti e conflitti a fuoco tra islamisti e fascisti, ma che nessuno riesca a farsene un’idea perché la televisione deciderebbe di non mostrarli – la televisione, s’intende, controllata dai socialisti al governo. No, ma sul serio?
“No, so già che sui canali d’informazione non ci sarà niente. Forse sulla CNN, se ha una parabola”. “In questi giorni ho provato: niente sulla CNN e nemmeno su YouTube, ma me l’aspettavo. A volte su RuTube si trova qualcosa, riprese di gente che filma con il cellulare; ma è molto casuale, e comunque non ho trovato niente neanche lì”. “Non capisco perché abbiano deciso il blackout totale; non capisco a cosa miri il governo”. “Questa, secondo me, è l’unica cosa chiara: hanno davvero paura che il Fronte nazionale vinca le elezioni. E qualsiasi immagine di violenze urbane significa voti in più per il Fronte nazionale”.
È l’indizio che più di tutti mi fa sospettare che Houellebecq semplicemente si sia ridotto a un anziano misantropo che contempla stancamente il mondo dal journal télévisé di TF1. Nel 2022 in Francia nessuno riuscirebbe a postare il video di un tafferuglio su internet? (Continuerebbe pure, ma non diventerà nulla di narrativo se non voti questo spunto contro Il chiar di luna colpisce ancora. Puoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l’attenzione e arrivederci al prossimo spunto).
È il seguito di Sottomissione, di Michel Houellebecq. Se non lo avete letto vi regalo tre ore di vita riassumendone la trama: un docente universitario perfettamente inutile che comincia a perdere i colpi (non riesce più a sedurre una studentessa a semestre) assiste svogliato alla colonizzazione islamica della Francia, che avviene attraverso regolari elezioni – in strada all’inizio ci si ammazza un po’, ma la tv fa finta di niente e lui si guarda bene dal ficcare il naso. All’inizio è un po’ preoccupato dalla prospettiva di non vedere più femmine scoperte ai rinfreschi accademici, ma quando si rende conto che la nuova fede gli consentirebbe di sposare un paio di fanciulle dai 15 in su (ma anche una matrona che lo riscatti da una vita di pasti precotti), il delicato fiore della conversione germina in lui spontaneo. Fine di Sottomissione di Houellebecq. Non trovate anche voi che qualcosa non torni?
Il libro si basa stancamente (“stancamente” è il mio avverbio preferito quando si parla di Houellebecq) su alcune premesse un po’ discutibili:
1. I francesi non di un lontano futuro, ma del 2022, se al ballottaggio si trovassero a scegliere tra Marine Le Pen e un candidato dell’Islam moderato, sceglierebbero l’Islam moderato. Non solo i socialisti, anche i centristi. CERTO HOUELLEBECQ, CERTO.
2. Pur martoriata da una crisi strutturale, e segnata da lotte intestine tra islamici e identitari, la Francia del 2022 dovrebbe fare talmente gola ai sauditi da indurli a comprarsela. Perché è quello che succede nel libro: dietro al partito islamico moderato ci sono i petrodollari dei sauditi. Fantastiliardi. Si comprano tutto, pure le università coi professori dentro. A ogni professore regalano tre mogli (ovvero, il reddito per mantenerle). Un affarone, no? Chi non si comprerebbe la cultura francese avendone l’agio? Tu preferiresti girare in Lamborghini o mantenere a vita un esperto di Huysmans? Non c’è gara, vero?
3. L’Europa non farebbe una piega, anzi si appresterebbe a riconoscere nel presidente islamico della repubblica francese il nuovo imperatore del Mediterraneo – perché di solito funziona così, no? Quel che va bene ai francesi va bene al mondo. Pieni i manuali di Storia di esempi. Cerca sul minitel.
Insomma il tentativo houellebecqiano di immaginare uno scenario un po’ più concreto per quell’incubo che la Fallaci chiamava Eurabia, finisce proprio per dimostrare quanto poco sia plausibile. Ma vediamo cos’è successo nel 2027. François, l”eroe’ di Sottomissione, ora è un pacioso wahabita con qualche difficoltà a recitare le preghiere in arabo e un harem di tre donne che gli danno il tormento. La vecchia cucina sempre le stesse cose (troppo burro!) quella di mezzo gli fa le corna con un esperto di Rimbaud, la quindicenne è insostenibile come sanno essere insostenibili le quindicenni. Il lavoro all’università è la solita rottura. Dimostrare il criptoislamismo di Huysmans a studentesse che sotto il burqa si messaggiano con l’iphone12 è una tale palla. Aggiungi un lieve ritardo nei pagamenti, qualcuno già sussurra che i sauditi vogliano chiudere i rubinetti. È abbastanza comprensibile, visto che il riscaldamento globale sta portando tutta l’Europa a tagliare drasticamente l’emissione di idrocarburi. In Francia invece si continua a bruciare petrolio allegramente, ma ormai è tempo di elezioni, e il presidente Ben Abbas rischia di perderle.
Quando ci pensa, François ha la sensazione sempre più netta di essersi fatto vendere una sòla. Il nuovo Cesare Augusto, come no. L’ambizioso progetto di smantellamento della società post-industriale, l’idea di trasformare la famiglia in una piccola impresa e incentivarla come tale, si è infranta di fronte alle evidenze degli anni Venti: le piccole imprese non servono più. L’artigianato è morto, sepolto, riesumato, ristampato in 3d. In un mondo che va verso la standardizzazione digitale, Ben Abbas ha fatto perdere alla Francia ulteriori anni preziosi, raccontando con parole nuove la solita fiaba: sei diversa, sei unica, sei speciale, gli americani non possono capirti, i cinesi non possono copiarti, gli europei possono soltanto seguirti, intanto però devi continuare a fare il pieno di super.
Quando Ben Abbas viene sorpassato al primo turno dal nuovo leader lepennista, François avverte le prime crepe nella sua fede. Di nascosto dalle mogli, comincia a frequentare un cenacolo di intellettuali identitari, un po’ clerico-fascisti un po’ ambientalisti. Capisce metà dei discorsi che fanno, ma il buffet è di tutto rispetto. Evidentemente i nazionalisti e i fasciocristiani dell’Europa del Nord li stanno finanziando: vogliono prendersi la Francia e non faranno prigionieri. All’indomani del ballottaggio, mentre qua e là per Parigi le moschee bruciano e la police fa finta di niente, François ha un’illuminazione: c’è un solo Dio e Gesù Cristo è il suo prof… boh, insomma, decide di farsi ri-battezzare. Deve anche ripudiare almeno due mogli, un sacrificio che commette volentieri – anche se rimane a lungo incerto su chi salvare delle tre. Qualche anno più tardi, lo vediamo un po’ dimagrito impartire stancamente lezioni sul problema razziale in Huysmans. Dalla strada rumori di fucilate e bestemmie in arabo, ma lui non capisce. È una lingua che proprio non gli è mai entrata in testa. Come tante altre cose.
Questo non ha speranza, vero? E invece secondo me farebbe il botto. Se la pensate così, non esitate a votare per Redenzione, di Michel Houellebecq, che oggi se la gioca contro Le avventure di Pandolfo.Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
Caro presidente Renzi, vorrei rassicurarla: nessun sindacato si prenderà la scuola. Si tratta di pacifiche organizzazioni di lavoratori che lottano per ottenere migliori condizioni di lavoro – è un nostro diritto, da qualche tempo.
Quanto alla scuola, no: non è “degli studenti”, che fino a 16 anni sono obbligati a frequentarla, né delle famiglie. Non è ancora nemmeno del preside-manager previsto dalla Buona Scuola, che tra pochi mesi deciderà tutto in totale autonomia. La scuola pubblica, perlomeno, è della collettività: e infatti al suo mantenimento partecipa in uguale modo sia chi ha figli, sia chi no e nemmeno ne vuole. Anch’essi hanno comunque interesse ad avere nel proprio quartiere scuole frequentate e funzionali, e vicini alfabetizzati e avviati a professioni ed esistenze dignitose. Questo è l’obiettivo della scuola di Stato, cioè di tutti.
Se poi qualche famiglia chiede per i propri figli qualcosa di più, nessuno glielo impedisce: ma dovrebbe procurarselo con le proprie risorse, non con quelle dei contribuenti. Non coi miei soldi, insomma; nella Costituzione almeno c’è scritto così (invece, nell’ultimo romanzo di Houellebecq, l’eurocaliffo taglia i fondi pubblici all’istruzione e ristruttura la società intorno alla cellula famigliare. È un leader islamico, ovviamente, ma molti nostri leader cattolici non avrebbero un granché da eccepire).
È una relativa fortuna che i cristiani d’Africa non abbiano grandi possibilità di accedere alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, o agli editoriali del Giornale. In caso contrario avrebbero avuto, almeno fino a ieri, la netta sensazione di essere al centro delle preoccupazioni dei loro correligionari italiani. E in effetti i cristiani africani interessano alla Meloni o a Salvini, ma solo quando muoiono per mano di qualche islamico. Se annegano sono meno interessanti.
A proposito di massacri. C’è chi sostiene che Stalin e Mao siano da giudicare sullo stesso piano di Hitler: per quanto i loro massacri fossero meno pianificati, e più spesso risultato di negligenza e scarsa organizzazione. Sono d’accordo: tendo a giudicare le persone dai risultati, più che dalle intenzioni. Credo che nel futuro sempre più persone la penseranno come me: e riguardo alle stragi di cristiani intorno al mediterraneo, non faranno tutta questa differenza tra integralismo islamico e xenofobia italiana. Ha ucciso più cristiani Al Qaeda, o la negligenza del ministro Maroni? Più l’Isis, o la decisione di sospendere Mare Nostrum (900 vittime in un solo anno)? La conta dei morti non si potrà mai fare, anche perché il battesimo non lascia segni. Dio magari i suoi li riconosce, ma per il mare sono tutti morti uguali.
13 gennaio – Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam
Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall’imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant’anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un’ottantina.
I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II – il più grande santificatore della storia – nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l’occasione si legge che “il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell’Oriente”. Sarà.
Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato – lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina – qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell’Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c’è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.
Ci ho ripensato domenica, dando un’occhiata come tutti agli oceanici funerali dei caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l’attentato di tre anni fa), e l’hanno corso fino alla fine. “Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”, aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l’opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un’epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l’icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?
Si è visto nell’occasione che non eravamo disposti poi a molto. Da qualche tempo lo Stato non forniva più una scorta, e Charb ne aveva una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po’ fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.
Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l’islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po’ leziosa. Charb è vittima dell’integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa – come è stato da molti notato – il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone.
Siamo tutti Charlie… ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un’altra legge sanziona l’incitamento all’odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l’Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po’ meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.
La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant’anni in su sono entusiasti – ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l’Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l’arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee – quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz’ora dopo il primo combattimento, l’idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un’ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.
Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l’unico diritto in discussione è quello di offendere l’Islam: per loro è una religione che incita all’odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c’è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.
Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall’altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però… stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall’altra parte qualche columnist dall’altra parte dell’Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione intepretata da un’élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall’alto sui cittadini riconoscenti. Dall’altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua sul Post…)
Questa è la storia di un putiferio che non è scoppiato. Credevo che sarebbe successo, e mi sbagliavo. È una buona notizia dopotutto.
Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un’orda di polemiche. Nell’articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l’Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l’emozione che “le libere donne laiche italiane” potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt’altro che laiche, tutt’altro che libere. Donne la cui vita consiste in “casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare […]”
da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera.
Ecco, andando a vedere questo film, le libere donne laiche italiane (secondo la Aspesi) resteranno sedotte e turbate, di fronte a “un’oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce”.
Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia […]
Io il film ovviamente non l’ho visto, ma dell’Aspesi mi fido. Posso immaginare che un film del genere abbia il pregio di descrivere dall’interno situazioni che non solo non capiamo, ma più spesso ci vantiamo di non capire. Non trovo così scandaloso che una donna occidentale, libera, laica, possa trovare il tempo per andare al cinema a lasciarsi sedurre da un’oasi di reclusione; dopotutto qualche anno fa uscì un film sul monachesimo maschile che, almeno dalle recensioni, risultava altrettanto seducente, e allora in fondo perché una donna non potrebbe lasciarsi affascinante da qualcosa del genere? al limite ci si potrebbe chiedere se lo stesso diritto di andare al cinema e lasciarsi sedurre da modelli diversi lo abbiano anche le donne segregate di cui parla il film; domanda retorica da cui partirebbe la solita polemica a base di santanché e corani e le magliette antimaomettane. Ecco, appunto. Dove sono le santanché coi corani e le magliette? Io me li aspettavo già in edicola al lunedì. Niente. È anche vero che c’era il dibattito sulle primarie, il maltempo, il caso Petraeus. Però, accidenti, almeno il Giornale se la poteva un po’ prendere, con questa Aspesi affascinata dalle donne segregate, no?
No. Anzi. L’unico riferimento all’Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l’Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:
Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt’altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po’ invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall’apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall’allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell’orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.
Dove si capisce tra l’altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia “Holly”, una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov’è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po’ paura.
Ma forse non c’è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.
O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l’ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L’importante è che non sia in nome di Allah.
Ogni volta che si ripropone la farsa delle vignette maomettane va a finire che ne scrivo troppo, senza comunque riuscire a convincere nessuno, e quindi dovrei probabilmente smettere. D’altro canto qui lo spazio è illimitato, e uno sfogo in più uno in meno non cambia nulla. Qui di seguito alcuni appunti da uno psicodramma tutto occidentale. Perché alla fine io di questa cosa discuto soltanto con compagni di occidente, senza riuscire a capirli né a farmi capire.
1. *Oggi la faccia di Maometto, domani il mondo!* Sembra che la prima reazione dell’occidentale medio, quando scopre su facebook o in tv che c’è da qualche parte un tabù (ad es., la raffigurazione di un profeta), sia calpestarlo, o inneggiare a chi lo calpesta. Perché? Perché è pericoloso. Perché una civiltà che ha un tabù è una civiltà minacciosa. Perché se rispettiamo il loro tabù, domani loro ci impediranno di guardare i film in televisione con i polpacci delle donne! Tutto questo ripetuto da centinaia di interlocutori tutti originali, tutti in buona fede convinti che coi musulmani funziona così: se li rispetti appena un poco, loro ti entrano in casa, ti bruciano i porno e instaurano la sharia su tua sorella. Non ci sono margini. Non c’è spazio. O noi calpestiamo i loro simboli, o loro calpesteranno i nostri, per cui bisogna darci dentro coi calcagni, presto! Ne va dell’occidente. Ne risulta un conflitto di due sharie speculari: loro, i cattivi con le barbe, vogliono costringerti a non vedere niente, tu invece ti costringi a vedere tutto, a ridere di tutto, anche quando tanto ridere non fa: pure di un tizio con la barba di cui mai ti è fregato nulla, finché non ti hanno spiegato che c’è una cultura in cui non sopportano che sia raffigurato. Se ti raccontassero domani che la stessa cultura ha il culto del membro virile, tu te lo strapperesti per dar loro un dispiacere. Passi l’ignoranza coltivata di gente che confonde un miliardo di musulmani con qualche centimigliaio di talebani; ma l’idea che non si possa cedere neanche un millimetro, non si possa concedere neanche un po’ di rispetto, altrimenti prima o poi quelli ci prendono tutto nasconde una fobia del nemico che a quasi dieci anni dalla guerra in Iraq regge insospettabilmente bene. Hai voglia a rammentare che gli invasori siamo noi, e che nessuno sta chiedendo la sharia sulle tv occidentali. No, ci sono manifestazioni con migliaia, pensate, migliaia di musulmani dall’altra parte del mare, e questa è evidentemente una minaccia. Non passeranno! Altre vignette sul barbuto, presto.
2. *Ma le vignette su Cristo si possono fare!* La grande illusione della tolleranza: la reciprocità. Certo che tolleriamo i musulmani: gli facciamo costruire una moschea… appena loro fanno una chiesa. Dove si capisce che la nostra idea di Islam è un cristianesimo con un’insegna diversa appiccicata all’ultimo momento. Noi abbiamo le chiese, loro le moschee. Stessa cosa, no? Noi abbiamo Cristo, e ci facciamo le vignette, e quindi le vignette si possono fare anche su Maometto. Stop. Sembra L’Orlando Furioso, i Mori identici ai cristiani, cambiano solo i nomi e non sono nemmeno nomi moreschi. Dove la tolleranza consiste nel consentire a qualsiasi diverso di diventare uguale a noi. Noi raffiguriamo Cristo, dal medioevo: la sua raffigurazione in forma umana è alla radice del realismo occidentale. Voi no? Voi avevate una religione iconoclasta e avete sviluppato un’arte astratta e calligrafica? Sì, beh, non ce ne frega niente. Siamo noi che tolleriamo voi, nella misura in cui le vostre radici iconoclaste vanno rapidamente in discarica e voi vi mettete a ridere delle caricature del vostro profeta, anche alla svelta.
3. *Si deve mostrare tutto!* Pur di dare addosso ai musulmani c’è gente disposta a giurare che in occidente si possa mostrare tutto, ridere di tutto. A me vengono milioni di esempi di cose che invece no, non si possono mostrare: che sono tabù riconosciuti, codificati, elevati a legge, difesi da sanzioni penali. Lasciamo stare il fatto che in Italia la blasfemia sia ancora reato (in Francia no); ma io non posso nemmeno fare una foto ai miei studenti: qualche anno fa potevo, adesso no. Non posso esporla da qualche parte. Men che meno metterla su internet. In televisione c’è un sacco di facce pixelate, ci avete fatto caso? Tutti i minorenni, e anche i maggiorenni se non acconsentono. Poi c’è un sacco di pornografia che in chiaro non è accessibile: perlomeno a me risulta, a voi no? Qualche sottospecie di snuff su youtube gira, ma appena se ne accorgono lo levano. Insomma ci sono delle censure e delle autocensure: esistono, ci viviamo dentro, molte non le riconosciamo tali perché non ci poniamo nemmeno il problema. Altre le applichiamo perché a partire da un certo momento in poi le consideriamo giuste (il divieto di fotografare minorenni a scuola). A questo elenco sterminato di cose non raffigurabili si potrebbe – per rispetto alla seconda religione in Italia, e nel mondo – aggiungere giusto la faccia barbuta di un profeta, ma questo no: è inammissibile. Sarebbe la fine dell’Occidente, e a Lepanto allora cosa abbiamo combattuto a fare? Bisogna mostrare tutto! Volti, chiappe, peli! Purché del profeta. I peli nostri in realtà non interessano a nessuno.
4. Voltaire! Gramsci! Altri nomi a caso! Un tizio su facebook mi ha scritto che se Gramsci fosse vivo pubblicherebbe una vignetta antiislamica al giorno, perché era Gramsci, lo sanno tutti che Gramsci era così, no? Rimango sempre un po’ perplesso dalla leggerezza con cui gente come Voltaire – un tizio abbastanza formale, almeno stando alle incisioni, sempre con la sua bella parrucca in ordine – viene arruolata per difendere qualsiasi disegnino o recita filodrammatica. Tutti a dare per scontato che lui, e quelli come lui, avrebbero applaudito qualsiasi scemenza, perché è satira, e la satira è giusta, non deve insegnare niente, non deve combattere nulla, la satira si fa per il gusto di farla: forse che ci si può togliere il diritto di scoreggiare su delle icone? Voltaire sarebbe morto per difendere la libera espressione del nostro meteorismo. E se non l’avesse fatto, fanculo anche Voltaire, fanculo Gramsci, ci resta il Bagaglino. Ah no cacchio l’hanno chiuso. E allora lo vedi che la nostra libertà occidentale ha i giorni contati?
Sono molto affezionato a Charlie Hebdo, un foglio satirico che forse mi ha insegnato più cose sulla Francia del serissimo Le Monde. Ammiro il coraggio dei suoi redattori, che a differenza di tanti anti-islamici da bar si sono sempre presi la responsabilità delle loro provocazioni, pagandone conseguenze molto concrete, quando un anno fa la loro sede andò a fuoco. E anche stavolta, come un anno fa, il loro Maometto mi ha fatto ridere.
Detto questo, vorrei cercare di spiegare perché ritengo che la scelta di Charlie Hebdo di continuare a pubblicare vignette sul profeta – per quanto legittima, e coraggiosa – sia inopportuna. Quando Charb, il direttore, ammonisce che “Se si comincia a dire che non si può disegnare Maometto, in seguito non si potranno più disegnare i musulmani”, indica un orizzonte che è semplicemente implausibile. Le manifestazioni di protesta inscenate nei giorni scorsi nei Paesi musulmani hanno coinvolto ‘solo’ alcune migliaia di persone: poche, confrontate con il miliardo di musulmani che ha semplicemente ignorato la cosa, e che in certi casi ha manifestato per motivi assai più seri – nel disinteresse dei nostri organi di stampa, che per un presidio anti-vignette si scomodano e per un corteo antigovernativo in Yemen no. In ogni caso, anche nei Paesi dove si è manifestato contro le satire maomettane, nessun governo ha appoggiato le proteste, e molti le hanno soffocate: in Pakistan la polizia ha sparato sui manifestanti e ne ha ucciso una decina o più. Se stavano protestando contro il nostro diritto occidentale di disegnare Maometto e burlarci di lui, possiamo dire che la polizia pakistana ha difeso il nostro diritto. Qualcuno ha voglia di festeggiare? (continua sull’Unita.it, H1t#145) (ora di là si commenta solo con facebook, o se preferite potete commentare qua).
Siamo liberi di disegnare qualsiasi cosa. Ma proprio questa libertà – teoricamente illimitata – mette in crisi una nozione fondamentale, senza la quale forse non riusciamo più a conoscere il mondo: il concetto di limite. Noi pretendiamo che non ci siano limiti alla nostra libertà: se qualcuno da qualche parte nel mondo non ci tollera, occorre costringerlo. Viceversa, noi non possiamo tollerare nessuna limitazione della nostra libertà. La satira deve ridere di tutto: se all’improvviso a quel “tutto” viene sottratta una sola unità (Maometto), il tutto frana all’improvviso e ci ritroviamo nella situazione opposta: non si può più raffigurare niente, non si può più ridere di niente. Per Charb almeno le cose stanno così: si passa nel giro di una frase dal divieto di disegnare il profeta a quello di disegnare i suoi fedeli, “E poi non si potrà più disegnare cosa? I cani, i maiali? E poi? Gli esseri umani?” Eppure nessuno ha posto la questione in questi termini. Nessuno per ora ha proibito a nessuno di disegnare un musulmano, o un cane, o un maiale. Questa apocalisse della raffigurazione è l’angoscia che riempie il vuoto della nostra fantasia, che non sa più concepire un limite alla nostra libertà.
Torniamo a terra. Nessuna libertà è illimitata. Ci sono sempre dei limiti storici e culturali, che ci sono imposti o che ci auto-imponiamo. Anche la televisione francese, una delle più libere del mondo, non trasmette film porno in chiaro. Magari in futuro succederà: ogni limite è tale perché è condiviso da una maggioranza che col tempo può dissolversi, o cambiare idea. Queste periodiche crisi delle vignette, che sarebbero ridicole se non facessero danni e morti, sono un banco di prova per l’umanità, che da qualche anno grazie a internet si ritrova a dover condividere una piazza comune, e ancora non sa bene come regolarsi. In una parte della piazza sono abituati a ridere di qualsiasi dio; in un’altra parte non la stanno prendendo bene, ma in ogni caso è chiaro che da qui in poi la piazza sarà una e una sola. Dovremo arrivare prima o poi a stabilire un minimo codice di comportamento. L’idea che va per la maggiore da noi è che tutti gli altri debbano tollerare la nostra libertà, anche a prezzo della loro vita. Mi dispiace, ma non mi sembra un’idea sostenibile.
Mi sembra più praticabile un sistema di tolleranze reciproche, in cui si accetta che ogni gruppo presente nella piazza abbia un margine di suscettibilità, un piccolo recinto sacro intorno ad alcune cose su cui sia inopportuno scherzare. Credo che sia anche l’unico sistema che ci tuteli, visto che in questa piazza non siamo la maggioranza – non lo siamo mai stati, e continuiamo a diminuire.http://leonardo.blogspot.com
Quando quest’ultimo polverone nordafricano si sarà depositato – e si sta già depositando – qualcuno conterà le vittime e scoprirà che anche stavolta, come nel caso delle vignette del 2006, sono quasi tutte arabe, quasi tutte musulmane. Per dire, l’11 settembre insieme all’ambasciatore Christopher Stevens sono morti dieci agenti di sicurezza libici, che stavano cercando di difenderlo. Questo ovviamente per noi pubblico occidentale ha punta o poca importanza: gli africani sono comparse, il fatto che cadano come mosche non desta sorpresa. Per noi l’11 settembre è morto soprattutto un ambasciatore USA, un occidentale, un laico. Vittima dell’islamofascismo oscurantista che non consente alcun tipo di scherzo sul Profeta. E passi. Lasciamo pur perdere il carattere volutamente provocatorio del film che ha scatenato la reazione; prendiamo anche per buoni i titoli sparati che due giorni fa ci annunciavano rivolte in tutto il mondo islamico, quando alla fine si è trattato nella più parte dei casi di manifestazioni pacifiche. Ma non importa. Prendiamo pure per buona la tesi degli eredi della Fallaci, comprensibilmente ansiosi di intestarsi un’eredità che in libreria e in edicola vale ancora parecchio. Diamogli retta, per una volta, e ammettiamo finalmente che l’islamofascismo esiste e minaccia l’Europa, minaccia il mondo, e probabilmente l’universo…
…Però, a questo punto, bisognerebbe avere l’onestà di ammettere che fa soprattutto vittime nel mondo islamico. Quando sei anni fa un Ministro della Repubblica italiana si sbottonò una camicia in diretta per mostrare una vignetta anti-Maometto sulla maglietta della salute – sì, è successo – in Italia non ci fu nessun attentato; invece a Bengasi morì un po’ di gente, durante una manifestazione che la polizia di Gheddafi represse alla sua maniera. Al nostro ministro (era Calderoli) nessuno torse un capello – sì, fu spinto a dimettersi, ma non perse certo la scorta.
Scrivo questo perché anche stavolta, come sei anni fa, mi sembra che la discussione sia un po’ fuori fuoco. Ci si lamenta che la nostra occidentale libertà di espressione (sacrosanta) sia limitata, come se ci fosse da qualche parte un insopportabile codicillo medievale che ci impedirebbe di scherzare su Maometto. Ecco, no. Possiamo benissimo scherzare su Maometto, tanto quanto scherziamo su Gesù (entro certi limiti tuttora fissati dalla legge) e su altre divinità. Certo, se la cosa circola su internet può darsi che qualcuno s’incazzi e qualcun altro ci rimetta le penne, com’è successo a Stevens e alla sua scorta. Ma non è un rischio per noi. È un rischio per chi laggiù ci vive o ci lavora. Per noi no, noi siamo liberi di scherzare su tutto quello che non conosciamo. Siamo liberi. E irresponsabili, ovviamente. Se qualcuno nel terzo mondo si scanna per un film o una vignetta che abbiamo pubblicato noi, nessuno può attribuircene la colpa. Noi siamo al di sopra di tutto questo.
Ci sono motivi storici per cui siamo fatti così. In breve, i nostri antenati hanno inventato la modernità, lottando contro un oscurantismo non meno odioso di quello salafita, e conquistando a volte a prezzo della vita una cosa che per convenienza chiamiamo “libertà di pensiero”. Certo, per loro era la libertà di sostenere che il sistema copernicano è più aderente alla realtà del tolomaico, o che il Terzo Stato era sfruttato dai primi due; era libertà di pensiero, appunto. Oggi sempre più la libertà sembra consistere nel poter scrivere Maometto Cacca. Più che libero pensiero mi sembra rutto libero, ma non importa; nessuno ce lo contesta; Oriana Fallaci ruttò quattro volumi di Maometto Cacca, la RCS fu ben lieta di pubblicarglieli, la gente li comprò, nessuna fatwa fu emessa – e sì che la vecchietta un po’ ci sperava, in fondo tra cancro e fatwa anch’io non esiterei (non sono sicuro che oggi un volume sul concetto di Cristo Cacca venderebbe altrettanto bene, senza incorrere in sanzioni penali – ma non importa).
Nel mondo islamico l’illuminismo è arrivato tardi; forse deve ancora arrivare, quello che si coltiva nelle capitali è un modernismo di facciata, spalmato alla benemeglio su un intonaco che non vi si adatta. Magari è così. Se è così, varrebbe la pena di domandarsi se possiamo aiutarli in qualche modo. Non per altruismo: è nel nostro interesse che sviluppino una società civile laica. Come si può fare? Non lo so, ma so molto bene come *non* li si aiuta. Non li si aiuta sputando sui loro simboli, e il Profeta è il più importante. Perché, con voi funzionerebbe? Avete mai pensato di profanare un crocefisso per convincere un vostro amico cristiano che la sua fede è stupida? Non si tratta di psicologia né di sociologia, è una questione di spiccio buonsenso: le vignette o i film antislamici non combattono l’islam in nessun modo. Non è per questo che vengono fatti circolare. Quello che si ottiene, diffondendo satire antislamiche, è: irrigidimento, rabbia, manifestazioni di protesta, che quando fanno vittime le fanno quasi sempre dall’altra parte del Mediterraneo. Ovviamente nessuno ci impedisce di ruttare le nostre parodie. E nessuno ci riterrà responsabili del polverone che di nuovo si alzerà, e, quando si poserà, delle comparse che saranno cadute anche stavolta. Noi siamo liberi di fare quello che vogliamo, e se quello che vogliamo di solito è prendere in giro gente meno fortunata di noi, così sia.
Questa libertà, guai a chi ce la tocca. I nostri antenati hanno lottato per conquistarla, e noi la difenderemo col sangue e con le unghie dei contractors che pagheremo con soldi che stamperemo facendo debiti che intesteremo prima o poi a qualcuno. Siamo l’Occidente, tutto ci è dovuto.
Come la prima fidanzata, spesso la tesi di laurea è un mondo a parte in cui hai vissuto per uno o due anni, sforzandoti in tutti i modi di trovarti bene, affezionandoti a particolari irriferibili, amandola con tutto il cuore mentre da qualche parte nella tua mente covavi il progetto di farla in piccoli pezzi per non intasare il sifone del WC. Tutto questo è ormai al di là della nostalgia e del rimpianto, in un passato blindato in una scatola in cantina che prima o poi marcirà o prenderà fuoco, mentre tu pensi ad altre cose che non hanno più niente a che fare. Oppure è in giro per il mondo, come la tua prima fidanzata, che incontra gente, capisce cose, si diverte e non pensa a te, per fortuna. Così vanno le cose, così è giusto che vadano. Sennò diventi Mohammed Atta. Ci hai mai pensato?
Non pensa mai nessuno a Mohammed Atta, mi pare. È il più grande villain degli ultimi 25 anni, ma i bambini neanche lo conoscono per nome. Hitler, per dire, lo conoscono: Atta no. È scivolato quasi subito in un incomprensibile cono d’ombra. Se hanno fatto un film su di lui, non ha avuto successo. Il che è inspiegabile, la sua vita è un film. D’azione. Viaggi intorno al mondo, spie, pedinamenti. E un lungo preambolo in cui si discute di architettura.
Mohammed Atta, basta andare su wikipedia, è nato nel 1968, da qualche parte nel delta del Nilo. Nel 1990 si è laureato in architettura all’università del Cairo. Nel 1993 si è trasferito in Germania, e ha cominciato a frequentare un politecnico ad Amburgo. Si paga gli studi lavorando in una concessionaria, il che forse lo ritarda un po’, visto che si laurea solo nel 1999 (in urbanistica?) con una tesi su Aleppo, in cui depreca il degrado architettonico-urbanistico dell’antico centro, causato dalla modernità e in particolare dai… grattacieli.
L’anno prima – quello in cui mi sono laureato io – Atta aveva creato con alcuni suoi coinquilini la cosiddetta “cellula di Amburgo”, un nucleo di fondamentalisti in cerca di jihad, che in un primo momento pensano di trovarla in Cecenia, ma poi finiranno in Afganistan ad allacciare contatti con Al Qaeda, e il resto della storia vagamente lo sapete (benché siano i dettagli a renderla intrigante).
Mohammed Atta, tutti quelli che ammettono di averlo conosciuto, lo ricordano come una persona dai modi gentili ma inequivocabilmente islamici, che sorrideva spesso e quasi si scusava di non poter stringere la mano ai membri della commissione di laurea che avevano la ventura di esser donne; diamo quindi per scontato che credesse in tutto quello a cui credono i jihadisti suicidi: il paradiso a base di vergini, eccetera. Il fatto che nell’estate del 2001 lo si trovasse spesso ubriaco negli stripbar di Las Vegas, lo prendiamo come un tentativo abbastanza riuscito di stornare i sospetti della CIA (che lo aveva schedato molto prima che lui entrasse negli USA, ma, curiosamente, smise di seguirlo non appena vi entrò). Però – è una suggestione che lascia il tempo che trova, prima o poi l’avrei scritta e ci ho messo 11 anni – forse la cosa in cui Atta credeva davvero, con tutta l’anima e tutta la mente, ancor più del Corano, era la sua tesi di laurea. I grattacieli erano il nemico. Bisognava cominciare a buttarne giù. Dare l’esempio, almeno.
Chissà cosa direbbe Atta delle macerie che oggi sono Aleppo. Chissà se gioirebbe per i brutti palazzoni che crollano, o per il centro millenario che le granate non risparmiano. Non potrebbe neanche arrogarsi qualche merito, o addossarsi qualche colpa: l’11 settembre è già lontano, quel che succede oggi in Siria ha altre origini, altri fini. Chissà che direbbe delle Abraj Al-Bait Towers della Mecca, inaugurate in questo 2012 e già dichiarate il più grande edificio sulla Terra: in cima c’è ovviamente l’orologio più alto del mondo, un BigBen sotto steroidi che promette di assestare un bel pugno nell’occhio di tutti i pellegrini che da ogni parte del globo vengono lì sotto a pregare intorno alla Ka’ba. Atta ci andò nel 1994: al posto delle Al-Bait Towers c’era ancora un forte ottomano, poi smantellato e ricostruito altrove.
Le foto delle Al-Bait Towers (via Mazzetta) hanno un che di spaventoso e disumano e bellissimo. Quel BigBen è così assurdo, così fuori contesto, così blasfemo, che alla fine ti ipnotizza, in un modo non troppo dissimile da come ci ipnotizzò 11 anni fa Mohammed Atta, buttando giù una torre ancora più alta. Più guardi le foto, più ti ripeti: Atta ha perso. Più lo ripeti, più ti sorprendi a pensare che nel 1998, all’inizio perlomeno, non è che avesse tuttissimi i torti.
“Vengono insegnati testi antisemiti, sia nella forma che nel contenuto, sia nel lessico che nella sostanza, senza che vi sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo. Un esempio emblematico è la Divina Commedia, caposaldo della letteratura italiana”. (Dal documento “Via la Divina Commedia dalle scuole” del comitato per i diritti umani Gherush 92).
Li hanno criticati in tanti, ma in realtà quelli di Gherush92 hanno capito tutto: in effetti io quando spiego l’Inferno di Dante in classe gliela metto giù proprio così. “È tutto vero”, dico ai miei pupilli, “lui c’è stato e la sua è una testimonianza oculare: se vi comportate male ci andrete, se fate la spia finirete conficcati per l’eternità in una calotta glaciale sotterranea al centro dell’universo (perché la Terra, vi rammento, è al centro dell’Universo, circondata da nove cieli di cristallo concentrici, e da Dio primo motore immobile); se nell’intervallo seminate la zizzania andrete nello stesso girone di Maometto e vi fate sbudellare tutti i giorni da un demonio preposto”. O pensavate che la spiegassi diversamente?
“Ma prof mi scusi, come fa la terra a essere al centro dell’universo se deve girare intorno al sole che è nella zona periferica di una galassia tra tante?” “Chi è che ti ha raccontato queste cose?” “La prof di scienze”. “La prof di scienze sta seminando zizzania” (continua sull’Unità, H1t#117)
Sto scherzando, meglio dirlo subito. La questione è seria, invece. È vero, quell’atto di denuncia sembra provenire da un altro pianeta: un mondo in cui gli abitanti a furia di prendersela col relativismo etico devono aver rinunciato a qualsiasi forma di relativismo. Il passo successivo sarà smettere di leggere l’Iliade: per apprezzarla davvero bisogna convertirsi agli Dei dell’Olimpo e forse non vale la pena. Ma è proprio perché Gherush sembra venire da un pianeta diverso, che il suo sguardo sulla Commedia è interessante. La illumina da un lato diverso dal solito, un lato che a scuola e nelle università spesso non guardiamo, o fingiamo di non vedere. La Divina Commedia, e l’Inferno in particolare, è un edificio immaginario di inestimabile valore letterario, ma è un edificio costruito sull’odio.
Poco importa che gran parte dei destinatari di questo odio, più che le comparse ebraiche e musulmane, siano i compatrioti di Dante, e i toscani più di tutti; poco importa che la vera città diabolica, quella che sembra aver letteralmente colonizzato l’inferno, sia Firenze stessa; rimane il fatto che Dante abbia scritto cento canti, ripartiti in tre cantiche, tutti fondati sull’incredibile, sfacciata presunzione di conoscere la lista celestiale dei Buoni e dei Cattivi; quella che a norma di Vangelo solo Gesù stilerà a tempo debito. Nessun scrittore si era mai spinto così in là, nessuno aveva raggiunto simili livelli di autostima (lo stesso Dante sapeva che sarebbe restato a lungo nel girone dei superbi). Il titanismo di un poeta che si sostituisce al Cristo del giudizio e descrive in dettaglio regno dei morti e regno dei cieli: ce n’era abbastanza per scomunicarlo – tanto più che, com’è noto, nemmeno per i papi del suo tempo Dante aveva molta simpatia. Invece tutto sommato se la cavò: a differenza di altre opere dantesche la Commedia non finì nemmeno nell’Indice dei Libri Proibiti. E tutto questo per un motivo semplice, sul quale secondo me a scuola non si riflette mai abbastanza: Dante si salvò perché non fu mai veramente preso sul serio.
Lui voleva fare il profeta, voleva che nel suo Inferno ci credessimo veramente; con le sue cantiche intendeva dare il suo contributo a un progetto di restaurazione dell’Impero; noi abbiamo messo in secondo piano il messaggio di fondo e ci siamo concentrati sui dettagli, sulla sapienza narrativa, sull’abilità linguistica, sui versi memorabili, sulle sue doti visionarie… insomma abbiamo fatto finta che fosse semplicemente un poeta. Lo era, ma intingeva il pennino nel sangue delle battaglie del suo secolo: è il figlio di un mondo violento, superstizioso, intollerante. Questo Gherush92 lo ha capito, ben più di Benedetto Croce che trattava la Commedia come una vecchio mobile incrostato di gemme di poesia pura: se la struttura del mobile medievale era ormai inservibile, le gemme si potevano ancora estrapolare dal contesto e apprezzare oggi come nel Trecento, perché la poesia quando è pura è fuori dal tempo. Questo almeno pensava Benedetto Croce; ma mi chiedo se in fondo non lo pensiamo ancora noi, quando pretendiamo di leggere la paginetta di Paolo e Francesca come “poesia”, magari poesia amorosa, ignorando che Dante non voleva semplicemente commuoverci al pensiero di un amore tragico; Dante voleva spaventarci, Dante ci descriveva l’inferno in cui potevamo cadere se avessimo letto o scritto poemi galeotti, Dante voleva che nessuno li scrivesse più e che nessuno s’innamorasse più.
“L’arte forse è il più raffinato e subdolo strumento di comunicazione, il più potente veicolo di diffusione e il mezzo più suadente per l’incitamento all’odio” scrive Gherush92 nella sua controreplica; e io sono d’accordo. Se poi coi secoli ci ricordiamo solo dell’arte, e ci dimentichiamo dell’odio che l’aveva ispirata, non siamo veramente buoni lettori, e dobbiamo essere grati a Gherush e al suo sguardo così alieno dal nostro. Non si può capire Dante se non si capisce la rabbia che c’è dietro: una rabbia con coordinate precise, storiche geografiche e sociali, che a scuola dovremmo fornire ma non sempre riusciamo a farlo. Una rabbia magari più anti-guelfa e anti-fiorentina che anti-islamica o antisemita. Ma pur sempre rabbia.
Resta a questo punto da spiegare “perché i ragazzi delle scuole dovrebbero studiare un’opera che offende e denigra popoli, gruppi e categorie di persone”. Ebbene, proprio per questo motivo: per lo stesso motivo per cui a scuola studiamo la Shoah, nel suo contesto storico, proiettando immagini di nazisti sterminatori senza essere nazisti, di solito, né sterminatori. Perché odio e intolleranza sono una componente importante di quella cosa che si chiama umanità e che noi umanisti riteniamo di poter studiare (quando ancora non andiamo in cerca di gemme fuori del tempo, come Croce e i crociani pretendevano di fare). Perché se togliessimo la violenza e l’intolleranza dai programmi scolastici, alle medie non ci resterebbe che studiare la Melevisione (con la strega censurata) e al liceo, con calma, Moccia. Perché non crediamo più, non abbiamo creduto mai che l’Inferno e il Purgatorio e il Paradiso danteschi fossero resoconti di viaggi veri: ma ancora oggi crediamo che siano notevolissimi viaggi nel mondo interiore di un uomo che è straordinariamente rappresentativo della sua epoca e civiltà. Perché è fondamentale non solo spiegare che la terra è all’insignificante periferia di una galassia tra tante, ma anche che per millenni abbiamo pensato che fosse una Casa del Grande Fratello al centro dell’universo e che Dio spiasse ogni nostra mossa per giudicare se valesse la pena o no di torturarci per l’eternità. Se la insegniamo così – e in Italia dovremmo insegnarla così – allora sì, ne vale la pena, più di tante poesiole e prose edificanti. Sennò forse davvero sarebbe meglio studiare qualcos’altro. http://leonardo.blogspot.com
Guarda che ori, che broccati, che levrieri… Gentile da Fabriano è un po’ tamarro, diciamolo.
Non erano necessariamente tre (Matteo non dice mai il numero: lo si desume dai tre doni, oro incenso e mirra). Non erano re, anche questo l’evangelista non lo scrive; e la situazione geopolitica del primo secolo ci è abbastanza nota da permetterci di escludere l’esistenza di re itineranti, con molto tempo da perdere dietro a stelle e profezie. Non erano neanche “magi”, perché se ci pensate bene la parola in italiano non ha molto senso, è stata coniata apposta per loro: diconsi magi i tre re venuti ad adorare Gesù. Matteo in greco scrive magoi, termine imbarazzante, perché ai cristiani i maghi non piacciono: sin dall’inizio li percepiscono come i loro più insidiosi concorrenti (a partire da quelSimon Mago che negli apocrifi tormenta Simon Pietro come un gemello cattivo). “Magoi” erano chiamati dai greci i sacerdoti zoroastriani, il che lascia pensare che i non-re provenissero dalla Persia, oggi Iran. Non seguivano una cometa, perlomeno non necessariamente: Matteo si limita a parlare di una stella (“vidimus enim stellam“, 2,2). Non arrivarono a una grotta, né a una capanna: Matteo scrive che trovarono il bambino entrando in una “casa” (“intrantes domum invenerunt puerum“, 2,11). Insomma se Matteo vedesse un presepe moderno, con la cometa in cima alla grotta e i tre re cammellati, non riconoscerebbe la scena. Anche a causa di tutti quei pastori nei dintorni, di cui nel suo Vangelo ovviamente non v’è minima traccia. Che cosa è successo?
Ci sono state delle contaminazioni, evidentemente. La prima è col Vangelo di Luca (posteriore?), che dipinge una scena molto più familiare: c’è il censimento “di tutta la terra”, c’è almeno un albergo tutto esaurito, la mangiatoia, i pastori, gli angeli cantano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli”… ecco, siamo già in pieno presepe. Tranne un piccolo dettaglio: i magi. Luca non ne parla, e sì che dei tre sinottici è quello che sembra aver fatto più indagini. Suona quasi come una smentita. Luca, poi, lo abbiamo visto, è il più liberal degli evangelisti, quello di “beati i poveri” (non “in ispirito”: beati i poveri e basta): il suo Gesù deve per forza nascere in un contesto di disagio sociale ed essere adorato dai pastori: si capisce che questi maghi venuti dal nulla che portano doni preziosi non rientrano nel suo quadro. Si capisce altresì che Luca non è un vero povero, perché ai poveri i re bardati d’oro venuti da lontano non dispiacciono affatto, sono i punti luci del presepe. Alla fine i natali di Matteo e di Luca si amalgameranno, assorbendo altri dettagli dalla fervida fantasia degli apocrifi: così scopriremo per esempio che i magi erano re – giusto per realizzare un altro paio di profezie veterotestamentarie – che si chiamavano Gaspare Melchiorre e Baldassarre, che ognuno rappresenta un continente diverso, eccetera. Gli esegeti arricchiranno il brodo spiegandoci che l’oro allude alla regalità (Gesù Cristo è Re, non scordiamolo), l’incenso al sacerdozio, mentre la mirra, questa benedetta mirra che assomiglia a uno di quei regali di Natale che nessuno vorrebbe, i calzini di lana, la cravatta à pois… la mirra rappresenta effettivamente il ruolo più difficile, di vittima sacrificale: l’olio di mirra era adoperato per l’unzione sacerdotale, ma anche per l’imbalsamazione. Ancora oggi i magi fanno discutere astronomi e fantastorici: sulla questione della “stella” si sono riempite biblioteche di congetture (era una cometa o una supernova? O un banale allineamento planetario?) Alla fine insomma la nostra concezione dei “re magi” dipende molto più dal folklore del presepe che dalla lettera del Vangelo. La cosa interessante è che il folklore non si è sostituito alla lettera. Vi si è per così dire incrostato, ma chiunque sappia leggere può rimuovere gli addobbi posticci e ritrovare il testo di Matteo. In altre religioni non è successo così. Miti e racconti si sono contaminati e mescolati per secoli, prima di arrivare alla forma che conosciamo (e che magari non è nemmeno la definitiva). (Continua…)
Nella sua Vita di Maometto, Muhammad Ibn Garir al-Tabari (IX secolo) racconta più di una storia sulla tormentata infanzia del profeta. Un giorno, al pascolo, il suo fratello di latte vede tre uomini vestiti di bianco che aprono il ventre del piccolo Maometto e ne svuotano il contenuto. Il bambino torna a casa a dare l’allarme, ma quando gli adulti accorrono, trovano il bambino vivo, anche se il suo aspetto “era alterato”.
Lo presero, lo baciarono sulla testa e sugli occhi e gli chiesero: “Maometto, cosa ti è accaduto?” Egli rispose: “Tre uomini, con un catino e una bacinella d’oro, sono venuti e mi hanno aperto il ventre, hanno preso tutte le mie viscere e le hanno messe in quel catino; poi me le hanno rimesse in corpo dicendomi: “Tu sei nato puro e ora sei più puro”. Poi uno di loro ha immerso la mano nel mio corpo, ne ha strappato il cuore, lo ha tagliato e ne ha levato il sangue nero, dicendo: “È la parte di Satana che c’è in tutti gli uomini, ma io te l’ho tolta dal petto”. Poi mi ha rimesso il cuore a posto. Uno di loro aveva un anello, col quale mi ha marchiato. Il terzo ha immerso la mano nel mio corpo e tutto è tornato in ordine”.
Qui ci starebbe una bella immagine del giovane Maometto, ma curiosamente non sono riuscito a trovarne.
Al-Tabari è un biografo molto generoso: qualsiasi storia o storiella sul profeta è per lui degna di essere raccolta. Come facciamo a capire che la leggenda dei “tre uomini” è una sovrapposizione di molto posteriore ai racconti più antichi sulla vita di Maometto? Per prima cosa, è inutile. lo dicono anche i tre maghi-macellai: “tu sei nato puro”. A che pro allora tutto questo sviscerare, marchiare, sigillare? Sono tutti particolari ridondanti, tipici delle fiabe. E, come le fiabe, somiglia in qualche modo a tutte le altre: altrove al-Tabari mostra di conoscere la leggenda dei magi che visitarono Gesù, e che nell’800 sono già stati fissati nel numero di tre. Come nel vangelo di Matteo, siamo davanti a una precoce epifania, o manifestazione del divino, che però confligge lievemente con l’idea che Maometto riceva la sua rivelazione soltanto a quarant’anni. Del resto anche tra i cristiani non c’è accordo sulla prima epifania della divinità di Gesù: gli ortodossi preferiscono partire dal battesimo nel Giordano, quando si sente distintamente una voce dal cielo affermare “tu sei il mio figlio prediletto”. Il vangelo più breve (il più antico?), Marco, comincia appunto da lì. Tutto quello che a Gesù è successo prima potrebbe anche essere stato aggiunto dopo.
In generale, i racconti sull’infanzia degli eroi e dei profeti sono sempre posteriori al mito portante. Nascono come per riempire un vuoto: cosa è successo al Profeta nei suoi primi quarant’anni, al Messia nei suoi primi trenta? Possibile che il divino non si fosse già manifestato in lui? Così è tutto un fiorire di miracoli grandi e piccoli, ma spesso anche minimi, come in quell’apocrifo in cui il giovane Gesù rimedia coi suoi miracoli agli errori di falegnameria di mastro San Giuseppe. Gli autori di questi racconti e raccontini sono ovviamente anonimi, ma è lecito supporre che molti di loro siano donne, e che stiano raccontando fiabe davanti a un focolare, a bambini troppo curiosi: com’era Gesù (o Maometto) quando era piccolo come me? Non sembra un caso che in primo piano si trovino spesso personaggi femminili, come Maria nel vangelo di Luca, o la balia Halimah che salva il piccolo Maometto dalle grinfie di un altro mago malvagio. Quando poi gli eroi e i profeti diventano grandi, le donne passano in secondo piano.
Diventati adulti, poi, molti uomini mostrano di non gradire questo prolificare di racconti e favolette sull’infanzia dei personaggi importanti. Il più delle volte sono inutili: distraggono dal racconto fondamentale, la predicazione dell’adulto agli adulti. Persino gli autori di Superman hanno più volte cercato di disfarsi di Superboy (e del cane Krypto), senza successo: le nuove generazioni continuano a chiedere dettagli sull’infanzia degli eroi e degli Dei, e finché non gliele inventi non si addormentano.
#1. Sono un ribelle mamma. In questi giorni non so più dove ho letto che il motivo per cui in tutto il resto del mondo si presidia una piazza giorno e notte, mentre in Italia si fa il grande corteo al sabato pomeriggio, è che parecchi rivoluzionari insurrezionisti tra i venti e i trent’anni probabilmente sono ancora domiciliati presso i genitori. Non saprei. Comunque temo che la vera specificità italiana non siano i cappucci neri, o i grandi cortei. La triste, autentica specificità del movimento italiano sono i genitori fuori dalla questura che aspettano i figli sotto interrogatorio. E i figli sono tutti ventenni e più. Grandi abbastanza da fare la rivoluzione, ma non per tornare a casa coi mezzi.
#2. Hai mai pensato a un tatuaggetto? Il Pelliccia, che lancia un estintore nel decennale di Carlo Giuliani ma nessuno reputa necessario ammazzarlo, e il giorno è già reprobo in questura, è davvero la Storia che si ripete in farsa. A dire il vero, coi suoi tatuaggetti il Pelliccia celebra inconsapevolmente anche un altro anniversario, quello dell’arresto del geniale Bogdanovic, ultrà serbo idolo di una notte di mezzo ottobre dell’anno scorso. Anche quello era l’autunno più caldo del secolo e anche in quel caso Bogdanovic, che pure era stato così previdente da coprirsi il volto con un passamontagna si ritrovò a mezze maniche coi tatuaggi scoperti. Soltanto che era a cavalcioni di una transenna in eurovisione, insomma, un genio.
Possiamo dire tante cose dei tatuaggi dei ribelli. #2a: sono il dettaglio rivelatore del narcisismo dei ribelli sotto i cappucci che tutto dovrebbero coprire e uniformare; lo zampetto del lupo sotto la farina. #2b: Bisogna insegnare ai ragazzini che un tatuaggio è una mutilazione; che ogni segno permanente che tracciamo sul nostro corpo è un’ipoteca su un futuro che non possiamo ancora immaginare: non è detto che quella farfallina, che quella rosellina, che quella frasetta carina ti piaceranno per sempre (o che tu debba passare il resto della vita ad autoconvincertene), ma soprattutto ti potrebbe capitare dopodomani di dover fare la rivoluzione, e non puoi perché hai un ideogramma proprio sul dorso della mano che dovresti usare per impugnare la spranga, ti tocca stare a casa e poi cosa racconti ai nipotini? Che l’ideogramma vuol dire “Mai domo”? Non lo hai capito che ogni ideogramma, una volta tatuato su un’epidermide italiana, ha un solo significato, ed è “forever pirla”? #2c: bisogna spiegare ai ragazzini che anche internet è una seconda pelle, la bacheca di facebook in particolare: qualsiasi cazzata che hai scritto negli ultimi cinque anni potrà essere usata contro di te dai giornalisti che devono riempire due colonne mentre sei in questura: e adesso tutta l’Italia sa che il Pelliccia cercava relazioni passionali, s’ispirava a Siffredi e gli piaceva Paura e Delirio alla Svegas, ecco, io non so se vorrei essere adolescente in un’epoca in cui qualsiasi cazzata scrivi sull’equivalente digitale della tua smemoranda ti resta tatuato addosso così. #2d (teoria del complotto alert): mentre noi cerchiamo di spiegare ai ragazzini che tatuarsi è stupido, da qualche parte probabilmente qualcuno sta pensando, ehi, ma quando saranno tutti tatuati, tutti originali, identificarli sarà un gioco da carabin… intendevo, un gioco da ragazzi.
#3. Madonnina dei dolori. Sì, va bene, è andata in frantumi una madonna di lourdes di un valore stimabile intorno ai cento euro. Capisco che qualche prete possa restarci male nello scoprire che qualcuno li considera nemici di classe e parte della casta: magari potrebbero considerare di pagare un po’ l’ICI, chissà, forse gli passa. A me però è venuta in mente un’altra cosa. Che fine ha fatto il decreto Maroni… non quello che ha annunciato dopo le devastazioni, no, quello del 2009 che doveva impedire le manifestazioni davanti ai luoghi di culto, siccome che un gruppo di musulmani si era permesso di pregare in Piazza Maggiore? Perché in teoria doveva servire proprio a evitare queste incresciose profanazioni, no? No. Ho paura di no. Probabilmente doveva servire esclusivamente a impedire ai musulmani di fare manifestazioni in centro. E mi pare sia riuscita: vedete musulmani che protestano? La protesta è roba da italiani. I cappuccetti neri, per quanto discoli, hanno comunque le radici cristiane ok, loro possono anche passare davanti a una chiesa ed eventualmente vandalizzarla un po’, so’ ragazzi. Sarei curioso di sapere cosa sarebbe successo se una videocamera avesse sorpreso davanti alla stessa chiesa due o tre musulmani nel sacrilego e facinoroso atto di inginocchiarsi… Vabbe’, fermo ed espulsione immediata.
#4.Io che ho sempre detto che era un gioco. M.fisk, hai ragione, scrivo pipponi inutili, ma finché mi diverto… il problema è meno mio di chi perde tempo a leggerli, quando basterebbe un rapido alt+f4. Ripeto anche a te che non ho mai preteso di sostituire i giornalisti, di essere una fonte primaria, tranne forse l’unica volta in cui mi è capitato di essere davvero in mezzo alla notizia. Hai ragione: sono uno come tanti che legge le stesse notizie che leggono gli altri, ma ogni volta che mi metto a scrivere ho in mente qualche ragionamento che non ho letto da nessuna parte; magari se avessi letto di più lo avrei trovato, ma forse a questo punto mi diverto più a scrivere che a leggere. Del resto giudica tu: i tre pensierini qua sopra non sono niente di speciale; ma li hai letti da qualche altra parte?
La nostra epoca batte tanti record, piccoli e grandi, alcuni veramente bizzarri e difficilmente immaginabili in altre epoche (che non ci capiranno); per esempio:
centinaia di culi all’aria non avevano mai fatto tanta paura.
(Scusate il ritardo) (Seh, vabbe’, d’accordo, appunto).
Di tutta la disastrosa campagna elettorale di Letizia Moratti, vorrei qui isolare un solo fotogramma, quel manifesto in cui si minacciava l’invasione islamica di Milano, e il modo scelto per raffigurare questa invasione era una pacifica assemblea di musulmani prostrati in Piazza del Duomo. Un’immagine che da sola avrebbe dovuto convincere i milanesi… di cosa? Della minaccia islamica? Ma fa davvero così paura, un gruppo di uomini in ginocchio? Mettiamo da parte la parabola quasi romanzesca del personaggio che quel manifesto lo ha fatto stampare (Magdi-Cristiano Allam). Lasciamo anche perdere la questione “Moschea di Milano”, perché in fondo è un pretesto: Milano è probabilmente la più grande città europea priva di un dignitoso edificio di culto islamico. Che un po’ di dignità sia necessaria ai fedeli milanesi della seconda religione in Italia, e che questa dignità sia un valore aggiunto per tutta la cittadinanza, erano consapevoli perfino i membri dello staff della Moratti, prima che la campagna elettorale incendiasse i cuori.
Ma lasciamo perdere, appunto. Quella foto non ha molto a che vedere con la questione islamica in Italia. Quella foto parla soprattutto delle nostre paure. Non mostra due torri che crollano, non mostra pettorine esplosive e nemmeno donne coperte da veli più o meno integrali (sembrano tutti vestiti in modo casual e moderno, del resto sono tutti uomini). Quella foto mostra un gruppo di persone che si inginocchiano, e tanto basta. Tanto, almeno, doveva bastare ad allarmare l’elettore milanese, a dieci anni dall’inizio della Guerra al Terrore – che evidentemente sta vincendo. Non Bin Laden, quello può essere stato catturato, ucciso e disperso nell’oceano: ma il Terrore è ancora qui tra noi, se qualche centinaia di uomini in ginocchio può farci paura a questo modo. Il manifesto riprendeva l’istantanea di una manifestazione realmente avvenuta in Piazza Duomo tre anni fa, che aveva mobilitato molti milanesi musulmani in sostegno ai palestinesi di Gaza durante l’operazione “piombo fuso”. Lo scrivo qui perché non credo che in molti se ne ricordino, anche se Magdi Allam e i suoi sostenitori la considerano una vera e propria ferita aperta nel sentimento cristiano degli italiani. Il corteo pacifico, autorizzato dalla questura, era arrivato in Piazza Duomo quando ormai era l’ora della preghiera serale, il che portò molti musulmani a recitarla sul posto, ovviamente rivolti verso la Mecca.
Il giorno dopo ci fu chi parlò di profanazione, ma in effetti non era successo nulla di penalmente rilevante: i manifestanti non avevano pregato sul sagrato del Duomo, ma in una porzione di una piazza italiana che era stata loro concessa per una manifestazione; non avevano inflitto nessuna offesa all’edificio di culto cattolico; semplicemente avevano pregato un altro Dio in un’altra direzione, ignorando la cattolicità del Duomo come la ignorano tanti milanesi di passaggio. Non solo, ma il giorno dopo alcuni promotori della manifestazione chiesero pubblicamente scusa: non ricordo se la chiesero allo Stato o direttamente alla Curia, ma a quel punto, in effetti, che differenza faceva? A ogni buon conto il ministro Maroni richiamò i prefetti sulla necessità da quel momento in poi di tenere lontane le manifestazioni da aree “di particolare importanza dal punto di vista sociale, simbolico, religioso”, cioè in pratica da tutti i centri storici italiani, ricolmi di luoghi simbolici e – soprattutto di chiese cattoliche. Ce n’è più o meno una in ogni piazza in cui valga la pena di manifestare.
Per come fu annunziata, la direttiva consentiva ai prefetti di proibire in pratica qualsiasi manifestazione che non si svolgesse nelle periferie, eppure la cosa non suscitò l’indignazione di molti: nemmeno di Beppe Grillo, che nelle piazze italiane porta tuttora molti più fedeli del profeta Maometto. Del resto si leggeva, tra le righe, evidentissimo, che la proibizione avrebbe riguardato soltanto le manifestazioni dei musulmani. Sia come sia, sembra che essi abbiano imparato la lezione: l’Italia sarà anche uno Stato laico, tutte le religioni saranno anche uguali davanti alla legge, ma alcune più delle altre e non è evidentemente il caso dell’Islam. Pregare non è un reato; formare associazioni e comunità religiose è un diritto costituzionale, certo, sì; tutto bene finché il Dio non è Allah, finché le comunità non seguono Maometto. Inginocchiarsi in Italia non è mai stato così tanto pericoloso.
Ma lo è davvero? Cosa c’era, cosa c’è di così intollerabile in un gesto umile (in apparenza), da far fremere il sentimento identitario anche di gente che in Duomo non ci metteva i piedi da anni? Se durante una manifestazione politica e religiosa un musulmano incita i suoi correligionari all’odio razziale o al crimine, possiamo perseguirlo per istigazione all’odio razziale o apologia di reato (certo, ce ne accorgeremmo più facilmente se l’istigazione avvenisse in una manifestazione o un luogo pubblico, piuttosto che nello scantinato di una moschea clandestina). Ma i musulmani, a Milano, tre anni fa, non incitarono all’odio o altri crimini (perlomeno, alla procura non risulta). Tutto quello che fecero di rilevante fu inginocchiarsi. E un gesto così semplice bastò a far saltare in aria tutta la nostra tolleranza di facciata.
Forse dovremmo entrarci più spesso, in quel Duomo, anche se non siamo praticanti e spesso nemmeno cattolici – giusto per dare un’occhiata a quei simboli che riteniamo facciano parte della nostra identità e che spesso nemmeno conosciamo. E scoprire che ogni giorno, a intervalli regolari, gruppi di fedeli si inginocchiano anche loro, proprio come quei musulmani là fuori pretendevano di fare. A volte, leggendo i salmi, un sacerdote finge di esultare per la rovina di potenti sovrani – Og, re di Basan, Sicon re degli Amorrei – e interi popoli a cui la Sacra Bibbia sembra voler negare lo stesso diritto all’esistenza. Le nostre radici, se proprio ci teniamo così tanto, sono queste. È vero che sono tra noi. È vero che a volte stentiamo a riconoscerle. http://leonardo.blogspot.com
Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, quando ci entri davvero, ti sembra di rinvenire sotto le strutture pop sapientemente disegnate da Don Was tutto un mondo di spiritualità e mistero, come una moschea mozarabica dissimulata sotto volute gotiche o barocche. Puoi anche prendere Serbi Serbi per il grido del muezzin che ti richiama alla preghiera del crepuscolo. Se non conosci le parole.
Quando leggi le parole in traduzione, scopri che Khaled è infelice per amore – fin qui ci potrebbe anche stare – e quindi si sta ubriacando. La parola alcohol è incastrata come un brillante pagano in una ka’aba di gorgheggi sacri, e Serbi Serbi forse significa “Versa versa”. Altro che mezzuin. Questo è ubriaco perso, e la sua preghiera è l’equivalente algerino di “si son cioc purtev’m a ca’ su ‘na carriola”. Uno ci può anche restare male.
Poi però, se uno ci riflette bene: cosa c’è di più rock’n’roll di cantare pene per amore alcoliche, mentre il Fronte Islamico di Salvezza prende il potere? Alcuni colleghi di Khaled morirono ammazzati per non aver fatto altro: cantare di amorazzi e bevute. Una cosa molto banale qui da noi, roba da cospiratori in Algeria. Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, anche l’alcol diventa qualcosa per cui lottare, qualcosa di sacro.
Magari è arrivato anche a voi: il Male Assoluto via e-mail. È un allegato che vi ha spedito un vostro amico, o un collega (ma può anche trattarsi di un perfetto sconosciuto). Un clic, e ve lo trovate davanti (continua sull’Unità online; si può commentare lì).
Può darsi che sia arrivato anche a voi: il Male Assoluto via e-mail. È un allegato che vi ha spedito un vostro amico, o un collega (ma può anche trattarsi di un perfetto sconosciuto). Un clic, e ve lo trovate davanti. Certo, è un orrore ‘già visto’: le foto in bianco e nero dei prigionieri dei campi di sterminio tedeschi. Eppure, dopo tanti anni (e dieci Giornate della Memoria) le foto restano spaventose. Ce n’è una che mostra una fossa comune, un’altra che ritrae un gruppo di bambini, nudi e scheletrici – qualcosa non va. Non si dovrebbero inviare foto di cadaveri o di bambini nudi e torturati per e-mail. Potrebbe perfino essere illegale. Eppure la persona che vi ha spedito il messaggio era in buona fede: il pensiero di commettere un reato non deve averlo sfiorato nemmeno. Lo ha fatto a fin di bene: voleva aiutarvi a ricordare.
Ma soprattutto voleva mettervi in guardia da chi la Shoah fa di tutto per dimenticarla: i cosiddetti negazionisti. Pare che siano dappertutto, e che malgrado tutti i nostri sforzi aumentino sempre di più. Com’è possibile? Nel testo che accompagna le foto spaventose si legge: Recentemente, il Regno Unito, ha rimosso l’Olocausto dai suoi programmi scolastici perché “offensivo” nei confronti della popolazione mussulmana che afferma che l’Olocausto non è esistito…
Ecco risolto l’arcano: i negazionisti sono i musulmani. La “popolazione musulmana” addirittura “afferma che l’Olocausto non è mai esistito”. E siccome i musulmani sono un blocco compatto, probabilmente la penseranno così anche quelli che abitano tra noi. Non solo, ma sono tutti terribilmente suscettibili: appena provi a parlare di Shoah nelle scuole, si offendono a morte, e quindi gli insegnanti del Regno Unito avrebbero deciso di non parlarne più. Non è una vergogna? Non vale la pena di contrastarla in tutti i modi, anche inviando foto di cadaveri ad amici e conoscenti?
È una vergogna, sì, perché è una bugia. Una bufala. Non è vero che il Regno Unito abbia “rimosso l’Olocausto” dai programmi scolastici. La “popolazione musulmana” della Gran Bretagna non ha mai fatto pesare questa sua supposta suscettibilità. Senz’altro il negazionismo si è diffuso anche tra i musulmani, ma questo non significa che la maggioranza di loro non creda alla Shoah. I loro figli, comunque, a scuola la imparano. Lo spiegava già due anni fa Paolo Attivissimo, nel suo prezioso blog anti-bufale: “L’equivoco è nato probabilmente perché qualcuno ha interpretato male la segnalazione sul Guardian che un singolo dipartimento di storia di una singola scuola aveva tolto l’Olocausto dal proprio programma”. La bufala gira per la rete sotto forma di catena informatica forse già dal 2005. Probabilmente è nata in inglese, ma è stata più volte tradotta in italiano da persone volonterose che hanno accolto l’invito finale (“Aiuta ad inviare l’e-mail in tutto il mondo. Traducila in altre lingue se necessario”).
Da un anello all’altro la catena ha accumulato diversi errori: a un certo punto ai “sei milioni di ebrei” sono stati aggiunte le cifre fantasiose di “20 milioni di russi”, “10 milioni di cristiani” e “1900 preti cattolici” (viceversa nessuno ha sentito la necessità di aggiungere i dati sullo sterminio di altre minoranze, come zingari, omosessuali o testimoni di Geova). Il fulcro del messaggio comunque è rimasto lo stesso: gli orrori compiuti dai nazisti rischierebbero di scomparire dalla nostra memoria collettiva a causa… dei musulmani suscettibili. Ma questa cos’è, se non una diceria che scredita una minoranza, in modo non molto diverso diverso da quelle che circolavano sulle minoranze ebree negli anni Trenta del secolo scorso? E perché non ce ne siamo accorti subito? Probabilmente eravamo distratti dai cadaveri, dai bambini, dalle immagini dell’orrore che non ammettono discussioni. L’orrore dello sterminio degli ebrei è stato usato per contrabbandare una diceria razzista su un’altra minoranza: difficile immaginare qualcosa di così diabolico. Eppure è lì, nella nostra casella della posta.
Ho una teoria: contro l’odio e il razzismo l’esercizio della memoria non basta. La memoria dei crimini del passato può aiutarci a non ripeterli, ma anche ispirarci a commetterli. Chi per primo ha scritto quella mail ha saputo usare le parole giuste e scegliere le immagini più adatte a ricattare la nostra coscienza. Il suo obiettivo non era salvare la memoria di uno sterminio, ma creare le premesse per il prossimo. Contro un odio così astuto, il ripasso fotografico degli orrori del passato non sarà mai sufficiente. Se davvero vogliamo contrastarlo dovremmo doppiarlo in astuzia: diffondere dubbi e senso critico dove altri seminano ignoranza e dicerie. Meglio cominciare subito.
Insomma io, alle Medie, quando affronto l’India, spiego che è un Paese di religione indù con una minoranza islamica. L’Islam più o meno sanno tutti cos’è, quindi mi soffermo una mezzoretta sull’induismo (le caste, la metempsicosi, il politeismo, fine). A questo punto di solito qualcuno chiede se c’entra Buddha e io scantono spiegando che il buddismo è sì nato in India, ma si è sviluppato prevalentemente in altri Paesi, per cui magari di Nirvana e ottuplice via se ne parla un’altra volta, eh? Piuttosto qualcosa sui Sikh, visto che da noi c’è anche una minoranza di studenti Sikh. Poi c’è da raccontare qualcosa su Gandhi (se c’è un po’ di tempo vale la pena di mostrare il film, tagliato ovviamente), la lotta per l’indipendenza e contro le caste, il dramma della secessione India-Pakistan, eccetera eccetera. In capo a due settimane faccio una verifica, e se queste cose non le sanno, prendono 5. Fine.
Ora ditemi cosa dovrei dare a uno studente di terza media che mi scrivesse una cosa del genere:
Il caso esemplare è l’India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue.
Ok, il primo errore te lo potrei anche passare: c’erano comunità musulmane in India sette secoli prima dei Moghul, ma questo forse sul libro di terza media non c’è… magari alle superiori te lo spiegano… pazienza. Ma indiani “indigeni” buddisti e quindi paciosi pacifici” che roba è? Che roba è? Hai di nuovo fatto le ricerche con Yahoo Answers? Ti avevo ben detto di stare lontano da quel sito demoniaco.
Ma anche quel Maometto in un pantheon di divinità indù è favoloso. Perché se ci rifletti bene, per il musulmano medio Maometto è un profeta, mica un dio, per cui se arriva l’indù e gli dice: “Ehi, adesso il tuo profeta è nel mio pantheon” lui come minimo s’incazza un po’. Anche perché li conosci gli indù, no? Loro gli dei li raffigurano volentieri. E quindi a quel punto l’Indù che deve decorare il suo Pantheon si porrà il fatale problema: questo dio Maometto, ma che faccia avrà? La barba, ok, ma di che colore? Aspetta aspetta che chiedo al mio vicino musulmano Omar. “Ehi, Omar” “…” “Senti, non te la sarai mica presa perché ho messo il tuo Dio nel mio pantheon”. “Non è un Dio, è un profeta”. “Vabbè, stessa cosa”. “Non è la stessa cosa”. “Sì, ok, non è la stessa cosa, comunque senti, mi dici un po’ che faccia aveva? Perché devo fare il ritratto per il mio pantheon pacioso, capisci…” “Il volto non si può raffigurare”. “Ah no?” “No”.
“Ma neanche se ci metto, che so, una testa di elefante, stile Ganesh…” “MpfffffffffffffffffffFAAAAAAAAAATWA! MALEDETTI CANI IDOLATRI!” “Uff, che carattere. Ma perché non sei pacioso come noi budd… ahem, come noialtri?” “Paciosi? Dopo il massacro dei Sikh? E le stragi di Mumbai? Voi sareste quelli paciosi?” “Ma certo, non hai letto Sartori?”
E poi gli inglesi che inventano il Pakistan. Certo, come no. E in questo modo risparmiano un mare di sangue. E in effetti, vuoi mettere quattro guerre indopakistane con un mare di sangue? Insomma, professor Sartori, quel che ha lasciato firmare col suo cognome è imbarazzante. Rientri dalle vacanze, licenzi quel ghostwriter, se ne trovi uno con una licenza media vera. Qualcuno che non scriva più cose come “l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto)”. Certo, nessun’altra cultura: è per questo che per trovare un nome all’uomo-che-si-uccide-per-uccidere abbiamo dovuto prendere in prestito il noto termine arabo Kamikaze. Ed è noto che Pietro Micca era un attento lettore del Corano, libro nel quale si trova del resto la leggenda di Sansone, l’antesignano dei… basta. I lettori del Corriere si meritano di meglio, professor Sartori.
Anche perché il compito che si è preso, con Rutelli, è abbastanza complicato. Da una parte c’è Fini che si è messo in testa questa storia del voto agli immigrati, e le sinistre ovviamente gli vanno dietro per le solite risibili questioni di principio. Dall’altra ci sono quelli che l’Islam è il male, i minareti ci terrorizzano, le moschee ci inquinano con l’onda. In mezzo ci siete voi che provate la solita melina terzista, ma insomma, qui ci vorrebbero argomenti degni di questo nome, e per ora non ci sono. Come si fa a non voler dare dei diritti civili senza sembrare incivili, ahi, è dura… C’è Rutelli che dice che il multiculturalismo è sbagliato e tre righe dopo parla di “pluralismo culturale e integrazione” Sarebbe addi’? No, sul serio, in pratica, la differenza sarebbe? Dice che il diritto di voto deve arrivare alla fine e non all’inizio di un percorso di integrazione… come se dall’altra parte ci fosse Gianfranco Fini che regala passaporti sulla spiaggia di Lampedusa. Tranquillo che si parla di cinque anni minimo, non ti sembrano abbastanza per fare un percorso serio, France’? Tu quanti partiti sei riuscito a fondare in cinque anni? Dice che “occorre anche una “dichiarazione di laicità”. Che valga per tutti, e serva per separare esplicitamente il comando religioso dai doveri verso la Repubblica»”. E questo sarebbe un pensiero terzista? E Rutelli spera di intercettare i moderati con una “dichiarazione di laicità”? E sul serio, qualcuno a sinistra potrebbe dirsi contrario a una “dichiarazione di laicità che valga per tutti”? Sì, effettivamente qualcuno potrebbe. La Binetti.
“Papà”. “Sì, bambina mia?” “Senti, c’è una cosa che è da un po’ che ti devo dire, però mi devi promettere che non lo dici a nessuno”. “Cos’è successo, bambina mia”. “Senti, sai quando andiamo nel parco a volte al pomeriggio”. “Sì”. “Che tu ti metti sulla panchina a leggere il Giornale e io vado sull’altalena e a volte veniva anche la Lorenza”. “Cosa c’è, vi siete picchiate di nuovo? Adesso sua madre mi sente…” “No, no, non mi ha fatto niente la Lorenza. Non è questo”. “Ah. Del resto è un po’ che non si vede più”. “Sua mamma non vuole più portarla”. “Nel parco? Cos’è, ha paura di te adesso”. “Ma no, no, papà. È che sta andando da un dottore, però non è come il dottore che ti mette il termometro, è una specie di dottore della testa, che ti mandano da lui quando vedi le cose strane”. “Le cose strane? Perché, cosa ha visto Lorenza?” “Ma niente, papà”. “Non riesco a capire”. “Neanch’io papà. È tutto cominciato due settimane fa anzi no forse tre perché mi ricordo che non c’era ancora nell’angolo il venditore di castagne”. “Allora è più di un mese”. “Insomma, quando tu mi accompagni al parco e ti metti sulla panchina, io vado sull’altalena con la Lorenza, ma a volte c’è una signora che ci spinge. Tu l’hai mai vista la signora?” “Mah, no. È la mamma di un’altra bambina?” “Dice che è la mamma di un bambino, ma io non l’ho mai visto il suo bambino, comunque, lei non fa proprio niente di male papà, ci spinge soltanto”. “Ma com’è fatta questa signora”. “È tanto bella”. “Ah”. “Con un velo che la copre tutta”. “Eh?” “Ma sì, hai presente, un velo, come la mamma della mia compagna Fatima, hai presente, però il colore è diverso, è…” “Tutta? Non si vede neanche il viso?” “Sì papà, si vede il viso”. “E di viso com’è?” “Te l’ho detto papà, è molto bella”. “Sì, va bene, è bella, ma il viso, insomma, di che colore è? Come quello della tua compagna Fatima?” “Un po’ sì”. “E parla italiano?” “Sì, anche se…” “Anche se?” “Parla strano, insomma papà, io non è che capisco tutto quello che dice, però…” “Però”. “Sono cose bellissime e bruttissime”. “Spiegati meglio, tesoro”. “Ma per esempio ci dice che ci saranno cose molto brutte, delle battaglie, i cattivi sembra che vinceranno contro i buoni ma non dobbiamo avere paura, anche se ci saranno queste cose molto brutte… a un certo punto ci saranno degli eserciti che faranno una guerra terribile, ma alla fine vincerà lei…” “E queste cose ve le spiega sull’altalena?” “Sì, e ci dice per adesso di non dirle a nessuno perché è ancora presto, ma ecco, è successo che la Lorenza è andata a dirle a sua madre e sua madre l’ha portata da questo dottore”. “Ma che dottore. Qui c’è da andare dalla polizia, altroché”. “Dalla polizia? Ma perché, papà, è successo qualcosa?” “E’ successo che nel parco c’è una integralista islamica che fa la predica a mia figlia, mi sembra abbastanza. Ma senti, questa signora te l’ha detto come si chiama?” “No papà”. “Tanto di sicuro è un nome assurdo. E da dove viene?” “Non viene da nessuna parte, papà, è sempre lì”. “Come sarebbe a dire è sempre lì, vedrai bene se arriva da una parte o dall’altra… viene dalla parte del venditore di castagne o dalla strada?” “Papà, te l’ho detto, è sempre lì”. “Ed è tutta velata?” “Sì papà”. “Dal capo ai piedi?” “Sì… beh, no, ai piedi porta una cosa, come si chiama, una fetta di luna…” “La mezzaluna?” “Ecco, sì, papà”. “Maledetti musulmani. Ti volti un attimo e si mettono a convertire tua figlia. Ma io questa la stronco. Senti. La prossima volta che andiamo al parco…” “Sì papà?” “Appena la vedi ti metti a urlare, va bene?” “Ma papà, io quando la vedo non riesco a urlare”. “Come sarebbe a dire”. “È una cosa strana, papà, io quando la vedo mi sento tutta bloccata, però sto bene, anzi sto benissimo, però non riesco a parlare”. “Figlia mia! Ma cosa ti hanno fatto questi bastardi… senti, nel parco non ci andiamo più, hai capito?” “E alla signora cosa le dico?” “Non le dici niente! Non la vedrai mai più”. “Ma se viene in camera mia?” “Come in camera tua? Come fa a venire in camera tua”. “A volte di notte è venuta”. “Eh? Scherzi? No, è un sogno. Ipnosi. Un veleno. Insomma, non lo so. Senti, facciamo così, adesso chiamo la mamma di Lorenza e le chiedo il numero di quel dottore…” “No, papà, per favore! Papà! La signora non mi ha fatto niente. Mi ha solo…” “Taci te. Non hai neanche idea di cosa… Fila in camera tua”.
Cara Signora, mi dispiace che ho parlato di te con mio papà, ma non sapevo più come fare. Adesso lui è molto arrabbiato e non vuole più portarmi al parco. Allora ho pensato che io, a me tu stai simpatica, però forse è meglio che non ci vediamo più, e al massimo quei Tre segreti che ci devi dire li dici alla Lorenza, che lo so che voi vi vedete ancora anche se lei va dal dottore. Però la Lorenza ce la fa a tenere i segreti, invece io cara Signora mi dispiace, mi dispiace tantissimissimo, ma con mio papà proprio non ce la faccio.
In Afganistan, se qualcuno era distratto, le elezioni non sono andate tanto bene. Sì, quelle consultazioni democratiche che hanno causato una recrudescenza dei combattimenti, quelle per cui alcuni coraggiosi elettori ci hanno rimesso il dito, e parecchi soldati sono morti ammazzati. Non sono andate bene. Dopo un mese di riconteggi e di indagini per brogli, non si riusciva a capire se avesse vinto Karzai (fratello di un agente Cia) o il suo concorrente, Abdullah. A quel punto la comunità internazionale, insomma, gli USA, hanno chiesto di rifare le elezioni. E già questo non era proprio costituzionale, ma almeno si salvava la sostanza. Poi a una settimana dalle elezioni Abdullah si è ritirato dalla gara, e a quel punto è andata al diavolo anche la sostanza: le elezioni è come se non ci fossero mai state, le dita si sono tinte per niente, i morti sono morti per niente; una commissione elettorale qualunque ha deciso che il fratello della Cia resterà presidente per altri 5 anni, e questa è la favolosa democrazia afgana, che non c’è dubbio, col tempo migliorerà. Noi comunque c’eravamo andati per cose più concrete, tipo trovare Bin Laden o levare il burqa alle signore. Bin Laden ormai si è dissolto nel suo alone leggendario, ogni tanto appare nei fotogrammi sfuocati delle prime pagine; in compenso l’altro giorno al tg vedevo un giornalista italiano che intervistava una signora di Kabul! Le posava il microfono ad altezza zanzariera, e lei parlava. Quindi oggi le donne di Kabul parlano alla stampa straniera, se non è una conquista questa… Oddio, sotto quell’affare avrebbe potuto persino essere un signore baffuto, ma bisogna avere fiducia nella primavera afgana, anche in novembre.
E insomma, questo burqa risulta un po’ più difficile da tirar giù. Ci avevano raccontato che era un retaggio medievale; roba da retrogradi montanari, che a Kabul le donne non vedevano l’ora di toglierselo: solo dieci anni fa, le foto delle donne costrette sotto il velo integrale vincevano i premi internazionali, davano scandalo… oggi è tutto ok, vedi una signora con un lenzuolo sulla faccia che parla al giornalista e manco ci fai caso; la foto che racconta il coraggio delle donne afgane è lo stesso lenzuolo che mostra il dito viola, complimenti signora, lei sì che è una donna liberata. Il burqa sta vincendo: ormai ci sembra una cosa normale. Qualcuno inizia a vedersi anche da noi, e non abbiamo sempre una Santanchè a portata di mano.
Eppure sconfiggere il medioevo è possibile. Ce l’hanno fatta popoli su cui non avresti scommesso un soldo, per esempio… Ripesco una foto di quest’estate. È un cartellone stradale trovato in questo bel pezzo di Chamberlain. Il cartellone non vende niente: quello che pubblicizza è il diciottesimo compleanno di una ragazza. Sì, le hanno fatto una sorpresa: per il 18mo compleanno si è trovata stampata su cartelloni stradali in scala King Kong. È stata un’idea del padre. Provate a osservare la cosa un po’ dall’alto: 2009, padre casertano compra enormi spazi pubblicitari sulle strade pubbliche per mostrare foto della figlia. Ventunesimo secolo. Caserta. Padre esibisce figlia 18enne in cartelloni giganti. Se avete presente un minimo quali erano i costumi campani di cinquant’anni fa, non c’è dubbio: è successo qualcosa che ha del miracoloso, che sfida tutti gli assunti della sociologia; è come se qualcuno in mezzo secolo avesse fatto sparire i meridionali chiusi e gelosi che richiudevano le figlie nelle stanze interne, sostituendoli con un popolo allegro, pescato chissà dove, che paga un servizio fotografico alla figlia illibata e poi corre a stampare gigantografie in quadricromia per farle una sorpresa. Pasolini la chiamava rivoluzione antropologica, e come dargli torto. Certo, visto da vicino l’esperimento fa un po’ paura. Però, se si tratta di decidere tra burqa e gigantografia, io non mi prendo neanche venti secondi per pensarci.
Se ce l’abbiamo fatta persino noi italiani, a diventare moderni… D’accordo, sì, ci sono ancora parecchi dettagli da mettere a punto: tante esagerazioni, scollature e tacchi a spillo, nascondono situazioni ancora retrograde (ad es., in molte ridenti cittadine se ti stuprano in gruppo è tuttora colpa tua). Però sono le stesse contrade dove negli anni Cinquanta le signore giravano a occhi bassi e volto coperto: non c’è dubbio che sia successo qualcosa di radicale e definitivo. Forse è ancora presto perché succeda qualcosa di simile in Afganistan, ma si potrebbe almeno cominciare dalle nostre musulmane. È giusto chiedere che non siano più costrette a portare un velo: è soltanto assurdo imporglielo per legge. Non si farebbe che sovrapporre una costrizione a un’altra di segno opposto, mettendo ogni povera donna tra Stato e Famiglia: ovviamente vincerà la Famiglia, e dove sarà vietato portare il velo, la donna resterà reclusa in casa. Ma questa cosa la sa benissimo il più retrogrado dei leghisti: lui non intende veramente togliere il velo a nessuno, quel che vuole è soltanto una musulmana in meno per strada.
Quello che ha funzionato con noi, non dovrebbe funzionare anche con gli immigrati? Alcuni sono tra noi da più di vent’anni, eppure non si integrano così facilmente. In certi casi viceversa si radicalizzano. Cosa c’è che non va? La scuola gliela diamo. Qualche diritto – non tanti – glielo concediamo. Li curiamo. Certo, restano nella maggior parte dei casi cittadini di serie b, senza diritti politici, però non si può dire che non facciamo niente per accoglierli. Qualche signora infatti il velo se l’è tolto, qualche ragazzina non se l’è mai messo. Ma se ne vedono ancora tante. Cos’è che non funziona.
Io una risposta ce l’ho, e avverto, non è proprio politically correct. Secondo me è un problema di parabole. Sono loro che rendono difficile l’integrazione. È un discorso che parte da un assunto banale: cosa ha reso i costumi del padre casertano 2009 così radicalmente diversi da quelli del nonno? Tanti fattori sociali ed economici, ma tra tutti uno: la televisione. La tv ha imposto uno stile di vita e ci ha insegnato una lingua comune. È entrata in tutte le case e ha mostrato una società diversa. Nei ’50 l’abbiamo scoperta, nei ’60 l’abbiamo imitata, nei ’70 un po’ messa in discussione, dagli ’80 in poi e la tv che ha iniziato a copiare noi. Con risultati piuttosto preoccupanti, ma non importa. La tv ci ha reso quelli che siamo, ma la nostra tv gli immigrati non la vedono. È per quello che restano “stranieri”. Andate a vedere nelle scuole, o nelle strade. La differenza non è tra italiano e immigrato, ma tra chi parla l’italiano della tv italiana e chi non lo parla, non lo capisce, perché a casa sua c’è una finestra aperta ogni giorno su Marocco o Tunisia.
Le banlieues dove si infrange il sogno francese dell’integrazione sono foreste di parabole. Signora Santanchè, vuole fare l’integrazione con la forza? La pianti di appendersi ai burqa, salga sui tetti, cominci a segare le parabole. È una strategia ugualmente esibizionista e arrogante, ma secondo me funziona di più.
Se non fosse che nel frattempo è la stessa tv italiana che sta mettendo in discussione la sua vocazione generalista. Sono gli stessi italiani a montare parabole, a chiedere a gran voce un palinsesto personalizzato alle proprie esigenze. È un modello che ci viene dai Paesi più avanzati: tante proposte diverse per tanti settori di mercato, senza più piazze d’incontro collettive. Quando tra qualche anno tutti avremo il nostro canale personale, non ci capiremo più. Sarà come internet, ognuno svilupperà il suo idioletto nel suo circolo di amici e conoscenti. Già oggi il dialogo tra generazioni è diventato molto difficile: tra qualche anno sarà semplicemente inutile: ognuno avrà il suo notiziario, i suoi vips di riferimento, la sua comunità sparsa per il mondo e incomprensibile al vicino di casa. In un certo senso gli immigrati ci precedono. E il burqa, perché mai dovrebbe passare di moda? Viceversa, ha qualcosa di futuristico: poter passeggiare in un mondo in cui nessuno sa chi sei, completamente libera di sottrarti dal giudizio di chi non appartiene alla tua comunità… non è un’esigenza solo islamica, anzi. Chissà, tra qualche anno farà il botto anche da noi.
Nella nostra civiltà occidentale, moderna, razionale, ogni persona adulta e sana è responsabile per le azioni che commette. Possiamo essere guidati da motivazioni che non controlliamo del tutto – delusioni amorose, tracolli professionali, ci hanno toccati da bambini – ma se le invochiamo come attenuanti non siamo più adulti, o non siamo più sani di mente.
Mohammed Game era sano e adulto quando si è fatto esplodere davanti a una caserma di Milano. È interamente responsabile di tutto il male che ha procurato. Per primo a sé stesso, strappandosi una mano e i bulbi oculari. Per secondo alla sua famiglia; alla compagna italiana Giovanna, ai due figliastri Davide e Alessandro, ai due figli Islam e Omar. Di cui nessuno parla più, perché Game col suo attentato fallito non è nemmeno riuscito ad attirare più di tanto l’attenzione sul degrado in cui viveva con la sua famiglia: quattro bambini e una donna in un bilocale occupato abusivamente da sette anni, in cui non funzionano i servizi. Lavavano i bambini in una bacinella, conservavano le torte di compleanno in un armadio. In una situazione del genere, mesi fa, Game si era fatto intervistare da CronacaQui Milano: aveva messo da parte la dignità e aveva chiesto aiuto alle istituzioni. Ma ogni adulto è responsabile di quello che fa, della donna con cui si mette e dei figli che decide di avere: non è colpa del comune che non ti ha trovato una casa, dei clienti che non ti pagavano le fatture (150.000 euro non riscossi?) quando gestivi un’impresa (45 dipendenti? Sembrano numeri favolosi), dell’alcol che nessuno ti ha messo in bocca per forza.
Mohammed Game si era insomma cacciato, con tutte le sue responsabilità, in una situazione in cui molti (io tra loro) avrebbero cominciato a pensare di farla finita, anche senza tirare in ballo Allah e l’Afganistan. In questi casi può darsi che il ruolo di Allah sia essenzialmente di copertura; necessità di dare un senso finale a una vita sbagliata, anche e soprattutto nei confronti di una comunità che ricorda meglio i martiri dei falliti. Game si era riavvicinato alla religione di recente, dicono. Ma insomma anche Allah, anche l’Afganistan, sono fattori che possono aiutarci a capire ma non a perdonare: ognuno è responsabile del male che fa.
Due settimane prima di farsi saltare in aria, Mohammed Game incontrava Daniela Santanchè (lei stessa lo ha riconosciuto tra i suoi oppositori più arrabbiati). Era venuta alla festa di fine Ramadam, con la scorta, e pare che cercasse di strappare il velo alle donne presenti. Dico “pare” perché ognuno ha visto una cosa un po’ diversa: secondo alcuni la Santanchè ha aggredito e non è stata aggredita; secondo lei è stata picchiata da un uomo che aveva un braccio ingessato; un altro voleva usarle contro un pezzo di segnaletica stradale. “Mi hanno detto che sono una puttana, che domani sarò morta, che faccio schifo”. Al pronto soccorso le riscontrano contusioni toraciche estese con una prognosi di venti giorni.
Anche Daniela Santanchè è adulta, sana e responsabile. Benché abbia avuto un’infanzia non semplice. Il padre, dice, “le ha rovinato la vita”. La madre la riempiva di sberle, le tirava i capelli (“mi stupisco ancora di averne tanti”). C’è un dettaglio in particolare, che può spiegare (non scusare) lo zelo con cui cerca di liberare le donne come lei dalle costrizioni famigliari: uno sgabuzzino in cui ha passato, da bambina, interminabili ore:
Ci finivo se rispondevo male, se non rispettavo apposta gli orari che mi davano, se non raccoglievo le cose da terra. Io ci morivo, ma non facevo un plissè, una piega, e tanto meno urlavo “aprite”. Mai! Stavo lì, con tutti quegli scaffali pieni di scarpe, che non so più quante volte ho contato. E infatti erano sempre i miei fratelli che intervenivano per farmi uscire. Mia sorella, che è molto più buona di me, una santa, andava da mia mamma a dire: non sentiamo più Daniela, mamma falla uscire, Daniela poi non lo fa più. Alla fine mi aprivano, ma intanto io là dentro ero morta di paura, con il buio, le scarpe che diventavano fantasmi, e i rumori, per cui mi turavo le orecchie per non sentire nulla. E ancora adesso, per quelle cose, ho paura a restare chiusa negli ascensori
A scuola viene espulsa per essersi gettata a terra all’improvviso. Lo stesso gesto – coincidenza – descritto dagli islamici a cui ha rovinato la festa… Basta così. Certo è affascinante, il gioco delle cause e degli effetti. Una famiglia in bolletta perde gli occhi e la mano del padre, perché? Perché il padre si è fatto esplodere contro una caserma, perché? Aveva visto una rappresentante politica italiana trattare la sua comunità con prepotenza, perché? la politica in questione ha subito traumi infantili, i genitori la chiudevano in uno sgabuzzino, perché?… Già, chissà quali frustrazioni stavano sfogando in quel momento i genitori, chissà quali traumi a loro volta… no. Noi, in occidente, abbiamo deciso che la giustizia non funziona così. Forse l’Occidente è nato proprio in quel momento: quando abbiamo stabilito che è ognuno è responsabile del suo singolo segmento di azioni. La madre di Daniela Santanchè è responsabile di averle tirato i capelli. Mohammed Game è responsabile del male che ha fatto a sé stesso e ai suoi. E Daniela Santanchè, di cosa è responsabile?
Ci pensavo oggi, mentre guardavo il siparietto pro-crocefisso organizzato su Domenica Cinque, all’ora in cui le brave donne italiane sparecchiano, e il resto della famiglia si butta sul divano a digerire. Appena in tempo per scoprire dalla bocca della Santanchè la verità sul profeta Maometto: “per la nostra cultura era pedofilo” (evidentemente “la nostra cultura” è retroattiva). Non si sono fatti mancare niente: Sgarbi che sogghigna e tace, tanto è lì solo a mo’ di bollino (se c’è Sgarbi è roba di cultura); l’enorme crocione sul maxischermo; il musulmano arrabbiato che se non lo tengono la mena, stavolta senza gesso ma con un copricapo molto caratteristico, complimenti al casting; la D’Urso che profitta del lancio pubblicitario per esprimere una profonda verità: “il crocefisso non dà segno di alcuna discriminazione, il crocefisso tace”. Ci mancherebbe anche che parlasse – a pensarci bene taceva anche il fascio littorio… e la svastica? Parlava? No, quindi neanche lei dava segni di discriminazione, riflettiamoci bene…
La storia della sposa bambina di Maometto su internet è moneta corrente. Ma piazzata su Domenica Cinque la domenica alle tre è puro tritolo – no, fertilizzante. Ne parleranno i bambini alle elementari, domani: se sanno cos’è un pedofilo lo andranno a dire al compagno musulmano: ehi, ma è vero che il tuo profeta è un pedofilo? Il compagno musulmano tornerà a casa e farà qualche domanda a mamma o papà. Ma da lì in poi si torna tra adulti, e gli adulti sono responsabili: se qualche madre o padre si farà esplodere, sarà esclusivamente colpa sua. Non possiamo dare la colpa alla Santanchè. Lei in fondo non è che l’incarnazione estrema della fregola che ci sta prendendo tutti: liberare gli altri con la forza. Porti il burqa? Te lo togliamo o ti mettiamo in galera. L’obiezione più banale (per evitare la galera le donne non usciranno più di casa) non interessa più. Evidentemente il problema è il burqa che vediamo per strada, non l’effettiva libertà della persona che ci sta sotto.
In questo modo trasferiamo all’autorità problemi che fino a qualche anno fa riguardavano la coscienza. Non ci passa più nemmeno per la testa che il problema è convincere una donna (e soprattutto un uomo) che quell’indumento è sbagliato. No, nessuna opera di convincimento: via il burqa o chiamiamo i carabinieri. E in fondo la stessa cosa dovrebbe succedere per il crocefisso: perché perdere tempo a convincere la maggioranza degli italiani che non va esposto nei luoghi pubblici? Ci pensino i giudici, noi siamo stanchi di parlare alle coscienze. Non c’interessa più convincere qualcuno, vogliamo solo la rimozione del simbolo fisico, e poi saremo contenti. Se poi l’effetto collaterale fosse un irrigidimento della comunità cattolica, e l’aumento d’iscrizioni alla scuola confessionale, tanto peggio: meno baciapile tra le scatole. Eppure una scuola laica è l’unico luogo dove uno studente di famiglia cattolica può crescere mettendo in dubbio la fede dei genitori. Eppure la strada è l’unico luogo dove una donna in burqa, davanti a una vetrina o al parco, può scegliere autonomamente di toglierselo: non perché una signora arrabbiata glielo strappa via, ma perché lo ha deciso lei, con la sua coscienza. Ma la coscienza ha tempi troppo lunghi, noi vogliamo giustizia subito, con tutta la forza necessaria.
No, Daniela Santanchè non è colpevole degli attentati che ci sono stati e di quelli che ci saranno. Non secondo la nostra cultura moderna e occidentale. Però io non sono del tutto moderno e occidentale, e in un fotogramma di questo video ho visto il diavolo. È un istante così breve che non riesco neanche a fermare l’immagine: verso il 1:12 il volto un po’ bambolottesco di Daniela Santanchè ha un guizzo di felicità curioso, visto le cose gravi che sta dicendo. Potrebbe trattarsi semplicemente di un’esitazione nel copione imparato a memoria, la tentazione di buttarla in ridere, tutte spiegazioni razionali: ma io non sono del tutto razionale, io lì ci vedo il diavolo che esce un attimo dal volto di Daniela Santanchè e si compiace del suo capolavoro. Il diavolo che forse la piccola Daniela incontrò in quel ripostiglio buio, che le entrò negli occhi che non volevano piangere, e che poi ha covato per tutti questi anni. È un’idea un po’ romantica, un po’ medievale. Del resto, se fossimo nel medioevo io non avrei dubbi sulla responsabilità, anzi, la colpa, no, ancora meglio, il peccato di Daniela Santanchè: addirittura potrei già formulare predizioni attendibili sul suo destino nell’aldilà, consultando il manuale di Dante Alighieri: Inferno, ottavo cerchio (fraudolenti), nona bolgia (seminatori di odio): sì, esattamente lo stesso indirizzo di Maometto. A lui, e al cugino Alì, un diavolo con un enorme bisturi strazia le carni, che si ricompongono poco dopo pronte per essere di nuovo dilaniate. Suona molto sinistro e familiare, l’inferno. Come se non ci aspettasse più, come se fosse già qui tra noi.