Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra

I cagnolini della guerra

Trafficanti (War Dogs, Todd Phillips, 2016)

Voi cosa combinavate a 22 anni? Nel 2006, Efraim Diveroli gestiva dal tinello del suo appartamento una ditta scalcinata che gli aveva passato il padre per levarselo di mezzo. Cercava di vincere appalti per forniture all’esercito. Appena l’esercito metteva il bando su un sito, Diveroli si metteva a cercare le forniture più a basso costo che trovava. Le forniture erano armi, fucili e munizioni, raccattate il più delle volte a prezzi di saldo dai magazzini dei Paesi del vecchio blocco sovietico. Qualche volta vinceva un appalto, qualche volta lo perdeva, e nel giugno del 2006 ne vinse uno per trecento milioni di dollari. Questo faceva Efraim Diveroli a 22 anni – e a 24 era in galera. Ma non c’è rimasto poi tanto, e in seguito non ha nemmeno cambiato mestiere – solo il nome alla ditta. In fondo cos’aveva fatto di male? aveva soltanto smerciato munizioni albanesi agli afgani filo-USA, senza sapere che erano di fabbricazione cinese. Pare che per il Pentagono non sia un problema se armi i tuoi alleati con Ak-47 degli anni Sessanta e con proiettili recuperati in qualche bunker in Albania, magari da un tizio che è sulla blacklist e usa come prestanove un ventiduenne sovrappeso di Miami. Però se scopre che è roba fatta in Cina, è un guaio, ehi, con la Cina c’è un embargo. La guerra è così. L’America è così. E Trump non ha ancora vinto, pensa

Un film come War Dogs si scrive da solo, ma se l’avesse scritto Scorsese saremmo tutti più felici (continua su +eventi!)

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra, terrorismo

Chi vi uccide sa quello che fa, date retta

Il diritto di uccidere (Eye in the Sky, Gavin Hood, 2015)

Ora vi spiego la guerra, signorini.

O uomo occidentale, cos’è troppo grande per te? Gli dèi del tuo antenato, gli dèi della folgore e degli oracoli, non avevano un decimo del tuo potere e del tuo sapere. I tuoi droni possono localizzare il nemico al gabinetto; colpirlo con folgori da decine di megatoni e spalancare l’inferno ovunque tu decida che è giusto. Puoi vedere tutto, puoi bruciare tutto. Ma a volte vorrai solo chiudere gli occhi.

C’è un Occhio che gira intorno al mondo e vede quello che vuoi e che non vuoi. C’è una casetta da qualche parte in Kenya, con stanze separate da tramezze che non arrivano al tetto (molto comodo per le inquadrature dei mini-droni). Dentro ci sono terroristi fanatici, che forse credono che la cittadinanza inglese o americana li protegga dall’Occhio. Stanno per indossare pettorine e andarsi a fare esplodere in qualche luogo affollato. Bisogna colpirli prima che colpiscano – ma c’è una bambina in strada, a pochi metri dal probabile impatto, vende focacce e non si sposterà finché non avrà il paniere vuoto. Ci sono soldati che devono fare il loro mestiere. Ci sono politici che non sanno che ordini dare.

È fortissimo, James Bond gli taglia le unghie dei piedi.

Gavin Hood lo ha fatto di nuovo. Dopo Ender’s Game, ecco un altro film meno problematico di quanto vorrebbe sembrare, in cui sotto il dilemma etico si intravede una visione del mondo abbastanza solida: la guerra esiste e bisogna farla combattere ai soldati, che hanno competenze, nervi saldi, mani sensibili ma disponibili a sporcarsi. Mentre i civili, i politici, non ne capiscono niente: si commuovono al momento sbagliato, per la bambina sbagliata, perdono tempo, giocano allo scaricabarile, cercano disperatamente al telefono qualche superiore, qualche mamma o qualche Dio che li perdoni o si addossi le loro colpe. La democrazia è una perdita di tempo che non produce consapevolezza, ma falsa coscienza. I militari sono più bravi anche a farsi venire i dubbi – e a superarli – e a piangere per le vittime collaterali. Scordatevi i cecchini cinici di quel vecchio video di Wikileaks che dopo aver fatto strage di combattenti, fotografi e bambini si complimentavano per i “nice shots” e ridacchiavano per il cadavere caldo calpestato da un tank.

QUALCUNO LE COMPRI QUEL PANE

I soldati d’occidente di Gavin Hood non alzano mai la voce coi sottoposti; sono autorevoli, umani, anche fragili, e se premeranno un grilletto state ben sicuri che ci avranno prima pensato cento volte (continua su +eventi!)

guerra, terrorismo

La bomba, o al limite un camion

Ma hai sentito quei bastardi cos’hanno fatto.
È una vergogna.
E noi glielo lasciamo fare.
Quanta altra gente dovrà morire.
Le donne, i bambini.
È una vergogna.
E noi ancora qui a discutere, cosa c’è da discutere.
La bomba atomica, altroché.
Averne una.
Dove la tireresti.
E che ne so.
Tanto i potenti hanno sempre i rifugi, non li becchi mai.
La tiri nel mucchio.
Come avvertimento.
Voi ci ammazzate? Noi bomba atomica.
Ma non l’abbiamo.
Allora una bomba normale.
E dove la compri?
Ci sono quelle bombe che si fanno in casa.
Tu la sapresti fare?
E allora che si fa?
Restiamo qui a dirci “bastardi è una vergogna” finché non toccherà anche a noi?
Basta chiacchiere.
Facciamo qualcosa stavolta.
Una bomba non l’abbiamo.
Fucili?
Qualche cosa si trova, poca roba.
Poi ti ammazzano subito.
Ci ammazzino, che mi frega.
Avessimo un blindato.
Basta coi sogni, su.
Blindati non se ne trovano.
Non è un film.
Un camion?
Un camion si trova.

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Anche in Bosnia può andar peggio

 Perfect Day (Fernando León de Aranoa, 2015).

Da qualche parte in Europa ci sono i Balcani; da qualche parte nei Balcani c’è la Bosnia; da qualche parte in Bosnia c’è un pozzo d’acqua buona; da qualche giorno nel pozzo c’è un cadavere. Per toglierlo serve una corda, ma corde non ce n’è più. Ci fai tante cose con le corde: puoi legare gli animali o impiccare i cristiani. O i musulmani. Da qualche parte in Bosnia c’è una missione umanitaria, che si arrabatta come può. Sotto ogni carcassa di vacca può esserci una mina. Dietro ogni angolo, un posto di blocco. La guerra è finita, in teoria. La pace è molto in là da arrivare. I paesi sono rottami, la gente ride per un niente e si ammazza per un saluto, per un pallone. Se ti fermi a pensarci non ne esci più. Meglio scherzarci sopra e concentrarsi sul prossimo posto di blocco, sulla prossima carcassa, sul prossimo pozzo. Quel che deve andare a puttane c’è già andato; quel che ancora può salvarsi, magari si aggiusterà da sé.

Perfect Day meriterebbe di essere visto anche se non fosse il piccolo film perfetto che è, per quel pezzo della nostra storia che ci rimette davanti, dopo anni passati anche a cercare di dimenticarcelo: la Bosnia. Piccola come l’Emilia e la Toscana, alle stesse latitudini, ad appena qualche centinaio di km. Per quarant’anni un mistero sulle cartine politiche che avevamo a scuola – se ne sentiva parlare solo per l’attentato a Sarajevo – e poi all’improvviso l’inferno: il fratello che uccide il fratello, i cetnici, gli ustascia, i mujaheddin. Noi cresciuti a pane ed euromissili, convinti che la guerra fosse solo una cosa fredda, globale, assoluta, ce la siamo trovata davanti così piccola, tossica e incomprensibile, come una muffa che ci prende la cantina e non la cacci più via. Non avevamo mai sentito parlare di stupri etnici, di enclavi, di nazionalismo serbo. Ma stava succedendo a pochi passi e bastava prendere un furgone per andare a controllare nelle retrovie, che faccia familiare avesse l’orrore. Perfect Day ci riporta in quei giorni e riesce per un attimo a recuperare quel romanticismo fuori tempo che negli anni Novanta conservavano le ONG, prima dello scandalo della missione Arcobaleno.

Sarebbe insomma un film da vedere anche se fosse un noioso e tragico affresco sull’assurdità di una guerra contemporanea eccetera. Tanto meglio se invece di affliggerci o ricattarci, León de Aranoa prende una strada del tutto laterale e minata, e la butta in commedia… (continua su +eventi!)

giornalisti, guerra, scuola, universiade

Giù le mani dal trombone

Cari studenti del Collettivo Studentesco Autonomo (CUA), che siete finiti sul giornale negli ultimi giorni contestando ripetutamente il professor Panebianco durante le sue lezioni:

Sono stato giovane anch’io blablabla ho fatto le manifestazioni pacifista blablabla vi risparmio la tiritera. Anche perché non è che abbia cambiato molte idee da allora. Continuo a pensare che le guerre siano in linea di massima fregature da cui chi ha un po’ di senno dovrebbe sottrarsi, e a esecrare ogni forma di violenza. E tuttavia debbo prevenirvi: se davvero riuscirete a fare di Angelo Panebianco un martire della libertà di opinione, io non risponderò più di me. Verrò a cercarvi, non sarò solo. Si possono commettere tante scemenze e per i migliori motivi: ma dare a un noioso propagatore di luoghi comuni l’occasione di mostrare un po’ di coraggio è tra le più grosse.

Per quanto io possa ricordare, Panebianco ha sempre scritto sul Corriere. Stava in prima pagina quand’ero ragazzino e ci sta tuttora: e non mi è mai capitato di leggere nulla di suo non dico originale, almeno interessante. Sempre e solo i due o tre frusti concetti che il lettore-tipo del Corriere della Sera vuole sentirsi dire. Negli anni, la sua figura pubblica è finita per diventare l’illustrazione della voce “trombone” della mia enciclopedia interiore. Deve aver ricordato alla sinistra italiana i suoi errori e le sue compromissioni almeno una volta al mese per un migliaio di mesi. Poi ci fu la fase della guerra contro il Terrore, e anche lì, Panebianco ci spiegò che Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa; che esportare la democrazia era necessario, e chi a sinistra non capiva queste semplici verità era un imbelle, un pavido. A distanza di più di dieci anni da quella cantonata solenne, Panebianco continua a pontificare sugli stessi argomenti, a metterci in guardia sui presepi che scompaiono, e continua a saperne quanto me o quanto te, che il giornale in teoria lo compreremmo per imparare qualcosa di nuovo (e siccome ci scrive gente come Panebianco, non lo compriamo più).

In questi giorni ad esempio ha insistito sul fatto che Regeni non deve averlo ammazzato il regime di Al Sisi, ma gli oppositori islamici. Perché? Da cosa lo deduce? Ha accesso a fonti confidenziali? Ma no, ma che bisogno c’è, Panebianco è meglio di Poirot: da Bologna può risolvere un caso al Cairo. Lo devono avere ammazzato gli islamici, spiega, perché il corpo è stato ritrovato: se l’avessero ammazzato i governativi infatti lo avrebbero fatto sparire. Non fa una grinza, no? Se vi è capitato di sentire la stessa storia al bar sotto casa, da gente che in Egitto non c’è mai stata e avrebbe difficoltà a indicarlo su una cartina, ebbene, Panebianco è sulla stessa frequenza: Panebianco sa le cose prima che accadano, visto che le uniche cose che davvero gli serve conoscere sono gli umori di una classe media benpensante che se cambia idea, la cambia molto più lentamente di quanto ci mettono le loro chiome a incanutire.

Questa alla fine è anche la sua utilità – molto relativa, d’accordo. Panebianco probabilmente non ha mai spostato un voto, né convinto un solo lettore a invadere l’Iraq o votare moderato. Panebianco è un elegante barometro che ci mostra sinteticamente quello che un sacco di italiani pensano già. Cercare di metterlo a tacere sarebbe come fermare gli orologi per evitare che il tempo passi, truccare le bilance per riuscire in una dieta, censurare il meteo, aggiungete metafore a piacere. Dannoso, oltre che inutile: di Panebianco ne crescono in continuazione in tutte le redazioni. Se ne tagliate uno ne crescono altri sette, per tacere dei bot che già adesso probabilmente sarebbero in grado di scrivere fondi di Panebianco molto meglio di Panebianco.

E poi, sul serio, non fa comodo anche a voi dare un’occhiata al barometro ogni tanto? Quel che rivela al termine di quel suo fondo che vi ha fatto arrabbiare – quella voglia fino a questo momento inconfessabile di fare della guerra “la prima preoccupazione dell’Unione” – pensate che sia un’idea solo sua? (Come se P. potesse davvero maturare idee in autonomia). Non notate che è la conclusione naturale di un ragionamento collettivo? Date un’occhiata ai dati in giro. Siamo la quarta economia d’Europa, e stiamo sprofondando. Per trent’anni abbiamo fatto debiti e investito in tutto fuorché in ricerca e innovazione. Ora abbiamo la più alta percentuale di illetterati, un debito pubblico enorme, e una voragine di violenza dall’altra parte del mare. È il momento esatto in cui gli intellettuali, anche quelli un po’ ribelli in gioventù, cominciano a sentire il prurito, a vedere Grandi Proletarie, a cianciare di Sola Igiene del Mondo. Sono criminali? Alcuni sì. Ma il prurito che sentono è una cosa collettiva.

Chi vi scrive è stato anche lui giovane blablabla. Ultimamente insegno in una scuola media, e di ragazzini iperattivi con una gran voglia di partire per la guerra ne ho avuti sempre, in una percentuale grosso modo costante. Da un po’ di tempo a questa parte, però, mi accorgo di un fenomeno diverso. Arrivo con alcune nozioni, niente di speciale: debito pubblico, tasso di disoccupazione, piramide delle età, eccetera. E ogni tanto sul fondo un ragazzino – di solito un maschio – mi interrompe: “ma allora bisogna fare una guerra”. Così. Non perché ne abbia voglia – molti ne hanno voglia, ma c’è anche un altra cosa: c’è la limpidezza del ragionamento, che poi con gli anni si annebbierà, intorbidandosi con la nostra voglia individuale di sopravvivere, avere eredi, ecc. ecc. Ma se fossimo razionali e irresponsabili come può essere un bambino di dodici anni, ci basterebbero un paio di grafici per giungere a una conclusione del genere. Abbiamo tanti disoccupati poco qualificati, abbiamo industrie che scalpitano, abbiamo un fronte pronto a poche miglia nautiche. Angelo Panebianco dà voce a quel ragazzino di ogni età. Volerlo mettere a tacere – non avete idea, fidatevi, di quanto sia patetico provarci.

attivismo, guerra, manifestaiolismi, terrorismo

Avevamo il 5% e avevamo ragione

Avevo in bozza la fine del ragionamento sul partito di sinistra del 5%, che questa settimana sembra abbastanza superato (alligna in me almeno il germe dell’ottuso-bravo-cittadino, quello che nei momenti di crisi si stringe alla bandiera e alle istituzioni; al punto che riesco ad apprezzare un buon discorso di Renzi e persino qualche degno intervento di Angelino Alfano; e a sospirare al pensiero che nelle stanze dei bottoni ci siano loro e non altre creature sempre meno antropomorfe).

Una cosa però la voglio buttare giù, visto che in questi giorni è facile andare col ricordo al periodo della guerra al terrore. Bene, se c’è stato un momento, negli ultimi vent’anni, in cui una sinistra minoritaria ha dimostrato di essere utile, se non necessaria, è stato quello. Non eravamo tantissimi, non avevamo necessariamente categorie più raffinate dei neocon che avversavamo; non eravamo eleganti, non sapevamo capitalizzare i successi dei forum sociali e dei cortei no-war. Non eravamo l’avanguardia intellettuale del Paese e non meritavamo senz’altro di conquistare l’egemonia; però avevamo ragione.

Ce lo hanno mostrato i fatti, lo ha ammesso persino il mellifluo Tony Blair. Qualsiasi ingenua analisi postata su un blogghetto amatoriale (che mi costa una certa fatica andarmi a rileggere) sembra comunque illuminata da una spaventosa chiaroveggenza, se solo la paragono alle ciarle che nello stesso periodo facevano sbrodolare alla povera Fallaci. Avevamo ragione sui rischi di destabilizzazione del Medio Oriente, avevamo ragione nel liquidare a sberleffi le ideologie contraddittorie dello scontro di civiltà e dell’esportazione della democrazia; eravamo forse un po’ più ingenui quando parlavamo di petrolio, ma almeno avevamo capito che sotto la trama religiosa c’è sempre la cara vecchia economia.

In seguito c’è chi è partito per la tangente; chi aveva troppo fiuto per i retroscena ha iniziato a vedere false flag e scie chimiche; però l’intuizione iniziale era buona, e veniva da un ambiente che conservava gli strumenti per vedere quello che altri non potevano o non volevano vedere, per diplomazia o per interesse o pura e semplice insipienza. Non è che abbia nostalgia di quello spazio e di quel momento (che non è mai riuscito a costituirsi in un partito organizzato, peraltro). Ma credo che molti giovani avrebbero bisogno proprio di un ambito del genere, dove coltivare un sano dubbio post-ideologico e imparare a irridere gli impavidi arruolatori di ogni stazza ed età. Certo, le elezioni non si vincono subito e forse non si vinceranno mai. C’è però anche altro nella vita: e anche il piccolo orgoglio di avere avuto i dubbi giusti e quasi sempre ragione non è da sbatter via. Ci si può costruire qualcosa.

(Vien quasi la vertigine, a pensare quanto ero stupido quando avevo sempre ragione. A me poi piacerebbe anche aver torto ogni tanto, son quel classico Tramaglino a cui piacerebbe annoiare il prossimo raccontando i propri errori di gioventù. Ne avessi fatti un po’ di più! e invece quasi niente).

guerra, internet, scuola, terrorismo

Se è una guerra siate adulti, per favore.

In Italia al sabato le scuole sono aperte, il che almeno mi ha impedito di passare mezza giornata su internet a litigare. Grazie al cielo c’è un lavoro da fare, e grazie al cielo è un ottimo lavoro – anche le mattine in cui i ragazzi sono nervosi e non sai bene cosa raccontare. Una cosa bella del mio lavoro è che mi mette costantemente davanti ai miei limiti e mi obbliga a essere una persona un po’ migliore. Non sempre ci riesco, ma quando uno è costretto a provarci cinque mattine su sei alla fine qualche risultato lo porta a casa.

A volte credo che molta gente avrebbe semplicemente bisogno di sperimentare quello che quotidianamente capita a tizi come me: invece di alzarsi e correre a citare qualche frasetta della povera Fallaci, o titolare “bastardi islamici” per lucrare un po’ di copie, provare a venire in una scuola qualsiasi della Repubblica, al mattino: a entrare in una classe e trovarsi venticinque cuccioli, di cui quattro o cinque musulmani. E a quel punto, coraggio, vediamo fino a che punto riesci a parlare di invasione, di eurabia. Vediamo fino a che punto riesci a dire “islamici bastardi” in presenza di bambini normalissimi che hanno lo stesso zainetto degli altri, lo stesso astuccio degli altri, gli stessi voti degli altri – e sono nati nello stesso ospedale dove sei nato tu.

In *tutte*, cioè non è che se fai il liceo coreutico
non devi studiare la Fallaci.

A questo punto, mentre non trovi le parole per offendere la religione di un miliardo di persone, magari potresti notare che quei bambini, quei ragazzi, possono essere persino più spaventati di te: e che quei gridi scomposti e intolleranti che su facebook o altrove ti riuscivano così bene, ti facevano sentire così libero… non sono altro che forme di panico; e tu non puoi farti prendere dal panico, perché sei l’adulto e gli adulti non dovrebbero cedere al panico. Altrimenti hanno vinto loro, no?

E tu non vuoi che vincano loro, o no?

Tu dici che è una guerra: va bene. Non sarà allora il caso di comportarsi come ci si comporta in una guerra? Da uomini, si diceva una volta. Da adulti, diciamo. E quindi: se abbiamo paura, dobbiamo ricacciarcela in gola, e ai ragazzi prima di ogni discussione premettere un concetto: vinceremo. Anche se oggi siamo in ginocchio (ma ci rialziamo), anche se per qualche minuto abbiamo davvero avuto paura (ma ci sta passando), anche se per un attimo un nemico ci ha portato a sospettare l’uno dell’altro, ad accusare l’uno o l’altro; tutto questo non importa, perché contro il terrorismo abbiamo sempre vinto e vinceremo anche stavolta. Perché ieri sera i parigini aprivano le porte delle case per dare rifugio a chi scappava; perché i tassisti hanno fatto la spola per tutta la notte, perché per ogni terrorista ieri a Parigi c’era almeno un migliaio di cittadini che sono accorsi agli ospedali a donare il sangue: perché noi siamo tanti, e loro no. Siamo uniti, e loro no. Siamo più forti, e certamente qualcuno di noi può cadere, ma noi tutti insieme no.

Va bene che non siamo tutti Churchill, ma resto convinto che siamo migliori della nostra bacheca su facebook. E allora basta chiacchiere per favore, un po’ di coraggio e un po’ di disciplina, è tutto.

guerra

The Great Game

Ai lettori di Libero che in stragrande maggioranza si sono detti favorevoli a un “blitz militare” in India per liberare i marò vorrei esprimere i sensi della mia commozione, accompagnati alla speranza che una così meravigliosa fiducia nelle capacità delle forze armate italiane non sia mal riposta.

La mia obiezione non riguarda tanto i dettagli del piano (un po’ vecchiotto), né l’eventualità di una crisi diplomatica che in caso di intervento militare non potrebbe che portare a un conflitto con una nazione di un miliardo e alcune centinaia di milioni di abitanti – del resto, immagino che lettori e redattori di Libero non si nascondano l’entità dalla sproporzione tra noi e l’Unione Indiana. Forse però non hanno riflettuto con la dovuta attenzione sul vecchio adagio che dice: il nemico del mio nemico è mio amico. Senz’altro possiamo muovere guerra a una potenza nucleare popolosa come venti Italie – per il nostro onore questo e altro – ma così facendo non rischiamo di farci… degli amici? Pensiamoci bene. Chi è l’eterno rivale dell’Unione Indiana? Chi ha combattuto contro di essa praticamente sin dal giorno dell’indipendenza, trascinando una disputa territoriale e religiosa per più di settant’anni?

Il Pakistan.

La seconda nazione musulmana più popolosa del mondo – l’unica nazione islamica membra ufficiale del club nucleare. Sul serio vogliamo averla come amica? Quelli che hanno ospitato Bin Laden mentre Bush lo cercava sotto ogni singolo sasso dell’Afganistan. Sul serio vogliamo allearci con loro? Eppure è chiaro che se attacchiamo l’India, spezzandole inevitabilmente le reni, i pakistani non esiteranno ad approfittare del collasso del suo apparato difensivo e ad occupare il Kashmir. Sul serio gli stimati lettori di Libero vogliono questo? Le mani degli islamici sulle pregiate capre da maglione?

Io credo di no.

Con questo non voglio dire che un blitz militare contro l’India non vada portato a termine: ma va calato in un preciso contesto geopolitico. Vale a dire: se attacchiamo l’India bisogna che attacchiamo anche il Pakistan. Par condicio. Del resto la nazione che può permettersi di muovere guerra a una potenza nucleare di un miliardo di abitanti, che difficoltà dovrebbe avere contro un’altra potenza nucleare di appena 180 milioni? Facciamo trenta, tanto vale far trentuno. Tanto più che a Suez hanno appena aperto la seconda corsia. Da lì è tutto dritto fino ad Aden, poi si divide la flotta in due spezzoni. La Cavour col grosso dei sottomarini procede spedita verso il golfo di Bengala; la Garibaldi con un po’ di cacciatorpediniere si attarda nel Mar d’Arabia, finché nell’ora x –

Un momento.

Non credo che a Libero ignorino la cosa. Se spezziamo le reni all’India e pugnaliamo contestualmente le spalle al Pakistan, se davvero decidiamo di umiliare i due storici litiganti… c’è il grosso rischio che il terzo goda. E sappiamo tutti qual è il terzo, no?

Il Bangladesh. Appena 156 milioni di abitanti, su un territorio più piccolo dell’Italia e prevalentemente paludoso – pane fradicio per i denti dei nostri Lagunari. E va bene.

Ricapitolando: si passa per Suez, si sbarca in Pakistan, si marcia spediti verso l’Indo – nel frattempo la Folgore potrebbe occupare Sri Lanka e Maldive per prevenire eventuali interferenze nello spazio aereo. Se abbiamo un tris di carte si può fare, io non temporeggerei. E se i dadi ci dicono bene, si può anche provare ad attaccare il Siam.

Con tre carri armati.

guerra, scontro di civiltà

Gli imperi recalcitranti

Essere Kaiser oggi. 

Non la piccola Ungheria gelosa di una sua qualche identità e del po’ di benessere che è riuscita a strappare alla fine del Novecento; non la sottile Danimarca, che fino a ieri ci veniva venduta come un modello di società flessibile e replicabile – salvo bloccare flessibilmente i treni di fronte alla minaccia di qualche migliaio di profughi. Non le province del Mediterraneo, Spagna Grecia e Italia, che temono i migranti come si temono i parenti poveri. Solo la Germania poteva decidere di fregarsene di Bruxelles e aprire la porta ai rifugiati, e finalmente lo ha fatto. Non è stata semplicemente una scelta giusta; è stata una scelta imperiale.

La Germania è al centro dell’Europa, di cui è il Paese più ricco (per PIL) e popoloso. È normale che sia anche al centro del bersaglio di chi di quest’Europa è insoddisfatto: e sono sempre di più, e non hanno tutti i torti. Ma tra tante accuse, quella di imperialismo è la meno sensata. Si potrebbe serenamente sostenere il contrario: quel che è mancato fin qui alla Germania, ai suoi governanti e ai suoi abitanti, è proprio una visione imperiale del problema europeo.

Abbiamo tutti studiato abbastanza Novecento per indovinare il perché: diciamo che dopo due guerre mondiali e durante un lacerante stallo di quarant’anni, i tedeschi hanno rinnegato quella posizione dominante che pure appare inevitabile per una questione meramente geografica – sono di più, sono al centro, hanno le materie prime. Potremmo anche spingerci a immaginare che l’ottusa etica del rigore che abbiamo rimproverato ai tedeschi sia il risultato di questa rimozione: se i nazisti avevano visto l’Europa come una prateria da saccheggiare, i tedeschi del dopoguerra si sono concentrati su sé stessi e sui propri doveri. Da qui la scarsa o nulla empatia nei confronti dei popoli insolventi – un’insensibilità che non ha nulla di imperiale. I tedeschi non vedono nella Grecia una frontiera difficile, da mettere al riparo dalle influenze russe e dalle turbolenze del Medio Oriente. È solo un condomino insolvente, che se smettesse di far baccano, si rimboccasse le maniche e licenziasse la servitù improduttiva, potrebbe ottenere i risultati di qualsiasi altro inquilino – proprio come l’Italia potrebbe diventare la Finlandia o la Danimarca in qualsiasi momento, se solo ci credesse. Basta fare il proprio dovere, stringere la cinghia e pagare i debiti. Una mentalità più Biedermeier che da Quarto Reich. Il fatto che alcuni inquilini siano abituati storicamente a vivere al di sopra delle proprie possibilità è considerato tutt’al più come una questione morale – non il risultato di contingenze storiche ed evidenze geografiche.

Grecia e Italia in effetti sono entrati nel palazzo quando erano avamposti NATO – e tuttora gli americani non riescono a capire perché alla Grecia non si possano condonare i debiti come si fa, diciamo, con Porto Rico. Ma anche l’imperialismo USA sta perdendo i colpi, ed è forse questa la vera crisi che stiamo vivendo, perché diciamolo, nel Medio Oriente che altro c’è di nuovo? Sunniti e sciiti si odiano da secoli, turchi e curdi se le sono sempre date;  tra israeliani e palestinesi è cominciata più tardi ma promette ugualmente di non finire mai. Se però all’improvviso Mubarak crolla, Gheddafi lo segue, Assad quasi soccombe; se nel giro di pochi mesi un gruppo più fondamentalista di altri riesce a piantare bandierine su un pezzo di Iraq e Siria – e nel frattempo Arabia Saudita e Qatar bombardano lo Yemen, insomma, se tanti topolini ballano forse la novità è che il gatto ne ha avuto abbastanza, ha imparato a distillare petrolio dalle rocce di casa sua, ha fatto una pace separata e non troppo onorevole col nemico più pericoloso e si sta disinteressando della questione – col prevedibile risultato di attirare i rivali di sempre.

Tutto questo dev’essere difficile da mandar giù soprattutto per quei commentatori che non si sono mai ripresi dalla sbornia interventista dei tempi di G. W. Bush. Continuano a fantasticare di bombardamenti neanche troppo mirati, di violenze incomparabilmente superiori, come se nel pugno tenessero dozzine di divisioni corazzate, quel che ti capita quando hai venti territori a risiko e un tris di carte, e invece in mano non hanno un cazzo: neanche quei due spicci che riuscivano a passarti ai bei tempi.

Si è scoperto nel frattempo che la guerra di civiltà è un po’ onerosa per una democrazia evoluta: che presto o tardi vince le elezioni chi promette di disimpegnarsi – magari regalando un contentino a chi si è affezionato alla narrativa, un grande vecchio da ammazzare in diretta e seppellire in mare, e poi farci un film. Poi magari l’anno prossimo vince un repubblicano e alè, si ricomincia. Ma di tante accuse che possiamo muovere agli USA, la più ingiusta è di aver provocato l’attuale crisi in Medio Oriente col proprio imperialismo. È abbastanza plausibile il contrario: finché hanno fatto gli imperialisti seri l’Iraq tutto sommato lo tenevano. Quando si sono stancati, e hanno pensato che si potevano portare i ragazzi a casa e risolvere tutto con un po’ di droni, è successo il patatrac. Quindi è comunque responsabilità loro? Beh, quando sei così grande è sempre responsabilità tua. È un po’ il senso di avere un impero. Ma chi vuol essere un impero, oggi?

Non gli USA, non la Germania, anche la Cina sembra spaventata delle sue stesse dimensioni. Solo Putin ha l’aria di tenerci davvero, ma è l’ultimo di cui ci fideremmo. Nel frattempo fa sempre più caldo, siamo sempre di più e non c’è nessuno che sappia cosa fare.

No, scusate, non è vero. Gli ungheresi sanno cosa fare. Alzano i recinti. Buon per loro.

guerra, La grande gara di spunti, memoria del 900

La ritirata di Berto

“Torno a Majano con l’autoblindo il mattino del 30 ottobre. Gli austriaci se l’erano ripresa nottetempo. Avevano 6 pezzi mitragliatrici montate su biciclette”.
“Su biciclette”.
“Almeno tre in riga, stupidamente scoperte. Procedo in retromarcia e le punto con la mia mitragliatrice di culo a 50 metri di distanza. Una raffica e la mitragliatrice austriaca al centro è rovesciata. Vedo sollevarsi il mitragliere che era coricato dietro pancia a terra e tentare di alzarsi. Ha nel petto e nel ventre un buco enorme squarciato di 30 cm che schizza sangue a fiotti, a rivoli, destra, sinistra, inondando la strada piena d’acqua, che si arrossa tutta…”

(Questo pezzo riprende Fiume 1920, che si è qualificato agli ottavi della Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 


Al bar il comandante teneva banco con la storia della sua ritirata del Friuli – un’anabasi di epici conflitti a fuoco. Berto gliel’aveva sentita raccontare una dozzina di volte, sempre più fiorita di dettagli vividi, sempre più simile a un’avanzata vittoriosa. Non era del resto il solo, tutti avevano il loro aneddoto su Caporetto. Era curioso. Quel che era successo nel maledetto ottobre del 1917, per un anno nessuno aveva voluto raccontarlo. Tutta questa memorialistica da locanda, da bar, da caffè concerto, ci aveva messo almeno un anno a incubare. E adesso tutti avevano la loro storia.

“Il mitragliere morto impigliato sanguinosamente nel suo trepiede è schiacciato dalla mia blindata che passa sopra. L’altro tira pancia a terra. Ho le gomme sfasciate. Il mio sergente automobilista lo insegue e lo pugnala contro la porta chiusa d’una casa. Le altre 3 mitragliatrici che ci bersagliavano nascoste nel granoturco sulla destra tacciono. Il capitano del battaglione di fanteria è colpito a terra e cade morto….”

Solo a Berto non toccava nessuna storia. Lui a Caporetto si era messo in coda, semplicemente. All’inizio non si era nemmeno reso conto di dove stavano andando – era nuovo del fronte e non capiva quanto fosse eccezionale tutto quello che gli succedeva intorno. Solo dopo un paio d’ora, quando avevano superato un carro di profughi impantanato, e il sergente si era lasciato sfuggire una bestemmia in una varietà di lombardo mai udita prima. Sergente ma che succede, dove ci mandano?

“Ma non hai capito, gnàro? Abbiamo perso la guerra. A casa ci mandano”.

Detta da lui, non era sembrata una buona notizia; a Berto però si era gonfiato il cuore, in quel momento, e da allora non riusciva a pensarci senza vergognarsene. Perché mentre quel metro e sessanta di sergente veterano tratteneva le lacrime per tre anni di battaglie sull’Isonzo mandati a puttane da quattro traditori infami, tre anni inutili a marcire in trincea mentre qualcuno a casa vendemmiava il suo e gli metteva incinta la figlia, Berto si era improvvisamente visto a casa, tutto intero, pronto per fidanzarsi a Natale e sposarsi entro Pasqua, senza che nessuno potesse permettersi di dirgli niente. In guerra non c’era andato? Appena era stato abbastanza grande da imbracciare il Novantuno. Mica era colpa sua se nel frattempo era finita. E Trento? E Trieste? Sarebbe stata per un’altra volta. Era senz’altro terribile perdere una guerra, ma almeno per un istante Berto ricordava di aver calcolato quanto gli convenisse.

Lo stesso pomeriggio aveva di nuovo incrociato Martone. Portava un fez verde mai visto, e coi suoi colleghi andava nella direzione contraria. Camerati buonasera! noi si va a Trieste! Nessuno rispondeva. Solo il sergente aveva reagito.
“Cosa dicono questi scriteriati”.
Martone si era voltato, mostrando un ghigno che Berto conosceva (gli immaginava lo stesso ghigno addosso mentre rigirava coltelli tra le vertebre dei crauti).
“Non ha sentito le novità signor sergente? La Terza Armata ha sfondato. Sono a Trieste, adesso”.
“Ma dove Trieste. Ma fatemi il piacere. Se volete andarvi ad ammazzare, almeno non raccontate storie ai ragazzini”.
“Allora se non le dispiace sergente io vado”.
“Chi vi ha dato l’ordine?”
“Non lo so, io seguo i miei?”
“E io non sono il tuo superiore, quindi vatti pure a farti inculare dove ti piace”.
“Berto tu vieni?”

Berto si era immobilizzato. Prima gli avevano detto che la guerra era finita e persa. Poi vinta. Adesso gli offrivano un po’ di gloria e lui non sapeva più cosa provare.

“Gnàro, se fai solo per seguire questo malmaturo ti fucilo seduta stante. Alle spalle”.

Il sorriso di Martone si era appena incurvato. “Sergente io e voi a fine guerra abbiamo un appuntamento”.
“Va bene, vediamo chi ci arriva”.

Il sergente era morto un mese prima della vittoria, Martone si nascondeva da qualche parte nel Carnaro. La storia della liberazione di Trieste – Berto aveva saputo poi – era una bufala messa in giro dagli austriaci.

Se il baldo furor giovanile non ti manca, orsù, vota con entusiasmo questo spunto che compete con. Il mondo dei non-ancora-nati. Metti Mi piace su facebook, o esprimi il tuo ardimento nei commenti in calce al pezzo. Eja, carne del Carnaro! e arrivederci ai quarti di finale.

guerra, La grande gara di spunti, racconti

I banditi della montagna

Dal modo in cui sparava, Prandini sapeva di trovarsi davanti a un ragazzino.

Non era una buona notizia. Negli ultimi anni Prandini aveva rivisto tante sue convinzioni, tra cui quella che i giovani valligiani fossero meno pericolosi dei vecchi. Non si potevano sottovalutare i ragazzini. Non si poteva sottovalutare più niente. La radura era gonfia di gente che aveva sottovalutato qualcosa o qualcuno, e Prandini aveva deciso di starci lontano ancora per un pezzo. Aveva tante cose da fare, zucchine da selezionare, parole da salvare.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

Stava riparato dietro un faggio, un grosso tronco paziente che aveva già cicatrizzato altre scheggiature di pallottola, ricordi di vecchi conflitti a fuoco. Non te la prendere, gli illustrava la corteccia tra una raffica e l’altra: ci siamo tutti abituati. È solo guerra, la cosa più naturale del mondo. Ma il ragazzino sembrava terrorizzato, continuava a sventagliare senza metodo. Una cosa molto sciocca, oltre che pericolosa. C’era sempre la possibilità che una pallottola rimbalzasse su una pietra e lo facesse secco. Già successo. Prandini era scocciato.

Finalmente gli era venuta la parola. Lui era l’unico della Brigata a ricordarsela ancora: Scocciato. Un giorno se la sarebbe dimenticata per sempre, e la parola non sarebbe esistita più. Prandini ci teneva alle parole, era una delle sue debolezze. Non avrebbe mai voluto perderle. Era chiaro che una Brigata sempre più piccola non avrebbe avuto bisogno di troppe parole – per molte delle quali ormai mancavano i significati. Prandini lo capiva, ma non voleva accettarlo. Gli scocciava.

Due minuti di silenzio, e un’altra raffica. Ormai stava diventando una specie di richiesta di aiuto. Venite a prendermi! Ho snidato un bandito, ma non so come stanarlo. 

Dal rumore era un piccolo Uzi: bell’oggetto, ma inutile per Prandini. Avrebbe sparato ancora per un bel po’, raffiche sempre un po’ più brevi. Se il ragazzino era abbastanza scemo, avrebbe sparato fino all’ultima cartuccia: a volte era successo. A quel punto bastava saltar fuori e prender la mira. Però poteva anche essere una trappola. Anche questo a volte era successo. Ragazzini mollati a sparacchiare in preda al panico, come… come esche. Ecco un’altra parola importante: esche.

Peccato non avere carta e penna con sé. Succedeva sempre più di rado, ma certe mattine senza un motivo la testa di Prandini brulicava di parole importanti ormai dismesse. Esca è fondamentale, non è che esistano altre parole per rendere l’idea. Esca. Si fanno spesso riflessioni importanti durante i conflitti a fuoco. Di solito non c’è altro che aspettare e osservare, osservare e aspettare, e intanto i nervi girano a mille. Una volta si masticava gomma, poi era finita, e a quelli come Prandini non restava che rimasticare i concetti.

(Forse l’unica retorica a cui la mia generazione nicchia non riesce a ribellarsi è quella della Resistenza. Tutte le altre guerre sono sbagliate, ma quella no. Tutti gli altri martiri sono discutibili e discussi, ma i partigiani mai. Peraltro se ci provi il rischio di trasformarti in Giampaolo Pansa è fortissimo. Eppure a ripensarci fu un episodio non solo periferico rispetto alla guerra mondiale in corso, ma abbastanza limitato nel tempo – due anni! Così mi sono chiesto che succederebbe se un gruppo di persone imbevuto di cultura resistenziale, alternativa, ecc., si trovasse a combatterla davvero, nel solito futuro prossimo, ma non per un anno o due: a oltranza. Quando esattamente si trasformerebbero da eroi in carogne?)

Quante munizioni poteva avere? Quante potevano lasciarne, a un ragazzino? Magari era scappato. Aveva litigato coi suoi e aveva deciso di unirsi ai Banditi. Era successo anche questo, una volta. Si era capito subito che non sarebbe durato. Certe abitudini che Prandini non metteva più in discussione da anni, per il nuovo arrivato erano privazioni intollerabili. Lo avevano messo al muro con l’accusa di essere una spia, non avevano aspettato di avere una prova. Probabilmente non lo era, ma facilmente lo sarebbe diventato, prima che l’inverno picchiasse duro. Soprattutto erano stanchi di sentirlo lagnarsi per il freddo o la fame. Non mangiava farina di castagne: un’intolleranza alimentare, diceva. Il processo era stato rapidissimo e Prandini non vi aveva preso parte, ma non aveva neanche avuto nulla da obiettare.

Un’altra raffica – un po’ meno generosa. Esca o non esca, il panico del ragazzo lo avrebbe condannato. Con un po’ di fortuna tra mezz’ora Prandini lo avrebbe raccolto in un cespuglio, con gli occhi sbarrati che hanno i bambini quando vogliono scacciare la realtà che hanno davanti. (Anche questo era già successo? A volte Prandini aveva paura di inventarsi i ricordi).

(C’è stata una catastrofe. Forse semplicemente il riscaldamento globale. La pianura è diventata invivibile, le montagne si sono ripopolate. Ma non è stato un processo lineare. I primi a tornare in montagna sono stati i neorurali, i collettivisti, i primitivisti, qualche hipster, Civati. Gli altri per un po’ hanno insistito a vivere in new town pedemontane fortificate e aircondizionate. Ma serviva molta energia per farle funzionare, e dopo un po’ è finita; così alla fine i valligiani hanno attaccato le montagne. Sono più numerosi e meglio armati, ma non conoscono il territorio e non sono abituati alle scomodità della guerriglia. I montanari viceversa avevano già cominciato a scannarsi tra tribù, per questioni politiche ma soprattutto perché di terreno fertile ce n’è sempre meno. Quando arrivano i valligiani qualche comunità si compatta, altre tradiscono. Prandini è l’ultimo sopravvissuto di un agriturismo biodinamico, tutti i suoi amici e la sua famiglia sono stati uccisi o fatti schiavi. Per sopravvivere si è unito a una brigata comunista che di comunista non ha più niente, ormai sono tutti giovani molto selvatici, Prandini è un nonno saggio che sa quand’è ora di seminare le patate. Ha fatto cose orribili, ma sopravvivere in questo consiste).

Invece se lo vide lampeggiare a pochi metri – al centro della maglietta, la sagoma di una band che non gli era mai piaciuta. Stava banalmente scappando via, disorientato, nella direzione sbagliata. Un’esca non lo avrebbe fatto. “Ma dove vai, aspetta” – si sentì dire Prandini, in un accento quasi credibile, e per qualche secondo il ragazzino lo fece. Aspettò. Fu appena un’esitazione, ma non poteva permettersela. Prandini mirò la zazzera del cantante. Il colpo volò un po’ più sotto, dove fa ancora più male. Si sentì un urlo inumano, l’obiettivo rantolò per terra in preda a convulsioni. Prandini provava pietà per quel povero corpo che adesso bestemmiava e piangeva, ma non aveva intenzione di sprecare una cartuccia in più. Snudò il pugnale.

Era un davvero un ragazzino. Biondo, lentiggini, a chi somigliava? Seduto sulla sua schiena, mentre con la sinistra gli afferrava il ciuffo, Prandini ebbe un’epifania: l’ovetto kinder. Stava per sgozzare il bambino dell’ovetto kinder.

Come andrà a finire? Per saperlo occorre votare per I banditi della montagna, che oggi se la gioca contro Che ne sai tu di un campo di grano. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

guerra, La grande gara di spunti, Storia

Fiume 1920, l’immaginazione al potere

Tra un po’ sarà il centenario, forse ne vale la pena. Nel ’19, mentre l’Europa si rigira ancora sbigottita dopo il più grande macello di tutti i tempi, un poeta un po’ fuori moda, autore di best-seller ed eroe di guerra, occupa con un manipolo di reduci fuori di testa la città di Fiume (Rijeka), che i diplomatici seduti al tavolo dei vincitori sono ancora incerti se assegnare al regno d’Italia o a quello appena nato di Slovenia Croazia Serbia e Montenegro (che qualcuno chiama col buffo nome “Jugoslavia”).

Mentre i politici cercano di metterci una pezza, la ridente cittadina adriatica scivola nel delirio liberty del suo improvvisato dittatore, che inventa tante cose destinate a lasciare il segno, ad esempio i discorsi al balcone, il culto della personalità, l’eja eja alalà. D’altro canto Gabriele D’Annunzio, perché è di lui che stiamo parlando, sa che di discorsi alati non si vive, e cerca finanziatori. Li trova tramite quel giornalista ex socialista a cui l’Ansaldo finanzia ancora il quotidiano, Benito Mussolini. Quest’ultimo per copertura organizza una sottoscrizione, ma è scettico, teme di rimanere fregato. D’Annunzio gli propone cose folli, ieri abbiamo marciato su Fiume, domani marceremo su Roma! Seh, su Roma, figurati, ci massacrano ad altezza Orte. Non capisci, ormai lo Stato liberale è disgregato, lo dice anche quel sovietista torinese, come si chiama… Uh, buono quello.  

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

Ma è solo l’inizio. Quando si accorge che i negoziati vanno per le lunghe, e che anche Mussolini è favorevole a una situazione di compromesso, D’Annunzio trasforma Fiume in uno Stato indipendente, comincia a stampare francobolli, legalizza il giuoco d’azzardo e, cosa più sconvolgente di tutte, si butta a sinistra: riconosce, primo stato al mondo, la Russia dei Soviet. Nomina capo del governo un sindacalista rivoluzionario e redige con lui una costituzione che Trotskji trovò interessante. “Fiume è diventato un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high-life” [Turati]” Vi accorrono criminali internazionali e le spie a cui la pace ha tolto il posto di lavoro. Sono tutti variamente impazziti: sono sopravvissuti alla guerra più orribile e non sono nemmeno sicuri che sia finita. La rivoluzione è data per scontata, inevitabile; probabilmente sarà bolscevica ma anche anarchici e legionari l’attendono con trepidazione. D’altronde se D’Annunzio può fondare uno Stato, allora qualunque cosa, no?

Poi se lo volete più Pynchon me lo dite e lo facciamo più Pynchon, si può fare di tutto. Attilio è un ragazzo dello ’00, di quelli che hanno mancato la leva per un pelo, e in pratica hanno solo il rimpianto di essersi persi la gloriosa cavalcata di Vittorio Veneto. In più suo fratello maggiore Bernardo era un Ardito, uno delle truppe speciali che strisciavano nelle trincee dei crucchi e li strangolavano nel sonno, in teoria. Lui sì che è un vero uomo. Ma dopo Vittorio Veneto non si è più fatto vivo a casa. Morto non è, perché continua a spedire le sue cartoline sgrammaticate da Verona, Milano (forse c’era quando hanno dato fuoco alla sede dell’Avanti)… l’ultima cartolina è timbrata Fiume. Attilio, che di suo è già purtroppo un estimatore del Piacere e delle Laudi, decide di raggiungere il fratello.

A Fiume incontrerà gente delle più strana. Sono mutilati, traumatofili, si accoltellano per passarsi il tempo, una marchesa va in giro vestita da Ardito col pugnale. Gira anche un po’ di coca, ma è la guerra la vera droga di cui tutti sono in crisi d’astinenza, la presa di Fiume è solo un succedaneo. A un certo punto arriva Marinetti con un volante in mano – ha cappottato strada facendo, per lui è una cosa naturale. È appena appena un po’ più fuso degli altri, in preda a ossessioni erotiche incontenibili maturate tra fronte e ospedale. Un gran parlare della trincea come di una festa di fine di mondo in cui ogni tanto qualche tuo amico esplodeva. Bei tempi, ma torneranno.

Quando finalmente incontra il fratello, Attilio ne resta turbato. All’apparenza è il più tipico miles gloriosus, la sua guerra sembra consistita nello sfoggiare il fez e sparare su fantaccini in fuga. Ma sotto la maschera si intravede un mostro in preda al panico. Che cosa combinerà nella città dove tutto è possibile? Riuscirà D’Annunzio a finire l’avventura in bellezza senza farsi male? Riuscirà Mussolini a rivendere l’idea della marcia su Roma come sua? Per saperlo non avete che da votare per Fiume 1920! Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che il pezzo vi è piaciuto. Eja ej… ehm… grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto).

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra

Dio è il mio cingolo di scorta

 
Fury (David Ayer, 2014)

Stanno arrivando. Sono assassini fanatici e suicidi innamorati della morte; mentre ci fanno fuori rendono lodi al loro Dio. Prenderanno le nostre donne, schiacceranno i nostri figli sotto i cingoli. Asfalteranno la nostra terra e la chiameranno pace. Sono gli americani. E noi… siamo i tedeschi?

Se Fury ha un merito, non è la tanto vantata accuratezza storica, che anzi lascia parecchio a desiderare; e nemmeno la pretesa di rendere la Seconda Guerra Mondiale l’inferno in terra che è stata (come molti horror della sua generazione, Fury si accontenta di esibire l’orrore invece che suscitarlo). Il vero risultato di Fury è aver portato un po’ di relativismo storico in quella che è rimasta l’unica guerra buona: aver violato in punta di piedi il tabù per cui si può raccontare il Vietnam dalla parte dei vietcong, la Secessione dalla parte dei sudisti – ma la Seconda Guerra Mondiale non si discute, la Seconda Guerra Mondiale è il Bene contro il Male, fine. Non che Ayer tenti di raccontarla dalla parte dei nazisti; ma nel trasformarla in un videogioco rende per un attimo le parti intercambiabili. Brad “Wardaddy” Pitt è un americano che parla tedesco e avrebbe potuto nascere tedesco; odia i nazisti ma sa che sarebbe altrettanto incapace di arrendersi; di fronte a un intero plotone di SS-Waffen, si comporta come la più fanatica delle SS.


Fury arriva quasi vent’anni dopo il Soldato Ryan, dal cui confronto non riesce a sottrarsi. È una lotta impari, come quella tra un panzer Tiger e un carro Sherman: Spielberg aveva in mano un racconto solido, Ayer è partito dai carri armati, e tra una battaglia e l’altra non sa bene come gestire i suoi uomini. Se Fury fosse un film di serie B – se esistesse ancora, la serie B, come concetto cinematografico – sarebbe il primo del campionato, perché a suo modo è un film agile e solido. Ma l’idea che per realizzarlo Pitt, LaBeouf e compagnia si siano addestrati come veri carristi, e abbiano passato giorni interi a sudare, insultarsi e lasciarsi cicatrici in faccia, lascia perplessi. Questo è un film di idee povere, ma buone, che avrebbe dovuto essere realizzato al risparmio: attori scarsi e scazzati, tre location e pedalare. La precisione filologica, addirittura l’idea matta di far scendere un campo un vero Tiger I (che su quel fronte nell’aprile ’45 era in realtà piuttosto raro), finisce per ottenere il risultato opposto: trasforma tutto in uno smagliante videogioco 3d. Anche perché Ayer non sa sottrarsi a una certa sintassi action, e prima di far esplodere le sue bare cingolate vuole mostrarle mentre si aggirano sul teatro delle operazioni in elaborati passi di danza. Ma se non si sono mai fatti molti film spettacolari sui duelli tra carri armati, forse c’è un motivo.

Quanto alla storia, sembra veramente buttata giù da un ragazzino traumatizzato dal Soldato Ryan (continua su +eventi!)

guerra, Israele-Palestina, medio oriente

Cosa pretendiamo da Israele

Banksy?

“Fuori dalla realtà”. A sentire Gideon Levy gli israeliani che hanno rivotato per il Likud sarebbero vittima di un lavaggio del cervello collettivo. “Se Netanyahu è il prossimo primo ministro, allora Israele non ha divorziato soltanto col processo di pace, ma col mondo”. Che Israele non la pensi come buona parte del “mondo” non è per la verità una gran sorpresa. Nemmeno la vittoria di Netanyahu lo è, non fosse per i sondaggi che hanno movimentato un po’ gli ultimi giorni di campagna. Forse esiste un fattore timidezza anche tra gli elettori del Likud, molti dei quali fino alle scorse elezioni avevano preferito scegliere altri partiti più a destra.

Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l’Iran finché c’è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?

Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni – come se il film non l’avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.

E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.

Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It’s essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven’t finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you’re prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these – (continua qui)

http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm

Come se non ci fossimo già passati. Un Herzog primo ministro avrebbe senz’altro rallegrato i lettori di Gideon Levy, le cancellerie europee e la Casa Bianca; avrebbe dato un’occasione ad Abu Mazen di volare in qualche location esotica e sorridere in favore dei fotografi come il rappresentante legalmente eletto di un qualche popolo; dopodiché – ci siamo già passati – la trattativa si sarebbe rapidamente incarognita sui soliti punti. Ad Abu Mazen, Herzog avrebbe offerto la consueta arlecchinata, una Cisgiordania a brandelli circondata e bucherellata dagli insediamenti e dai posti di blocco. Abu Mazen avrebbe potuto persino accettare, ma Hamas no, e saremmo al punto di prima. Non si capisce perché le cose non dovrebbero andare così, e non credo che un elettore medio israeliano dovrebbe immaginarsi che vadano diversamente. Quindi perché non Netanyahu?

Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall’altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?

Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l’arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica – a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.

Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte – un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d’amore e d’accordo. Ma Israele non è un’isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall’altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così – conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant’anni. C’è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C’è chi dall’altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c’è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell’occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà – finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.

giornalisti, guerra

La Grande Proletaria è confusa

Ci sono due ipotesi.

La prima è che ci sia da qualche parte in Italia (ma più facilmente altrove) un Potere forte, un gruppo di pressione che ci vuole tra breve in Libia a difendere qualcosa, l’occidente o la cristianità o un oleodotto. Al fine di convincere l’italiano medio, notoriamente refrattario all’idea di combattere (cioè la guerra al cinema non gli dispiace, e i soldati in parata li ammira volentieri: ma morire per questioni territoriali è proprio una cosa che storicamente non gli va giù), al fine di convincerlo, dicevamo, questo Potere forte sta disseminando notizie allarmiste nei media italiane (l’ultima di ieri erano gli “scafisti kamikaze”), calcando la mano su semplici concetti geografici del tipo “la Libia è a sud di Roma” e offrendo finalmente un po’ di ribalta agli orrori di quella guerra.

La seconda ipotesi è che non ci sia nessun Potere forte – o meglio, di Poteri forti ce ne sono senz’altro, ma nessuno è particolarmente interessato a un intervento italiano in Libia, o all’Italia in generale. E allora perché si leggono titoli come “l’IS a Roma”, e il Giornale ieri titolava “SIAMO NEL MIRINO Arriva la bomba umana“? Ecco, la seconda ipotesi è che i media stiano facendo tutto da soli, seguendo i loro automatismi. C’è una notizia? Fa paura? C’è un modo di scriverla perché ne faccia ancora di più? Sennò la gente non compra / non legge / non clicca / ecc.

Andiamo avanti così, continuiamo a togliere ore di geografia
a scuola, ché tanto non serve a niente.

La seconda ipotesi è più semplice, non coinvolge nessun Nuovo Ordine Mondiale, ed è quindi preferibile. Controprova: quando qualche anno fa un gruppo di pressione del genere esisteva davvero, e la partecipazione dell’Italia alla Guerra al Terrore di Bush era ancora in discussione, le cose si facevano più seriamente. Bufale ce n’erano anche allora (alla fine le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non è che fossero meno farlocche dei gommoni esplosivi), ma le trovavi negli editoriali del Foglio o della Stampa, non sotto la testata del Giornale. Il Corriere dava risalto ai deliri senili di Oriana Fallaci, sul Foglio Ferrara si rivendeva come consulente Cia, eccetera. Pagliacciate se ne facevano anche allora, ma con più metodo, e soprattutto con una grande costanza: chi c’era se lo ricorderà, di Iraq discutemmo per due anni prima di intervenire davvero. Un sacco di gente aprì blog apposta per farci sapere che intervenire in Iraq era necessario.

Invece stavolta che è successo? Ci siamo scordati della Libia per tre anni, e poi all’improvviso una banda ha conquistato un’emittente radio e ci ha informato di questa curiosa particolarità geografica per cui in effetti sì, la Libia è a sud di Roma. A quel punto dovremmo sentire già suonare pifferi e grancasse; e invece sulla Stampa il titolo dice “Soluzione politica per la Libia”, il Corriere sembra più preoccupato da Tsipras, la Fallaci è tornata in tv con una fiction che però era programmata da mesi. Insomma la Libia sembra esserci cascata addosso mentre eravamo in tutt’altro affaccendati, il classico surplus di disgrazie che non vengono mai da sole. E dire che era assolutamente prevedibile, sin dal momento in cui Sarkozy decise di appoggiare dal cielo gli oppositori di Gheddafi. Eliminare un tiranno è sempre la cosa giusta da fare, ma forse bisognava anche avere un piano per il dopo. Non lo avevamo. Dietro la fobia dei complotti c’è l’orrore del vuoto: il Mediterraneo brucia e nessuno sa o vuole dirci cosa fare.

guerra, tv

Questo pezzo non fa ridere (perché voi invece)

Ma certo, anch’io sono stato giovane e ho pensato che dei comici non avevo bisogno. Gente che ti fa ridere mentre il mondo brucia? Spacciatori d’oppio dei popoli, giullari del regime, boooooooh. Oggi la penso in un modo diverso, perché sono vecchio.

Ma anche perché il mondo là fuori è un vero casino – cioè lo è sempre stato, ma da qualche anno a questa parte veramente esagera. C’è bisogno di spiegarvelo? Come ormai non potete più far finta di non sapere, la Libia è nel caos.

Ovviamente è anche colpa nostra, per via di quello che abbiamo fatto e soprattutto lasciato fare qualche anno fa, quando ci fu una cosa che allora chiamavamo primavera araba. Il prezzo dei cereali era impennato, fiorivano rivolte qua e là per il Mediterraneo, e in certi casi se ne approfittò per mandare in pensione alcuni dittatori decisamente impresentabili. L’unico posto in cui la cosa ha funzionato senza troppi disastri fu la Tunisia – meglio che niente.

In Egitto l’esercito scaricò Mubarak, lasciò soffriggere i fratelli Musulmani e poi tornò al potere senza Mubarak (meglio che niente?) In Siria è successo quel che sta succedendo: in sostanza chi pensava di levare di mezzo il dittatore Assad ha scoperchiato un nido di tagliagola, col bel risultato che ora i tagliagola scorrazzano liberi tra Iraq e Kurdistan, girano snuff e li mostrano ai nostri figli su youtube, e a noi tocca pure appoggiare il dittatore e gasatore Assad.

In Libia dopo Gheddafi è proseguita in sostanza la guerra tribale, che nessuno si è filato finché un gruppetto tra tanti non ha issato la bandiera nera dei tagliagola e ci ha ricordato la distanza in miglia nautiche da Roma. Anche qui, come in Siria, la sensazione è che i tagliagola stiano facendo tutto quello che possono per attirare l’attenzione di chi può bombardarli dal cielo e poi asfaltarli a terra, e soffrano molto il fatto che dopo quindici anni di guerra al terrore noi non ci crediamo più così tanto, nella favola dei bombardamenti mirati e nel peacekeeping.

Soprattutto non ci crediamo noi italiani, che per motivi storici dovremmo essere gli ultimi a partecipare a una missione del genere, ma per motivi geografici ci troveremo comunque in prima linea, come ai tempi della Bosnia e del Kossovo (avete voluto una nazione a forma di portaerei?) A quel punto le possibilità di attentati di matrice islamista, come in Francia e in Danimarca, aumentano esponenzialmente. Borghezio e Salvini secondo me non vedono l’ora. Questo è il mondo in cui ultimamente vivo, e immagino anche voi.

Quindi se ogni tanto c’è qualcosa di leggero in tv, chessò, Sanremo, e un comico prova a tirarmi su il morale con qualche battuta disimpegnata, io non ho obiezioni: voi ne avete? Io no, la vita è così dura. Per favore, comico, dammi del tuo meglio.

Il bambino grasso! ma certo! fa ridere perché, invece di essere magro, come tutti i bambini in tv, lui è grasso! Quindi è divertente, perché… boh, perché probabilmente soffre della sua grassezza. Gli altri stanno comodi nella poltrona e lui no, ah ah ah, soffre! E io non soffro come lui! Io mi diverto! Grazie comico! Ora non sto più pensando ai tagliagola dell’Isis, ora sto pensando al fatto che ci sono bambini obesi e hanno una speranza di vita inferiore alla mia! Ah ah ah aah ah.

Bah.

Proprio quando ci vorrebbe davvero qualcuno che non ti facesse pensare troppo a quel che succede, che ne so, in Ucraina – ma a chi la voglio raccontare?

L’Ucraina è lontana e nemmeno le badanti la rimpiangono troppo; quel che davvero mi pesa è l’embargo. Dovete sapere che dalle mie parti, in questi anni difficili, c’è stato qualcosa a cui ci siamo aggrappati come a un solido albero maestro in un naufragio, e questo qualcosa era il Ricco Russo Cafone. Sapete quando dicevano che il Lusso teneva, che il Lusso ci avrebbe salvato: vi sarete domandati anche voi chi era previsto si comprasse tutto questo Lusso neanche troppo ben confezionato. Il RRS (PPC) era la risposta. Non c’era vestito ultravalutato che non avrebbe comprato per sé o per qualche sua accompagnatice; non c’era ristorante esagerato in cui non avrebbe ordinato ostriche champagne e cocacola, perché egli era Ricco, Russo e Cafone, e sopra ogni considerazione geopolitica sarebbe sempre prevalso l’atavico amore per Toto Cutugno.

Poi gli americani, pardon, la Nato ha deciso di espandersi a est – perché poi? Non c’è un perché, un’alleanza militare o si espande o si ritira, la stasi non esiste – Putin si è sentito minacciato dalla prospettiva di qualche base missilistica o dronica a meno di 300 km da Mosca, ha armato qualche separatista, Obama ci ha imposto l’embargo, tanto a lui che frega? Mica deve vendere accessori griffati ai mafiosi di San Pietroburgo, lui, e così addio Ricco Russo Cafone, dasvidaniya PPC. Ho sentito dire che a Madonna di Campiglio è un mortorio, vi rendete conto? E non torneranno mai più, sapete, non torneranno. Putin vuole potenziare il prodotto interno, farà costruire qualche Madonna di Campiglio sugli Urali. Nella crisi in cui siamo avevamo un solo relitto a cui appoggiarci, e ci hanno tolto anche quello in nome di beghe geopolitiche che comunque a noi non frutteranno un soldo. Non ha neanche senso lamentarsene, è andata così. Si fossero almeno tenuti Toto Cutugno, no, ne faranno una copia autoctona. Se magari ci fosse un modo stasera di riderci su, un comico che riuscisse a strapparci una risata con qualcosa di genuinamente divertente…

La donna brutta. Ah ah ah, ma questo è davvero il massimo! Tipo Rosy Bindi ma col 20% in più di doppio mento! Fa ridere soprattutto perché è sul maxischermo, capite? Cioè non è solo brutta, ma è anche ENORME, come fai a non ridere? Ecco perché il bambino obeso non era divertente come meritava di essere: perché il comico non aveva pensato di proiettarlo su uno schermo ENORME, che ne magnificasse la grassezza! Cioè pensa alla scritta “merda”, ti fa ridere? No, non tanto. Ma se la scrivo grossa:

MERDA



Ahahahah, funziona!

Anche se in realtà la Grecia continua a preoccuparmi molto. Non per il debito – che tanto si è capito che lo pagheremo noi, chi vuoi che lo paghi? Se siamo stati così stupidi da prestare 40 miliardi ai greci, probabilmente ci meritiamo tutti i guai che ce ne deriveranno. Questo ovviamente peserà ancora di più sul nostro debito, che diventerà anche quello insolvibile: il che significherà che anch’esso sarà ripagato da quelli così stupidi da aver prestato soldi all’Italia, cioè… chi? Chi è stato così stupido?

Uhm, noi. 

Cioè non c’è niente da fare. Paghiamo sempre noi. Il Nordafrica si destabilizza, e a noi tocca fare da retrovia per una guerra e da obiettivo per i terroristi. La Nato prova ad allargarsi a est, e noi ci ritroviamo senza più acquirenti per i nostri prodotti di cosiddetto lusso. La Grecia fa bancarotta – indovina a chi doveva dei soldi. L’Italia fa bancarotta – ma che te la racconto a fare. Per fortuna che ci sono i comici. Forza comici, tiratemi su. Voi peraltro siete i migliori della piazza, non siete come quelli di prima. Voi se vi impegnate potete veramente farmi ridere.

HAHAHAH! LO SKETCH DEI GHEIS CHE ANCORA NON HANNO CAPITO CHE SPOSARSI È LA TOMBA DELL’AMORE! No ma sul serio fa scompisciare! Cioè i gheis funzionano sempre perché… sono adorabili, sono sempre indietro, come i cugini scemi a cui rifilavi i doppioni delle figurine dell’anno prima, cioè loro sono ancora lì che vogliono sposarsi mentre tu hai già tutta sceneggiata in testa la puntata di Quarto Grado sul misterioso assassinio di tua suocera. Ti stai già allenando a reggere le famose ventiquattr’ore di interrogatorio, e loro sono ancora lì che chiedono la parità dei diritti civili ah ah ah che buffi AH AH AH COSA VUOI DALLA VITA? UN LUCANO! TENETEMI LA PANCIA CHE SCOPPIO DALL’ALLEGRIA! Ma vaffanculo.

Era una battuta, sì.
Non fa ridere?

Ma vaffanculo.

È chiaro adesso?
Buonanotte.

giornalisti, guerra, medio oriente, terrorismo

Troppi specchi in questo bar, andiamo via

Ma siamo sempre stati così? Così incapaci di festeggiare semplicemente per il ritorno a casa di due giovani, così insofferenti per il coraggio che le ha trascinate nei guai, così meschini da voler fare i conti in tasca a chi all’occorrenza salverà anche noi? È difficile dire. Senz’altro sono successe cose, negli ultimi dieci anni, che ci hanno segnato. Può darsi che la crisi ci abbia indurito; di certo le guerre in medio oriente non sono più una nostra priorità – più una di quelle pendenze a cui non vorremmo mai pensare, che ogni tanto salta fuori irritando i nostri sensi di colpa.

Del resto, se anche fossimo stati altrettanto cinici dieci anni fa – quando furono rapite e poi liberate Simona Torretta e Simona Pari – non ci avremmo fatto così tanto caso. Non c’erano i social network ad amplificare le nostre reazioni più luride. Probabilmente qualche brutta chiacchiera da banco la sentivamo anche allora: ma quel che si diceva al bar, restava al bar. Adesso è diverso. Adesso un commentino di un balordo in calce a un pezzo del Giornale rimbalza su qualche sito specializzato in bufale finché non rimpalla sulla timeline del vicepresidente del Senato.

A che serve avere un blog da così tanti anni, se non a offrire qualche controprova, qualche capsula del tempo. Sull’argomento in archivio c’è un pezzo solo, abbastanza imbarazzante (quanto scrivevo male, dio mio). Tutto giocato sull’idea dell'”isteria” di media, governo e opposizione, che secondo il mio illuminato giudizio non sapevano gestire la crisi né comunicare nulla di sensato. Col senno del poi è tutto piuttosto discutibile (il governo in questione risolse la crisi con una certa efficienza, anche se nessuno dei suoi esponenti sembra andarne molto fiero oggi). Me la prendevo già coi giornali che titolavano qualunque cosa senza riscontri, con la nostra ansia di essere aggiornati (“noi che tra un tg e l’altro consultiamo il televideo”, che tenerezza), con Berlusconi che non annullava una visita diplomatica, con Bertinotti che parlava in nome dell’opposizione quando avrebbe potuto anche tacere, con Gianni Letta che licenziava un comunicato costituito di un solo periodo sintattico di 113 parole. Basta. E per gli standard di allora ero uno che se la prendeva per un sacco di cose. Ma l’opinione pubblica? Niente. Non pervenuta. Parlavo di media, e non di lettori. Di governanti, e non dei loro elettori. Ero molto incazzato con chi aveva responsabilità – io non ne avevo. Urlavo dal basso all’alto. Non è una posizione molto elegante, ma per un blog è l’unica sensata.

E se fosse questa, la cosa che è maggiormente cambiata in questi dieci anni? Non la meschinità, non il cinismo, ma l’enorme specchio che Zuckerberg e colleghi ci hanno messo davanti. Tutti questi pareri di perfetti sconosciuti che rimbalzano qua e là – spesso ritagliati e riprodotti in screenshot come rappresentativi di chissà quale sentimento popolare – tutta questa merda non era ancora così facilmente disponibile. Bisognava andare a estrarla dai forum o dai blog (molti quotidiani non avevano ancora aperto lo scolo della fogna sotto ai loro articoli), una gran fatica. Quel che era al bar restava al bar. Era meglio? Era peggio? Era diverso.

Che ipocrita sarei a sostenere che lo specchio di Zuckerberg non mi fornisca mai dritte importanti. È come entrare in decine di bar tutti i giorni, e non m accorgo nemmeno di pagare la consumazione. Quel che pensa la gente mi interessa, mi ha sempre interessato, perché non dovrebbe interessarmi? C’è il problema che su facebook, come dovunque, la battuta trucida o l’opinione tagliata col coltello vinceranno sempre la gara di like contro i ragionamenti ponderati: c’è un sacco di gente intelligente e garbata al bancone, ma l’unica cosa che si sente distintamente è la gara di rutti là nell’angolo. Se l’obiettivo è perdere la fede nell’umanità, i social network si prestano davvero molto bene.

Continuerò a usarli, perché non saprei dove altro andare. Ma mi propongo, come misura di profilassi, di non prendermela mai coi perfetti sconosciuti, per quanto penose od offensive mi possano sembrare le loro opinioni. Continuerò per quel che posso a mirare in alto, con quella caratteristica immodestia che mi imbarazzerà tantissimo quando rileggerò questo pezzo nel 2025. Me la prenderò con chi ha il potere, e in teoria dovrebbe saperla più lunga, e in pratica ha più responsabilità per quello che dice o fa: coi giornalisti e politici. Con chi ‘indirizza’ le opinioni – per quanto sappia che non funziona esattamente così: che per ogni Sallusti ci sono migliaia di italiani che erano stronzi anche prima di mettersi a leggerlo; migliaia di stronzi con cui un Sallusti ha deciso lucidamente di sintonizzarsi. Questo però non scusa un Sallusti: io continuerò a prendermela con lui, e a salutare con gentilezza i suoi lettori che domani incontrerò al bar, perché in questo mondo ci devo pur vivere. Ci sarà sempre qualche idiota che la spara più grossa e non posso fare a pugni con tutti, per quanto ne dica il papa.

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra

Il cecchino pasticcione

Invece di sparare al bambino potresti tirare a un metro
per avvertirlo. Ci avevi mai pensato?

American Sniper (Clint Eastwood, 2014)

“Figliolo”.
“Papà”.
“Devi sapere che le persone si dividono in due categorie: pecore e lupi”.
“E i cani pastore?”
“Sono contento che tu mi abbia fatto questa domanda. Devi sapere che a un certo punto alcuni lupi si sono accorti che le pecore erano risorse non rinnovabili, insomma, se ogni lupo pretendeva di continuare a mangiarne a pranzo e cena presto sarebbero finite, e sarebbero morti tutti”.
“Quindi decisero di cambiare dieta?”
“Ah ah ah ah, no. Cominciarono ad ammazzarsi tra loro”.
“E le pecore?”
“Qualche lupo cominciò a offrire a greggi intere la propria protezione. Meglio consegnargli un agnellino ogni tanto che farsi sbranare da branchi inferociti, no? E questi divennero i cani pastore”.
“E i lupi?”
“Se li troviamo li facciamo fuori”.
“E se non ce ne fossero più?”
“Li andiamo a cercare. Anche dall’altra parte del mondo se necessario. È vitale che ci siano i lupi. Se le pecore smettono di avere paura dei lupi, è la fine”.
“Papà, ma quindi noi chi siamo?”
“Pecore non siamo”.
“Allora siamo lupi o cani pastore?”
“Dipende, figliolo”.
“Dipende da cosa?”
“Dal mirino del tuo fucile. Se c’è inquadrato qualcuno, è un lupo: e tu sei il cane. Quindi spara”.
“Quindi noi… siamo i cani”.
“Finché nessuno ci mette nel mirino”.
“È complicato, papà”.
“Tu spara, capirai col tempo”.

Appena tornato dalle vacanze ho chiesto in classe se qualcuno per caso avesse visto il Ragazzo invisibile, giusto per verificare la mia triste opinione. Nessuno. Non l’aveva visto nessuno. Invece tutti non vedevano l’ora di andare a vedere American Sniper. I fratelli Kouachi avevano appena massacrato i redattori di Charlie Hebdo, ma probabilmente l’ultimo film di Eastwood non aveva necessità di un lancio di questo tipo per mettere d’accordo cinquantenni cinofili, trentenni fascistoidi, decenni in crisi d’astinenza post-natalizia da playstation. American Sniper è quel tipo di film che non potrebbe andare male al botteghino neanche se ci si impegnasse: ci sono le scene da sparatutto in soggettiva, c’è quel patriottismo americano che piace tanto anche da noi, la retorica dei corpi d’élite, le classiche scene preparatorie in cui gli addestratori urlano stronzate demenziali mentre tartassano le reclute con torture assurdamente incongrue (secchi d’acqua gelida sul pacco per prepararsi al deserto iracheno?) E poi dirige Clint, che a ottant’anni continua a guardare dall’alto un po’ tutti. Specie perché stavolta non si tratta di gruppi vocali in falsetto, ma di guerra in Iraq: una situazione in cui il suo nome non funziona soltanto da suggello di garanzia, ma anche da pungolo per lo spettatore critico, perché dopo tanti anni e tante guerre e tanti film veramente non lo sai cosa potrebbe dirti stavolta, il vecchio Clint. Il patriota tutto d’un pezzo di Gunny che però ci ha anche lasciato Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, cosa ne pensa della storia del più letale cecchino americano? Eh.

Probabilmente entrare in sala con questa domanda è il miglior modo per uscirne delusi. Non che Eastwood non abbia qualcosa da dirci. Non che non ce lo dica con l’asciuttezza e l’eloquenza consuete. Ma sembra in qualche modo distratto anche lui, come quel veterano che quando ci parli è sempre evasivo e non ti dritto in faccia volentieri. Come seduto sul tappo di un vespaio che non ha intenzione di aprire mai più.

Lo si può apprezzare se non altro per l’onestà: American Sniper non è uno di quei film furbetti che si scrivono oggigiorno, ambigui quanto basta per consentire a qualsiasi spettatore di rispecchiare le sue idee (quando uscì Zero Dark Thirty, Michael Moore lo salutò come un film che denunciava la tortura: ve ne eravate accorti?) Sarebbe bastato poco per confezionare un prodotto così. Non sarebbe stato nemmeno necessario inventarsi qualche crepa nel monumento che Chris Kyle si era costruito da solo nella sua autobiografia piena di dettagli inverosimili e mai verificati: bastava evidenziare quelle che c’erano già. Approfondire il rapporto col padre (che scompare dopo cinque minuti) o col fratello (scompare dopo un’ora). Evitare insomma che l’unica vera voce di inquietudine fosse Mrs Kyle, una Sienna Miller che alla decima volta che dice “Amore tu non sei davvero qui” farebbe venir voglia di tornare in Iraq anche me che non ho mai fatto il militare.

Ma non sei qui con me perché pensi sempre alla guerra, o ti sei trovato una guerra perché non hai voglia di stare qui con me a rispondere alla domanda che ti ho appena fatto? Ehi? Mi senti? Ti ho chiesto se sei qui con me perché pensi sempre alla guerra o…

Il film invece sceglie di smussare tutti gli spigoli, scartando anche opportunità spettacolari, in funzione di un messaggio elementare: l’eroismo è necessario, ma è un fardello pesante. Tutto qui? Tutto qui. Se non la pensate così, peggio per voi: il vecchio Clint non ha nessuna intenzione di venirvi incontro. Ma se la pensate come lui forse vi aspettavate qualcosa di più. E invece Clint distoglie lo sguardo, risponde a monosillabi, sembra che abbia voglia di chiudere la conversazione il prima possibile.

La spiegazione potrebbe essere delle più banali: il film è diventato suo solo in un secondo momento. Il progetto, fortemente voluto da un Bradley Cooper in cerca di Oscar (e infatti è in lizza anche come produttore), passa a un certo punto per le mani di Steven Spielberg, che nel soldato Ryan aveva già tratteggiato una figura di cecchino indimenticabile. Spielberg forse si accorge che l’autobiografia di Kyle, oltre a fare un po’ acqua quanto a verosimiglianza, è priva di un elemento fondamentale a ogni epos: un Nemico identificabile, qualcuno con cui misurarsi ad armi pari. Nasce così la figura del cecchino nemico, intorno alla quale Spielberg costruisce uno script di 160 pagine che spaventa la Warner. Il duello di cecchini sulla carta non poteva non ricordare quello ambientato a Stalingrado nel Nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, un film che tanto doveva al Soldato Ryan – specie nella spaventosa sequenza in cui i nazisti massacrano le reclute sovietiche. Ma prima di quella sequenza c’è quella iniziale, in cui il padre di Jude Law insegna al figlio come si tira all’orso: la stessa scena che ritroviamo, un po’ prevedibilmente, all’inizio di American Sniper. Quando nell’agosto del 2013 Spielberg rinuncia al progetto, Eastwood viene contattato immediatamente e mi piace immaginarlo mentre si infila il berrettino e si dice Coraggio, portiamo a casa questo cazzo di film. La sua versione non rinnega del tutto la visione spielberghiana: sopravvive il personaggio del cecchino nero, l’uomo che Kyle deve uccidere per riportare davvero la testa a casa dall’Iraq. È un’idea più romanzesca che biografica, ma ormai era scritta e il regista non poteva o voleva perder altro tempo a ripensare la storia.

Il Kyle che esce dal film è ancor più tagliato a metà (continua su +eventi…)

Bush, guerra, terrorismo

E se George W Bush avesse avuto ragione?

Il nemico perfetto

La guerra, quindi, se giudichiamo dall’esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l’un l’altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).

1. A un certo punto – più o meno a ridosso delle primavere arabe – abbiamo credo in molti percepito un’accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest’accelerazione, che magari segna l’inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po’ di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l’Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un’elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto – chi all’inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad – adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l’opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l’impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile – l’esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L’unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C’è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.

2. Prendi l’ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un’organizzazione terroristica? Le BR erano un’organizzazione terroristica. Settembre Nero era un’organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L’ISIS, per adesso, no. È un’organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati – per ora – non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l’ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l’ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c’è solo da ringraziare lo stato dell’arte dell’antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po’ ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l’alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell’ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l’ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un’altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.

3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell’isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell’isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un’ideologia o a un’organizzazione (l’assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.

Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l’Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un’infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell’immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l’esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l’occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell’ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l’ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.

4. Bush junior vedeva il terrorismo come “qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un’ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt’altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d’altri, a casa nostra sarebbero insostenibili […] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c’è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po’ in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte“.

Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall’ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n’è stato bisogno.

guerra, Israele-Palestina

La strage di San Marino

(Ai cittadini della Repubblica di San Marino, qui evocati, va tutto il mio rispetto. Questo pezzo non intende essere un atto di antisanmarinismo, ne di antiqualcosaltrismo. È soltanto una riflessione sull’assurdità dell’equazione Kissinger).

Un tallone è un tallone

Se ci penso ho ancora i sudori freddi. A mia discolpa, la tizia in sandali davanti a me era distratta. Armeggiava sul telefono e non aveva notato che la fila andava avanti. Io viceversa ero fin troppo concentrato su quel che succedeva allo sportello, venti metri più in fondo. Vedevo la testa della fila procedere lentamente ma inesorabilmente, e non mi accorsi che lei manteneva la posizione, finché i miei piedi non finirono sui suoi. Ebbi la nitida percezione della punta della mia suola che sfregiava il suo tallone.
“Ahi! Ma guarda cos’ha fatto”.
“Oh, mi scusi, mi scusi davvero, sono desolato”.
“E questo cos’è… sangue!”
“Ma non è niente, via, mi faccia vedere…”
“Stia lontano”.
“È solo un’escoriazione superficiale”.
“La fa facile lei. Evidentemente non si rende conto”.
“Se posso fare qualcosa per lei…”
“Vede, io sono cittadina della Repubblica di San Marino”.
“Buon per lei, io invece vengo dalla bassa e…”
“Non ha capito. Sa quanti abitanti fa San Marino?”
“Ahem”.
“Provi, dica un numero”.
“Non so… centomila?”
“Trentaduemila”.
“Ah, però”.
“Le sembrano pochi?”
“Beh, sì, pochini in effetti”.
“E crede che sia un buon motivo per cercare di estinguerci?”
“Eh?”
“Non faccia il finto torto. Saremo pochi ma abbiamo lo stesso diritto a vivere che ha lei. Non è d’accordo?”
“Ma per carità, d’accordissimo”.
“E però questo non le ha impedito di attentare alla salute del mio popolo”.
“Prego?”
“Non cominci a negare. Lei mi ha fatto sanguinare un tallone, è vero o no?”
“Certo. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo, ma…”
“Lo sa che cosa rappresenta questo tallone per la sopravvivenza della nobile e indomita Repubblica di San Marino?”
“Confesso di no”.
“Immagini ora che un drappello di prepotenti e nerboruti invasori entri in questa città e calpesti a sangue i talloni di duemila suoi concittadini. Come reagirebbe?”
“Non so, non… non ci avevo mai pensato prima”.
“Io credo che protesterebbe con veemenza!”
“Sì, in effetti è probabile”.
“Chiederebbe soccorso alle autorità?”
“Certo, sì”.
“Questo è quello che è appena successo. Chi calpesta un tallone a un cittadino della nostra nobile Repubblica, è come se ne calpestasse duemila in Italia”.
“E perché?”
“Ma le devo proprio spiegar tutto? Perché io, in quanto cittadina di San Marino, sono pari a un trentaduemillesimo della popolazione. Sa quanti talloni di cittadini italiani deve calpestare per ottenere lo stesso risultato?”
“Confesso di no”.
“Millenovecentotrentasette”.
“Ah, ecco”.
“E non si vergogna?”
“Comincio a capire. Lei postula che tutte le nazioni abbiano pari dignità…”
“Osa negarlo?”
“…E questa dignità sia una quantità x che va divisa per il numero di cittadini. Quindi siccome l’Italia è duemila volte San Marino, se qualcuno fa male a lei è come se facesse male a duemila italiani”.
“Precisamente” (PAFF!)
“Ehi, ma che cos’ha fatto?”
“Niente, perché?”
“Come niente? L’ho appena vista? Ha tirato un calcio nello stinco a quel signore”.
“Sì, mi dava fastidio”.
“Che fastidio le dava?”
“Ma che importanza ha? Diamine, non l’ha visto in faccia? È sicuramente un cittadino della Repubblica Popolare Cinese”.
“E allora?”
“E allora un suo stinco quanto può valere… sono un miliardo e mezzo più o meno, dunque… uno stinco di San Marino vale più o meno come cinquantamila stinchi cinesi. Dovrei azzoppare un’intera città per causargli un danno”.
“Ma gli ha causato un danno”.
“Ma no, lo vede, si è già alzato”.
“Sta chiamando qualcuno… spero per lei non siano i vigili”.
“Ma si figuri, non vorrà mica rischiare un incidente diplomatico”.
“E se non fosse un cinese della Repubblica Popolare? Se fosse di Taiwan”.
“Beh, allora avrei fatto una tremenda gaffe”.
“Senta, non si offenda. Mi dispiace davvero tanto per averle fatto male…”
“Giovanotto, non basta dispiacersi. Provi a pensare a duemila talloni italiani sanguinanti. Fiumi di sangue. Come reagirebbe?”
“…però secondo me lei è un po’ matta. Non può ragionare così”.
“Ah no?”
“Un tallone è un tallone. Non è che valga di più se è di San Marino o del Lichtenstein o di qualche altra nazione piccola”.
“Noto un certo fastidio per le nazioni molto piccole”.
“Un tallone è un tallone. E basta. Nessuno ragiona come lei”.
“Ne è sicuro?”

guerra, Israele-Palestina

Guarda la tua vittoria

Il lungo cammino del popolo eterno.

Cerchiamo di restare razionali e di guardare i numeri. Dall’inizio delle operazioni sono morti tredici soldati israeliani. (Sono morti anche più di quattrocento palestinesi, ma quelli per adesso lasciamoci stare). La loro morte era in qualche modo necessaria?

Prima che l’IDF entrasse a Gaza, i razzi lanciati da Hamas e da altre organizzazioni non avevano fatto nessuna vittima. Zero vittime. Evidentemente l’Iron Dome funziona bene (e i razzi palestinesi funzionano male). Poi Netanyahu, dopo una lunga riflessione, ha lanciato l’offensiva di terra: e tredici ragazzi israeliani, fin qui, sono morti. Più di tutte le vittime delle ultime due operazioni a Gaza. Nel frattempo l’operazione pare che abbia cambiato finalità: all’inizio si trattava di snidare qualche base sotterranea e qualche tunnel, ora si parla di “azzoppare Hamas, cosicché non sia più in grado di colpirci di nuovo per qualche anno»”.

A genitori, parenti, amici, qualcuno starà spiegando che quei ragazzi sono morti per ottenere un obiettivo, e che questo obiettivo non è annientare Hamas, la perfida organizzazione terroristica che si fa ostaggio di un milione e mezzo di palestinesi recintati su quattro lati; non è liberare per sempre Israele almeno da questa minaccia; non è assicurare per sempre le proprie famiglie da una pioggia di razzi incendiari o esplosivi; no. Se per un attimo avevamo perfino sperato che Netanyahu volesse almeno dare una svolta alla situazione, ovviamente ci sbagliavamo. I vostri figli, i vostri parenti, i vostri amici, sono morti per conquistare qualche altro anno di relativa sicurezza. Due, tre, magari quattro. Come incidere un bubbone, farne trasudare il liquido. Poi coagulerà, si rigonfierà, tra qualche anno minaccerà di nuovo di esplodere e vi saranno altri amici, altri parenti, altri figli che per inciderlo dovranno morire. Magari toccherà a voi. Dovreste sentirvi fieri di questo.

E tutto questo quanto dovrebbe durare? Più o meno per sempre. Magari Gaza non si presterà per sempre al gioco – c’è un limite al piombo fuso che può cadere su una striscia di sabbia e cemento prima che tutto si riduca a un cratere – ma ci saranno altri recinti, altre strisce. Nei suoi tweet il primo ministro chiama la sua gente “il popolo eterno”. Israele sarà sempre una piccola nazione orgogliosa e vincitrice, e la sua vittoria consisterà nel trionfare su piccoli nemici isolati, recintati, incattiviti, addomesticati. Qualcuno ogni tanto dovrà morire per mantenere l’odio e l’istinto di vendetta entro una certa soglia di tolleranza.

Insomma il progetto è questo, la vittoria è questa, questo lo status quo che Netanyahu vuole preservare per il suo popolo. Tra le tante spiegazioni che si possono dare – tutte utili – di ordine strategico, economico, culturale, vale la pena offrire ai lettori quella degli antropologi (che viene a confortare un nostro antico sospetto): il conflitto tra Hamas e Israele è una guerra rituale:

È in questo senso che suggeriamo di leggere il conflitto Israele/Hamas come una “guerra rituale”. Attraverso di essa, entrambi i contendenti ri-costruiscono e ri-affermano la propria identità, rafforzando in tal modo la coesione interna del proprio gruppo. L’identità, inoltre, come sottolinea Ugo Fabietti, “è una definizione del sé e/o dell’altro che affonda le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi coagulati intorno ad interessi particolari” [9]. Non è necessario ricordare quali siano i rapporti di forza o gli interessi particolari nel caso in esame. Inoltre, ricorda ancora Fabietti, i gruppi umani hanno la tendenza a “elaborare definizioni positive del sé, mentre producono invece definizioni negative dell’altro” [10]. La “guerra rituale” tra Israele e Hamas, dunque, avrebbe non solo lo scopo di ri-costruire e ri-affermare l’identità collettiva dei due gruppi, ma anche quello di costruire e ri-costruire “l’altro” in modo negativo.

Quelle che Ernesto De Martino chiamava la “crisi della presenza” o il “rischio di non esserci nel mondo” sono pressoché permanenti sia in Israele sia a Gaza. Entrambe le “società” inoltre, sono fortemente militarizzate e l’antropopiesi assume dunque il senso di costruzione (e di ri-costruzione) dell’uomo (l’israeliano o il militante di Hamas) anche come soldato. Le società hanno certamente altri strumenti per definire se stesse e gli altri e per fronteggiare i momenti di crisi, ma, come osserva Francesco Remotti, non tutte scelgono “strumenti antropopoietici tranquilli, anonimi … molte adottano processi che irrompono nella normalità e introducono la violenza, il dolore, la sofferenza fisica e psicologica”  

Non sta a me, non sta a noi consolare le Racheli che oggi piangono i loro figli. Se non ha senso giudicare i figli di Hamas cresciuti in un recinto e allevati da martiri, ugualmente è inutile rivolgersi ai figli di Israele a cui sarà chiesto periodicamente un tributo di sangue: il loro recinto è appena un po’ più grande, molto più confortevole, ma sempre un recinto è. Forse l’unica cosa che ha senso fare è guardare a noi stessi, e lottare con tutte le nostre forze perché il modello del recinto non sia mai esportabile; controllando che le nostre porte restino sempre il più possibile aperte per chiunque si stancherà di militare in questo o quel popolo eterno.

guerra, Israele-Palestina, medio oriente

Israele ha vinto

…sed victa Catoni. 

Piano piano ci stiamo arrivando: cominciamo re-interessarci di Gaza. Un po’ in ritardo sulle nostre bacheche on line arrivano le solite dannate foto di bambini morti – magari non sono esattamente i bambini che stanno morendo stavolta; magari sono altri bambini di altre guerre, ma insomma, è l’orrore che conta. Però è vero che stavolta abbiamo avuto bisogno di più tempo del solito per carburare la nostra indignazione.

Parlo soprattutto di chi sta coi palestinesi; la controparte ha sempre riflessi più pavloviani. Però da noi è in minoranza: così che c’è stato un momento, durato fino quasi alla fine del mondiale di calcio, in cui davvero sembrava che stavolta gli israeliani avrebbero potuto occupare Gaza senza neanche passare su una prima pagina italiana. Si respira una disaffezione generale per una tragedia che una volta era La Tragedia, il punto focale di tutte le travagliate vicende del Medio Oriente e del mondo – e poi a un certo punto ha smesso di appassionarci. Quando è successo? Dopo Piombo Fuso, prima di piazza Tahrir. Perché è successo? Perché tanto sembra che non cambi mai nulla.

L’insofferenza per una stagione di stasi infinita la mette a verbale sul Post Christian Raimo (“La ripetitività della tragedia”) : “Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale. Le analisi geopolitiche sono delle versioni aggiornate, sempre un po’ al peggio, delle analisi geopolitiche di un anno o cinque o dieci anni fa. Il conflitto israelo-palestinese è diventato una figura retorica che indica qualcosa di irrisolvibile e ricorsivo“. Chi si ostina a discuterne dà a volte l’effettiva impressione di un reduce sotto choc che continua a fare gli stessi discorsi, a ricordare le stesse battaglie: Quarantotto, confini del ’67, accordi di Oslo, eccetera.

Quel reduce a volte siamo anche noi – e forse il problema è tutto lì: perché chi segue la scena con un’attenzione più costante sa che quello che scrive Raimo è vero solo in apparenza: Gaza 2014 non è Piombo Fuso. Netanyahu non è Olmert, Abu Mazen non è più lo stesso Abu Mazen che aveva ottenuto una legittimazione popolare con le elezioni del 2005. Anche Hamas non è più la stessa Hamas. Dietro ai nomi sono cambiate davvero tantissime cose. Forse l’unica cosa che non è cambiata siamo noi, con le nostre idee sul conflitto israelo-palestinese ormai cristallizzate da più di un decennio, refrattarie a tutto quello che nel frattempo si è incaricato di smentirci.

Siamo peraltro in ottima compagnia, se persino John Kerry all’inizio dell’anno pensava di riproporre Due Popoli e Due Stati. Nel frattempo Israele continua a costruire colonie al centro di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina; nel frattempo un Abu Mazen che non osa più convocare le elezioni riesce a trovare un accordo di governo con Hamas; ma anche Hamas è molto diversa da quella che conoscevamo. È un’organizzazione indebolita, che non può più contare sull’appoggio dei Fratelli Musulmani, passati dall’oggi al domani dal governo dell’Egitto alla clandestinità, e che fatica a contenere correnti più estremiste ed eterodirette.

Nel frattempo, soprattutto, l’intero Medio Oriente sta collassando; tra Siria e Iraq è nato un nuovo sedicente califfato che costituisce per Israele una minaccia meno apocalittica della fumosa atomica iraniana, ma più vicina e concreta: il che offre poi a Netanyahu l’occasione migliore per ridere in faccia a Kerry e a chiunque creda che gli israeliani siano mai intenzionati a ritirarsi davvero. Obama può lamentarsi e magari lo farà, ma quando dovrà scegliere tra Israele e uno Stato Islamico del Levante non potrà avere molti dubbi; quanto agli altri osservatori (Europa, Onu), ci aspettiamo tutti che brontolino, ma la loro impotenza è agli atti da decenni. Quindi?

Quindi Israele ha vinto. Ma non adesso: da molti anni. Forse dalla Seconda Intifada, se non da prima. Tutto quello che è successo poi, il piombo fuso e le cupole d’acciaio, fanno già parte della cruenta cerimonia trionfale. Israele ha vinto, nell’unico modo in cui poteva probabilmente vincere. Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l’IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l’Israele di Netanyahu. A noi la cosa non piace e riteniamo che prima o poi debba cessare, in un modo o nell’altro; è un modo molto occidentale di ragionare. Essendo tutti ormai nati in tempo di pace, riteniamo che la guerra sia uno stato eccezionale; che debba finire prima o poi, e sarebbe meglio prima: basterebbe dare un’occhiata migliore ai libri di Storia per capire che l’eccezione siamo noi.

Gli israeliani non sono come noi; la nostra pace non è la loro priorità. Il futuro che lasciano ai loro figli è comunque promettente: chi 15 anni fa cresceva col terrore degli attacchi suicidi oggi può gustarsi i bombardamenti stagionali dell’IDF portandosi il divano in una posizione panoramica. Eppure basta qualche razzo alimentato a fertilizzante a sentirsi sotto assedio e pronti a giustificare qualsiasi bombardamento. Ragazzi e ragazze crescono bellicosi: saranno buoni soldati e maggiormente inclini a votare per la sicurezza e la disciplina. Ci sarà sempre, anche laggiù, una minoranza che non si rassegna; ma chi credeva che Israele avrebbe potuto diventare un’altra cosa ha avuto molto tempo per ricredersi: così chi con tanto ottimismo immaginava che i palestinesi avrebbero potuto resistere, di generazione sconfitta in generazione sconfitta, all’abbraccio del fanatismo islamico. Peraltro il loro ruolo di eterni sconfitti non deve troppo dispiacere anche a chi ancora li finanzia, mantenendoli in vita quanto basta perché possano infastidire il nemico a intervalli regolari. La Palestina non è che la casella di una scacchiera più complessa che non abbiamo mai compreso per intero.

In una parte di questa scacchiera Israele sembra proprio aver vinto. Ammetterlo non significa approvarlo; quel che sta bene agli dei non deve piacere per forza anche a noi. Abbiamo ancora un po’ di spazio e di tempo per ribellarci alla cattiva fede di chi inverte bombardatori e bombardati, di chi scambia un razzo qassam per un attacco atomico, di chi lancia accuse di antisemitismo a vanvera, di chi paventa la fine di Israele faro-di-democrazia-nel-medio-oriente. Israele non è un faro; non è nemmeno il cane da guardia dell’occidente, come molti falsi amici pretenderebbero che fosse: è un piccolo Paese che ha militarizzato i suoi problemi esterni per risolvere i suoi problemi interni. Proprio perché funziona, proprio perché rischia di essere un modello esportabile, vale la pena di osservarlo, studiarlo, smontarlo. Senza quelle certezze prefabbricate che alla lunga, davvero, annoiano.

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, futurismi, guerra, nazismo

Scuola di genocidio 1

Ender’s Game (Gavin Hood, 2013)

La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Quelli ancora implumi che non guardano le ragazze e sono imbattibili ai videogiochi. Gli adulti faranno solo i selezionatori, andranno in giro per le scuole medie come mercanti di bestiame in cerca del puledro più promettente. Sarà senz’altro un mingherlino caricato a molla con tutte le frustrazioni proprie dell’età, un fascio di nervi pronti a contrarsi e uccidere. Un giorno videogiocando i ragazzini entreranno in un livello appena appena più elaborato e sarà la guerra. Se ne accorgeranno, di non pilotare grumi di pixel sullo schermo, ma droni veri contro nemici mortali? Farà qualche differenza per loro? Tratto da un classico della fantascienza usa anni ’80, Ender’s game si è già parzialmente avverato: parla di droni, guerra preventiva, abolizione della privacy in nome della sicurezza; il tutto senza rinnegare la sua vocazione spettacolare.

Sarà anche per l’età del protagonista (il 16enne Asa Butterfield, sempre fantastico), ma rispetto ad altri film di fantascienza della stagione Ender’s Game sembra più orientato verso un pubblico giovane, anche a rischio di diventare una specie di Harry Potter Contro Starship Troopers. In particolare il vero Starship Troopers (il romanzo di Heinlein) condivide con Ender un dettaglio rivelatore: è uno dei romanzi più letti nelle accademie militari USA. Ora, la fantascienza militare al cinema ha un problema (in realtà ce l’ha tutta la fantascienza, ma quando è ambientata in scuole d’addestramento si nota di più). Da una parte c’è un pubblico che ha esigenza di vedere battaglie, guerre, nemici annichilati, ecc. A questa domanda la fantascienza non può rispondere con qualche varietà di mostri dalle ovvie cattive intenzioni, che sia lecito sterminare (zombie, vampiri, draghi, orchi). La fantascienza non è costituzionalmente manichea come il fantasy o l’horror; al massimo ti può fornire qualche razza aliena; ma sterminare una razza aliena non è proprio una buona cosa: senti come suona male, sterminare una razza? I film di fantascienza militare ci mettono un attimo a diventare fascisti. Si può ovviare in vari modi: per esempio, immaginare alieni molto cattivi (Independence Day, La guerra dei mondi). Sono loro che hanno cominciato, l’uomo vuole solo difendersi. Guillermo Del Toro ci aggiunge la diffidenza latinoamericana per le forze armate e sostituisce l’esercito regolare con una brigata di robottoni partigiani che resiste all’invasore squamato. E tuttavia anche in casi come questi nello spettatore anche giovane rimane come un retrogusto di propaganda… (continua su +eventi!)

blog, giornalisti, guerra

Sei e più tipi di eroi al caffè

Spiana li monti, sfonna, spara, ammazza…
Per me – barbotta – c’è una strada sola…
E intigne li biscotti ne la tazza.

Per molto tempo siamo riusciti a ignorare la Siria. C’era la campagna elettorale, poi la campagna post-elettorale, poi bisognava fare il governo, poi disfarlo… In mezzo a tutto questo, anche chi aveva lo stomaco per dare un’occhiata alle notizie dal Medio Oriente trovava quasi sempre guerre e rivoluzioni più promettenti. Finché Obama non si è arrabbiato per vie di certe armi chimiche, e insomma finalmente è venuto il momento di discutere di Siria: con la competenza e la serietà che contraddistingue noi eroi al caffè, opinionisti della domenica ma ormai anche del fondo del lunedì. Può anche darsi che fino a qualche ora fa ignorassimo l’ubicazione della Siria sul planisfero: non è cosa che ci scomponga, la geografia, figurati, bruscolini, pinzillacchere. Ciò che conta, quando si parla di Siria o di Egitto o Birmania o Sarcazzo, è la rapidità con la quale riusciamo a declinare le due o tre opinioni prefabbricate che scriviamo da vent’anni, sempre le stesse. Ci riconosci? Siamo un po’ dappertutto, su blog e su carta e ogni tanto finiamo pure in diretta al parlamento; ci dividiamo in simpatiche tribù, vediamone alcune.

Gli Stranamore
E vabbe’, in Siria gasano i civili, che problema c’è? Si bombarda. No, ma sul serio, stiamo ancora a discuterne? con tutti i Cruise negli arsenali Nato da rottamare? Bombardiamo, ha sempre funzionato, no? Vedi la Serbia.
“Veramente finché non sono entrate le truppe da terra, Milosevic è restato lì”.
“Sì, vabbe’, allora vedi l’Iraq”.
“Ahem”.
“Che c’è?”
“…no, niente”.
Gli Stranamore amano il bombardamento per il bombardamento: quasi mai si ricordano come sia andata a finire la storia in Iraq o altrove, loro di solito ronfavano del sonno postcoitale dei giusti. Non c’è crisi umanitaria che non si possa risolvere con un’operazione chirurgica, mirata, un bel megatone di argomenti. Obama questa cosa non la capisce, perché è un pappamolle, un insicuro, uno che perde tempo a chiedere il parere del Congresso, vi rendete conto? Del Congresso. Non ti basta il parere di Gianni Riotta?

Gli amerikanisti
È successo qualcosa di brutto? A Damasco, o a New York, o a Pearl Harbor, o dovunque? Se è qualcosa di veramente brutto, il colpevole si è già tradito: infatti esiste una sola entità veramente malvagia in questo mondo, e tutto ciò che è veramente brutto non può che derivare da lei. Tale entità è ovviamente l’Amerika. Crollano le Twin Towers? È stata l’Amerika – oh, l’ha detto un deputato alla Camera, pare che non ci siano più dubbi: era un complotto dell’Amerika per gettare l’Amerika nel panico. In Siria gasano i civili? Chi può essere così malvagio da vendere gas venefici a uno storico alleato dei russi? È evidente, no? No? Non resta che lasciare la parola all’esperto:

Ora però la situazione si è fatta grave, perché un gran numero di civili, bambini in particolare, sono stati uccisi dal gas nervino che solo i mercenari, i tagliagole, i ribelli, bene armati e foraggiati attraverso mille triangolazioni dagli Stati Uniti possono aver diffuso. Quale interesse avrebbe avuto il governo siriano ad ammazzare civili, se non guadagnarsi impopolarità? Quindi sono stati gli Stati Uniti a fornire ai tagliagole questo gas letale. Le televisioni fanno di tutto con la loro informazione assassina per confondere le idee alla gente, quando la situazione invece è estremamente semplice, e non rimane che sperare sui deputati e senatori del Movimento 5 Stelle… (Mario Albanesi, non so chi sia ma era in home sul sito di Beppe Grillo, per cui tenderei a fidarmi)

I semplicisti
Hanno letto che in Siria c’era un dittatore e hanno pensato: brutto! Poi hanno saputo che c’era una rivoluzione e si sono detti: bello! Però la rivoluzione è diventata una guerra civile e hanno pensato: mah, non tanto bello. A un certo punto hanno scoperto che tra i rivoltosi c’erano molti integralisti islamici: bruttissimo! Lo stavano per scrivere, quando il dittatore si è messo a gasare gli avversari, e adesso i semplicisti sono un po’ in imbarazzo. Perché la vita è così complicata? Se solo si potesse trasformare una guerriglia senza quartiere tra un dittatore baathista sostenuto da russi ed hezbollah e uno schieramento eterogeneo sempre più dominato da jihadisti e predoni in qualcosa di più semplice, che so, Buoni contro Cattivi, o meglio ancora… Pace contro Guerra! Viva la pace! Muoia la guerra!
“E come la uccidi?”
“Uffa ma lo vedi che lo fai apposta?”

Gli elefanti
Non li sottovalutare. Vanno piano, ma non li smuovi, e si ricordano tutto. Hai un’opinione sulla Siria? Pensaci bene prima di condividerla. Potrebbe non essere coerente con quello che pensavi ai tempi di Srebrenica.
“Ma io ai tempi di Srebrenica… non ero ancora nato”.
“Allora è stato tuo padre”.
Gli elefanti sanno che nel 1991 hai occupato il liceo contro la Guerra nel golfo, e quindi le tue mani sono sporche di sangue bosniaco e kossovaro, e non intendono passarci sopra. In effetti non hanno la minima idea di cosa stia succedendo in Siria o altrove da almeno dieci anni in qua, continuano a prenderla coi pacifinti dei cortei del 2003. Si sono legati al dito delle cose che ormai si ricordano soltanto loro. L’unica guerra che gli interessa davvero è quella che hanno combattuto dall’11 settembre in qualche forum o blog dimenticato da Dio in cui si annidano ancora, gli ultimi giapponesi.

Gli israelomani
Una sottospecie di elefante che non si è mai veramente ripreso dall’Intifada. Esiste solo Israele. Purtroppo è minacciato nella sua stessa esistenza. Occorre difenderlo a ogni costo. Per esempio, se in Siria un dittatore massacra la popolazione coi gas, l’israelomane si gonfierà di sdegno, non tanto per il dittatore, ma per chi in Italia perde tempo a criticare Israele. Che magari potrebbe anche avere commesso qualche errorino, l’israelomane non lo esclude a priori, ma… con che faccia si può criticare Israele mentre a pochi chilometri di distanza accade ben peggio? E siccome ci sarà sempre qualcuno a mille o diecimila km di distanza che si comporta peggio di Israele, ne consegue che Israele non può essere criticato.
Ogni volta che ammazzano arabi fuori da Israele, l’israelomane dà l’impressione di goderne. Non perché muoiano arabi, no, come si può anche solo pensare che l’israelomane goda per la morte di arabi? Ma si tratta di dimostrare che Israele li tratta meglio: infatti è indubbio che ne ammazzi di meno. Chi perde tempo quindi a criticare Israele è antisemita, cvd.
L’israelomane ha una domanda retorica ricorrente: perché gli unici arabi che ci interessano sono quelli un po’ oppressi da Israele? Perché i tiranni giordani, iracheni, libanesi, egiziani, siriani possono massacrarli senza destare la nostra indignazione? Perché siamo tutti antisemiti, certo. Inutile protestare, inutile cercare di dimostrare che (per quel poco che è servito) ci siamo indignati anche per quel che succedeva in Giordania o in Iraq o in Egitto o adesso in Siria. Anche negli ultimi mesi si è parlato nei quotidiani italiani più di Siria (comunque poco) che di Palestina, ma l’israelomane che ne sa. Filtra solo le notizie che parlano di Israele. Ne deduce che tutti criticano soltanto Israele.

I Cavalieri dell’Ovvio
Per ogni mille blog che ci fanno sapere che la guerra è brutta, c’è almeno un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia che ci tiene a farci sapere che purtroppo è ineliminabile. Ci avevate mai pensato? Sì. Ma avevate mai pensato a quel che pensavate pensando di pensare?

C’è infine un argomento molto usato per dirsi in generale contro la guerra: «La guerra non ha mai risolto alcun problema». Nella sua perentorietà l’argomento è però palesemente falso. Dipende infatti dalla natura dei problemi: non pochi problemi la guerra li ha risolti eccome (penso a tante guerre per l’indipendenza nazionale, ad esempio); per gli altri bisogna intendersi su che cosa significa «risolvere»

Un dibattito sul significato di “risolvere”, professore, ma è sicuro che siamo pronti a un simile sforzo ermeneutico? Non è che prima ci dovremmo intendere su che cosa significa “significa”? Ed è nato prima l’uovo o la gallina? Ok, Sartori prima di entrambi, ma qual è l’anello di congiunzione? Sartori partorì il primo uovo da cui la prima gallina? Sartori si evolse in pollo da cui il primo uovo? Tutto ciò merita un supplemento di indagine.

(potrebbe pure continuare)

Afganistan, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra, terrorismo

Il Grande Osama Bianco

Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012)

Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l’autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l’agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l’ha trovato (forse) e l’ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe’, storia vecchia, parliamo del film).

C’è stato un momento – non posso dire quale – in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un’oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po’, ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell’ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l’inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding…) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell’11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.

Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell’attacco al compound di Abbottabad è senz’altro lo stato dell’arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant’anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall’altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol… (continua su +eventi!)

guerra, invettive, Israele-Palestina, manifestaiolismi, medio oriente, scuola

Striscia, il futuro

La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l’esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L’importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c’era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po’ il mordente.

Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all’inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall’altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall’altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.

Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c’è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d’istituto non capirebbe. Quindi che si fa.

Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant’anni avevi risolto un po’ di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l’essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po’ scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant’anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell’alimentazione e nell’igiene. Soltanto un po’, come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.

Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto… ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia – ma in Europa in generale – è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c’entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.

E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente – quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell’Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po’, ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?

Bibbia, Bush, cristianesimo, ebraismo, guerra, Israele-Palestina, medio oriente, santi

Scherzando col Magog sbagliato

10 aprile – Sant’Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos’è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C’è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un’astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall’interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri – non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l’afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano… già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l’aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell’Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L’invasione angloamericana dell’Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all’Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all’Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall’altra parte del filo c’è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l’appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c’è senz’altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l’interprete. Ci sono due tizi, Og e Magog, operativi in Medio Oriente… una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Og e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post…)

fumetti, guerra, maestri di vita, nazismo

Chamberlain a chi?

Guerra è Pace

È rimasto da anni appicicato in un angolino della mia memoria virtuale un foglietto, un post-it sgualcito, “ricordati di parlare di Disegni e Caviglia, di quanto gli hai voluto bene, di quanto sono stati importanti per la tua, boh, chiamiamola arte”. È vero, maledizione, non ne ho mai avuto una sola parola di lode per Disegni, e stanotte ne parlerò persino male. Eppure gli devo tanto: spesso se chiudo gli occhi e penso alle cose che scrivo, mi sembra di vedere i pupazzetti di Disegni, ed è un grosso complimento che faccio a me stesso.

Una volta chiesero a Charles M. Schulz se da bambino aveva mai usato il suo talento per disegnare caricature, e mi pare che lui rispose in un modo scandalizzato, che non ne sarebbe stato capace, che la sola idea di usare il disegno per prendere in giro un compagno o una maestra lo riempiva di sdegno; e parliamo della persona che ha fatto sorridere milioni di persone coi suoi disegnini. Ma non ha mai fatto una caricatura. Chiamiamola integrità artistica, o purezza di cuore, è quella cosa che lo ha fatto amare a milioni di persone in tutto il mondo: Schulz disegnava bambini buffi ma non li prendeva in giro, li amava, li rispettava, li trovava profondi e importanti. Ecco, Disegni qualche caricatura l’ha fatta, ma in generale mi piace pensare a lui come a un piccolo maestro del verbo di Schulz, uno che non ti mostra un pupazzetto col naso grosso per farti ridere del naso grosso; ti mostra un pupazzetto fatto più o meno come te e ti dice Guarda, questo è Craxi, o Andreotti, o Berlusconi: ma potresti anche essere tu. Lo avevi notato? Che c’è un po’ di te in Berlusconi e viceversa? Un minimo comune d’umanità? Ecco, questo è l’unico tipo di satira che mi interessa fare. Ma è ancora satira?

La domanda diventa improvvisamente attuale nella settimana in cui Stefano Disegni s’impadronisce della direzione del supplemento satirico del Fatto, in circostanze burrascose che non ci tengo ad approfondire, dando fuori nel frattempo una paio di tavole che definire ‘controverse’ è un eufemismo. La seconda è un vero manifesto: Disegni vuole dar fastidio ai lettori conformisti, che abbondano dappertutto, e quindi anche al Fatto. Bisogna quanto meno concedergli che ci sta riuscendo. Ma è ancora satira? Eh, bisognerebbe prima intendersi su cosa la satira sia. Prego, accomodatevi, se ne parla da sempre, in fatto di metareferenzialità gli autori di satira danno ancora tantissimi punti ai blogger: ognuno sembra avere la sua idea ben precisa di cosa la satira sia e non sia, di cosa debba e non debba fare, e dove passino i nettissimi confini tra satira e sfottò becero, tra satira e raccontino didascalico, tra satira e propaganda. Un’idea ce l’ho anch’io, ovviamente, ed è molto meditata, ma vi risparmierò la meditazione e salterò alle brutali conclusioni: per me non c’è nessuna differenza sostanziale tra la satira, sfottò, propaganda, raccontino a tema. Sono nomi diversi con cui chiamiamo lo stesso animale: zanne, coda, orecchie, zampe. Un autore di satira è sostanzialmente un propagandista. Anche quando come Disegni non indulge nella caricatura, è pur sempre un artista che semplifica la complessità del reale per difendere il suo sistema di credenze, quello che una volta si chiamava ideologia. Questa idea dell’autore satirico che ride di tutto e di tutti, ecco, per me è un mito: non è che se ogni dieci battutacce su Berlusconi ne infili tre su Bersani diventi imparziale, non è così che funziona.

Il fatto è che io sono di quelli che non credono all’autonomia dell’Arte con la A maiuscola, figurati se credo all’autonomia dell’arte di scrivere disegnini buffi sugli inserti dei giornali. Quindi non ci trovo nulla di strano nel fatto che Disegni stia diventando didascalico: è sempre piuttosto didascalico, e mi è sempre piaciuto così (anch’io scrivo storielle didascaliche, e ho imparato da lui). Se non mi piace più è semplicemente perché abbiamo maturato idee diverse, divergenze ideologiche. Se ne potrebbe discutere – ma quando si fa satira non si discute: si difendono le proprie credenze, si semplificano le idee degli avversari, si fabbricano pupazzi di paglia. Non c’è niente di male, eh, finché restano pupazzetti negli inserti satirici: il problema è che dilagano.

Vedi la prima tavola, quella su Asor Rosa. Per difendere la sua tesi (l’anziano professore appartiene a un ceto intellettuale che ha perso il contatto con la realtà) Disegni non disdegna il repertorio frusto del gauchiste-caviar: il casale in Toscana, il paté, eccetera. Asor Rosa viene cannoneggiato dalla posizione arretrata del cosiddetto ‘buon senso’, per cui non puoi chiedere ai carabinieri di chiudere il parlamento. E probabilmente no, non puoi, specie se sei un professore che scrive sul Manifesto; quantomeno è difficile che i carabinieri ti diano retta. Questo sarebbe il buon senso. Ok. Il vantaggio dell’autore satirico è che il più delle volte deve semplicemente distruggere le affermazioni altrui. Ma sul finale Disegni si lascia scappare un’affermazione vagamente propositiva: e se provassimo a vincere le elezioni? Ecco: pensare di “vincere le elezioni” è ancora buon senso? Sì, perché le avremmo vinte con Prodi… ma appunto: le abbiamo già vinte (o perlomeno pareggiate): è cambiato qualcosa? Potrà mai cambiare davvero qualcosa, finché a Berlusconi e ai suoi non si sottraggono le leve della produzione del consenso, finché gli si lascia tutta intera Mediaset e qualche bel pezzo di Rai? Il guaio del buon senso: ognuno ha il suo. Il mio mi suggerisce che un’azienda di produzione del consenso, monopolista di fatto, non si arrenderà senza combattere: che sfidarla in questa situazione equivale ad andare a combattere le corazzate con la cavalleria leggera: una cosa molto nobile e rapida (ma non indolore). E a quel punto mi ritrovo molto più vicino ad Asor Rosa che a Disegni, pensa te gli scherzi che ti combina il buon senso.

Però fin qui forse non valeva nemmeno la pena di parlarne, infatti stavo quasi per cancellare il file. Poi ho letto un’altra tavola di Disegni. E mi sono ritrovato di nuovo nel 2002, quando sui blog bastava manifestare qualche sano dubbio sulle guerre di Bush per ritrovarsi accusato di voler rinfocolare lo Spirito di Monaco, regalando a Hitler la Boemia e anche un bel pezzo di Moravia e di Slovacchia. Eh? No, sul serio, giuro, per qualche mese ogni conversazione sulla in Afganistan, sull’11/9, su Al Qaeda, su Saddam Hussein doveva per forza passare per la Conferenza del 1938 (appena prima di finire, ovviamente, in vacca). Soltanto che nel 2002/3 quelli che ti circondavano e ti davano del Neville Chamberlain (Eh?) erano dei perfetti sconosciuti, oscuri correttori di bozze di house organ di centrodestra, tutti diventati improvvisamente titolari di blog con le bandiere a stelle e strisce e le vignette sugliimbelli pacifinti. Nel 2011 lo stesso paragone te lo fa Stefano Disegni, sull’inserto del Fatto Quotidiano.

Sulla Libia non ero contrario in linea di principio a un intervento, purché avesse modalità e finalità chiare, che fin qui non si son viste. Ma ne faccio una questione formale, a questo punto: non puoi tirare fuori i nazisti, tutte le volte che non sei d’accordo con un pacifista. Non puoi ogni volta mettergli davanti al naso Hitler, come se il nemico di turno fosse sempre e solo Hitler. Cioè, per carità, puoi, in fin dei conti è propaganda. Ma c’è propaganda e propaganda: quella che tira fuori Hitler ogni due per tre è pessima, per la legge di Godwin è il segno che gli argomenti a tua disposizione sono esauriti, e per l’assioma del pastorello-che-chiamava-al-lupo affermo che dovesse un giorno ritornare Adolf Hitler in carne e ossa, dovesse reincarnarsi in un clone o tornare dal Brasile o da Marte su un disco volante, deciso a rifondare quanto prima il Quarto Reich e a completare i massacri lasciati a metà, ebbene probabilmente non ci faremo più caso, tanto siamo abituati a sentire Bin Laden paragonato a Hitler, Saddam Hussein il nuovo Hitler, anche Arafat quando lo tenevano sequestrato nel suo palazzo a Ramallah e giocavano a sforacchiarglielo con le granate, anche lui in quel periodo era il nuovo Hitler; adesso invece è Ahmadinejad il nuovo Hitler, salvo quando si parla di Libia e allora il nuovo Hitler è Gheddafi, e chi non lo bombarda è Neville Chamberlain. Sempre. E comunque. Questo è il Fatto del 2011, ma era anche il Foglio del 2003: hai dei dubbi su qualsiasi guerra? Sei un complice dei nazisti. E anche questo modo di usare i bimbi ebrei, sei pacifista? Da qualche parte qualcuno grazie a te sta ammazzando un bambino ebreo, ecco, io la chiamerei speculazione sulla Shoah, se non fosse che anche il solo pensarlo probabilmente mi fa incorrere nell’odioso psicoreato di antisemitismo, e insomma, io ci tengo al mio lavoro, per cui clicco via e ripenso ai miei diciottanni, allo scrondo su Tuttirutti, a quella volta che a Lupo Solitario due ragazzi strani raccontavano la storia di Canna Bianca, che era un cane tipo Zanna Bianca ma che invece di salvare i bambini in pericolo si faceva le canne, una cosa cretina veramente e io mi misi a ridere, e non la smettevo, in effetti non ho più smesso da allora, c’è una parte di me che ci pensa e ride ancora, chissà cosa ne pensa della conferenza di Monaco, aspetta che chiedo. Ehi, Canna Bianca, sono venuti a prendermi i cattivi nazisti, corri nella bufera a chiedere aiuto, vai a grattare con le zampette sul portone di casa Churchill finché non ti aprono… ehi… Canna Bianca…

Berlusconi, democrazia d'esportazione, guerra

Andate avanti voi

Gli Dei dell’Alba

– Gli dei dell’Odissea sono una famiglia allargata di entità litigiose e scostanti, non proprio onnipotenti ma comunque piuttosto potenti, che questo potere lo usano un po’ come gli viene, tifando ora per questo ora per quel mortale: sicché anche il destino di Odisseo è tirato un po’ di qua un po’ di là finché Zeus Atena e Poseidone non si stancano del giocattolo.

Gli dei di Odissey Dawn, migliaia di anni più tardi, continuano a rifarsi ai modelli classici. Hanno folgori più veloci del suono, ordigni invisibili e micidiali, però non è che abbiano le idee molto chiare su cosa colpire e perché. Arrivano sempre in ritardo, quando i guai sono stati commessi e i mortali che li invocavano già da qualche giorno morti; quando infine colpiscono, colpiscono comunque in fretta e male, senza obbedire a un disegno preciso, a un coordinamento. Si capisce a questo punto la fretta di Gheddafi nei giorni scorsi: si trattava di spicciarsi a far deserto prima che i lamenti dei ribelli disturbassero troppo le orecchie degli dei. Stava per farcela, ma poi l’Oracolo internazionale, che si chiama ONU, ha rilasciato una delle sue enigmatiche Risoluzioni, in cui chiedeva di salvare i civili in qualsiasi maniera. Anche bombardandoli a tappeto? In qualsiasi maniera: quindi pronti, partenza, via. Chi comanda? Non si sa. Alla fine probabilmente sarà Zeus Obama, per via che possiede più folgori e più possenti; ma finché esita, è una gara a chi fa più casino. È anche lo stato dell’arte del diritto internazionale: una cosa che a 66 anni dalla nascita dell’ONU, a venti dalla prima guerra del Golfo, a dieci dall’intervento in Afganistan, continua a non assomigliare a niente di sensato. Semplicemente, gli Oracoli di New York o di Ginevra rilasciano risoluzioni e poi chiunque abbia degli aeroplani da quelle parti può iniziare a bombardare. Stavolta è stato Sarkozy, e gli altri a ruota. C’è evidentemente qualcosa che non va, ma cosa?

Potrebbe essere l’Europa. Non esiste. È un’espressione geografica. Lo abbiamo sempre saputo, ma fa comunque male constatarlo, perché noi europei invece esistiamo. E senza essere antiamericani per principio, ma avendo sofferto il protagonismo USA in Medio Oriente che ci ha esposto agli attentati dei terroristi islamici, per una volta tanto che lo Zeus a stelle e strisce era riluttante a prendere il comando delle operazioni, avremmo potuto dimostrare che sappiamo prenderci cura del nostro cortile (perché la Libia in fondo è questo: una tirannide affacciata sul nostro cortile). Avete sentito parlare qualche rappresentante di quella cosa che eleggiamo ogni cinque anni e si chiama Parlamento Europeo? Avete sentito una dichiarazione di Javier Solana [update: Solana non è più Mister Pesc, lo è soltanto sul sito della Treccani, è l’ultima volta che uso la Treccani].

Quanto all’Italia, siamo onesti. È una piccola nazione sempre in mezzo ai guai, cronicamente assetata di gas e petrolio, a cui si poteva giusto chiedere qualche baciamano in meno, prima, e meno capricci sui profughi, adesso. Non siamo onnipotenti e lo sappiamo da generazioni: per questo i nostri padri saggiamente scelsero di cedere parte della nostra sovranità a quegli organismi sovranazionali che, in teoria, dovrebbero saper guardare un po’ più in là. Non dovremmo essere messi nella condizione di trattare paci separate con questo o quel tiranno, però è successo: è solo colpa nostra? Del resto, nessuno sembra volercelo rimproverare, per il solito motivo che gli dei hanno bisogno delle nostre basi. Noi però vorremmo più chiarezza e chiediamo che l’operazione passi sotto il controllo Nato, insomma, o arriva subito zeus Obama o non se ne fa più niente. È penoso doversi dire d’accordo con Frattini, ma sembra una richiesta ragionevole. Almeno la Nato si sa cos’è: l’alleanza militare di cui ci onoriamo di essere, da sessanta e più anni, i generosi albergatori. E ci ritroviamo così, atlantici per inerzia, filoamericani per paura d’essere europei.

Nel frattempo sui media possiamo passare il tempo con uno dei nostri passatempi preferiti, dalla prima guerra di Libia in poi (giusto un secolo fa): il cancan neutralisti/interventisti. Come se poi il nostro parere contasse qualcosa, come se gli dei ci stessero a sentire. A sinistra ci sbraneremo come al solito, sarà divertente, ma un po’ già visto. Più interessante l’atteggiamento della stampa filogovernativa, che a momenti si mette a sventolare la bandiera arcobaleno. Non è del tutto una sorpresa: anche ai tempi feroci del 2003, quando su decine di blog liberali (nati tutti all’improvviso) garriva la bandiera stelle-e-strisce, l’unico organo di stampa genuinamente neocon era il Foglio, e già allora serviva più a punzecchiare i pacifisti che a motivare i berlusconiani. Questi ultimi in fondo non si sono mai scostati molto da quella posizione che storicamente più ci appartiene, almeno dal 1915: se proprio deve essere guerra, occorre attendere finché non sia chiaro che i nostri amici la stanno vincendo; in caso contrario, cambiare amici. Così, mentre a sinistra si discute di massimi sistemi, di diritto internazionale, al limite di dubbi interiori, si gioca a chi l’ha più duro e puro (l’ideale), a destra si ostenta il pragmatismo dei furbacchioni, quelli che la sanno lunga e si mettono in guardia gli uni gli altri contro quel Sarkozy che vuole rubarci il petrolio, dopo la fatica e la saliva spese da Silvio e dalle altre hostess per aspirarlo a Gheddafi. Spicca nel coro dei furboni la voce bassa e greve dei leghisti, sulla nota costante del “no” agli sbarchi: in fondo, in mezzo a tanti strateghi da bar sport, sono quelli che danno l’impressione di maggior concretezza. Per loro non c’è crisi internazionale e umanitaria che non si possa nascondere sotto il tappeto, tutto è subordinato alla quantità di vuccumprà che con la scusa dello status di profughi di guerra potrebbero avvicinarsi alle porte di Varese o Bergamo. Per evitare questa invasione i leghisti sono disposti a mandare un Silvio a sbaciucchiare qualsiasi beduino pianti la tenda in Villa Pamphili: la concretezza dei leghisti è questa cosa qui, l’astuzia del cumenda che si cautela dagli zingari lasciando le chiavi di casa alla badante.

Quanto al Silvio in questione, forse ha ragione Libero a mostrarcelo mentre saluta i liberatori e gli scappa da ridere. Non sa dirci nemmeno se i nostri aerei stiano bombardando o no, non che abbia molta importanza. Notate: di fianco c’è ancora la pubblicità del finto diario del clown precedente, più professionale, ma meno divertente. Anche lui stringeva patti pericolosi con dittatori criminali, ma poi li prendeva sul serio, si prendeva sul serio, e la cosa alla lunga lo rovinò. Silvio invece è il trastullo degli dei: farà qualsiasi cosa per divertivi, e se alla fine sarà costretto a bombardarvi, la cosa comunque gli dispiacerà. Siamo brava gente, noi.

democrazia d'esportazione, guerra

Forse dovremmo intervenire in Libia

Datti una mossa, Grande Proletaria

– Può darsi che la mia Patria non sia proprio il mondo intero, può darsi che in un mondo di risorse limitate la mia sopravvivenza implichi la non sopravvivenza di qualcun altro che quindi è un mio nemico. Può darsi che io non mi possa sobbarcare di tutto il dolore e di tutta l’ingiustizia del mondo, perché non sono onnipotente, anzi. Può darsi.

Ma non sono neanche del tutto impotente: per esempio, potrei essere l’Italia: la Libia allora sarebbe uno spiazzo poco lontano da casa mia, dove ai tempi del nonno avevo pure piantato qualche bandierina. Io che da dieci anni mi segno sul calendario di ricordarmi di piangere per l’undici settembre, cosa scriverò sulla mia agendina il ventuno, sul ventidue, sul ventitré febbraio? “Nulla”, come Luigi XVI il 14/7/1789?

Allora, accantoniamo per favore la svenevole polemica su chi abbia più baciato e abbracciato Gheddafi. Lo hanno fatto tutti, da Andreotti a Berlusconi; se quest’ultimo in particolare ci diede la sensazione di aver calato le braghe, non è questo il momento per rimproverargli una mancanza di stile che è cronica. Questo è il momento del disastro, il momento in cui si accantonano le nostre beghe familiari perché là fuori ci sono i nostri vicini, che gridano, e bruciano vivi.

Se fossi l’Italia, sarei una nazione in crisi, che sta stagliuzzando a sangue servizi essenziali (sanità, istruzione, pubblica sicurezza, giustizia), ma continua a non tagliare un settore strategico. La Difesa. Ci spendo tutti gli anni il 2% del PIL, qualcosa come 24mila milioni di euro: sono un sacco di soldi. Ecco, appunto. Dove li sto mettendo? Ora c’è un folle incendiario, uno stragista assassino che sta bombardando un popolo amico alle porte di casa: non dovrei intervenire? Non sono intervenuto per molto meno, in passato? Dove sono le mie navi, i miei jet, i miei uomini? In Asia centrale, a insegnare la democrazia ai sassi. Ma siamo sicuri che sia ancora la priorità?

E l’Unione Europea dov’è? Perché se fossi l’Italia avrei la fastidiosa sensazione di essere trattata un po’ come io trattavo la Libia, da parente povero e scemo a cui appaltare un bel campo profughi in riva al mare. Non è il caso di chiamare dal deserto: guardate che qui o si fa il Mediterraneo o si affonda tutti? A chi spetta, se non a noi? Tra dieci anni potremmo avere un Nordafrica civile, democratico, che scambia le sue enormi risorse energetiche in cambio di cibo (e l’Europa dovrebbe averne in sovrappiù); che per costruire infrastrutture assorbe manodopera da Europa e Africa Nera. Oppure potremmo avere la costa settentrionale del Sahel, il porto della disperazione, un’enorme Somalia piagata da lotte tribali o religiose e appaltata a bande di pirati. Democratici di sinistra, cinici di destra, o viceversa; leghisti, nazionalisti, cattolici, lo chiedo a tutti: cosa ci conviene avere, in quello spiazzo poco lontano da casa nostra? Può darsi che le sorti dell’Antartide e di Haiti non dipendano da noi, ma possiamo davvero lasciare che un pazzo massacri i nostri vicini di casa? Scusate, io d’impostazione sarei un pacifista, ma non posso evitare di pormi la questione: se le forze armate non mi servono a intervenire in situazioni di questo genere, per cosa mi servono? E quindi, insomma, per cosa le pago?

Se invece siete di quelli che avevano buoni motivi per la guerra in Afganistan o in Iraq, allora vi prego, moltiplicate quei buoni motivi per cento, per mille. Gheddafi possiede armi di distruzione: Gheddafi le sta usando, ora.

Se poi i libici si libereranno da soli, tanto meglio per loro: ma con che faccia tratteremo coi loro nuovi capi? E se l’assassino invece dovesse vincere, se dovesse trionfare su un deserto di fosse comuni, andremo a stringergli le mani al prossimo summit? Sul serio è ancora realpolitik, ma cosa c’è di realistico nell’idea che un incendio nello spiazzo dietro casa si spenga facendo finta di niente?