cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, internet, privacy

L’uomo che si spogliò per rivestirci

Citizenfour (Laura Poitras, 2014; Oscar al miglior documentario).

Quando dopo un quarto d’ora di film improvvisamente compare – sulla poltrona di quell’anonima stanza d’albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti – non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un’icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all’inizio nicchia: non vorrebbe attirare l’attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell’enorme significato che quell’enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l’obiettivo su di lui.


Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l’eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l’approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell’anonima stanza d’albergo che è diventata da un momento all’altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall’anonimato viene assunto nell’empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)

internet, migranti, razzismi, Renzi

Il business degli immigrati, il business Mondadori, l’egemonia a Cologno

A questo punto credo che sia stato appurato che c’è almeno un’organizzazione, molto potente, che lucra sul traffico di migranti. Si chiama Mondadori, vende i libri di Mario Giordano e li promuove mediante video virali su youtube – come quello famoso di Luca Donadel che ha suggestionato un po’ tutti. Forse anche quel giudice di Catania che qualche settimana fa ha iniziato a parlare di un complotto di Ong per traghettare i migranti in Sicilia: non aveva prove, nemmeno le aveva chieste all’intelligence perché “non le avrebbe sapute usare”, ma “gli risultava da internet”, “perché in rete ci sono i dati della posizione delle ong”. 

Ma perché “Quelli”?
Io nella foto ne vedo uno solo.

Ora potrei sbagliare, ma questa famosa “internet” in cui ci sarebbero “i dati della posizione delle ong” credo consista soprattutto in quel video del “ragazzo che smentisce le balle dei media”, ovvero Luca Donadel. È lui, nel suo video ‘autoprodotto’, a mostrare i tracciati delle navi di alcune ONG; è lui a far notare che esse interpretano la loro missione di salvataggio giungendo a volte a poche miglia nautiche dalla costa libica: è lui a intonare, per primo, il tema del sospetto: a chi giova (non far annegare migliaia di profughi nel mediterraneo)? Chi ci campa con quei famosi 35€ al giorno? Eccetera eccetera. Tutto quello che afferma Donadel si può naturalmente discutere – rimando a un pezzo di Leonardo Bianchi di un mese e mezzo fa, segno che il video è virale già da parecchio. Aggiungo soltanto un dettaglio: il “chi giova” si può naturalmente riflettere su Donadel stesso, che candidamente afferma di aver speso 400€ per accedere a un’applicazione che traccia il traffico navale: sono parecchi soldi per uno youtuber che si filma ancora nella sua cameretta. Chi glieli avrà anticipati?

Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.

Il fatto che nel video Donadel affermi: “Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all’anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere“, ce ne offre un altro.

(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).

Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come “ragazzo” o “studente”, afferma di lavorare nella “comunicazione”. Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po’ di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent’anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?

In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.

Nel frattempo un giudice ha aperto un’inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento – è da un po’ che non si parla più di Renzi, come se non fosse l’unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l’odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.

L’altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po’ eccitato per il buon risultato delle primarie, l’ha definito il definitivo consolidamento di “quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana“.

Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell’egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.

400€ e ti porti a casa il pacchetto,
egemonia inclusa.

Per esempio: Renzi potrebbe anche tornare a palazzo Chigi, ma se le sue idee sono rottamare il centrosinistra (vecchio cavallo di battaglia berlusconiano) e tagliare i seggi in parlamento e vendere le auto blu su ebay (nuove idee grilline), direi che l’egemonia è ancora lontana. Suggerirei di guardare un po’ più su, nella periferia nordorientale di Milano, dove ha ancora sede un gruppo editoriale che, se vuole, può pompare xenofobia tutta le sere alle otto e mezzo, senza che nessuno possa farci niente (legge sul conflitto d’interessi? nella cultura di Renzi non c’è mai stata). Un gruppo editoriale che può inventarsi l’emergenza profughi, scriverci dei libri, promuoverli sulle sue riviste – e su youtube, ovviamente: qualcuno se la prenderà con youtube. Vi diranno che ormai la società è liquida, e la gente è così, si fida delle peggio stronzate su internet, non c’è più niente da fare, pare che l’egemonia l’abbia un ragazzino che nella sua cameretta mostra le rotte delle navi e cambia le idee a un magistrato e a un vicepresidente della camera. Che possono fare i poveri Riformisti, a parte rincorrere gli xenofobi su questi argomenti? riaprire i centri di detenzione, i campi profughi in Libia e così via, e sperare che alle prossime elezioni votino per gli xenofobi riformisti, gli xenofobi dal volto umano?

No, sul serio, cosa potete fare?

BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!

Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.

internet

La Boldrini, la legge di Poe, i finti ignoranti (peggiori dei veri)

In questi giorni la presidente della Camera Boldrini ha deciso di segnalare l’ennesima bufala che circola nei suoi confronti, e che mette maldestramente in mezzo la sorella (deceduta). La bufala in questione era nata in realtà come una parodia di altre bufale, ma alla fine era stata condivisa anche da qualche anti-boldriniano in buona fede, ed è questo il motivo per cui mi metto a parlarne, per ribadire un punto che mi sta più a cuore di altri: il modo in cui ci frega la legge di Poe.

IDIOTI. 

La legge di Poe stabilisce che non è possibile creare una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo – senza almeno un segnale condiviso che indichi che si tratta di parodia. Il tizio che la formulò aveva in mente le discussioni sui forum e pensava che sarebbe bastata una “winkey smile”, un faccia con l’occhiolino. Oggi che tutto il web è una sola conversazione, temo non ci sia faccino o convenzione che tenga. Funziona col fondamentalismo e funziona con qualsiasi altro argomento. Le parodie sono scherzi che condividiamo con una comunità: servono a distinguere tra chi ci casca e chi capisce al volo. Chiunque le dissemina, è consapevole che qualcuno ci cascherà. E quindi chiunque ha disseminato la parodia anti-boldriniana era consapevole che prima o poi sarebbe successo questo. Il divertimento – se c’è – sta appunto in questo: nel senso di appartenenza a un élite di sgamati.

Scrive Mantellini che l’immagine in questione era “un’imitazione di una campagna online raffinata e intelligente le cui immagini sono state molto diffuse e molto condivise qualche tempo fa. Un’iniziativa messa in piedi da alcuni esperti di social media per sottolineare l’ampiezza della credulità alle bufale online”. Già ai tempi mi permisi di eccepire sulla raffinatezza di una campagna che mirava a combattere la proliferazione delle bufale on line mediante la proliferazione di altre bufale on line, e all’accortezza di questi “esperti di social media”, tanto esperti da ignorare la legge di Poe: fossero vissuti ai tempi del fascismo, probabilmente lo avrebbero combattuto stampando a loro spese parodie di manifesti fascisti indistinguibili dagli originali.

Tocca ribadire: su internet la parodia del razzismo diventa in breve indistinguibile dal razzismo. La parodia del gentismo fa la stessa fine. Vuoi continuare a farla? Evidentemente non ti interessa il problema. Cosa voglio davvero ottenere disseminando contenuti del genere? Chi deve abboccare? Se penso che si tratti di cretini senza speranza, far loro il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che i tizi in questione possano cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso.

Io poi non chiedo di meglio che di essere in errore, e quindi se conoscete una persona, una sola persona che dopo aver condiviso una finta bufala si sia resa conto del suo errore e abbia cambiato il suo punto di vista sulla Boldrini, o sui vaccini, o su Trump, o su qualsiasi cosa… me la presentate? Fino ad allora continuo a pensare che le parodie non aprano gli occhi a nessuno, ma servano soltanto a farsi l’occhiolino tra iniziati. E quelli che ammiccano, su internet, sono più fastidiosi di quelli che ci cascano: i quali, con tutti i loro limiti culturali, probabilmente sanno che un problema non si risolve prendendolo in giro. 
cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, giornalisti, internet

Obama tramonta, Snowden resta (ma a Riotta non va proprio giù)

Snowden (Oliver Stone, 2016)

Ricordate il giorno in cui avete pensato di coprire la webcam del vostro computer, il giorno in cui non vi è sembrata più una paranoia? Quando è successo? Difficilmente prima dell’estate del 2013. In primavera l’ex agente NSA Edward Snowden aveva abbandonato la sua postazione di lavoro alle Hawaii portando con sé in una card più di due milioni di documenti riservati dei servizi americani (e inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi). In giugno li aveva consegnati ai reporter del Guardian che lo avevano raggiunto in una stanza d’albergo di Hong Kong. Qualche giorno dopo il suo avvocato riusciva a metterlo su un aereo. Snowden sperava di trovare asilo in Sudamerica, ma una volta arrivato in Russia, gli USA gli hanno revocato il passaporto. È ancora là.

Man mano che l’astro di Obama tramonta, è più facile accorgersi di come Edward Snowden sia una delle figure più importanti dell’ultimo decennio. Non ha semplicemente gettato una macchia sul presidente più cool di sempre; non si è limitato a rivelare segreti militari, non ha soltanto bruciato qualche agente di antiterrorismo: Snowden ci ha fatto coprire le webcam. Se prima dell’estate del ’13 avevamo qualche sospetto di essere spiati dalle nostre compagnie telefoniche, da lì in poi abbiamo dovuto accettarlo: non c’è paranoia che non si stia realizzando. Ogni smartphone è una cimice, ogni videocamera fa rapporto a qualche grande fratello. A inizio 2013 sarebbe stata la premessa di un film di fantascienza distopica: tre anni dopo è già materiale per Oliver Stone.

Forse la storia più congeniale a essergli passata per le mani dai tempi di Nato il 4 luglio, a cui fin troppo somiglia. Prima di questo film la nostra idea di Snowden oscillava tra l’hacker e l’attivista per i diritti civili; ma lo Snowden di Stone è per prima cosa un veterano. Si ricomincia dal solito addestramento da accademia militare: correre nei boschi, strisciare nel fango, urlare sissignore all’istruttore. Potrebbe essere l’inizio dell’ennesimo film di guerra, se il giovane Edward non si fratturasse le ossa alzandosi dalla brande con troppo zelo. Non importa, gli spiega l’ortopedico: ci sono altri modi per servire la tua patria. Ma anche quando si dimetterà dalla CIA per scrupolo, trasformandosi in una specie di contractor privato; anche quando sceglierà di tradire il suo Paese, lo Snowden di Stone resterà a suo modo un soldato, proprio come il Kovic di Nato il 4 luglio che aveva bisogno di scoprire la militanza pacifista per rimettersi a urlare ordini ai sottoposti. Snowden è disciplinato e responsabile, Snowden valuta i pro e i contro di ogni situazione; rispetta il presidente come comandante-in-capo; prova devozione filiale per i superiori e un malcelato disprezzo per i camerati che per far carriera compiono gesti irresponsabili. E come il cecchino di American Sniperdi cui è una specie di gemello buono, ha una donna che vorrebbe proteggere e che in un qualche modo lo protegge.

Stone prende una complicata storia di leak e di intelligence e la smonta fino a trovare i fattori primi, umani, che funzioneranno anche con gli spettatori digiuni di crittografia. Se il rischio è accreditare il personaggio come un genio del computer, Stone lo corre volentieri. Non ha mai avuto la mano leggera, ma forse in questo caso c’era proprio bisogno di trasformare entità astratte in immagini potenti. La webcam che diventa un occhio: un ragazzino con la camicia in fuori che in qualche ufficio dall’altra parte del mondo può spiarti l’account facebook per antiterrorismo o per capriccio. Stone preferisce girare all’estero, ma quel che vuole realizzare è proprio il caro vecchio blockbuster americano: non esita a mettere al centro una storia d’amore; ce la mette tutta pur di inserire sequenze che non stonerebbero in film di spionaggio o di azione. E come Michael Moore, sente l’esigenza di ricordarci a ogni pié sospinto che è altrettanto americano dell’America che sta criticando (continua su +eventi!)

internet

C’è qualcuno stupido sull’internet: che fare? (Appunti di ecologia dell’informazione disintermediata)

Premessa cretina: molto prima che entrasse internet nelle nostre già stupide vite, avevo avuto occasione di notare come l’umanità si potesse dividere in due davanti a una buccia di banana: quelli che ridono se il passante cade e picchia la testa, e quelli che si spaventano perché magari si è fatto male. Non è una questione di intelligenza, di cultura e forse nemmeno di empatia: è una questione di pochi decimi di secondo, c’è chi si mette a ridere e chi no.

Ieri cercavo di spiegare che, se da una parte capisco la necessità di sbugiardare immediatamente chi inquina la rete con notizie false, come la senatrice Blundo, dall’altra credo che un certo tipo di reazione tipica dei social – lo screenshot, la gogna, la proliferazione di parodie – finisce per essere ancora più inquinante. Quindi che fare?

Quando leggo qualcosa di falso o di stupido su internet (ad es. Renzi trucca i sismografi per non rimborsare i terremotati), io per quanto posso non reagisco ricopiando il contenuto o parodiandolo. Ricopiare una bugia o una sciocchezza è pericoloso; quanto alle parodie, rimando alla legge di Poe: non posso escludere che qualcuno ci caschi.

Del resto, cosa voglio davvero ottenere rispondendo a chi mi manda contenuti del genere? Se penso che si tratti di un cretino senza speranza, fargli il verso è come ridere di un disabile. Se invece credo che la speranza ci sia, che il tizio in questione possa cambiare idea, ottimo: ma di sicuro non gliela cambierò ridendogli in faccia o facendogli il verso. E dunque?

Dunque mi limito a reagire pubblicando quella che, in coscienza, credo che sia la verità: sismografi diversi danno risultati diversi, ogni misurazione di un terremoto presenta un inevitabile margine di errore, la stessa magnitudo che alla fine l’INGV assegna a una determinata scossa è un’astrazione, una media ponderata di misurazioni diverse; e non c’è nessuna legge che lega i rimborsi alla magnitudo delle scosse. Se cerco di spiegare tutte queste cose, nel modo più chiaro possibile (citando fonti degne di fede), forse non convincerò nessuno, ma almeno avrò evitato che qualcuno fraintenda quel che scrivo e capisca il contrario. Certo, sembrerò più noioso di chi incolla uno screenshot e lo addita agli amici in cerca di obiettivi per lo sberleffo quotidiano: è quello che ti succede quando diventi adulto e cerchi di vivere in modo responsabile, anche in questo posto particolare, la Rete. O forse non c’entra nemmeno l’età adulta, forse sei sempre stato uno di quelli che non si mette a ridere quando il prossimo tuo scivola sulla buccia di banana.

Scrivere su internet è un’operazione tutta particolare su cui non si è ancora ragionato abbastanza (e dire che ormai è abitudine quotidiana di milioni di persone). Non è come scrivere agli amici, non è come scrivere agli sconosciuti; è un po’ l’una e l’altra cosa insieme nello stesso momento. Quando scriviamo pensiamo sempre a un determinato pubblico. Nel caso di un social network è facile che si tratti di amici o conoscenti; un blog ha i suoi lettori abituali. Allo stesso tempo, quando scriviamo speriamo di attirare lettori nuovi, lettori diversi (io, almeno, lo spero sempre). Questo mi impedisce di sviluppare un linguaggio per iniziati; di proseguire una narrazione senza riassumere, sempre, i precedenti; di dare per scontato qualsiasi contesto, qualsiasi premessa; e mi impedisce anche di scrivere parodie o, come si dice adesso, fake. Per quanto possano essere divertenti (ma il più delle volte non lo sono), le parodie sono rischiose. Le meglio riuscite sono proprio quelle che maggiormente rischiano di ingannare il lettore occasionale.

Ma io – questo è il punto – non voglio ingannarlo, non voglio prenderlo in giro, non voglio tenerlo fuori da quel che scrivo. Voglio attirarlo, voglio che si senta a casa sua anche se non è quasi mai d’accordo con gli altri (come in ogni casa che si rispetti). Voglio provare a convincerlo. E persino se fosse un cretino senza speranza, non mi divertirei a prenderlo in giro. Sul serio, non è che faccio finta. Sono proprio così noioso, non mi fanno ridere le barzellette sui disabili e potreste scivolare su una buccia di banana davanti a me, non ci troverei niente di buffo. Quando qualcuno cade vicino a me ho sempre paura che si sia fratturato qualcosa.

giornalisti, giustizia, internet, invettive

Francesco Merlo non capisce; non vuole capire; non vuole che nessuno capisca

Qualche anno fa i computer erano ancora oggetti personali, custodi delle informazioni più preziose che avessimo. Ci scaricavamo tutto quello che era più intimo e compromettente: la posta, le fatture, gli estratti conto, le foto, eccetera. Perdere un portatile era diventato una catastrofe sociale – se ci fosse stato permesso di scegliere tra smarrire il portafoglio e il laptop, non avremmo avuto dubbi. Nei film i killer a pagamento rovistavano nei cassetti per depistare il detective, ma in realtà si portavano via le memorie fisse – l’ultima situazione del genere l’ho vista al cinema tre anni fa, ed era un film italiano. Altrove avevano smesso da un po’.

Perché ormai le cose sono cambiate, e lo sappiamo. Un bel giorno – a me è successo più o meno dieci anni fa – abbiamo smesso di scaricare la posta. Poi le fatture, gli estratti conto; persino le foto. Adesso la maggior parte delle cose preziose e imbarazzanti non stanno più in una minuscola porzione di silicio che teniamo sulla scrivania – magari anche lì, ma una loro copia è da qualche parte, frammentato e distribuito tra non si sa esattamente quanti server da qualche parte nel mondo, protetto da password che cambiamo e dimentichiamo con una certa regolarità. È successo ai vostri figli, è successo pure ai vostri genitori. È stata un’evoluzione naturale, inevitabile; poter accedere a un documento personale (una bozza, un’immagine, un documento) da qualsiasi computer sia connesso in rete, per chi come me lavora in cinque o sei ambienti e anche a casa propria, è semplicemente necessario. Non mi ricordo neanche più quando ho iniziato: so solo che non potrei più smettere. È troppo comodo.

Ma è anche qualcosa di inquietante, per più di un motivo.

L’arresto di Simone Uggetti ci offre l’opportunità di soppesarne uno. Fino a qualche anno fa, per impedire a un indagato di inquinare le prove, sarebbe bastato tenerlo fuori dal suo ufficio. Sequestrargli qualche strumento di lavoro: computer, dischetti, chiavi usb, quel tipo di cose che fino a qualche anno fa i killer rubavano e i detective cercavano nei film. Ma adesso l’ufficio di Uggetti è un luogo virtuale da cui può accedere con qualsiasi smartphone al mondo. Quindi che si fa? Chiedo, perché non ho un’opinione forte in materia, né mi ritengo particolarmente giustizialista o garantista: mi piacerebbe che nessuno fosse tratto in stato di arresto prima di una condanna, ma vorrei anche che i crimini fossero perseguiti con efficienza. Quando le prove stanno nella Nuvola, come puoi impedire a un indagato di inquinarle senza rinchiuderlo, senza impedire che acceda a un qualsiasi dispositivo connesso in rete? A me non vengono in mente alternative, e purtroppo nemmeno ai magistrati. Certo, potrebbe capitare anche a noi – a chiunque. È un problema. Enorme. Parliamone.

Ma per favore, teniamo lontano Francesco Merlo: visto che evidentemente non ha capito di cosa stiamo parlando (secondo lui bastava impedire a Uggetti “di esercitare le funzioni, sequestrargli i computer, mettergli un braccialetto elettronico e, al massimo, costringerlo agli arresti domiciliari“: benvenuto nel 2005), e soprattutto non ha nessuna intenzione di capirlo – figurarsi di spiegarlo ai lettori. Ne abbiamo già parlato, mi tocca ribadire: c’è una specie di diaframma linguistico tra Merlo e il mondo. Se si parla di abolire le province, lui scriverà una paginata intera sulla nozione di provincialismo. Se si parlerà di crisi del liceo classico, lui obietterà che la classicità è una cosa irrinunciabile. Dovessero sospendere le Olimpiadi di Rio per una questione di sicurezza, state ben certi che non ci parlerà dei problemi della sicurezza e di come sia più giusto combattere il terrorismo, ma scioglierà un cantico alla gloria immortale di Milone di Crotone, Eurimene di Samo. Non è tanto il fatto che non capisca niente: succede a tutti.

Ma il fatto di non porsi nemmeno il problema di dover capire qualcosa: come se in quel caos di parole che è il mondo avesse deliberato di attaccarsi perpetuamente ai significanti, ai suoni e non ai contenuti; di perdersi in definizioni che non sono mai quelle giuste e citazioni che quasi mai c’entrano un c. – fossero almeno originali, ma no, si parla di San Vittore e lui deve intonare Ma mì, sempre quei due o tre luoghi comuni che girano nel bar di paese che per caso è il quotidiano più prestigioso d’Italia (davvero, ormai lo è per caso). Noi vorremmo vivere in uno Stato di diritto che tuteli i nostri diritti – pricacy inclusa – vorremmo anche condividere tutto ciò che abbiamo e sappiamo su server in giro per il mondo: le due esigenze sono in conflitto? È una domanda fondamentale che la Repubblica non si pone perché deve dare spazio a Merlo e Merlo ha altre priorità, Merlo ha letto il provvedimento del Gip e ne disapprova lo stile – Merlo è convinto di essere un maestro di quella cosa, lo stile.

Non che abbia dimestichezza coi tecnicismi dei magistrati, sia mai: Merlo legge “decisa verosimiglianza” e si domanda: “va distinta dalla verosimiglianza indecisa?“; legge “abietto” e si chiede se ne esista il superlativo. Lo vedi sempre lì che ripete sillabe a caso convinto di essere un D’Annunzio e non un bambino nella fase della lallazione. Raccomanda ai magistrati sobrietà, raccomanda asciuttezza – nel frattempo evoca Stalin, Robespierre e la Mesopotamia, scrive “il tuono etico sul clic delle manette“, definisce sobriamente San Vittore “l’Inferno“, e a un certo punto ci spiega la “verità“, precisamente: sulla Repubblica c’è un editorialista che ha le “verità”, come sul blog di Beppe. “La verità è che il sindaco di Lodi non dovrebbe stare in carcere“. Probabilmente lo scrive su un dispositivo connesso – magari nel frattempo scarica la posta, o un file infetto. C’è un enorme problema che ci portiamo ogni giorno in tasca, in borsa, che ci guarda dalle scrivanie: Merlo non lo vede. È a tre palmi dal suo naso. Niente.

Abbiamo messo la nostra libertà nella Rete, e ora non possiamo staccarci dalla Rete senza rinunciarvi: è un dilemma straordinario, ne va forse della nostra civiltà, ma su Repubblica se ne parla un’altra volta, su Repubblica c’è Francesco Merlo che deve dimostrare di averlo più grosso del Gip, il vocabolario. Allora, visto che certi problemi evidentemente sono più grandi di noi, risolviamone almeno uno un po’ più piccolo; la Repubblica sta facendo schifo, si può far qualcosa? Si può evitare di avere in prima pagina un tizio che quasi mai sa di cosa parla? Io ho smesso di comprarla da un po’, non mi sembra di esser l’unico.

internet, musica

Ma non riuscirete a toglierci Creep

“Ma se pensano che li dimenticheremo, si sbagliano”.
“Chi?”
“I così, lì”.
“I cosi chi?”
“Quel gruppo, dai… quelli che hanno chiuso il loro sito”.
“Un gruppo di che?”
“Un gruppo rock, ma non ti ricordi?”
“Ma quali?”
“Quelli famosissimi, dai… hanno chiuso il loro sito, e adesso magari inizieranno a togliere le canzoni, ma credono davvero di potersi cancellare?”
“Cancellare da cosa?”
“Dalla memoria collettiva? Credono che sia tutta sulla nuvola, ormai? No, esiste anche la nostra memoria fissa, individuale”.
“Dici?”
“Esistiamo noi, coi nostri ricordi. Noi continueremo a ricordarci di loro”.
“Ma di loro chi?”
“Ma quelli famosi, dai… i come si chiamano… ce li ho sulla punta della lingua…”
“Dimmi almeno una canzone”.
“Beh ma sai loro non erano il gruppo di cui ti ricordi solo una canzone… ogni disco era un concetto a parte, cioè, tutto andava contestualizzato…”
“Una canzone almeno te la ricorderai”.
“Come no”.
“Senza andare a vedere i cd”.
“Non li posso più andare a vedere, stanno in cantina”.
“Ecco, appunto”.
“Ma insomma, dai, sono il gruppo più famoso del…”
“Ottanta? Novanta? Zero?”
“Più Novanta, anche se è riduttivo…”
“Ma dimmi almeno un pezzo”.
“Mi viene in mente solo quello sbagliato…”
“Perché sbagliato?”
“Perché non li rappresenta, insomma, fu un grande successo, ma…”
“Tu dimmelo”.
“Creep”.
“Ah, ecco, che ci voleva”.
“Quindi te la ricordi Creep”.
“Certo che me la ricordo Creep”.
“Volevo ben dire”.
“Chi è che non si ricorda Creep”.
“È un pezzo che ha cambiato tutto”.
“Anche se non è proprio il più rappresentativo”.
“No, però, accidenti”.
“E vogliono cancellare Creep? Poveri illusi”.
“Non si può cancellare Creep”.

Beppe Grillo, coccodrilli, futurismi, internet

Il consulente che cambiò l’Italia (per sapere com’è andata CLICCA QUI!!!)

Non solo in Italia nessuno muore stronzo, ma alcuni hanno anche la dubbia fortuna di morire geniali e visionari. E sì che la traiettoria di Gianroberto Casaleggio – imprenditore, consulente, fondatore di un partito che dal nulla è arrivato quasi al 30% – non avrebbe bisogno di abbellimenti, ma si vede che non basta mai. Bisogna immaginarlo come un burattinaio di Grillo o del Movimento tutto, un leader distante, esoterico – non scherzo, qualcuno ha veramente usato la parola. Qualche anno fa, probabilmente mentre cercava di impacchettare un po’ di fuffa a qualche azienda, la Casaleggio produsse quel video famoso in cui si prevedeva la Terza Guerra Mondiale e la Gaia prossima ventura nel 2054. Il video non era niente di straordinario (la qualità non essendo mai stata una priorità delle produzioni Casaleggio), ma a un certo punto diventò virale.

In mancanza d’altro – il tizio parlava poco e anche i suoi libri alla fine non è che chiarissero un granché – gli osservatori esterni del Movimento decisero che il video su Gaia rappresentava la vera ideologia segreta del suo fondatore, come se ci riflettete è giusto che sia: se hai un piano segreto e non vuoi renderla nota fuori dal tuo cerchio magico, tu subito corri a pubblicarla su Youtube. Ogni volta che ha potuto, Casaleggio stesso ha ribadito che quel video non era cosa da prendere sul serio – non più sul serio di qualsiasi presentazione che un consulente confeziona alle aziende – ma eravamo tutti troppo furbi per cascarci. Anche ieri ne hanno riparlato in tanti, su giornali radio e tv, e Casaleggio è diventato il visionario teorizzatore di Gaia. Questa è la cosa che da sempre mi spaventa: non la morte, ma il modo in cui dopo la morte di noi non sopravvive un senso complessivo di quello che siamo, di quello che abbiamo cercato di fare – ma più spesso la prima cazzata che c’è venuta in mente in un giorno qualsiasi per impressionare una tavolata di persone.

Così com’è difficile capire un Bossi o un Grillo (persino un Renzi) senza dare un’occhiata al territorio, a quei bar in cui la sanno tutti lunga e te la spiegano in due parole, ex chitarristi sbandati, padroncini o figli di, può essere abbastanza complicato comprendere Casaleggio se non hai mai assistito allo spettacolo d’arte varia dei consulenti per le aziende. Quando parliamo di C. come di un grande innovatore digitale, in sostanza stiamo provando a rivendere il pacco che è riuscito a rifilarci. Alla fine della fiera faceva dei siti – neanche molto belli, considerato che erano già gli anni in cui i blog si cominciavano a dichiarare morti. Nessuno che io sappia ha mai trovato particolarmente innovativo il blog di Antonio Di Pietro: certo, faceva notizia che ne avesse uno. Quello di Grillo sembrò sin dall’inizio un pasticcio piuttosto pesante: però era Beppe Grillo. Bastava il suo nome a portare on line milioni di utenti mai visti prima, la blogosfera italiana diventò un piccolo villaggio alla periferia del centro commerciale beppegrillo.it. Nel frattempo gli early adopters passavano ai social network, e Casaleggio nemmeno ci faceva caso. Come innovatore digitale era straordinariamente lento di riflessi, spesso ancorato a software o piattaforme già vecchie nel momento in cui le adottava (Movable Type, i MeetUp). Come nota Mantellini, la stessa concezione casaleggiana della Rete sembrava uscita dai cibernetici anni Novanta: “uno strano riciclo di miti, sogni luccicanti e intuizioni sull’universo digitale presi pari pari dall’interpretazione libertaria americana del nuovo contesto digitale di un decennio prima. Temi che nel frattempo, oltreoceano e nei circoli culturali europei, erano già stati opportunamente accantonati e considerati impraticabili praticamente da chiunque, il più spettacolare dei quali, quello del governo diretto dei cittadini attraverso gli strumenti digitali, è ancora oggi, nonostante le molte smentite pratiche, il punto centrale dell’ideologia del M5S”.

Una volta buttai lì che i grillini erano i nuovi futuristi; poi non ho avuto più tempo o voglia di spiegare. (Bisogna anche dire che io ho studiato più il futurismo che qualsiasi altra cosa, e quindi lo trovo anche nella struttura delle latifoglie). Ciò che il timido consulente e Marinetti avevano in comune, non è solo la sensazione di trovarsi sul promontorio dei secoli, ma anche la segreta consapevolezza di non aver la minima idea di quel che sta succedendo. Marinetti non ha gli sponsor e la fama di un D’Annunzio, ci avrebbe messo un po’ prima di salire davvero su un aeroplano…  però intanto sente tutti parlare di aeroplani, aeroplani, aeroplani, e lui si mette a scriverci un poema sopra. Non ne sa un granché, in sostanza lo tratta come un grande uccellaccio cavalcabile, ma qualcosa l’azzecca. Poi prevede una guerra, che funziona sempre. Non ha una cultura scientifica, ritaglia e incolla qualsiasi scemenza pseudoscientifica trovi sui giornali: si convince facilmente che la radioattività rinnovi il vigore sessuale perché ne parlano “gli scienziati” in una breve sul Corriere.

Casaleggio si ritrova a fare consulting in quel favoloso decennio in cui tutti parlano di internet e non ci naviga ancora nessuno. Lui ci prova. Non inventa niente, il più delle volte arriva tardi: il suo colpo migliore è stato conquistare Beppe Grillo e la sua massa critica di seguaci. Quanto alla politica: a un certo punto ci siamo tutti convinti che Casaleggio fosse la Mente, perché dei due intestatari del partito era quello che parlava poco. Senz’altro la sua idea di rifiutare qualsiasi alleanza o compromissione ha pagato. Ma non era poi un’idea così raffinata, soprattutto se si aveva la possibilità di osservare da un punto di vista privilegiato il livello di impreparazione degli eletti m5s nel 2013. Quando poi si passa alla parte pratica, con le epurazioni e i direttori C ha dimostrato ampiamente di voler gestire il movimento come un’azienda – non dissimilmente da quello che faceva Berlusconi (e lo stesso Renzi ha un concetto simile e nasce in un simile brodo culturale, anche se si è fatto le ossa nell’amministrazione locale). Il che ci riporta a quel bar non necessariamente padano in cui tutti hanno un’idea geniale per mettere a posto le cose. C’era il chitarrista sbandato, il figlio del bancario che non si sapeva esattamente dove avesse preso i soldi, e ogni tanto magari si fermava a prendere il cappuccino il consulente in impermeabile. Chiacchiere simili, timbri diversi, ma se fai caso alla nota dominante, vedi che non varia di molto. Ce l’hanno tutti con chi non ha voglia di lavorare, con gli stranieri che ci levano il lavoro, la burocrazia, i sindacati. Scattano tutti in modo automatico ogni volta che un partito anche solo vagamente di sinistra sembra poter vincere le elezioni.

Mussolini diventò un personaggio scrivendo e dirigendo un giornale, e poi tentò di dirigerla come un giornale (“un’idea al giorno, dei concorsi, delle sensazioni, un abile e insistente orientamento del lettore verso alcuni aspetti della vita sociale, smisuratamente ingranditi, una deformazione sistematica della comprensione del lettore”). Berlusconi era un piazzista televisivo: vinse le elezioni vendendo il suo personaggio televisivo di miliardario che-risolve-i-problemi, e poi tentò di gestire l’Italia come un palinsesto. Casaleggio e Grillo inventarono un blog – niente che non esistesse già: un’idea al giorno, delle sensazioni, un orientamento del lettore neanche tanto abile, clickbaiting senza pudore. Se avessero vinto le elezioni, avrebbero gestito l’Italia come un blog. Un po’ mi dispiace non averli visti di fronte al cimento, ma non è detta l’ultima parola, anzi.

internet, pedofilie

I pedofili hanno bisogno delle vostre foto?

E quindi insomma sembra proprio che condividere on line le foto dei vostri bambini sia un grosso favore che fate ai pedofili. Lo dice la Polizia di Stato, sarà vero: le catene che “impazzano” sul web, che domandano alle mamme di pubblicare le foto per dimostrare di essere “grandi madri”, non fanno che ingrossare i cataloghi sconci degli orchi. Va bene. In linea di massima son convinto anch’io che pubblicare le foto dei propri bambini sui social network non sia il massimo. A questo punto però mi viene un dubbio: ma che razza di foto fate ai vostri bambini?

Sono un genitore anch’io: anch’io sono convinto che la mia creatura sia la più bella del mondo (credo sia una cosa chimica che avviene nel cervello, mi basta guardare le foto di qualche anno fa e non funziona già più). Anch’io l’ho fotografata sullo scivolo e travestita per carnevale. L’ho fotografata mentre dormiva e mentre mangiava e mentre faceva le facce buffe. L’ho fotografata perché cresce in fretta e ogni momento non tornerà mai più, perché ho la sensazione che il mondo se la stia perdendo, e perché, tra l’altro, l’arnese che scatta le foto l’ho quasi sempre in mano. Tutte queste foto a volte le mostro ad amici e colleghi – è una delle tante sfighe di avermi per collega o per amico. Non le metto su facebook, non mi va di regalarle a Zuckerberg. Oltretutto so bene – e ormai dovreste saperlo tutti – che a Zuckerberg non interessa metterle sotto chiave, anzi, chiunque può entrare, frugare nei suoi cassetti, copia-incollare le foto dei vostri bambini con lo yogurt sul naso o con la faccia da duro sul triciclo, e farci quel che vuole. Quindi no, io non metto le mie foto su internet.

Ma mica perché ho paura di un pedofilo a caccia di foto di bambini sullo scivolo, o travestiti da pappagallo. Cioè, magari esiste un pedofilo del genere – uno che cerca semplicemente bambini in pose normalissime, bambini all’asilo, bambini al parco, bambini su un piede solo, bambini col sugo sul naso, bambini che sbadigliano – ma sul serio uno così ha bisogno di rifornirsi dai profili facebook? Non può andare semplicemente su google? Cioè, parliamoci chiaro: nei vostri archivi avete qualcosa di anche lontanamente paragonabile?

Va avanti per centinaia di pagine – che si fa, chiudiamo google? Perché magari qualcuno che si eccita a sfogliare esiste. Ce n’è di gente strana a questo mondo. Qualche anni fa don Fortunato di Noto parlava di una rete di pedofili che si scambiavano, tra l’altro, ecografie. Ecografie. Era un periodo in cui non si poteva assolutamente esprimere anche solo un dubbio sulla lotta alla pedofilia, e quindi gliela lasciammo passare, però mi è rimasta questa cosa – insomma, uno che si eccita a guardare un’ecografia dev’essere veramente uno strano forte. Comunque, che vi posso dire: non condividete le ecografie (ma voi le siete più andate a rivedere le ecografie?)

Contrariamente a quanto dice indymedia, io non m’intendo molto di pedofili in rete o fuori: ma ho la sensazione che siano alla ricerca di qualcosa di un po’ più spinto delle foto del vostro bambino travestito da Peppa Pig, e di qualcosa di più nitido di un’ecografia. Non voglio dire, non mi permetterei mai, che il vostro figlio non sia il più bello del mondo per chiunque, e quindi anche per l’occasionale internauta pedofilo: ma finché lo fotografate travestito da puffo secondo me non correte grossi rischi. Esisterà, certo, anche il feticista dei puffi. Non è nemmeno escluso, diciamo che c’è una possibilità su un miliardo che lui riesca a mettere le mani sulla vostra foto. Ecco, anche in quel caso senz’altro spiacevole, vorrei ricordare che vostro figlio non corre alcun rischio concreto: quella che avete messo in giro, senz’altro un po’ avventatamente, è una sua immagine, non la sua anima – lo so, è dura convincersene. Forse non ci riusciremo mai davvero.

anniversari, autoreferenziali, blog, internet, satira

Il segreto del mio insuccesso

Stavo cercando di buttar giù due pensierini sulla Legge di Poe, quando ho avuto una mezza rivelazione – hai presente quando un problema che hai sempre visto da vicino, ti si presenta finalmente dalla giusta distanza, dalla giusta angolazione? Insomma ho capito che io di blog non ho capito mai niente. E di internet in generale.

Ho sempre fatto la cosa sbagliata.

Quasi quindici anni fa, ai tempi di Indymedia, una volta lessi un articoletto cosiddetto satirico, uno di quei pezzi che mettono in bocca a un personaggio le verità indicibili, ad es. Bush: “L’Iraq non c’entra niente con l’11 settembre, ma è più facile da invadere dell’Afganistan”, una cosa del genere. Mi piaceva, lo trovavo diretto ed efficace. Fu molto facile clonare una pagina di Repubblica e incollarci sopra l’articoletto. A quel punto era ancora più diretto ed efficace, perché sembrava vero. Lo ripubblicai. Ad alcuni piacque. Altri chiesero di toglierlo immediatamente, perché qualcuno l’avrebbe preso per una vera pagina di Repubblica. Ci leggono anche dall’estero, dicevano. Lì per lì mi misi a ridere – insomma, si capiva che non era una vera pagina di Repubblica. Mancava l’indirizzo.

Però lo tolsi.

Da allora non ho più fatto una cosa del genere.

Oddio, qualche parodia ogni tanto mi è scappata, anche se non è il mio forte. Però i fake li ho lasciati perdere. Sono troppo facili, appunto. E poi credo di aver introiettato quello che mi dissero quel giorno. Ci leggono dall’estero – che non è necessariamente un’altra nazione. Per esempio possono leggerci dal futuro. Non un futuro remoto: bastano cinque o sei anni per non capire letteralmente di cosa si stia parlando. Possono leggerci i bambini. Possono leggerci le persone che non condividono i nostri punti di vista. A meno che – s’intende – non facciamo qualcosa per mandarli via.

Io non ho mai fatto niente per mandarli via. Anzi ci tenevo che restassero. Per me è sempre stato molto importante, ad esempio, non intervenire su un argomento senza prima aver spiegato di cosa si trattasse: era il principio che chiamavo “riassumi le puntate”. “Perché ci può essere sempre qualcuno appena arrivato che non sa di cosa si sta parlando, e se glielo spieghi te ne sarà grato”. Questa è probabilmente la grande lezione dell’internet che io ho frainteso. Perché se mi guardo attorno, e vedo piccole o grandi storie di successo, mi accorgo sempre di questa cosa: in rete bisogna fare comunità. Tener fuori quelli che non capiscono, e creare una sensazione di familiarità che attiri soltanto quelli che condividono i nostri gusti, valori, punti di vista. Insomma, tutto bisogna fare fuorché riassumere le puntate agli estranei. I messaggi devono essere rivolti solo a chi è in grado di capirli.

Pare infatti che il problema sia questo. Qualcuno commentando il pezzo sulla vignetta di Charlie mi ha spiegato che non è razzista, perché non è rivolta un pubblico razzista. “Solo un razzista distratto potrebbe riderne”. Posso capire. A questo punto però è un vero peccato che molti razzisti siano distratti. E che non possiamo impedire loro di leggere Charlie e interpretare le battute come vogliono. La legge di Poe dice che “non è possibile creare una parodia del fondamentalismo in modo tale che qualcuno non la confonda con il vero fondamentalismo”, senza almeno usare un segno che chiarisca oltre ogni dubbio l’intento parodico. Questo segno non dovrebbe essere linguistico, ad esempio l’intonazione della voce, o un’emoticon. Come tutti i grafomani, io detesto le emoticon. Vorrei riuscire a dire tutto con la scrittura, ma pare che ci sia un limite. La scrittura non strizza l’occhio, o non lo fa in modo abbastanza chiaro per tutti. E io – è il mio difetto intrinseco – vorrei essere abbastanza chiaro per tutti. Come la Sapienza dei Proverbi, che non si chiude in un circolo di amici selezionati, ma batte i marciapiedi e fa l’occhiolino agli estranei, così ho sempre cercato di fare io. Per me internet era la rete di tutti, e pensavo che questa fosse un’immensa opportunità. Pare che invece sia il principale difetto che ci impedisce di mandare avanti conversazioni interessanti: il rumore di fondo dei passanti che non capiscono, ma vogliono lo stesso intervenire perché credono di aver sentito qualcosa di sbagliato.

E adesso che si fa? Niente. Cioè, no, le solite cose. Continuerò a parlare del più e del meno, a riassumere qualche puntata ai passanti, e a ricevere ogni tanto le mail di qualcuno che mi ha trovato per caso e ha fatto mattina leggendo tutti i pezzi del 2009. Sto facendo questa cosa da così tanto tempo – 15 anni oggi – che non credo di poter più cambiare. Uno sbaglio così lungo ormai non è neanche più uno sbaglio. Diventa un’altra cosa – un record, un esperimento, una forma d’arte, che ne so.

internet, scuola

No, il registro elettronico non vi impedisce di chiacchierare coi vostri figli

Il 7 gennaio è il giorno in cui arrivo a scuola con un pacco di compiti corretti durante le vacanze (sì, lavoro durante le vacanze. Non c’è altro modo). Fino all’anno scorso, dovevo verificare che gli studenti scrivessero il voto corretto sul loro diario, e poi firmare. Nei giorni successivi, avrei perso altro tempo prezioso – minuti di lezione pagati dalla collettività – per controllare che accanto a quel voto comparisse la firma dei genitori, possibilmente autentica (anche se scritta in alfabeti che non sempre conosco). Si tratta di una trafila lunga, che crea anche nelle classi più tranquille un momento di caos. Nizzoli, ma ti avevo davvero dato 6 più? Non era un 6 meno? Questa firma sembra quella di un bambino, ma mio zio non è che firmasse molto meglio. Nel frattempo Nizzoli si sta infilando una matita in naso perché gli do le spalle. E così via. Ho spesso avuto la sensazione che i veterani controllassero solo una volta ogni tanto: giustizia sommaria. Se il prezzo da pagare era un genitore infuriato che scopriva a febbraio i voti di novembre, amen.

Quest’anno però ho il registro elettronico. I voti li ho già messi da casa, perché il registro elettronico è a mia disposizione anche la notte di Natale, se mi va. I genitori possono controllare quando vogliono. Anche mai, se non vogliono. Quel che proprio non possono più fare è lamentarsi del fatto che non li teniamo al corrente.

Ecco, questo forse è il problema.

Se togli a un genitore la facoltà di lamentarsi, lui si sente a disagio – forse defraudato di una prerogativa? Sul Sole 24 Ore, Monica D’Ascenzo confessa che la comunicazione della password le ha fatto sentire un “fastidio”, che “si è trasformato velocemente in disagio” quando ha scoperto che nel registro, oltre alle assenze, “i genitori possono consultare quanto fatto in classe in ogni singola materia, i compiti assegnati e (orrore!) i voti del proprio figlio”.

Ho chiuso in fretta il tutto come se mi fosse capitato in mano il suo diario dei pensieri.
Ma che roba è? Posso in qualunque momento sapere cosa fa mio figlio prima ancora che lui pensi anche solo se raccontarmelo o meno. Che fine fanno le chiacchiere da cena: cosa avete fatto oggi? Com’è andata la giornata? Ti ha interrogato?

E quindi insomma niente. Speravo che per una volta la tecnologia mi avesse davvero semplificato la vita, ma sbagliavo. Ovvero, sì, mi avrebbe liberato da inutili passeggiate in mezzo all’aula per controllare decine di voti; da scenate di genitori che trovano voti diversi e firme false e altri spiacevoli affanni – ma se il prezzo da pagare sono “le chiacchiere da cena” di una mamma con un figliolo, non mi resta che tornare al cartaceo. Costa di più, prende più tempo, è più scomodo. Ma le chiacchiere da cene saranno salve.

Non si può evitare che tutti parlino di scuola. Tutti ci hanno passato più di dieci anni, quindi tutti hanno diritto a un’opinione. Ma nel caso dei genitori è troppo spesso modellata sulla loro esperienza, individuale, positiva o spiacevole. Se hanno avuto insegnanti sfaccendati, sono portati a pensare che tutti gli insegnanti lo siano. Se a tavola chiacchieravano amabilmente coi genitori di voti in classe, tendono a pensare che a tutti risultasse altrettanto piacevole, e formativo, questo tipo di chiacchiere.

Dall’altra parte c’è un insegnante che ha lavorato con migliaia di studenti, migliaia di genitori: che conosce tutte le falle del sistema, per esserci caduto a piè pari più volte. Lui vi dice che il registro elettronico è più comodo per tutti, ma in fondo che ne sa?

Dove è finita la possibilità di scelta del bambino di raccontare o meno se è stato interrogato o se la maestra ha fatto una verifica a sorpresa? Dove è finita la libertà di confessare a un genitore un’insufficienza o invece decidere di gestirla da solo magari studiando, recuperando la volta successiva e spuntando una sufficienza in pagella?

Cara genitrice, quella possibilità di scelta è ancora lì, non l’ha toccata nessuno. Se non vuole usare il registro elettronico, non lo usi. Chieda a suo figlio di scrivere i voti sul diario, e li controlli. Se con lei ha funzionato, non è affatto improbabile che funzioni anche a suo figlio. Se poi ogni tanto vuole dare una sbirciatina… nessuno la giudicherà.

E lei non giudichi me se invece di passare ore di lavoro a controllare firme, ne approfitto per fare lezione. Mi diverto di più.

guerra, internet, scuola, terrorismo

Se è una guerra siate adulti, per favore.

In Italia al sabato le scuole sono aperte, il che almeno mi ha impedito di passare mezza giornata su internet a litigare. Grazie al cielo c’è un lavoro da fare, e grazie al cielo è un ottimo lavoro – anche le mattine in cui i ragazzi sono nervosi e non sai bene cosa raccontare. Una cosa bella del mio lavoro è che mi mette costantemente davanti ai miei limiti e mi obbliga a essere una persona un po’ migliore. Non sempre ci riesco, ma quando uno è costretto a provarci cinque mattine su sei alla fine qualche risultato lo porta a casa.

A volte credo che molta gente avrebbe semplicemente bisogno di sperimentare quello che quotidianamente capita a tizi come me: invece di alzarsi e correre a citare qualche frasetta della povera Fallaci, o titolare “bastardi islamici” per lucrare un po’ di copie, provare a venire in una scuola qualsiasi della Repubblica, al mattino: a entrare in una classe e trovarsi venticinque cuccioli, di cui quattro o cinque musulmani. E a quel punto, coraggio, vediamo fino a che punto riesci a parlare di invasione, di eurabia. Vediamo fino a che punto riesci a dire “islamici bastardi” in presenza di bambini normalissimi che hanno lo stesso zainetto degli altri, lo stesso astuccio degli altri, gli stessi voti degli altri – e sono nati nello stesso ospedale dove sei nato tu.

In *tutte*, cioè non è che se fai il liceo coreutico
non devi studiare la Fallaci.

A questo punto, mentre non trovi le parole per offendere la religione di un miliardo di persone, magari potresti notare che quei bambini, quei ragazzi, possono essere persino più spaventati di te: e che quei gridi scomposti e intolleranti che su facebook o altrove ti riuscivano così bene, ti facevano sentire così libero… non sono altro che forme di panico; e tu non puoi farti prendere dal panico, perché sei l’adulto e gli adulti non dovrebbero cedere al panico. Altrimenti hanno vinto loro, no?

E tu non vuoi che vincano loro, o no?

Tu dici che è una guerra: va bene. Non sarà allora il caso di comportarsi come ci si comporta in una guerra? Da uomini, si diceva una volta. Da adulti, diciamo. E quindi: se abbiamo paura, dobbiamo ricacciarcela in gola, e ai ragazzi prima di ogni discussione premettere un concetto: vinceremo. Anche se oggi siamo in ginocchio (ma ci rialziamo), anche se per qualche minuto abbiamo davvero avuto paura (ma ci sta passando), anche se per un attimo un nemico ci ha portato a sospettare l’uno dell’altro, ad accusare l’uno o l’altro; tutto questo non importa, perché contro il terrorismo abbiamo sempre vinto e vinceremo anche stavolta. Perché ieri sera i parigini aprivano le porte delle case per dare rifugio a chi scappava; perché i tassisti hanno fatto la spola per tutta la notte, perché per ogni terrorista ieri a Parigi c’era almeno un migliaio di cittadini che sono accorsi agli ospedali a donare il sangue: perché noi siamo tanti, e loro no. Siamo uniti, e loro no. Siamo più forti, e certamente qualcuno di noi può cadere, ma noi tutti insieme no.

Va bene che non siamo tutti Churchill, ma resto convinto che siamo migliori della nostra bacheca su facebook. E allora basta chiacchiere per favore, un po’ di coraggio e un po’ di disciplina, è tutto.

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, internet, ragazzini

La morte ti cerca su Skype

Unfriended (Levan Gabriadze, 2014)

O ma t ricordi Laura???
Quella stronza ke poi a un certo punto qualcuno ha messo su youtube il video in cui fattissima si era cagata addosso?? 
E che lei dopo dalla vergogna si è sparata (ke COGLIONA)? 
Ti ricordi quanto abbiamo pianto al funerale, e quando ci intervistavano dicevamo che era nostra amica e mai avremmo potuto immaginare e insomma eravamo sconvolti? 
Ma il video invece ti ricordi ki lo aveva fatto? 
Eri stata tu? 
Ero stato io? 
No io forse lo avevo solo postato. 
Boh. 

Unfriended è un piccolo film con un’idea fortissima – trasferire sul grande schermo il desktop di un computer portatile, e raccontare tutta la vicenda da una finestra all’altra, in apparente presa diretta. I personaggi dialogano su skype, la colonna sonora è una playlist su itunes, gli indizi si cercano su google, il passato galleggia su youtube e facebook – lo spettatore condivide il punto di vista della protagonista e a un certo punto la frustrazione di non riuscire a controllare il cursore col mouse (visto su un portatile dev’essere tremendo, anche al cinema viene costantemente la tentazione di aprire la posta o twitter o qualche altra minchiata).

Il tema ovviamente è il bullismo 2.0 – Gabriadze, regista di origine georgiana, sembra abbastanza persuaso che l’inferno siano gli altri, cioè internet. Classe ’69, in un’intervista ha candidamente affermato che il nonnismo subito ai tempi del servizio militare nell’Armata Rossa non è nulla rispetto a quello che può capitare oggi ai ragazzini sui social network. Unfriended descrive questo mondo col candido cinismo che si può permettere un regista horror: i cinque personaggi, tutti variamente antipatici, saranno messi l’uno contro l’altro dal fantasma della loro vittima. Sì, il modo di raccontarla è finalmente un po’ diverso, ma la storia è la più banale del mondo (continua su +eventi!)

blog, giornalisti, internet, repliche

Come odiavamo (lettera dal 2009)

Quando ho letto della nuova tirata di Aldo Grasso sul “popolo del web” ho avuto, ovviamente, un déja vu. Ero sicuro di avere già scritto da qualche parte la risposta – del resto al Corriere scrivono le stesse cose da vent’anni – ma dove? Ci ho messo un po’ a recuperarla: era il primo pezzo che scrissi sull’Unità.it, nel lontanissimo 2009: e già allora la discussione sembrava vecchia. Non rispondevo a Grasso ma a Stella che scriveva esattamente le stesse cose; è come se si passassero i canovacci. Io invece credo di essere cambiato un po’. Era l’unico pezzo che non avevo ripubblicato qua sopra, lo faccio adesso per scongiurare l’orribile eventualità che vada perso (il server dell’Unità potrebbe azzerarsi da un momento all’altro). È anche una manovra per placare l’ansia dei nostalgici dei pezzi lunghi – se provate a leggere questo magari un po’ vi passa, la nostalgia.

Stella che brilli lassù

Ho una teoria. Quando a un giornalista capita di scrivere il solito pezzo demonizza-internet (un genere relativamente giovane, ma già irrigidito nella statuaria dei luoghi comuni senza età, come gli elzeviri sulle mezze stagioni o sugli esodi d’agosto) la prima reazione di chi su internet ci scrive davvero, e magari da anni si sbatte per difendere e diffondere contenuti di qualità, è più o meno: Nonno Non Hai Capito Niente. Probabilmente parli per sentito dire e non sai distinguere un profilo facebook da un blog, avrai una connessione modem a 56k con il fischiettino (vi ricordate il fischiettino?) oppure la stagista schiavetta che ti scansiona i comunicati battuti in Olivetti Lettera22.

Tante volte devo aver reagito così anch’io, qualche anno fa, ma appunto: era qualche anno fa. Adesso siamo nel 2009 e davvero anche il nonno ha capito come si accende il computer. Parlare di Internet per sentito dire non solo non è più ammissibile, ma è davvero impossibile. Eppure le cose che ha scritto Gian Antonio Stella sono un po’ le solite: “zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta” (Montecitorio? No, Internet) “individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti […] il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento” (Curva di stadio? Set del Grande Fratello? Nooo, Internet). A gente come me, come probabilmente anche voi, che frequenta internet ogni giorno e ci trova lampi d’intelligenza, di fantasia e di creatività che nessun altro media gli offre, può sembrare strano e triste che Gian Antonio Stella si trovi in casa la stessa finestra sul mondo e non ci trovi nient’altro che volgarità, violenza, odio, anzi, “libertà di odio”. Eppure è così: come si spiega?

Io una teoria ce l’ho, dicevo: dipende tutto da dove è piazzata la finestra. Gian Antonio Stella guarda internet come tutti noi, ma da una posizione infelice: quella di giornalista. Rifletteteci bene. Voi praticoni di internet avete i vostri riferimenti, i vostri feed, le persone simpatiche ed esperte di questo o quel settore che avete selezionato in anni di frequentazioni, ed è questo a rendere la vostra finestra così colorata e interessante. Stella ha avuto meno tempo di voi, e i frequentatori di internet forse li conosce soprattutto sotto forma di commentatori medi del sito del Corriere. Ma i commentatori medi al Corriere (o alla Repubblica), beh… è il caso di dire no comment. Davvero, cosa pensereste di Internet e di chi lo frequenta, se le uniche prove della loro esistenza fossero le tracce di bava che lasciano sui siti dei grandi quotidiani, e su qualche gruppo di facebook?

Internet è piena di melma, inutile negarlo (nessuno infatti ci ha provato). Però in mezzo alla melma ci sono cose straordinarie che valgono tutta la bolletta, e persone che sostengono, come me, che è inutile criticare la melma: l’unico sistema per migliorare la qualità è creare piccole oasi di cose intelligenti e interessanti, in zone non troppo remote da quelle dove passa il grande traffico. I blog che leggo quotidianamente sono una realizzazione imperfetta di questa idea di oasi: mi riassumo i fatti importanti del giorno in modo esauriente e divertente, mi raccontano notizie singolari e importanti che da solo non avrei trovato mai, a volte mi fanno arrabbiare, ma sempre per un’idea diversa dalla mia, non per uno schizzo d’odio. Però ci ho messo anni a selezionarli, e ho dovuto vincere il fascino per la melma, per i deliri dei dementi, che soprattutto all’inizio mi soggiogavano e mi facevano perdere tempo prezioso (tuttora, a portata di clic, c’è la perdizione). Insomma, ci ho messo anni per rendere davvero efficiente e interessante quella che una volta si chiamava “navigazione” su Internet. E questo smentisce il luogo comune che Internet sia facile come schiacciare un bottone: no, se schiacci un bottone per prima cosa escono quintali di melma che ti schizza dappertutto. Il setaccio di contenuti interessanti è una pratica difficile che si acquisisce con gli anni, è più complesso che imparare a guidare. Basta vedere cosa combinano gli adolescenti in rete: in teoria dovrebbero capire tutto alla svelta, in pratica finiscono subito impantanati in luoghi assurdi, e ci impiegano anni a trovarsi una posizione rispettabile, a costruirsi un profilo decente.

Con gli anni s’impara a tenersi lontani da certi luoghi come i commenti su youtube, i gruppi su Facebook… o i commenti di Repubblica.it, o del Corriere. Ma non è paradossale che la melma su Internet tenda ad addensarsi proprio intorno a siti informativi professionali? Immaginatevi il Corriere on line come un grattacielo in mezzo a una discarica: ecco, Gian Antonio Stella vede gli internauti da una finestra di quel grattacielo, e cosa volete che veda? Mostri subumani che inneggiano al ferimento di premier mediante souvenir, negatori di olocausti, odiatori di “negri”, insomma, brutta gente. Come spiegargli che quelli non sono tutti gli internauti… ma solo quelli che più spesso circolano intorno al Corriere? E perché proprio intorno al tuo giornale, è colpa della linea editoriale? No, assolutamente. È solo una questione di dimensioni: il grattacielo è un punto di riferimento nazionale, attira la massa, e in mezzo alla massa la suburra, i cospiratori, i mitomani.

Per contro in un piccolo sito come il mio, mantenere un discreto livello di discussione è relativamente semplice. Molto di rado negli ultimi anni mi è capitato di dover mettere i mattoidi alla porta. Merito mio? No, assolutamente, anche in questo caso è una questione di dimensioni. I mattoidi accorrono naturalmente verso i centri di traffico, sono attirati dalle celebrità. Non sono massa, ma si disseminano sempre nella massa. Nei piccoli blog che negli anni abbiamo selezionato con cura, i mattoidi non vengono: al limite passano di sbaglio se gli capita di scambiarci per qualcuno più importante di noi. Ma appena hanno capito che noi siamo pesci piccoli, ci lasciano nella nostra nicchia e se ne tornano in piazza a vandalizzare gli editoriali delle Grandi Firme coi loro commenti.

Così senza volere siamo riusciti a parlare del povero Tartaglia, che nemmeno aveva un profilo Facebook. Peccato, ci si sarebbe trovato bene. E forse iscrivendosi a qualche gruppo idiota gli sarebbe passata la voglia di realizzare le sue idiozie nel mondo vero. Perché Internet è anche questo: una valvola di sfogo per colletti bianchi che giocano a fare gli odiatori di negri, i negatori di olocausti, gli inneggiatori a Tartaglia. Sì, non è molto coraggioso da parte loro. Ma ognuno dovrebbe essere libero di gestirsi la sua melma come vuole, finché non schizza gli altri.

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Ma cos’è questa storia che non possiamo insultarvi su facebook?

Ieri Tortosa era fiero d’essere stato alle Diaz e lo avrebbe rifatto 1000 volte; appena Repubblica se n’è accorta ha fieramente cancellato il suo scritto su Facebook, (probabilmente lo cancellerebbe altre 1000 volte). Al telefono ha spiegato che era là ma non ha visto niente, non sa niente, è stato travisato. Finirà sotto inchiesta, una gran seccatura, e tutto questo perché? Ha solo scritto che loro poliziotti ci odiano perché non abbiamo la tuta e siamo radical chic. Ha scritto quel che pensa. È colpa sua se non ha capito che Facebook è un luogo pubblico, e che occorre riflettere prima di rovesciarvi scemenze da bar?

Non è una domanda retorica.

È la stessa che sollevava ieri Gramellini: in fin dei conti cosa ha fatto la povera Paola Saluzzi? Ha scritto che Alonso è un imbecille. Vabbe’, spiega Gramellini, “gli ha dato dell’imbecille su Twitter, non in tv“. È solo Twitter! Adesso non ci si può più dare dell’imbecille su Twitter? E Alonso osa prendersela? E Murdoch sospenderla? Ma mica per buona educazione, sapete, solo per “gli interessi economici”. Cioè al giorno d’oggi l’educazione serve anche a fare affari, signora mia. Ma davvero uno se la può prendere per un imbecille su Twitter?

Anche questa non è una domanda retorica.

Sono due domande sceme. No, non potete offendere chiunque in pubblico. No, se qualcuno se la prenderà non potrete sempre contare sulla solidarietà della vostra categoria. Ai vostri figli perlomeno lo stiamo insegnando: speriamo che a casa ve lo spieghino.

//platform.twitter.com/widgets.js(Ma non avevo dubbi, guarda).
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Non nutrite il Langone (se potete)

C’è una specie di tacita alleanza, tra chi come Camillo Langone ormai da anni non fa altro che spararle grosse, più grosse che può, e chi, all’ennesima sparata, proverà gusto a rispondergli: vergogna, Langone, che hai scritto? Che Samantha Cristoforetti invece di diventare astronauta doveva restare vicina al suo uomo? Ma vergognati, ma quanto sei retrogrado (e quanto sono io all’avanguardia se invece lo faccio notare… )

È un gioco delle parti, da molti praticato in buona fede. No, L. non è un retrogrado. Scrive su un giornale che ha anticipato di alcuni anni le dinamiche di Internet. Il Foglio era un blog di carta, prima che nascessero i blog: e sul Foglio, da troppi anni, Langone ci sta semplicemente trollando.

Dietro la sua maschera di viveur bigotto, c’è un tizio che si eccita in privato leggendo le vostre reazioni stizzite. Un po’ triste, a mio parere. Non ha mai scritto nulla che sappia davvero di cattolico al palato dell’intenditore; se qualche prete lo legge, lo fa per divertimento come dovreste fare voi. Credo sia l’ultimo al mondo a cui freghi davvero qualcosa dell’h del nome Samantha (un po’ fastidiosa, l’ammetto). Si nutre dei vostri contributi e della vostra rabbia: se i primi non c’è verso di interromperli, quest’ultima meriterebbe bersagli più sinceri.

D’altro canto capisco la tentazione: le spara così grosse. E se la intercetto io per primo, e rilancio a tono, poi tutti mi verranno a sollevare. Lo so, lo so come funziona. Non posso certo giudicarvi.

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Addio Friendfeed, mi piacevi

Facebook non ha inventato il tasto mi piace. Fu un altro social network a introdurlo nel 07, Friendfeed. Mai sentito parlare? Eppure è sempre stato più veloce, più semplice, elegante, e senza pubblicità. Infatti dopo due anni Facebook lo comprò, ne utilizzò il codice e poi lo abbandonò a vivacchiare su un server. Ff era così ben progettato che ha continuato a funzionare fino a venerdì, quando (dopo un mese di preavviso) l’ultimo dipendente che lo gestiva ha staccato la spina.

È stata un’agonia dolcissima. I suoi utenti – tra cui un’affezionata migliaia di italiani – gli sono stati vicini fino all’ultimo, celebrandolo addirittura con feste nella vita reale. Il trito rituale quotidiano con cui tutti consultiamo le solite pagine ogni mattina da 5 o 6 anni si è interrotto, e abbiamo ritrovato contatti persi di vista, rispolverato vecchie storie, conosciuto persino facce nuove. La morte migliore che un social network si possa augurare.

Friendfeed non esiste più, ma lascia ai suoi utenti un gran ricordo. Fino all’ultimo è rimasto una bella palestra, e non diventerà mai una copia disabitata di sé stesso, come MySpace o SecondLife. Forse tutti i social network andrebbero falciati ogni 5 anni. Non potendo cambiare casa, lavoro o città, sarebbe sano potersi lasciare alle spalle almeno la paginetta a cui diamo un’occhiata ogni mezz’ora. Perderemmo forse qualche contatto, qualche “amico”? Ma uscendo fuori a cercarlo, chissà quante cose nuove scopriremmo. Ciao Ff, mi sei piaciuto.

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Bisogna essere idioti (sull’internet)

“Toscana. O sei solo contento di vedermi?” 

Tra le varie ipotesi su come internet ci stia modificando – il che non è necessariamente un male, non è che prima fossimo proprio così belli o funzionali – mi domando se non sia già stata formulata quella dello Sbaglio consapevole e programmato. Magari qualcuno l’ha già messa in circolo con un nome migliore. Ma insomma mi riferisco a tutte quelle notizie, o dichiarazioni, o iniziative terribilmente sbagliate, comunicate magari in modo ancora più sbagliato, che proprio per questo attirano quella parte della nostra attenzione che si può misurare in clic, come la attira un incidente stradale o un bambino che scivola su una buccia di banana. Per fare un esempio di ieri: la Santanché dice una cosa razzista e vagamente complottara? In questo non c’è nulla di sbagliato, la Santanché ha un bacino di utenza razzista e vagamente complottaro. Qualche centinaia di migliaia di clic se li prende di sicuro.

Ma se la Santanché, dicendo una cosa razzista e vagamente complottara, scrive “autobus” al posto di “aeroplano”, i clic diventano milioni. C’è insomma intorno al bacino della Santanché un oceano di gente potenzialmente interessata alle cazzate che scrive la Santanché, ma che le noterà soltanto se la Santanché scrivendole commette un lapsus qualunque. Quindi il lapsus a un certo punto può fare la differenza. Se un fascista che scivola su una buccia di banana fa più clic del fascista che parla al balcone, non risulta così strano che i fascisti si mettano a cascare apposta sulle bucce di banana. Purtroppo non funziona così solo coi fascisti – la tentazione dello Sbaglio consapevole ci riguarda tutti, in un mondo in cui le bucce di banana fanno mille volte più accessi di un contenuto bello o interessante.

Un altro esempio freschissimo è il logo Expo della regione Toscana. I loghi, come è noto, fanno notizia soltanto quando sono brutti. Quelli belli diventano parte del paesaggio; dopo un po’ smettiamo di notarli, al punto che a volte le compagnie per attirare l’attenzione cedono alla tentazione di peggiorarli con qualche restyling. Stavolta però all’opera c’è un brutto talmente efficace, talmente due-punto-zero, da generare in me che lo guardo il sospetto di avere davanti uno Sbaglio consapevole: possibile che il grafico che ha messo assieme il rebus sia l’unica persona al mondo che non vede l’erezione di Pinocchio? Questa non è una buccia di banana, questa è un’immagine che sembra creata apposta per diventare virale sui social network. La gente riderà della trombetta pinocchiesca, la condividerà con gli amici, e il prodotto si guadagnerà tutta la visibilità che un bel logo non avrebbe mai ottenuto. Ecco.

La lotta per la sopravvivenza virale è appena iniziata. Cosa sarà di noi, di qui a qualche anno? Passerà la moda dei titoli trucidi o evasivi? Io già da qualche anno ho aumentato gli errori di battitura per indurre al clic almeno i grammarnazi. La gente in realtà legge di tutto, ma solo dopo aver cliccato; e clicca solo se intravede qualcosa di pazzesco o ridicolo. Bisogna essere pazzeschi o ridicoli. E il guaio è che non lo puoi programmare, perché la gente se ne accorge se lo fai apposta: dev’essere una cosa spontanea. Devi essere te stesso e te stesso dev’essere un imbecille. Io magari partivo avvantaggiato ma è stato una vita fa. È dura, sempre più dura; e io temo davvero di non essere imbecille abbastanza.

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La mia amica Timeline (non me la canta giusta)

Senza i tuoi capricci che farei? 

Ci sono stati giorni d’odio, ci sono state mezz’ore d’amore. Mesi, soprattutto, di reciproca indifferenza. Poi siamo invecchiati assieme e ormai se penso a lei penso soprattutto a un’amica, talvolta bizzarra ma tutto sommato affidabile. A volte ho il sospetto che parli male di me alle mie spalle, ma non potrei evitarlo – e poi forse a volte me lo merito. Perciò sì, in linea di massima le voglio bene, alla mia amica Timeline.

Se non ci fosse lei, certe cose le imparerei per ultimo. Non ci fosse lei, certe risate proprio non me le farei. A volte penso che sia un po’ troppo sofisticata per me. Altre volte troppo frivola, ma è anche colpa mia se me la sono cresciuta così, e poi se passa qualcosa di interessante in tv lei mi avverte in tempo reale. Davvero preferirei che mi disturbasse con gli ultimi sviluppi della politica internazionale?

A volte le invidio la vitalità, la voglia di scherzarci sopra sempre e comunque. Altre volte la stessa vitalità mi infastidisce – voglio dire, non è che devi sempre fare la battuta su qualunque cosa. A volte se non ci fosse mi mancherebbe. Altre volte è Sanremo. Una cosa che se chiedo in giro a scuola, o tra i coetanei boh, sembra non interessi più a nessuno. E questo un po’ mi dispiace, non so perché; al punto da trovare consolante il fatto che se ne preoccupi la mia amica Timeline. Perché a lei miracolosamente Sanremo interessa ancora.

Non dirò che le piace, anzi – non le va mai bene. Se lo fa la Clerici è troppo trucido, se lo fa Fazio troppo intellettuale, se lo fa Conti era meglio Fazio, eccetera. Ma almeno lo guarda, non se lo perde mai. E a me importa che qualcuno lo guardi. Possibilmente in un’altra stanza rispetto a quella dove sto io, com’è sempre stato credo dall’Ottantacinque. Alla fine è una vecchia zia, la mia amica Timeline.

Lo si capisce dopo un paio d’ore di battute sagacissime, dopo che ha demolito il presentatore e le vallette e com’erano vestite loro e com’era abbronzato lui. Lo si capisce quando arrivano Albano e Romina, e lei senza vergogna si mette a cantare come fosse l’Ottantacinque, la mia amica raffinata e incontentabile, la mia cara Timeline.

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Di altre cose finite nel 2014

…dicevo, nel 2014 sono cambiate tante cose. Si tratta per la maggior parte di cose che prima c’erano e poi sono finite. Per prima è sparita la viralità gratis. Poi sono finiti i soldi.

Gazzetta di Modena (Avevo scritto che il 2014 era stato
un anno senza alluvioni? Mi sbagliavo).

Due contratti

Di soldi non ne abbiamo mai parlato. La scusa ufficiale (troppo pochi per essere interessanti) celava un’ambizione: ci si aspettava che aumentassero. E stavano aumentando – lentamente ma gradualmente – a fine 2013, con tre-quattro contratti e due pezzi pagati alla settimana, qualcosina si metteva da parte. Non mi sembrava un modello da proporre in giro, ma in qualche modo funzionava. Nel 2014 ha smesso.

In primavera Liquida ha deciso di sospendere la sua sponsorizzazione, molto generosa. In effetti mi pagava le stesse (identiche) inserzioni di Google, molto, molto più di quanto mi corrispondesse Google. Non ho mai capito perché lo facesse, sospettavo per mecenatismo e preferivo non domandare. In ogni caso, non poteva durare all’infinito, per cui arrivederci Liquida e grazie per tutto il pesce. Ah, e poi come sapete ha chiuso l’Unità. Anche l’Unità on line, decisione a mio avviso molto discutibile. Comunque lo hanno chiuso e ora lo posso dire: sì, mi pagavano.

Non proprio puntualmente, no – ma mi pare che sia la regola anche per i gruppi editoriali che hanno meno problemi. Ero il primo a stupirmene, di solito in questi giorni dell’anno: quando arrivavano quei due o tre bonifici ormai dati per persi. Il fatto è che quando avevo iniziato, nel 2009, la figura del blogger che scrive gratis sul sito del quotidiano ancora non esisteva. Fu il Fatto quotidiano a cominciare in grande stile nei mesi successivi; poi arrivò l’Huffington e da lì in poi l’idea di pagare un blogger diventò un nonsense. Ma io ero arrivato un po’ prima, per un pelo! avevo sparato una cifra bassa, me l’avevano ritoccata ulteriormente, e poi non se n’era più parlato. Nel frattempo c’era la crisi che sapete, per cui non è che mi facessi illusioni; quando chiusero la sede regionale per esempio mi dissi: ci siamo, tra un po’ mi scriveranno che non si possono più permettere ecc. ecc. e che posso sempre collaborare con loro su base volontaria. Non mi hanno mai scritto, e ogni tanto mandavano i bonifici. Quando dichiaravo i redditi davo un’occhiata, i conti tornavano sempre.

In coscienza non credo di aver affossato l’Unità, o scialato soldi pubblici. Mi sono dato da fare, ho portato un po’ di traffico e di discussione sul sito, una volta alla settimana per quattro anni filati – ho saltato soltanto la settimana che sono diventato papà, ma credo di averla recuperata. Mi dispiace se nel frattempo qualcun altro si faceva un mazzo uguale gratis. Mi dispiace soprattutto per chi ci lavorava a tempo pieno e a un certo punto si è ritrovato a bordo di un progetto in cui nessuno stava più investendo, e ha continuato a lavorarci anche mesi dopo l’ultimo stipendio. Io grazie al cielo nella vita faccio altro e davvero, giornalisti e redattori in questo periodo non li invidio.

Comunque da agosto in poi il blog ha quasi smesso di pubblicare pezzi pagati, non so se i lettori se ne siano resi conto. Siamo tornati nel quasi puro dilettantismo, con tutto quello che ciò implica nel 2014. Cosa implica? Non saprei. Pubblicare un po’ meno, probabilmente. All’inizio invece ho provato a pubblicare di più.

Ci manki.

La parola dell’anno è clickbait

L’anno scorso era “selfie”. La parola che all’inizio dell’anno nessuno sa, ma già ne avverte l’esigenza. Il clickbait esiste da quando esiste il www, ma non ci aveva mai dato tanto fastidio. Da quando Facebook è diventata l’edicola unica, ha cominciato a urtarci realmente. Quel che preoccupa è che, a parte le derive grottesche e in fin dei conti divertenti di Beppegrillo, nessuno sembra in grado di farne a meno: siamo tutti in prima fila a gridare più forte i nostri contenuti sperando in quei cento o mille clic in più. In agosto ho fatto un piccolo esperimento.

C’era vita sulla luna (nel 1835, perlomeno).

L’idea era spremere più attenzione possibile dai social network, mettendo a frutto tutte le (cattive) tecniche imparate su Beppegrillo e compagnia. Agosto era perfetto anche perché di solito non succede mai niente, ma da qualche anno a questa parte la gente si connette comunque e ha più tempo per mettersi a leggere qualcosa che non sia la solita campagna virale o le notizie sul meteo. In agosto di solito gli accessi a questo sito si contraevano fino a dimezzarsi; nel 2014 è stato il mese che ha attirato più visitatori. Al di là dei vari trucchetti che hanno irritato molti lettori abituali (i titolacci, la grafica orrenda, le liste ecc.) l’idea di lavorare quando gli altri chiudono mi sembra buona. Anche perché quando gli altri lavorano lavoro anch’io.


La fine di un’epoca (di transizione)

Altre cose finite: l’antiberlusconismo. Un po’ prima di Berlusconi, temo. E non è ancora detta l’ultima. Poi è finito il M5S, o almeno la sua fase eroica. In generale, credo che sia finita un’epoca molto interessante: quei tre anni in cui ci siamo resi conto che B. vacillava sul serio e ci siamo domandati chi ne avrebbe preso il posto. Abbiamo avuto speranze, abbiamo avuto paura, abbiamo letto tante cose e ne abbiamo scritte tante altre. Adesso c’è Renzi, e per quanto sia un formidabile spunto, non richiama la stessa attenzione. In teoria la situazione attuale dovrebbe essere perfetta per un blog del genere: tra Renzi Grillo e Berlusconi Salvini, ogni mattina non dovrebbe essere difficile trovare uno spunto per dare addosso a uno dei tre. In realtà la sensazione è che una certa fase epica sia finita, che finalmente un certo equilibrio sia stato raggiunto, e che molti si siano distratti; che sotto la buccia degli addetti ai lavori, che litigano per mestiere o inclinazione, ci sia una larghissima fetta di lettori annoiati che di questa roba non ne può più. C’è davvero necessità di un altro pezzo sulle purghe nel M5S, o sui voltafaccia di Salvini? Che senso ha infierire? Bisognerebbe essere più antigovernativi ma controllare di non dire le stesse cose che sta dicendo Grillo o il Giornale, è complicato. Io su Renzi avevo molti pregiudizi ma sarei stato contento se fosse riuscito a smentirli. Fin qui non è proprio andata così. Adesso ci sarà la corsa al Quirinale, vedo i giornalisti molto eccitati – io ho già la nausea. Magari tra due mesi succede la Grecia ci fa uno scherzo o succede qualcos’altro di imprevisto e diventa di nuovo interessante discutere di politica interna – a proposito, in questi tre anni la politica estera l’abbiamo tutti colpevolmente snobbata, con qualche soprassalto perlopiù causato da bombardamenti in Palestina. Credo che a rileggermi col senno del poi – una cosa che per fortuna non avrò mai tempo per fare – farò l’effetto di una persona eccezionalmente miope, tutta concentrata su quello che gli succedeva nell’orto di casa, mentre a Hong Kong si fronteggiavano democrazia e totalitarismo, la NSA ci spiava, Google cominciava a produrre droni, eccetera eccetera. Questa miopia la rivendico: sono un tizio che non ci ha mai visto molto lontano, e che preferisce dare un contributo ai piccoli discorsi che capisce. Non sono un futurologo, non capisco molto di economia (beati voi che invece), mi piace scrivere dei fatti miei e di qualche milione di persone con cui condivido la lingua. Niente di interessante, vi avevo mai fatto credere il contrario? Vi chiedo scusa, e vi capisco se passate di meno. Capita persino a me.

Tempo

A settembre è finito anche il tempo. Non saprei dire il perché, ma mi sembra di averne sempre di meno. Non ho cambiato professione, non ho figliato ulteriormente, non ho trovato un nuovo hobby, non ho un amante. Mi addormento prima, semplicemente. Questo era un blog che si metteva assieme soprattutto in una fascia dall’una alle tre di notte che non esiste quasi più. Meno tempo significa meno pezzi, il che non è necessariamente un male. Diventa sempre più difficile pianificarne le uscite, e questo rende più difficile scrivere i pezzi sui santi – ce ne sono ancora di interessanti, ma ci vuole un tempo per prepararli che non c’è più. Un’altra cosa da fare sarebbe riscriverli bene – ci trovo strafalcioni e ripetizioni ogni volta che li rileggo. Diciamolo, ho passato due o tre anni a scrivere come un ossesso e non riuscivo più a correggermi. Un obiettivo per il 2015 potrebbe essere: scrivere meno scrivere meglio.

(Ma vi rendete conto che tra dieci anni è il 2025? Brividi).

autoreferenziali, blog, internet

La sola edicola in città (non funziona)

Consuntivo 2014, forse

Abbiamo avuto tutti un anno difficile.

http://www.linkiesta.it/fine-discoteche-italiane

Io non dovrei nemmeno lamentarmi – un anno senza inondazioni e terremoti, buttalo via – ma la situazione in generale mi sembra abbastanza grigia, anche e soprattutto nel www. Tanto che mi domando se abbia davvero un senso venire qui a cercare di spiegare e spiegarmi perché gli accessi sono un po’ scesi, e come intendo reagire al problema ecc. ecc. ecc. – come se questo sito fosse l’unico al mondo che non riesce più ad attirare l’attenzione. Come se non fosse fisiologico, e tutto sommato giusto, che aumentando il bacino di lettori non aumenti anche la possibilità di trovare qualcosa di meglio. Come se non avessi anch’io tante cose più interessanti e importanti da fare.

Comunque. Vi è sembrato volare, il 2014? Quaggiù non è volato affatto. Uno di quegli anni in cui sembra che non cambi niente e invece è cambiato tutto. Molte cose in peggio, ok. Ma concentriamoci sul cambiamento. È pur bello cambiare.

Zoccolo e picchi.
Il primo cambiamento che si è fatto notare nel 2014 è quella che mi piacerebbe chiamare la fine della viralità facile – ma poi mi toccherebbe comunque prendere una mezza dozzina di righe per spiegare cosa intendo. Mettiamola così: il pubblico di un sito come questo si divide in zoccolo e in picchi. Lo zoccolo è fatto di quelli che vengono sempre, con cadenza quotidiana o settimanale. Lo zoccolo è il privilegio e il vanto di un sito storico come questo (14 anni, signori); è cresciuto con alterne vicende fino al 2009 e da allora è sempre sceso, sempre. Vi chiederete come fa un bacino a scendere per sei sette anni senza toccare mai lo zero, ebbene, sono il primo a stupirmene.

L’altra componente sono i picchi. Quelli che arrivano soltanto quando un pezzo diventa virale – cioè attira l’attenzione su facebook, dato che da diversi anni, ormai, la viralità dipende unicamente da facebook. Twitter, quando si arriva ai grandi numeri, sta a Facebook come il ciaocrem alla nutella, mi dispiace. Non ho mai voluto molto bene a Zuckerberg e alla sua creatura, ma ormai l’unica edicola aperta in città è la sua, e mi tocca pure sgomitare per ottenere un posto sull’espositore. In ogni caso, nel 2013 era bastato comparire nell’edicola con assiduità per aumentare, a fine anno, il numero totale degli accessi. Un classico esempio di dead cat bounce (= “Anche i gatti morti precipitando rimbalzano”) – in ogni caso l’effetto è già finito. Ma è finito perché, sin dai primi mesi del 2014, non c’è stato più modo di diventare virali su facebook. Un ritocco all’algoritmo, o forse sono diventato più noioso, fatto sta che anche questa pacchia è finita. Il pezzo più letto dell’anno scorso aveva raccattato diecimila clic in un paio di giorni (per arrivare a ventimila nel giro di qualche mese). Quest’anno  più di quattromila non si facevano, non c’era verso. È sufficiente confrontare le due campagne elettorali, entrambe molto discusse, che portavano un sacco di lettori infervorati a discutere nei commenti: quest’anno mi sembra di averla seguita con più assiduità, portando a casa molto meno.

L’unica edicola in città…
Nel frattempo – forse per autosuggestione – facebook mi sembra diventata molto più caotica. Non c’è più verso di ritrovare l’unica cosa tra cento che ripensandoci ti interessava. Forse ho troppi amici, forse troppo pochi, chi lo sa – resta impressionante la quantità di minestra riscaldata che Zuck mi propina al posto dei contenuti interessanti che mi perdo ogni giorno, accorgendomene magari una settimana dopo. È terribile vivere in un posto dove esiste una sola edicola e non ci trovi mai quello che interessa – almeno in questo Internet non avrebbe dovuto somigliare a San Martino Secchia. Che fare?

(I cinque post più letti del 2014. Il terzo è del 2012).

  1. La scuola dell’amore (non passerà!)
  2. Palla al centro, Cinquestelle
  3. 5 cose che nessuno sa di Dalla, forse
  4. Ma ci sarà un correttore a Torino
  5. L’esplosione controllata di Grillo

Prima o poi ci stancheremo di FB – ci siamo stancati di tutto – e troveremo qualcos’altro che all’inizio funzionerà bene e poi sempre peggio ma comunque avrà attirato così tanti utenti che resterà comunque per un pezzo il posto più interessante e divertente. Funziona sempre così – dove sono le discoteche della nostra adolescenza? Ci sembravano eterne, e invece – il problema è che disfarsi da Facebook sarà oggettivamente più difficile. Ci abbiamo rovesciato troppa vita dentro, e senz’altro Zuck non ce la restituirà. Non gratis. È un po’ il problema dei tatuaggi.

A me non piacciono i tatuaggi. Sono una persona costituzionalmente incerta, tendo a pensare al me stesso del futuro come a un estraneo che avrà senz’altro gusti diversi dai miei, a cui devo consegnare il mio corpo nella condizione il più possibile ottimale, e quindi trovo stupidi i tatuaggi. Non vedo l’ora che passino di moda. Il problema è che il tatuaggio non è un anellino qualsiasi. Non passa di moda per definizione. Chi si fa un tatuaggio a vent’anni potrebbe trovarlo disgustoso a ventuno – ma non lo farà. Cristallizzerà il suo gusto al tempo in cui gli piacevano i teschi o i font esotici. Svilupperà milioni di teorie – una per ogni giorno in cui si vede il collo tatuato allo specchio – per spiegarsi come mai quella macchia sul collo è interessante a dispetto di ogni ragionevole estetica. Farà il possibile e l’impossibile per autoconvincersi che i tatuaggi sono belli e probabilmente riuscirà a convincere qualcuno più giovane di lui a replicare il suo errore all’infinito. Intere civiltà del passato sono discese in questo abisso.

Mi chiedo se Facebook non sia un po’ la stessa cosa. Vedo un sacco di gente buttarci dentro la loro vita, indifferenti al fatto che sia una lavagna indelebile, e di proprietà altrui. Poi si lamentano se Zuck per augurargli il buon Natale gli risputa la foto della figlia morta – hai regalato le tue foto all’unico edicolante in città, che t’aspettavi? C’è gente che ha chiuso i blog – per carità, li capisco – e poi scrive cose intelligenti su facebook, ma perché lo fate? Davvero avete tanta intelligenza da regalarla gratis agli incroci delle strade, come la Sapienza dei Proverbi? Non vi interessa più tenerla in archivio, volete lasciarla tutta a Zuckerberg?
E se un giorno ve la cancella?
O se un giorno voleste cancellarvi voi?
Vi state tatuando facebook sul collo, rendetevi conto.

(Il consuntivo prosegue un’altra volta perché sono andato fuori tema)

internet, privacy, scuola

Zuckerberg è triste xke’ vuoi le foto indietro

http://www.ilpost.it/2014/12/02/messaggio-privacy-bufala-facebook/

Un’altra cosa che dovremmo fare a scuola è prevenzione del cyberbullismo, un nome sofisticato e respingente che sta a significare che se lasci il tuo telefono in tasca senza pin, il tuo compagno se lo porterà in bagno, scaricherà tutti i tuoi selfie, venderà le pose migliori a una webagency che cerca foto acqua e sapone per reclamizzare cure omeopatiche antibrufoli e posterà le più piccanti su un pedoforum. No, non lo farà.

Ma potrebbe.

Ma in realtà non c’è nemmeno bisogno, perché in un’altra scuola qualche anno fa – forse avete già visto il film – un ragazzo un po’ più sfigato degli altri ha pensato: sfilare i telefoni dalle tasche delle ragazze è troppo sbatti, sai che farò? Le convincerò a mandarmi le foto direttamente a casa, su un sito molto cool che aprirò. Prima dovranno sottoscrivere un contratto lunghiiiiiiissimo e illeggibile in cui c’è scritto che qualsiasi cosa mi mandano diventa mio, e posso farne ciò che voglio, e anche dei loro figli e dei figli dei loro figli fino alla settima generazione. No.

Ma potrei farlo.
E loro lo sottoscriverebbero lo stesso.
Basta premere “OK”.

Quel sito – lo sanno tutti – è diventato Facebook, lo sfigato si chiama Zuckerberg e adesso è miliardario. Quindi non si tratta tanto di andarsi a leggere il contratto – ché lo cambiano in continuazione, e noi ogni volta premiamo “OK” e non lo leggiamo mai – ma di assorbire il concetto: quella non è l’Internet liberata di cui si parlava fino a qualche anno fa, quello è il sito di Zuckerberg: e sta ben tranquillo che anche se Zuckerberg tiene in un posticino ventilato su un server tutte le foto del battesimo di tua nipote senza farti pagare un cent, questo non fa di lui un benefattore dell’umanità. Questo fa di lui, semplicemente il tizio che possiede le foto del battesimo di tua nipote. Tu le hai scattate, tu gliele hai regalate, lui le possiede. Tutte le volte che le vuoi vedere, lui è così gentile da mostrartele nello stesso ordine in cui gliele hai mandate tu: è una gran concessione che ti fa. Ma se un giorno volesse venderne una a un pubblicitario che cerca un testimonial per un omogeneizzato, o a un artista concettuale che vuole creare un enorme gallery di bambini brutti, lui… lui probabilmente non lo farebbe.

Ma potrebbe.

Forse sta scritto nel contratto che hai sottoscritto. Forse no, ma potrebbe riscriverlo domani e passarti una notifica nell’angolino: “Ehi, ho cambiato le norme sulla privacy, me le sottoscrivi? Mi raccomando, eh, leggile”. E tu premerai OK. Ci fosse scritto “Cedo il mio primogenito”, tu premeresti OK lo stesso (è successo), perché vai di fretta e vuoi solo sapere come stanno i tuoi amici e se X si è accorto che ti sei ricordato del suo compleanno.

Allora noi a scuola questa cosa stiamo cominciando a spiegarla, nella speranza che poi i ragazzi vadano a casa e la spieghino a voi genitori che francamente a volte fate cadere le braccia. No, non sto dicendo di te. No, nemmeno di te. Ma li avrete visti anche voi quelli che l’altro giorno postavano il seguente messaggio:

A causa del fatto che Facebook ha scelto di includere un software che permette il furto di informazioni personali, dichiaro quanto segue: oggi, giorno 25 novembre 2014, in risposta alle nuove linee guida di Facebook e articoli l. 111, 112 e 113 del Codice della proprietà intellettuale, dichiaro che, i miei diritti sono associati a tutte le mie informazioni personali, dipinti, disegni, fotografie, testi, ecc… postati sul mio profilo. Per l’uso commerciale di quanto sopra, è necessario il mio consenso per iscritto in qualsiasi momento.

E blablablà. E guardate che non erano ragazzini. Io tra gli altri ho intravisto un professore universitario. Pure lui evidentemente non ha mai dato tanta importanza al contratto che ha sottoscritto per accedere a Facebook; pure lui ha copincollato “articoli 111, 112 e 113 del Codice della proprietà intellettuale” senza perder tempo a chiedersi se tale Codice in Italia esista (non esiste); anche lui, dall’improvviso ha sentito la necessità di reclamare dei “diritti” sulle “informazioni personali, dipinti, disegni, fotografie, testi, ecc…” che per anni ha regalato a Zuckerberg; e ci ha fatto sapere che da questo momento in poi Zuckerberg per usare la roba sua sul suo server dovrà chiedergli il suo “consenso per iscritto”, nientemeno.

Immaginatevi la disperazione, in quel momento, sul volto di Zuckerberg.

Inconsolabile.

Ma come, dopo tutte le foto di bambini e i video di gatti che abbiamo condiviso, mi lasci così? È davvero molto triste. E dici che adesso io non posso più sfogliare il book di tua figlia e vendere gli scatti migliori a una webagency che cerca foto acqua e sapone per reclamizzare i servizi di prostitute di prossimità? No, dai, scherzo, non lo farei mai.

Ma sul serio, credi che non posso?

Beppe Grillo, internet, Renzi

Il renzismo è un robot di cartapesta

Il controleffe nel pidieffe.

Il buffo è che chi è giovane davvero, la battuta dell’iphone a gettone non la capisce. Provate a pensare all’ultima volta che avete usato un telefono a gettoni – a me è successo nel 1999, credo, ed ero tra gli ultimi. Chi ha quindici, diciotto anni, questa cosa del gettone la impara soltanto se ha genitori che a cena lo intrattengono con le interessantissime usanze del tempo che fu – quello che per me era il paiolo di rame per la polenta – e un politico che mi avesse fatto una metafora del tipo “è come ficcare un big mac in un paiolo per la polenta” non lo avrei trovato così giovane, ecco.

Per i renziani le nuove tecnologie (oddio, nuove, la chiavetta usb ormai è roba da truzzi) prima ancora che strumenti che ci miglioreranno la vita, sono tic linguistici. Domenica dall’Annunziata una referente renziana all’innovazione scolastica, una che temo abbia intenzione di riempire le classi di tablet, si esprimeva così: per dire “cercate nel documento se c’è un riferimento all’articolo 18” diceva “fate controleffe sul pidieffe”. Poi deve aver pensato che i suoi interlocutori fossero di un secolo diverso (anche se all’anagrafe risultavano più giovani di lei), e pazientemente si è messa a spiegare che “pidieffe” è uguale a documento e “controleffe” è uguale a cercare. Che è una cosa che mi è capitato di fare centinaia di volte in vita mia (anche coi sindacalisti, esatto), per cui un po’ la capisco: in realtà mi ci ritrovo abbastanza, nella situazione esistenziale del renziano medio. Un trenta-e-qualcosa che ha passato metà carriera ad atteggiarsi a guru dell’hi-tech semplicemente perché nel suo ufficio era il più giovane ed era l’unico che sapeva riavviare il router pigiando un bottone (era anche l’unico a sapere che si chiamasse “router”), e questa cosa gli è rimasta attaccata dentro: ora però i vecchi colleghi stanno andando in pensione, e ai giovani che arrivano tocca sorbirsi le chiacchiere di ‘sto tizio che è convinto di saperne di router e di amministrazione di rete, quando al massimo sapeva pigiare un bottone. E magari usa ancora le chiavette, santiddio, quelle cose tossiche che usano i vecchi per scambiarsi i filmini, i vecchi che non sanno aprirsi un account su dropbox.

Alla fine l’approccio dei renziani alle nuove tecnologie non sembra molto diverso da quello dei grillini – è solo un po’ stemperato. Sia gli uni che gli altri cantano le magnifiche sorti progressive di strumenti che in realtà non è che conoscano così bene. Grillo è più immaginifico, è già alla stampante 3d domestica. Il renziano è più moderato – così moderato che a volte non si rende conto di essere rimasto un po’ indietro, ancora parla di chiavette e pdf. Entrambi, più o meno nello stesso periodo, promisero che avrebbero varato incredibili piattaforme per la condivisione dei programmi politici: la fantomatica piattaforma grillina, e il wikiprogramma solennemente annunciato tre Leopolde fa. Se la piattaforma si è rivelata, alla prova dei fatti, un’app abbastanza deludente, il wikiprogramma non è proprio mai esistito; a meno che per wikiprogramma non si intendesse una pagina web con sotto il box dei commenti – ma d’altro canto, da gente che usa le chiavette nel 2014, cosa ti puoi aspettare? Poi c’era quella storia dei finanziatori on line, che per un bel pezzo non si è riuscito a mettere on line, ecc.

La generazione che trova più sexy pronunciare “controleffe sul pidieffe” invece che “cerca nel documento”, coltiva per la rete un feticismo che i più giovani troveranno più difficile da spiegare delle fessure nei telefoni a gettoni, o della passione dei nonni per la polenta. Gente che passava ore a inventare un hashtag, o a criticare gli hashtag degli altri, gente la cui più alta aspirazione era diventare trending topic. Tutta questa roba era un po’ come l’armatura dei robot positronici nei vecchi film in bianco e nero: cartapesta. Dentro c’era un nano che azionava gli arti. Anche il renzismo, se smonti tutto l’incarto a base di iphone e hashtag, ci trovi un nanetto molto indaffarato che le elezioni le vince andando la domenica a Canale5 a promettere cose a Barbara D’Urso. Come se fosse il 1999, di nuovo, e per telefonare a quella ragazza mi stessi frugando nelle tasche, non per estrarne l’alcatel esausto, ma almeno una moneta da cinquecento lire – e sotto lo squarcio di una tasca trovassi nell’imbottitura del cappotto, miracolo, un vecchio gettone telefonico.

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autoreferenziali, blog, internet, Leonardo sells out

I dieci peggiori blog d’opinione d’Italia

Macchianera Italian Awards 2014: NominationMacchianera Italian Awards 2014: Nomination30 agosto 2008un oscuro blog dell’epoca arcaica fa incetta di nomination ai Macchianera Blog Awards, come si chiamavano a quel tempo. Sei anni dopo, c’è ancora qualcuno che lo vota, a dispetto di ogni buon senso e logica commerciale. 

Ciao, siete meravigliosi. Volevo ringraziare tutti gli affezionati lettori e in particolare le batterie di scimpanzé che Gianluca Neri evidentemente mantiene in cattività in un ambiente cablato (probabilmente spera che scrivano l’Amleto o magari qualcosa di meglio) e che anno dopo anno, quando si tratta di votare per i MIA, continuano a spuntare la voce “leonardo”, probabilmente per inerzia. Anche quest’anno sono in lizza per il “miglior post” – mai meno meritato – e per il “miglior blog di opinione”, inserito in un mazzo di avversari che mi polverizzeranno. Ve li presento qui di seguito, con un’avvertenza: STO SCHERZANDO. In realtà li stimo tutti molto. No, perché c’è chi si è bevuto la storia del critico musicale e quella della Gioconda falsa, e insomma non si mettono mai abbastanza mani avanti.

Dice che si è spento ieri sera alle 21 e 50.

Licenza Politica (www.licenzapolitica.it)

Licenza Politica è (apre la pagina) un “blog controcorrente, dall’anima liberale, liberista e libertaria”: complimenti, mi sei già salita sulle palle col sottotitolo. E insomma sarà da vent’anni che sfracassate con la trimurti liberali-liberisti-libertari e ogni volta mi verrebbe da chiedervi: ma perché “libertini” no? Cosa v’hanno fatto i libertini, eh? Eh? Restif de la Bretonne non è forse degno di entrare nella vostra accolita di liberti liberati battenti bandiera liberiana? La notizia in homepage è che Stalin è morto. Giuro. No, è un effetto dei layout con le foto immense. Allora io posso anche sbagliarmi, dopotutto sono in giro solo da un milione di anni, però più grosse ci mettete le foto, più piccole sembrano le vostre opinioni. La più recente è sul fallimento dell’Unità, che sarebbe un “fallimento di mercato”. Uhm, se ne può discut– NO. Che altro c’è? Un endorsement a Forza Italia perché a inizio luglio devono aver aperto alle coppie gay – me n’ero già dimenticato, per fortuna che c’è Licenza Politica che va controcorrente e mi ricorda queste verità scomode. “Quindi, chapeau Francesca e chapeau Cav. Se questo è il nuovo inizio di Forza Italia, forse la vera rivoluzione liberale non è ancora perduta“. Qualcuno ha visto la salma di Gobetti di recente? Mi saprebbe dire quante rotazioni riesce a compiere nel minuto-secondo? No perché io ho questa idea che se riuscissimo ad attaccare una dinamo alla salma di Gobetti avremmo risolto il fabbisogno energetico di una popolosa provincia italiana. È pur vero che le hanno abolite. E poi lui è al Père-Lachaise direi. E coi francesi non si ragiona, loro hanno il nucleare da rivenderci. Les salauds. Stavamo dicendo?

Byoblu (www.byoblu.com)

Ora se ne va in giro per le capitali europee a spese nostre, ma c’è stato un periodo, ve lo giuro, in cui Claudio Messora sembrava più sfigato di me. Lo so che appare impossibile. Ricordo quando l’ho visto per la prima volta risalire le classifiche, e mi domandavo: ma chi è questo sconosciuto, ma cosa fa nella vita a parte dire di aver vinto il festival di Castrocaro? Niente. Aveva scoperto i blog (nel 2007, quando erano già stati dati per morti cinque o sei volte) e aveva mollato tutto per mettere su un videoblog. Pazzo! Avrei voluto dirglielo in faccia. Folle sconsiderato, torna subito a fare il compositore “con all’attivo molti dischi venduti in numerosi paesi del mondo”, o il “Project Manager e Amministratore Delegato in start-up di innovazione tecnologica”, qualunque cosa, ma lascia queste acque melmose. Non hai capito che uno su mille ce la fa, ed è comunque Beppe Grillo? Non so se fosse già infeudato con la Casaleggio. So che non se la passava bene e non ne faceva mistero:

Quanto tempo dedichi al blog? Per lungo tempo ho passato anche 2 o 3 giorni senza dormire. Questo è un videoblog e, a parte adesso che sto lavorando al Documentario INTERNET FOR GIULIANI, l’editing video, tra la registrazione, il montaggio, la conversione e via dicendo, è un lavoro massacrante. […] Quindi la risposta finale è: 24 ore al giorno. Ma solo perché non ce ne sono di più.
Vedo che hai anche pubblicità nel blog e … quanto ti rende? Domanda ambigua cui, per i motivi che spiegavo prima, non credo di essere costretto a rispondere. Però, siccome non ho nulla da temere, ti allego questa immagine, uno screenshot delle entrate AdSense di oggi: click per scaricare. Potrai e potrete constatare che l’incasso di oggi, per il momento (ma la giornata volge al termine) ammonta a € 5,22, di cui €1,78 da proventi dei banner sul blog, e €3,44 da proventi dei banner sui video di YouTube. Non mi sembra una gran fortuna, soprattutto considerato che solo il server (macchina dedicata su Aruba) costa 1600€ all’anno, altri 1000€ se ne vanno per la connessione domestica alla rete, altri 240€ per quella mobile (se mi sposto, devo lavorare), 1500€ costa la videocamera, 500€ tra luci e cose varie, 600€ di microfoni, 2000€ tra Adobe Premiere e vari altri softare di montaggio video, un qualsiasi spostamento per raggiungere un evento o una persona da intervistare significa altre centinaia di euro, più altre spese che sto tralasciando. In più devi considerare che questo è il mio lavoro – non posso e non ho tempo di farne un altro, per cui ho smesso di fare l’informatico, che mi faceva guadagnare bene – per cui oltre alle spese vive dovrei anche riuscire a guadagnare per pagare il mutuo, la macchina, la scuola di mio figlio, la spese, le bollette, l’amministrazione del condominio e… devo continuare? 🙂

Era una domanda retorica, vero? No, cristiddio, non devi continuare. Ti sei pure fatto lo spazio su Aruba, seicento euro di microfoni, sei matto da legare. Hai un figlio, una macchina, un mutuo, le spese condominiali, qualcuno faccia qualcosa. Ero veramente preoccupato.
Adesso non sono più così preoccupato. So che di recente ha lasciato il ruolo di responsabile della comunicazione del Gruppo Parlamentare del M5S al Senato della Repubblica per assumere il ruolo di responsabile della comunicazione del M5S al Parlamento Europeo. Insomma direi che alla fine i microfoni li ha ampiamente ammortizzati.

Il cuore del mondo (blog.ilgiornale.it/foa/)
Marcello Foa ha un blog d’opinione. Lo sapevate? Io non sapevo nemmeno che avesse delle opinioni. Sono un po’ in imbarazzo perché è del Giornale e quindi dovrebbe essere facile spernacchiarlo; e invece il layout è elegante, il tono è amabile (né compagnone né snob), e ho già letto cinque post senza trovare una vera cazzata. Le origini qataresche dell’ISIS. Dubbi sul disastro aereo in Ucraina. Risate per l’inglese di Renzi. Complimenti alla Merkel che bacchetta Obama sull’NSA. Cosa diamine sta succedendo? Se avessi Marcello Foa nei miei feed, rischierei fortemente di confonderlo con Gilioli e viceversa. Bisogna fare qualcosa. Ripristinare le distanze. Mi tocca scrivere “Berlusconi” e premere il tasto cerca. Scopro che è ancora un martire della magistratura e delle “lobby finanziarie europeiste”. Whew .

Qualcosa di Sinistra (www.qualcosadisinistra.it)

Ma siete sicuri? Con appena quattro fotoritratti di Berlinguer in homepage, dico, siete davvero sicuri di essere Qualcosa di Sinistra? Io nel dubbio ne aggiungerei almeno un altro paio, dai. Dopotutto che gusto c’è ad avere un layout a quattro colonne, se non puoi infilarci qualche altra foto di Berlinguer sorridente. Di questo ha bisogno non solo la sinistra, ma il mondo in generale: non dell’amore, ma di FOTTUTI FOTORITRATTI DI ENRICO BERLINGUER. E allora sapete che vi dico? Il mio è più grosso. Intendo naturalmente il mio fotoritratto di Enrico Berlinguer.

Libernazione (www.libernazione.it)

Libernazione è una pregevole webzine di opinioni pret-à-épater l’anima de staminchia, che si tiene a galla lanciando su facebook acchiappaclic virali che sfruttano il dirompente effetto liberatorio del predicato verbale preferito da grandi e piccini, ovvero, “HA ROTTO IL CAZZO”. Cosa? Ma la qualunque, ovvio. I tatuaggi. L’erasmus. Gli ombrelli, le macchine da cucire, tua nonna in carriola, ha rotto il cazzo un po’ tutto: compresa, purtroppo, la rottura di cazzo. È strano che Capriccioli non ci abbia già fatto un generatore casuale. Ultimamente ci ho anche letto che se critichi Israele sei antisemita. NO MA GIURA. L’HAI BREVETTATA QUESTA? CORRI SUBITO ALL’UFFICIO, UNO SPUNTO COSì ORIGINALE FANNO IN FRETTA A COPIARTELO.

Piovono Rane (gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it)

Non c’è dubbio che Gilioli sia un faro per tutti noi. Che da lungo ci stia guidando in questa lunga attraversata nel deserto, da una sinistra antiberlusconiana a una sinistra sempre antiberlusconiana ma anche antigrillina e antivendoliana e antiingroiana e antispinelliana e e e e.

Ma.

No, niente, è solo che dopo aver letto un migliaio di post di Gilioli mi sono accorto di come gli piaccia piazzare un’avversativa a metà post, è un suo tic retorico ma è anche qualcosa che lo descrive. Un’obiezione vivente, che si aggira per le sconfinate praterie dove una volta pascolava la sinistra e si domanda: dove sono tutti? perché scappano a ondate centrifughe? Ma ci sarà pure lo spazio per una sinistra che non sia né giustizialista né populista né complottista né vetero né nuovista né salottiera né troppo identitaria né troppo poco né settaria né né. È pur sempre affascinante la descrizione di una malattia dal punto di vista del virus.

La Z di Zoro (www.diegobianchi.com)

Ma ci mancherebbe, vogliamo tutti bene a Zoro e gli auguriamo di vincere qualsiasi altro premio – il Leone d’oro, l’Oscar, il Telegatto, lo Strega, il Nobel per la Pace (ma ci accontenteremmo anche di quello all’economia). E allo stesso tempo non possiamo esimerci dal constatare come l’ultimo post della Z di Zoro risalga al 4 agosto 2013. È un anno che non ci scrive più niente. Più che comprensibile – mi sembra, fuor d’ironia uno che si sbatte davvero – ma se votate Zoro come miglior blog di opinione mi sa che non v’interessano troppo le opinioni in generale. State sacrificando a un Dio assente – no, per carità, c’è chi lo fa da migliaia di anni e si trova benissimo, chi sono io per. A proposito, avete notato quanti post ho scritto io quest’anno? Con questo fanno centosettantuno. No, così tanto per dire.

Phastidio.net (www.phastidio.net)

I blog, come le persone, sono quasi sempre migliori della prima impressione che ti hanno fatto. Il mio problema con Phessimismo-e-Phastidio risale ai tempi della seconda guerra del Golfo, quando si parlava di esportare la democrazia e lui pubblicava quelle lunghe e accorate partiture per trombone di Glucksmann. Era facile confonderlo con tutta una pletora di blog filoamericani che a un certo punto sono misteriosamente evaporati. Lui era di ben altro peso specifico, ma ci ho messo quasi dieci anni a farci caso. Ora è uno dei pochi blogger di cui mi interessi il parere, anche e soprattutto quando non si sovrappone al mio. Il che succede purtroppo sempre meno – dico purtroppo perché Seminerio è il profeta dell’Andrà molto peggio. Mi piace raffigurarmelo su un pulpito con una cuffietta da quacchero, anche se in realtà non sono molto sicuro che i predicatori quaccheri portino le cuffiette. Ma insomma un tizio che annuncia piaghe d’Egitto e dà per scontato che ce le meritiamo. Tanto più insopportabile in quanto non si riesce in nessun modo a dargli torto.

Beppe Grillo (www.beppegrillo.it)

Io Beppe a un certo punto l’ho messo nei feed. Sapete cos’è avere Beppe nei feed? Siccome Casaleggio la sa lunga, il feed contiene solo titolo e fotomontaggio. Quindi ogni giorno mi arrivano nei feed due o tre o quattro orrendi fotomontaggi accompagnati da titoli che vorrebbero essere divertenti e sono più spesso incomprensibili. È come avere un ubriaco sul tuo portatile di prima mattina. Come direbbero quelli di Libernazione: non ci si capisce un cazzo. Ma è il progetto beppegrillo.it, nel complesso, a sfidare tutto quello che noi sappiamo sul www. Se non l’avessi mai visto in vita mia, se improvvisamente me lo mostrassero, io scuoterei la testa e spiegherei: questa roba non potrà mai funzionare. Invece ci hanno quasi vinto le elezioni. La gente è strana.

Leonardo (www.leonardo.blogspot.com)

Leonardo è un grafomane che da 13 anni ammorba la rete in lingua italiana con opinioni non richieste su qualsiasi cosa. Fatti venire una qualsiasi idea del menga, e sta sicuro che lui l’ha già formulata nell’aprile del 2004 o nel settembre 2009. Aboliamo le vacanze di Pasqua. Isoradio programma troppa musica italiana. Come i bachi che passano la vita a sbavare per costruirsi un bozzolo, questo tizio sta costruendo un enorme monumento di parole alla sua supponenza e ignoranza, una piramide di opinioni gratuite che nessun diritto all’oblio riuscirà mai a occultare del tutto. Di lui hanno detto (continua…)

(Potete votare anche qui sotto. Ricordate che Enrico vi guarda. Voi non volete davvero far piangere Enrico).

Beppe Grillo, ho una teoria, internet, pubblicità

L’imbarazzante sexy barbecue M5S

Abbiamo cliccato Beppe Grillo per voi. 

Salve a tutti, bentornati alla saltuaria rubrica che vi mostra cosa c’è davvero nella meravigliosa colonnina destra del sito di Beppe, risparmiandovi dozzine di clic, di stupidi video pubblicitari, di stupidi video nemmeno pubblicitari, eccetera. Visto che il giornalismo sta per morire – Grillo ne è entusiasta – vale la pena di scoprire assieme cosa ci aspetta dopo il funerale: cosa sarebbe l’informazione se rimanesse a gestirla Casaleggio? Ecco qua.

Donne seminude e non solo! Imbarazzi! Davvero incredibile che nessuno ne parli. Ma di cosa? Dunque (clic), pare che nel 2012 il gruppo dirigente del PD di Napoli invece di farsi vedere a Occupy Scampia sia andato a una festa che si chiamava “People party”, organizzata da Lorenzo Crea (capo ufficio stampa e portavoce del gruppo regionale del Partito democratico). Si trattava, secondo il sito casaleggiano TzeTzè, di un “party trash con ragazze seminude”. Wow. Ce le fa vedere? La tizia sgranata nella foto è forse un assaggio? No. Se clicchi sulla notizia, parte un video sulla Minetti. Giuro. Non è neanche un video in senso stretto, è una famosa intercettazione della Minetti con un fermo immagine della Minetti – seminuda, almeno? No, neanche. Ovviamente la Minetti non è del Pd, non parla né di Scampia né del People Party, insomma “i dettagli” un par di ciufoli. Ché io in linea di massima in questi giorni di vacche magrissime potrei anche capire la necessità di intercettare sempre di più il target dei guardoni annoiati da youporn, e tuttavia mi domando fino a che punto una strategia del genere funzioni: cioè quante volte lo puoi fregare un guardone cliccatore compulsivo? Quante volte gli puoi permettere “ragazze seminude e non solo” e poi mostrargli uno scatto stravisto della Minetti vestita? Quante, prima che ti mandi nel luogo tanto caro ai 5Stelle, Fanculo? Poi sicuramente Casaleggio è un genio della comunicazione e ha capito cose che io no; e tuttavia, boh.

Nei momenti di stanca, quando gli streaming non vanno esattamente come dovrebbero andare, alla Casaleggio la buttano sull’alimentazione. Il modo migliore di curare la tosse è mangiare l’ananas. Cinque volte più efficace. Chi lo dice? Degli studi. Quali studi? Non lo dice. C’è solo il nome di un sito web, molto in fondo, che dice che l’ananas è una fonte di vitamina C: l’avreste mai detto? Vi passo comunque la ricetta che, secondo “gli studi”, aiuta a sciogliere il muco nei polmoni: ananas, miele, pepe di cayenna e sale. Sappiatemi dire. (Continua sull’Unita.it, H1t#237). 

Di questo avete probabilmente sentito parlare. L’ostilità di Beppe Grillo ai POS è di vecchia data: due anni fa organizzò persino un sondaggio on line sull’argomento. Vinsero, neanche a farlo apposta, i difensori del contante. “Studiosi e dirigenti della banca centrale tedesca“, scrisse al tempo “dimostrano in modo inconfutabile che, rispetto ai pagamenti elettronici, il contante è: più comodo, più veloce, più accettato, più rispettoso della privacy, più economico, più trasparente“. Ah, se lo dice la Banca Centrale Tedesca…

Come nel caso delle donne seminude, anche stavolta cliccando non arrivi in nessun circo. Non sapremo nemmeno mai da dove è tratta l’immagine in questione. L’articolo di Tzetzè a cui rimanda il link spiega che gli elefanti vengono addestrati con un uncino metallico che fa parecchio male. C’è anche un video dove si vedono – da lontano – elefanti pungolati, ma mai al circo.

Vi può venire il cancro. Maddai. Beh, almeno stavolta nel pezzo di lafucina.it (l’altro sito casaleggiano a cui puntano i link di beppegrillo) c’è la fonte: Cesare Gridelli, oncologo presso l’Ospedale San Giovanni Moscati di Avellino. Ha scritto un libro in cui si spiega che carne e pesce alla brace aumentano il rischio di tumori. Però se mangi frutta e verdura gli antiossidanti riducono l’assimilazione di sostanze tossiche. E vai.

Perché non li chiamano – no, scherzo – ma fino a un certo punto, visto che su Tzetzé la deputata Giulia Sarti ammette “è vero non ci sono arrivati molti inviti“. Ma voi ve n’eravate accorti che avevano smesso di andarci? Io non saprei, non guardo un talk più o meno da quando è cominciato il mondiale. Magari succede anche ai 5stelle, e questo spiegherebbe il mistero.

Anche se in realtà non c’è nessun mistero. Non hanno smesso di andare in tv. Hanno soltanto diradato le presenze perché sono stanchi. “Abbiamo avuto talmente tanto lavoro tra ballottaggi, tra organizzazione di azioni in Parlamento, mille cose […] Mentre negli altri partiti ci sono persone che fanno esclusivamente quello, magari non vengono in aula tant’è che sono state pure richiamate certe deputate del PD perché andavano sempre in televisione poi al momento del voto in aula non c’erano. Noi facciamo tutto”. Va bene. Nel frattempo mi giunge notizia che a Bruxelles i 17 eurodeputati si porteranno un “gruppo di comunicazione” di 24 elementi, tra cui qualche dipendente della Casaleggio. Chi li pagherà? Non sono un po’ tanti? Ma parliamo piuttosto di cibi velenosi.

È il sale. Ma non faceva bene ai polmoni? Eh, ma fa male alle arterie. “Se assunto in quantità smodate” – grazie al Grillo, anche la tachipirina se ne prendi un chilo ti uccide, un giorno di questi mi aspetto il titolo STA NEL TUO CASSETTO DEI MEDICINALI MA È UN VELENO. Gli antichi greci avevano una parola per questa cosa, credo. E ora siete pronti per la tresca della settimana? Vai col momento Novella2000:

Beccati! In una riunione! Chissà che combinavano. E adesso? Se clicchi arrivi su un video che ti mostra quante auto blu erano parcheggiate su un marciapiede nei pressi di Palazzo Madama il giorno della fiducia, 24 febbraio. E che c’entra? Non si sa. Più in basso ci sono ampie citazioni da un pezzo di Carlo Tecce sul Fatto Quotidiano. Il succo è che Renzi sapeva che la proposta di riforma del Senato sarebbe passata con la reintroduzione dell’immunità. Interessante – ancorché ovvio – ma noi volevamo le foto di Renzi e della Boschi beccati. E invece niente. Per fortuna che la notizia successiva è una “verità”.

La “verità” di Di Maio consiste in un messaggio da lui pubblicato su facebook che coincide perfettamente con un post di Beppegrillo.it. Dunque, o Di Maio è un autore di Beppegrillo.it (non ci sarebbe niente di male), o è uso copiare pari pari i pezzi di Beppegrillo.it sulla sua bacheca facebook (e anche qui non c’è niente di male). Poi Beppegrillo riprende il pezzo copiato da Beppegrillo e lo chiama “verità di Di Maio”.

Si chiama Chiara Gagnarli e ha firmato un’interrogazione parlamentare per esortare il governo a diffondere l’iniziativa di alcuni supermercati inglesi che hanno tolto snack e caramelle dagli scaffali più vicini alle casse. Per ora la “battaglia” non è neanche una proposta di legge: è un invito a diffondere un’iniziativa. Sacrosanta, per carità. Ne approfitto per segnalare un fatto buffo: i link falsi. Per esempio, in fondo a questa notizia sul sito di Beppe si legge “www.linkiesta.it”: però se clicchi sopra la scritta http://www.linkiesta.it, non vai sull’inkiesta, bensì su Tzetzè. Si vede che la gente non è poi così entusiasta di cliccare su tzetzè: al punto che bisogna mascherarlo un po’.

Si chiama Marinaleda, è un comune dell’Andalusia di 2600 abitanti. Non è vero che l’affitto sia a 15 euro: con 15 euro al mese la casa è tua – ma devi costruirtela. Non è neanche esattamente vero che tutti guadagnino 47 euro al giorno “non importa quale sia la posizione”: 47 euro è il salario della  Coperativa Humar, che dà comunque lavoro alla maggior parte della popolazione. Fonte Wikipedia, e questo per stasera è tutto.

No, aspetta, c’è un post scriptum. Proprio mentre scrivevo questo pezzo, qualcuno su facebook mi ha segnalato un fotomontaggio di Renzi al volante che contratta con una prostituta (“ma allora é identico a Berlusconi 100%“). Il maldestro tizio che l’ha concepito e postato per ora non sembra essersi reso conto del guaio in cui si è cacciato (“solo gli stupidi come tè non hanno ancora capito che i miei fotomontaggi rispecchiano la realtà“, ecc.). Il suo account è pieno di orrendi fotomontaggi sullo stesso argomento: Renzi-diavolo, Renzi-killer, Renzi al cesso, ecc. ecc. Immagino che Grillo, se interpellato, prenderà le distanze. Ma la responsabilità di aver formato una sottoclasse di web-attivisti isterici, di averli svezzati a vaffanculi e photoshop, è tutta sua. 
Beppe Grillo, ho una teoria, internet, tv

Grillo, dentiere, algoritmi, cazzate

Quante balle ha sparato Beppe Grillo ieri sera a Porta a Porta? Difficile contarle; anche perché, come ogni predicatore professionista, sa mescolare con sapienza verità sacrosante e sciocchezze allucinanti. Qui mi soffermo su due proiettili enormi che Vespa, con tutta la sua studiata diffidenza, gli ha lasciato sparare senza opporre la minima obiezione. Il primo è la tirata sulle stampanti 3d, un tormentone dell’ultima tournée a quanto pare. Come ha osservato la settimana scorsa Michele De Salvo, quando parla di stampanti 3d Grillo non sa semplicemente cosa sta dicendo: non solo dà numeri a caso e contrabbanda notizie false, ma smentisce platealmente le sue stesse premesse, passando nel giro di pochi secondi dal lamento per una “crescita che toglie posti di lavoro” all’elogio per uno strumento che, se davvero producesse dentiere e mattoni come sostiene Grillo, i posti di lavoro non li aumenterebbe senz’altro, anzi.

La seconda è una storia più vecchia: il politometro, quel fantasioso strumento che dovrebbe misurare la corruzione dei politici e consentirci di recuperare le risorse di cui si sono impadroniti – prima di rimandarli a casa. Grillo ha spiegato che il sistema è ormai operativo, che si tratta di un algoritmo o qualcosa del genere: in sostanza, ha rispolverato l’antica bufala dello Zip war aiganon, scoperta due anni fa da Francesco Lanza. Si tratta di una delle più impressionanti supercazzole mai inscenate da Grillo per il suo pubblico: come scriveva Davide De Luca un mese fa “Un “algortimo” non può svolgere la funzione indicata da Grillo. I dati che questo “algoritmo” dovrebbe “intersecare” non sono pubblici ed ottenerli è un reato. È impossibile nell’ordinamento di qualunque democrazia espropriare il denaro di qualcuno senza un processo. Altre mille cose non tornano nel video, come il fatto che quando Grillo gira lo schermo del tablet verso la telecamera per mostrare il famoso algoritmo, sul desktop non si vede assolutamente niente”. In questi mesi lo Zip war aiganon è diventato in rete un esempio quasi proverbiale della spregiudicatezza con cui Grillo confeziona e vende il nulla: eppure Vespa, lasciando cadere uno spunto così promettente, ha dimostrato di non averne mai sentito parlare (continua sull’Unita.it, H1t#232)

La dentiera 3d e lo Zip war aiganon sono due casi interessanti che dimostrano, purtroppo, il contrario di quel che Grillo stesso propugna in ogni suo intervento: la vittoria del dibattito in Rete contro la propaganda in tv. Fin qui è l’esatto opposto: ogni volta che la tv ce lo mostra mentre dice una cosa falsa, la Rete prontamente accorre a smentirlo, con dovizia di documentazione. E però tutto questo dibattito rimane confinato entro una cerchia ristretta di lettori: il bacino di utenza di Grillo non ne viene minimamente scalfito, e Grillo può continuare a urlare le stesse balle al prossimo comizio, in favore di telecamera. È una lotta ancora impari – e perduta, probabilmente. Ma qui per quel che si può si combatte ancora.
PS: oggi ricorre il 570simo anniversario della morte di Bernardino da Siena, geniale predicatore quattrocentesco che per tante cose sembra anticipare Beppe Grillo. Gli auguriamo una vita ancora lunga e piena di soddisfazioni, come fu quella di Bernardino, e migliaia di altre piazze gremite da incantare. Non ce ne voglia però se nei parlamenti preferiamo mandare gente un po’ meno estrosa, un po’ più preparata.http://leonardo.blogspot.com
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Picchiare maestre, mendicare clic

Qui non si mordono cani. 

La settimana scorsa, mentre vago su facebook in cerca d’ispirazione, una notizia ottiene la mia curiosità: una maestra è stata presa a schiaffi e a calci dai genitori di un suo alunno, a Roma. I motivi per cui questa informazione mi raggiunge sono molteplici, ma facilmente intuibili anche senza conoscere il misterioso algoritmo con cui fb decide quali notizie metterci davanti. Il fatto di avere molti amici insegnanti senz’altro fa sì che un fatto di cronaca del genere abbia più chance di apparire sulla mia bacheca, dove arrivano appunto le notizie che i miei amici segnalano e commentano.

Una maestra presa a calci, da questo punto di vista, sembra avere molte chance, eppure forse non bastava. Quello che ha smosso i miei colleghi a commentare la notizia – e a farmela notare – è stato l’atteggiamento di un cronista, che su un piccolo quotidiano on line l’ha commentata prendendo le difese dell’alunno. Come dichiara egli stesso nelle prime righe, la sua è addirittura un’arringa: “A scanso di equivoci premetto subito che la mia arringa sarà a favore dell’alunno e dei genitori e non della docente”. Di seguito, una serie di affermazioni provocatorie che implicitamente giustificano la reazione violenta dei genitori: cosa aveva fatto la maestra di così orribile da meritarsi schiaffi e calci? Aveva messo una nota sul diario. Pare che non si possa più. “La comunicazione della “signora” maestra non è stata etica e il boomerang l’ha colpita ineluttabilmente. Un docente, non può perdere lucidità e competenza, non può perdere di vista l’obiettivo dell’insegnamento, quello di non offendere la dignità di un bambino. Il progresso scientifico, civile, normativo, culturale non può essere annullato da un modus operandi di ritorno della riforma Gentile nella scuola odierna. L’insegnante avrebbe dovuto prendere per mano quel bambino e cercare di capire quel “continuo disturbare” con un bacio, non con la spada”.

A quel punto, voi come reagireste? Calatevi nei panni di un insegnante: un tizio sta scrivendo che una vostra collega si è meritata schiaffi e calci per aver messo una nota a un bambino, per aver offeso la sua dignità eccetera. Non vi viene voglia di reagire, magari con un commento ironico, stizzito, indignato, eccetera? Ecco, appunto. La stessa reazione l’ho avuta io, ma dopo alcuni secondi ho iniziato a sentire che qualcosa non andava. Devo avere sviluppato una specie di sesto senso, a furia di navigare tra newsfeed e bacheche. Quando sarebbe stata picchiata questa maestra? L’articolo non dava nessuna indicazione di tempo. Né di luogo. Una ricerca veloce su google news e sui principali quotidiani romani non mi porta a nulla. L’unico sito a parlarne è, appunto, quel piccolo “quotidiano indipendente” on line che ne approfitta per criticare la comunicazione della signora maestra. Altri siti riprendono la stessa notizia dal piccolo quotidiano. Insomma, ha tutta l’aria di essere una bufala. Una piccola, geniale bufala artigianale. Forse è questo che la rende, nel suo piccolo, più inquietante.

Questo si chiama “Corriere del Corsaro”.

Ormai internet, e facebook soprattutto, ci hanno assuefatto a varie tipologie di bufale. C’è il sito sedicente satirico che non pubblica altro, e sei fesso tu se ci caschi; c’è il quotidiano prestigioso che approfitta di un equivoco e lancia a caratteri cubitali una notizia che sa benissimo essere falsa (ad es., Facebook chiude WhatsApp e simili). In quest’ultimo caso la bufala può anche essere mal confezionata, ma la maggior parte degli utenti ci casca lo stesso perché continua a fidarsi del nome del quotidiano; è un calcolo sbagliato, visto che persino i più importanti quotidiani italiani sono costretti ad attirare l’attenzione con questi mezzucci.

Ma quello che ha fatto il piccolo quotidiano on line in questione è interessante: non solo ha inventato una notizia, ma ha anche azzeccato il taglio giusto con cui affrontarla: un’opinione talmente provocatoria da forare il monitor e costringerci a commentare, a linkare, a segnalare. Chi ha scritto il pezzo, avrete notato, sa a malapena mettere la punteggiatura; ma ha già interiorizzato l’arte di farsi largo sulle bacheche: che in questa fase pare sia l’unica a garantire la sopravvivenza di chi su internet vorrebbe viverci. Siccome siamo – non so se l’avete sentito dire – in un periodo difficile: la carta non vende più, e su internet si fatica a conquistare inserzionisti. Bisogna dimostrare di avere tot accessi, e il modo per ottenerli è farsi notare su facebook: e su facebook ci si fa notare così. Tra le poche cose che abbiamo imparato c’è quella storia per cui la notizia è uomo-morde-cane: l’evoluzione 2.0 è fotoscioppare un selfie in cui morderemmo un piccolo di labrador linkando il nostro post in cui inneggiamo alla violenza sui cuccioli. Andrà a finire così? Le nostre bacheche – e il tempo che ci occupano – saranno sempre più piene di questa merda inutile?

La mia speranza è che il sistema si auto-regoli, come si è regolato tante altre volte in cui temevamo che qualcosa avrebbe ucciso internet e invece alla fine no. Troveremo un nuovo equilibrio: per esempio diventeremo sempre più bravi a evitare le bufale. Quel sesto senso che ha cominciato a pizzicarmi, pochi secondi dopo aver letto il pezzo sulla maestra malmenata, diventerà un’abilità sempre più diffusa. Per fare un altro esempio, io ormai le liste non le clicco più. Se leggo “Non crederai…” o qualche altro titolo alla buzzfeed, non ci casco più. Preferisco non pensare a quanti mesi ci ho perso, ma ne sono uscito. Mi piace pensare che è una fase come tante altre, e finirà come è finito myspace o second life o la grande classifica dei blog.

Ma chissà se è vero. Certe dinamiche erano più chiare quando internet era un club più o meno riservato: oggi ci vengono tutti, veramente tutti, i soldi continuano a essere pochini ma fuori evidentemente ne girano persino meno, e la concorrenza comincia a essere pesante. Far sì che un mio pezzo non affondi al primo rimbalzo sui social network è sempre più difficile. Capisco benissimo il perché: pezzi lunghi, argomenti di nicchia – per farla breve, non mordo cani. E allo stesso tempo, continuo a provarci: se la parola “grillo” in un titolo vale cinquecento clic in più, non ho vergogna a usarla. Internet ha sempre funzionato così, non è che uno può accorgersene all’improvviso nel 2014. Uno spazio recintato per intellettuali al riparo dalla corsa al link non c’è, e se ci fosse non mi farebbero comunque entrare.

Non ho intenzione di stilare un manifesto per la resistenza umana su internet o cose del genere. Avverto solo che resterò ancora un po’ qui, cercando nuove formule di compromesso tra intelligenza ed esibizionismo, segnalando e commentando le cose interessanti che troverò sul mio cammino, e cercando di ignorare tutto ciò che cercherà di farmi perdere il tempo. Finché continuerà a essere divertente: fin qui lo è stato molto, almeno per me. Spero anche per voi.

Beppe Grillo, ho una teoria, internet

Abbiamo cliccato beppegrillo per voi!

Sarà capitato anche a voi di ritrovarvi su beppegrillo.it per un qualsiasi motivo, anche solo per contare quanti fotomontaggi di Matteo Renzi contiene in questo momento (in questo momento, per esempio, quindici: non sto scherzando, quindici). E sarà capitato anche voi di dare una rapida occhiata alla colonna destra, con quegli strilli caratteristici che non usano mezze misure per titillare la vostra curiosità (guarda cos’è successo! tizio ha distrutto caio! Non abbiamo parole! clicca!) Siccome però il clic conduce quasi sempre ad altri clic che rimandano a una delusione, ho pensato di risparmiare tempo e fatica a molti lettori inaugurando la saltuaria rubrica Abbiamo cliccato beppegrillo per voi: basta leggere qui sotto e saprete tutto quello di cui si parla in questo momento nella colonna destra di beppegrillo.it, senza bisogno di ulteriori clic. Comodo, no?

Clicchiamo e finiamo sul sito casaleggiano Tzetzé. Scopriamo così che un tizio di Termoli ha commentato su facebook un messaggio di Laura Boldrini suggerendo di essere pronto per “fare un macello”. “Sono il prossimo che farà qualche pazzia…- ha scritto Felice Ferucci – Orfano da venerdì, senza lavoro da mesi (per assistere la mia mamma) una casa (fortunatamente mia, ma ancora per poco visto che non posso pagare nulla), prossimo ad andare a mangiare alla Caritas, oltretutto iscritto alle categorie protette ma un cazzo niente, in Molise per uno di 43 anni come me, anche se invalido, non c’è possibilità di lavoro..”. Il commento si chiude così: “Ora dimmi tu cara Boldrini, secondo te sono prossimo a fare un macello?”

Non potendo saperlo, e non riuscendo a decifrare l'”ironia” e il “sarcasmo” del messaggio, la Boldrini avrebbe segnalato la cosa alla polizia. In realtà no: se si legge la notizia fino all’ultima riga, si scopre che “Laura Boldrini non c’entra, che non è lei e che lei nemmeno legge i commenti“; è la polizia a passare “al setaccio, con l’aiuto di un sistema computerizzato, le migliaia e migliaia di messaggi scritti sulla pagina del presidente della Camera”, e a selezionare tra i tanti il messaggio di un tizio di Termoli che – particolare non secondario – ha precedenti penali.  Dunque, insomma, una notizia c’è: la polizia dà un’occhiata a chi commenta i messaggi della presidente della Camera, e magari li incrocia con il casellario giudiziale. Non dovrebbe farlo? Quanto ci costa? Non si potrebbe inserire un dispositivo che ci aiuti a riconoscere l'”ironia” e il “sarcasmo” nel messaggio di un 43enne con precedenti penali che minaccia la presidente di “fare un macello”? Potremmo aprire un dibattito. Ma prima torniamo un attimo allo strillo su beppegrillo.it, per favore. C’è scritto “Pazzesco, Laura Boldrini ha mandato la polizia a casa di un cittadino”. È vero? No, se leggi fino in fondo la notizia scopri che no: non è stata la Boldrini.

Il tizio è stato denunciato? È indagato? Tzetzé non ce lo dice. Ah, ha già ripreso a commentare i messaggi della Boldrini.

Vale la pena di notare la par condicio sulle facce buffe: beppegrillo.it non fa sconti a nessuno. Puoi anche essere un eroe del Movimento Cinque Stelle, ma se finisci sulla colonna destra ci finisci con una faccia buffa. Detto questo, cos’è successo a Luigi Di Maio? Ha trovato una spilletta del Movimento Cinque Stelle appesa sopra lo specchietto retrovisore, e ha scattato la foto. Sì, stavate per perdervi questo fondamentale scoop. (Continua sull’Unita.it, H1t#228)

Il celebre attore è ovviamente Ivano Marescotti, vittima della par condicio: aveva una parte non secondaria in una fiction girata due anni fa e andata in onda per la prima volta a pasquetta. Nel frattempo Marescotti si è candidato alle europee (lista Tsipras), e quindi a norma di legge non poteva comparire in tv. Malgrado le sue proteste, la Rai ha mandato in onda una versione della fiction censurata di ogni fotogramma in cui compariva Marescotti. Non si poteva semplicemente mandare in onda la fiction in un altro periodo (chiede l’attore)? In effetti. Ma perché “i 5 stelle avevano ragione”? Perché quello che vale per Marescotti vale anche per Renzi, che voleva giocare alla Partita del Cuore in diretta Rai. Niente da obiettare. Quindi, insomma, per i 5 stelle è stato giusto tagliare le parti di Marescotti? Non è molto chiaro, e in effetti molti commentatori cinquestellati si lamentano della censura. Ma è la par condicio: esattamente la stessa regola che il MoVimento invocava contro Renzi calciatore…
Farà sicuramente molto discutere. Mentana ha annunciato in diretta tv: “Se siete interessati alla Pasquetta, guardate un altro notiziario”. Tutto qui, discutetene (no, in effetti cliccando trovate anche i preziosi commenti di “alcuni utenti su Twitter”).
Io davvero certe volte la strategia di Beppegrillo.it non la capisco. Qui ci sono rivelazioni shock! Il Partito Democratico è finito! Una notizia del genere, invece di stare in cima al sito, è relegata sotto l’annuncio di Mentana che non vuole parlare della pasquetta. Evidentemente per il lettore-tipo di Beppegrillo va tutto bene così: per trovare le rivelazioni shock bisogna prima scavare sotto un po’ di cazzate. Ma veniamo alla rivelazione shock. È una lettera aperta a Matteo Renzi datata 16 aprile – una settimana fa – in cui Francesco Ribaudo, deputato del PD critica aspramente la gestione del PD siciliano, invitando ripetutamente il segretario a non fidarsi del suo referente in Sicilia, Davide Faraone. Shock! La notizia è effettivamente interessante, anche se si trovava già da qualche parte in rete da una settimana (qui su trinacrianews).
L’accusa più circostanziata che Ribaudo rivolge a Faraone (e al presidente della regione Crocetta) è lo stravolgimento delle liste elettorali per le europee, con l’esclusione immotivata di Antonello Cracolici, che era stato votato dall’Assemblea Regionale; un brutto precedente. Questa è la rivelazione shock, e quindi adesso il PD è finito. Ok. Per Beppegrillo, quando un deputato di un partito scrive a un segretario per lamentarsi di come è stata fatta una lista elettorale, il partito finisce; scoppia, implode, evapora, muoiono tutti, roba così. Che possano esistere altre forme di dialettica interna, anche spiacevoli, non è contemplato. Se succedesse una cosa del genere nel M5S… ma non potrebbe succedere, per via che nel M5S un segretario eletto non c’è: c’è un capo politico che ha registrato il marchio e se non sei d’accordo te ne devi andare. In questo modo il partito, pardon, il MoVimento non esplode.

So che non state nella pelle, ebbene, durante la diretta di Otto e Mezza Renato Brunetta ha ricordato a Lilli Gruber di essersi dimessa in anticipo dall’europarlamento. Lilli Gruber si ricordava benissimo dell’episodio (nel 2004 aveva sconfitto Berlusconi nella sua circoscrizione), e ha ammesso senza scomporsi di essersi dimessa, udite udite, sei mesi prima della scadenza naturale del suo mandato, appena in tempo per non percepire l’europensione. Senz’altro non sarebbe stato impossibile trovare una sua foto meno paperesca, ma siamo pur sempre su beppegrillo.it.

Ho visto il filmato per voi e posso tranquillizzarvi: Travaglio non sputa in faccia né ai telespettatori (e perché avrebbe dovuto, poveri telespettatori?) né a nessuno. Travaglio afferma pacatamente che gli italiani che votano 5 stelle “sperano di avere in Parlamento un’opposizione irriducibile fatta di persone che non hanno mai fatto politica e che vanno lì a fare le pulci ai professionisti della politica”; plaude ai giovani pentastellati nei consigli comunali che filmano gli inciuci. Non saprei dire quanti inciuci siano emersi negli ultimi anni grazie ai filmati dei giovani che non hanno mai fatto politica ma che evidentemente sanno fare le pulci, in ogni caso Travaglio la pensa così e lo dice – per ora – senza sputare.
Io non so se sia per imperizia dell’addetto ai fotomontaggi o per qualche astruso calcolo, fatto sta che in questa immagine Grillo è molto più buffo di Renzi – potrebbe benissimo essere un’immagine messa in giro dai comunicatori di Renzi, anche loro non esattamente campioni di raffinatezza. Comunque cliccando si finisce su un altro articolo di Tzetzé, una breve antologia di risposte a un acuminato tweet renziano (“I comici milionari dicono che 80 euro sono una presa in giro. Se provassero a vivere con 1200 euro al mese non lo direbbero“). Il tono più o meno lo dà la prima risposta: “rendendo un salario medioalto ti sei dimenticato cosa significa vivere cn 400 euro al mese. con 80 euro nn ci fai NIENTE!” Si può essere più o meno d’accordo, tranne con chi si lamenta che con 80 euro ci paghi giusto l’idraulico che ti ripara un rubinetto. Hai detto niente. O ti si rompe un rubinetto al mese?
Oddio, povero Travaglio, che ti è successo? Era un attimo fa che eri qui a sputare ai telespettatori. No, è successo che Giuliano Amato ha fatto causa al Fatto Quotidiano: vuole 500.000 euro per “una inspiegabile campagna diffamatoria condotta a decorrere dal settembre 2013 con il pretesto della nomina a giudice della Corte Costituzionale”. E Travaglio? Travaglio, nella colonnina destra, rappresenta il Fatto. Lo incarna. Se succede qualcosa al Fatto, succede a lui.
Cos’avrà mai avuto il coraggio di fare? Luna Berlusconi ha inaugurato due club di Forza Italia in onore di Dudù. Fine della notizia. Sì, stavate per perderla, no, non c’è bisogno di ringraziare.

Agorà (Rai3) ha divulgato un sondaggio Ixé in cui il PD è al 32% e il M5S al 25%. Il Fatto invece ha pubblicato un sondaggio di Scenaripolitici.com in cui la forbice tra PD e M5S è di un punto, anzi mezzo. Tra un mese sapremo quale dei due sondaggi era più imbarazzante. Per ora, l’unica statistica di cui mi fido è quella che mostra come storicamente i sondaggi pre-elettorali in Italia non ci prendano mai. E questo è tutto. Alla prossima. http://leonardo.blogspot.com

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Il fango del vicino (è comunque marron)

Anche Riotta, quando ha ragione, ha ragione; e farei un torto a non riconoscergliela.

Lo trovo un pensiero bellissimo, soprattutto da parte di un giornalista che quando dirigeva il tg1 andava in cerca di foto o video imbarazzanti dei sospettati di omicidio sui loro profili facebook. Non si fa così, non si sparge il fango per il gusto di. Bravo Riotta che ha alzato la schiena, bravo.

Ecco, magari attento ai colpi d’aria da ovest.

Beppe Grillo, ho una teoria, internet

La democrazia dalle 10 alle 17.

Oggi i senatori a 5 stelle voteranno in aula a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità. È una scelta abbastanza coraggiosa e sorprendente (anche se l’emendamento lo avevano presentato proprio due di loro: ma Grillo non era stato molto contento). Per quel che mi riguarda, è anche la scelta giusta. E tuttavia il mio pensiero va agli iscritti del movimento a tutto il 30 giugno 2013, che ieri sera rincasando dal lavoro hanno dato un’occhiata al mondo su internet e in pochi secondi hanno scoperto che:

1. Il loro MoVimento aveva indetto una “votazione online sul reato di clandestinità”, aperta anche a loro, proprio per decidere cosa far votare ai senatori m5s oggi. Chi l’aveva decisa? Grillo? Casaleggio? L’intelligenza collettiva del portale? Mistero.
2. La votazione era già conclusa. Si era potuto votare dalle dieci del mattino alle cinque della sera. Chi è arrivato tardi (il 69% degli aventi diritto) è da considerarsi astenuto.
3. Avevano vinto gli abrogazionisti, con il 31% dei voti degli aventi diritto (24.932 su 80.383). I favorevoli al mantenimento del reato di clandestinità che sono riusciti a votare entro le cinque sono appena 9.093 (l’11%).

Per ora insomma si tratta di una democrazia diretta con orari d’ufficio, (continua sull’Unita.it) che per mesi interi non ti consulta su nulla e poi nel giro di poche ore ti chiede un parere, e se in quel momento non sei connesso, ciao. Vi accederà più facilmente chi lavora davanti a un terminale connesso alla rete: più impiegati che artigiani. Questo potrebbe anche aver determinato l’esito sorprendente della consultazione. Come ricorda Carlo Gubitosa, Grillo qualche mese fa raccontava che l’80% degli elettori m5s era favorevole al mantenimento del reato, che lui e Casaleggio avevano fatto dei “sondaggi” (a che titolo? con che soldi? Non si sa). Vale la pena di ricordare che elettori e iscritti non sono proprio la stessa cosa: il rapporto è ancora di uno a cento. Otto milioni di persone hanno votato per il M5S, ottantamila hanno il diritto di esprimere il loro parere se Grillo glielo chiede sul portale. Di questi hanno votato soltanto venticinquemila: gli altri non erano interessati al quesito, o non se ne sono accorti in tempo.

In futuro magari si potrà sviluppare un’app che, quando Grillo ti chiede un parere, ti manda una scossa sul cellulare – tanto quello ormai al lavoro lo teniamo acceso tutti. Ci abitueremo prestissimo: invece di una partita a candycrush o di una foto al piatto di portata, voteremo per l’abrogazione di questo e l’introduzione di quello. Ti stai facendo la doccia, senti un bip – è Grillo che ti chiede di votare per l’inasprimento delle pene riguardanti l’abigeato. Un occhio a wikipedia, un clic veloce, fatto. La banda naturalmente la deve offrire lo Stato. http://leonardo.blogspot.com