attivismo, referendum

Senza Pannella (avremmo fatto schifo lo stesso?)

Quando si tratta di parlare di Pannella – e di tenersi possibilmente il peggio per sé – sarei tentato di buttarla sul generazionale, ovvero: sarà anche stato un grande, ma io purtroppo sono arrivato tardi e mi sono beccato gli avanzi. Dite che è stato un grande attivista, un maestro per tutti, e volentieri ci credo (anche se tutti questi grandi discepoli in giro non li vedo, anzi, vedo personaggi spesso orribili e tipicamente trasformisti); io però ho solo fatto in tempo a vedere il vecchio Crono che ingoia il vecchio Partito Radicale con la supercazzola del “partito transnazionale” e lo sostituisce con un comitato intestato a sé stesso. Dite che è stato il protagonista delle grandi lotte civili degli anni Settanta; che senza di lui non ci sarebbe il divorzio, non ci sarebbe l’aborto – io però sono arrivato nel periodo in cui faceva raccogliere firme a macchinetta col risultato di far inceppare lo strumento, il referendum abrogativo.

(Non voglio dire che Pannella sia responsabile dei referendum inutili e dannosi: non ci fosse stato lui, avrebbe cominciato qualcun altro. Il numero di firme richieste dalla legge è evidentemente basso e così ci provano tutti; lui è stato semplicemente uno dei primi a pensare che con qualche centinaia di migliaia di firme avrebbe potuto mettere il cappello su questioni enormi. Funziona tuttora così, anzi, non funziona: prendi quest’ultimo referendum sulle licenze petrolifere. Una questione tecnica, di importanza relativa, spacciata come l’arma finale democratica contro la nostra dipendenza dagli idrocarburi. Il referendum non raggiungerà il quorum, le cose non cambieranno, ma i promotori avranno dimostrato il loro impegno. Il referendum abrogativo è la droga dei movimenti: dà a migliaia di attivisti la sensazione di fare qualcosa, di ottenere qualcosa).

Ma dicevamo di Pannella, insomma: sarà stato un grande ma io sono arrivato tardi e mi sono preso la parte peggiore: i discepoli impresentabili, il trasformismo tattico condotto con cinismo e spregio del ridicolo, i bofonchii incomprensibili, eccetera. Potrei risolverla così e sarebbe un modo per litigare con meno persone. Perché io non è che abbia voglia di litigare sempre con tutti, vero?

Vero?

Però non posso neanche prendervi in giro – e i discorsi generazionali quasi sempre questo sono: immaginose prese in giro, talvolta gradevoli ma sempre un po’ offensive. È scontato che negli ultimi trent’anni Pannella abbia dato il peggio di sé. Temo sia un destino, per chi è alla ribalta da tanto tempo. Ma era pur sempre il peggio di Marco Pannella: non qualcosa di radicalmente nuovo. Diciamo una riproposta stanca di vecchi numeri che i nostri genitori forse trovavano geniali, ma avevano la tv in bianco e nero e appena due canali.

L’Espresso

Il solo fatto che ci siano in Italia migliaia di persone convinte che Pannella abbia promosso gli storici referendum sul divorzio e sull’aborto, che cos’è se non la prova della straordinaria capacità del personaggio di imporre la sua visione dei fatti? Ogni volta pazientemente bisognerebbe ricordare che no, il divorzio era già legge e quel referendum, il primo referendum, lo promossero i cattolici per abrogarlo: che Pannella col suo piccolo partito fece campagna per il NO, e la fece certamente con più coraggio dei comunisti di Berlinguer che avevano paura di perdere contatto con parte del loro bacino elettorale.

Pannella non aveva nulla da perdere perché già al tempo non lo votava nessuno; questo gli consentiva più libertà di movimento, ma il solo pensiero che quasi venti milioni di italiani abbiano votato NO perché glielo chiedeva un partito che due anni dopo prese l’1% alle elezioni, ecco: questa è una presa in giro e non è così gradevole. Quanto al referendum del 1981, i radicali lo promossero per abrogare parte della legge 194 (estendendo ad esempio il diritto di abortire anche alle minorenni) – e lo persero. A cosa servì? A dimostrare che i radicali all’aborto ci tenevano davvero, più di tutte le altre forze che avevano lottato in parlamento per ottenere una legge quasi decente. Da questo punto di vista ha funzionato.

Dal punto di vista di Pannella, quasi tutto ha funzionato. Regalare hashish in piazza, in retrospettiva, non ci ha fatto fare molti passi verso la depenalizzazione: in compenso ci ricordiamo tutti di Pannella conciato come Babbo Natale. Di tanti digiuni, che cosa ci è rimasto se non il corpo di Marco Pannella. Nessuno nega la sua importanza. Forse la sua lotta più sincera è stata quella per la personalizzazione della politica: in fondo è stato il primo a mettere il proprio cognome su uno stemmino elettorale, il primo a creare un partito azienda, seppure di dimensioni artigianali. Il primo a dimostrare che si può fare politica anche senza elettori: che ovunque c’è una battaglia per un diritto, lì arrivano le telecamere e c’è la possibilità di attirare l’attenzione, imbavagliandosi se serve; certo, la politica non è solo questo. Qualche risultato bisogna anche portarlo a casa e Pannella è sempre stato molto accorto nell’intestarsi i risultati altrui. Senza di lui avremmo divorziato e abortito lo stesso, più o meno con le stesse difficoltà; forse non avremmo banchetti referendari tutti i sabati in centro, partiti ridotti a liste elettorali stilate da personaggi più o meno carismatici che hanno registrato il marchio e cacciano chi vogliono. Vorrei poter dire che Pannella non è stato soltanto questo, ma onestamente non posso. Diciamo che sono arrivato tardi, e anche voi, se non volete litigare, fate finta di crederci.

attivismo, guerra, manifestaiolismi, terrorismo

Avevamo il 5% e avevamo ragione

Avevo in bozza la fine del ragionamento sul partito di sinistra del 5%, che questa settimana sembra abbastanza superato (alligna in me almeno il germe dell’ottuso-bravo-cittadino, quello che nei momenti di crisi si stringe alla bandiera e alle istituzioni; al punto che riesco ad apprezzare un buon discorso di Renzi e persino qualche degno intervento di Angelino Alfano; e a sospirare al pensiero che nelle stanze dei bottoni ci siano loro e non altre creature sempre meno antropomorfe).

Una cosa però la voglio buttare giù, visto che in questi giorni è facile andare col ricordo al periodo della guerra al terrore. Bene, se c’è stato un momento, negli ultimi vent’anni, in cui una sinistra minoritaria ha dimostrato di essere utile, se non necessaria, è stato quello. Non eravamo tantissimi, non avevamo necessariamente categorie più raffinate dei neocon che avversavamo; non eravamo eleganti, non sapevamo capitalizzare i successi dei forum sociali e dei cortei no-war. Non eravamo l’avanguardia intellettuale del Paese e non meritavamo senz’altro di conquistare l’egemonia; però avevamo ragione.

Ce lo hanno mostrato i fatti, lo ha ammesso persino il mellifluo Tony Blair. Qualsiasi ingenua analisi postata su un blogghetto amatoriale (che mi costa una certa fatica andarmi a rileggere) sembra comunque illuminata da una spaventosa chiaroveggenza, se solo la paragono alle ciarle che nello stesso periodo facevano sbrodolare alla povera Fallaci. Avevamo ragione sui rischi di destabilizzazione del Medio Oriente, avevamo ragione nel liquidare a sberleffi le ideologie contraddittorie dello scontro di civiltà e dell’esportazione della democrazia; eravamo forse un po’ più ingenui quando parlavamo di petrolio, ma almeno avevamo capito che sotto la trama religiosa c’è sempre la cara vecchia economia.

In seguito c’è chi è partito per la tangente; chi aveva troppo fiuto per i retroscena ha iniziato a vedere false flag e scie chimiche; però l’intuizione iniziale era buona, e veniva da un ambiente che conservava gli strumenti per vedere quello che altri non potevano o non volevano vedere, per diplomazia o per interesse o pura e semplice insipienza. Non è che abbia nostalgia di quello spazio e di quel momento (che non è mai riuscito a costituirsi in un partito organizzato, peraltro). Ma credo che molti giovani avrebbero bisogno proprio di un ambito del genere, dove coltivare un sano dubbio post-ideologico e imparare a irridere gli impavidi arruolatori di ogni stazza ed età. Certo, le elezioni non si vincono subito e forse non si vinceranno mai. C’è però anche altro nella vita: e anche il piccolo orgoglio di avere avuto i dubbi giusti e quasi sempre ragione non è da sbatter via. Ci si può costruire qualcosa.

(Vien quasi la vertigine, a pensare quanto ero stupido quando avevo sempre ragione. A me poi piacerebbe anche aver torto ogni tanto, son quel classico Tramaglino a cui piacerebbe annoiare il prossimo raccontando i propri errori di gioventù. Ne avessi fatti un po’ di più! e invece quasi niente).

attivismo, Renzi

Civati e la battaglia sbagliata, o forse no

Il Fatto

In questi giorni mi è capitato di scoprire che un po’ nei banchetti di Possibile ci speravo. Non ho collaborato e nemmeno firmato; sono contrario ai referendum abrogativi, sia per principio che per strategia – e però mi sarebbe piaciuto, a questo punto dell’anno, congratularmi con Civati per il risultato insperato, in un bel post in cui comunque avrei rimarcato e misurato la mia distanza. Invece la raccolta è fallita, e a me stranamente dispiace.

Adesso potrei prendermela con un aspirante leader che sbaglia tattica e tempi, si aliena le simpatie di quelli con cui dovrà giocoforza allearsi, consumando le energie preziose dei suoi attivisti. Ma non ci riesco. Un po’ perché ho la sensazione di averne già lette diverse, in giro, di analisi di questo tipo – mescolate a sfottò da ultras, del resto la formazione culturale del commentatore politico medio è quella. E un po’ perché davvero, che altro poteva fare Civati, se non provarci? Tutto quello che ha fatto fin qui ha una sua logica, che purtroppo non è la logica che ti fa vincere le elezioni, ma pur sempre logica è. Dopo il disastro elettorale del ’13 si è ritrovato all’estremità del PD – sullo squarcio vivo del bastimento che affondava. Aveva un senso improvvisarsi pontiere con i grillini, ed era inevitabile che questo lo rendesse inviso ai sacerdoti dell’ortodossia del M5S. Nel frattempo il relitto trovava un nuovo assetto intorno a Renzi, e il suo ex compagno di strada si ritrovava all’estrema sinistra: una posizione inedita per lui, forse mai cercata, ma mantenuta con una certa dignità. Era inevitabile che Civati cercasse di tenere alta la bandiera del dissenso interno, anche se le primarie andarono abbastanza male; era inevitabile che la fuoriuscita del partito, minacciata innumerevoli volte, diventasse una scelta obbligata.

Una volta precipitato nella scena un po’ ridicola dei partitini di sinistra – una scena che varrebbe anche il 10%, se finalmente trovasse un progetto serio – che altro poteva fare se non tentare il colpaccio? Le speranze di raccogliere le firme durante l’estate erano senz’altro troppo ottimistiche (tarate probabilmente sulle città, e non sui piccoli centri di cui è fatta l’Italia): l’idea che poi un exploit del genere avrebbe obbligato il governo ad accorpare referendum ed elezioni amministrative era nel caso migliore una pia illusione (nel peggiore, si è abusato della credulità dei volontari). Però davvero, che altro poteva fare? Almeno ha messo fuori i banchetti. Era forse il periodo peggiore dell’anno; i quesiti potevano essere migliori; e il tanto sbandierato entusiasmo di chi ha aderito meritava di cimentarsi con un obiettivo più realistico.

I referendum abrogativi, mediamente, sono un pacco – è come giocare contro il banco, tu ti danni a raccoglier firme e ad autenticarle, poi ti sbatti a far campagna per il Sì, e anche quando vinci, quasi sempre la maggior parte degli italiani non è venuta a votare e quindi in realtà vince il tuo avversario – quello che per tutto il tempo magari è stato lì seduto a non far niente (al limite a controllare che tv e giornali non parlassero troppo di te). In sostanza ci si spezza la schiena per portare legna al proprio avversario. Non è raro sentir citare le Termopili.

Mi dispiace che gli attivisti di Possibile abbiano buttato via tanto tempo ed energia, ma ricordo che se invece fossero riusciti nel loro intento, avrebbero prevedibilmente regalato a Renzi una splendida opportunità per dichiararsi vincitore di una sfida nemmeno combattuta: come fece Berlusconi all’indomani del referendum sull’art. 18 (2003) o i vescovi dopo quello sulla fecondazione assistita (2005). D’altro canto.

D’altro canto prima o poi si andrà a votare – con l’Italicum, ormai – e se Renzi non passa al primo turno, i tanto bistrattati e litigiosi personaggi a sinistra del PD si troveranno in una situazione curiosa. Renzi avrà bisogno dei loro elettori. In quel momento forse scopriremo che non esiste un algoritmo elettorale in grado di eliminare il trasformismo, e che avere mantenuto una posizione, una presenza coerente, un nocciolino duro di adesioni, può renderti un interlocutore privilegiato. In quel momento forse Civati sarà una figura più nitida di altre, e questi due mesi di banchetti gli saranno serviti a qualcosa. Non proprio a combattere Renzi, no, ma comunque a qualcosa. Gli sfottò con cui lo subissano oggi sono pur sempre un attestato di esistenza. Magari un giorno qualcuno se li dovrà rimangiare, in nome di un fronte comune contro il grillismo o il fascio-salvinismo o chissà cos’altro.

Confido che in quel giorno eventuale, Civati non si dimenticherà dei volontari che mandò a combattere la battaglia sbagliata (non parlo di me, io ero al mare).

attivismo, omofobie, scioperi

Ivan non mangiare tranquillo

La settimana scorsa, mentre eravamo tutti un po’ distratti, Ivan Scalfarotto ha deciso di digiunare. Qualcuno lo ha chiamato sciopero della fame, espressione che a lui non piace (“sciopero”, in particolare, è un termine che gli ha sempre dato fastidio, persino quando era vicepresidente di un partito che vi aderiva). In un pezzo scritto ieri, ha spiegato più in dettaglio che il digiuno dovrebbe servire a costruire “una consapevolezza, l’inizio di un dibattito un po’ più approfondito di quello a cui abbiamo assistito in questi anni in tema di diritti civili“, e che durerà “fino a quando non avremo una certezza sulla data della cessazione di questa grave violazione dei diritti umani che si consuma nel nostro Paese“. Per “grave violazione” si intende ovviamente la mancanza, in Italia, di una legislazione sulle unioni civili. Se però a questo punto ci facciamo l’idea che Scalfarotto stia digiunando per ottenere una rapida calendarizzazione del ddl Cirinnà, ebbene, ci sbagliamo. “Il Calendario dei lavori delle Camere è prerogativa dei gruppi parlamentari, la cui autonomia rispetto in modo assoluto. Quello che chiedo è invece che ci sia una presa di coscienza della serietà del problema e del fatto che si tratta di un’assoluta priorità e che, su questa base, mi sia assicurata una data certa entro la quale avremo una legge all’altezza di quella degli altri paesi che hanno già legiferato.” C’è scritto così, ognuno si faccia l’idea che preferisce. Quel che ho capito io (e magari mi sbaglio) è che il ddl se la vede male. Non così male da causare le dimissioni del sottosegretario Scalfarotto, ma abbastanza male da portarlo a un gesto clamoroso – almeno nelle intenzioni avrebbe dovuto esserlo; purtroppo eravamo tutti voltati verso la Grecia e c’è da aggiungere che i digiuni sono un mezzo un po’ inflazionato, probabilmente per il modo un po’ allegro in cui li ha gestiti per troppi anni Pannella.

Questo pezzo era partito per intonare un affettuoso sfottò, “Ivan magna tranquillo”, qualcosa del genere. Poi mi è successo qualcosa – forse il caldo – più ci penso e più mi rendo conto che Scalfarotto sta facendo la mossa giusta, delle poche che gli restano a disposizione. Un po’ ridicola, e senz’altro la tempistica non lo aiuta, ma l’alternativa è buttarsi a terra e aspettare che l’arbitro conti fino a dieci. Scalfarotto ha già preso una botta abbastanza dura col ddl sull’aggravante omofoba, arenatosi in Senato; ma se lì non c’è la maggioranza per una cosa del genere, non c’è nemmeno per le unioni civili. Il resto – l’ostruzione, gli emendamenti fantasiosi, sono dettagli che Renzi potrebbe spazzar via in un mattino se dalla sua parte avesse i numeri sufficienti. Ce li aveva per la legge elettorale, ce li aveva per la Buona Scuola, ma per le unioni civili non le ha. Su questa cosa mi pare che Alfano e i suoi siano stati chiari sin dall’inizio, e della loro sincerità non c’è da dubitare; al loro elettorato di riferimento, che mal digerisce il loro sostegno a Renzi, cercheranno di rivendersi come i salvatori della famiglia tradizionale. Il ddl non soffre perché un gruppetto di bigotti va in piazza: il ddl soffre perché Renzi non ha una maggioranza senza NCD, e se cercasse la fiducia rischierebbe di perdere anche quella. Questo è tutto quel che importa: non le fiaccolate o le sentinelle, movimenti folkloristici organizzati da battitori liberi che cercano di parassitare la discussione per (ri)costruirsi una carriera politica.

Sull’altro versante è Scalfarotto a giocarsi la sua. Le possibilità di far passare il ddl sono appese a quella filiforme chimera che è il voto trasversale: da qualche parte tra i banchi di M5S e centrodestra dovrebbe trovarsi qualche senatore al passo coi tempi che invece di approfittare della situazione per mandare il governo sotto, dovrebbe vergognarsi perché non abbiamo “una legge all’altezza di quella degli altri paesi”. Qualcuno che di fronte al digiuno di Scalfarotto dovrebbe farsi un esame di coscienza. Probabilmente questi senatori non ci sono – non abbastanza – e probabilmente Scalfarotto lo sa meglio di me, ma tanto vale provarci. È una mossa ingenua? Può darsi, ma a questo punto se fossi in lui non me ne verrebbero altre.

Altrettanto ingenuo può sembrare il riferimento all’anomalia italiana – che poi anomalia non è: su questo argomento siamo più vicini ai russi e ai turchi che non ai francesi o agli irlandesi. Cambieremo? Ci evolveremo? È probabile, ma ora come ora siamo in spaventoso controtempo, nell’esatto momento in cui persino a sinistra si riscoprono le identità nazionali contro il moloch europeo. Pensare che l’Italia debba naturalmente seguire l’Irlanda è un’altra affettata ingenuità: là c’è stato un riconoscimento graduale dei diritti degli omosessuali – una gradualità che è ancora rifiutata da parte dell’associazionismo LGBT italiano (a costoro Scalfarotto ha poco da rimproverare: anche lui era molto più oltranzista prima di cominciare a scrivere disegni di legge). Ma soprattutto in Irlanda c’è stata una profonda crisi di credito dell’istituzione cattolica, anche a causa degli scandali enormi scoppiati negli ultimi 20 anni. Nel frattempo in Italia ci troviamo l’enciclica di papa Francesco a puntate sull’Unità – e stavolta non è nemmeno così colpa di Renzi, la fascinazione del centrosinistra per il Vaticano dura dai tempi di Veltroni se non da prima. In una situazione del genere, dopo aver promesso per anni una legge ai suoi, Scalfarotto che può fare? Per adesso digiuna. Ho molte riserve su di lui e soprattutto sul suo renzismo, ma se in politica credo che si debba sempre fare quel che si può con i mezzi a propria disposizione, mi pare che in questo caso Scalfarotto ci stia provando, e che si meriti il mio appoggio. Che purtroppo conta veramente pochissimo – ma anche in questo caso, è l’unica cosa che posso offrire.

1500 caratteri, attivismo, la sinistra perde anche per questo motivo

Podemos e la generazione invisibile (in Italia)

È normale che oggi la sinistra italiana guardi a Podemos, come era normale che guardasse a Syriza ieri; mi chiedo lo stesso se questo affannoso voltarsi qua e là in cerca di modelli vincenti non sia un equivoco. Ieri il futuro doveva arrivare dalla Grecia, oggi dalla Spagna; e se invece fosse già passato, e non ce ne fossimo accorti? Se Podemos e Syriza nascono a sinistra ma attraggono fette di elettorato diverse, profittando di un diffuso sentimento anti-austerity; se mettono in crisi il bipolarismo tradizionale, forse il Podemos italiano c’è già stato, e non è passato così inosservato: era il Movimento Cinque Stelle.

Certo, Grillo non è Iglesias. Il primo viene dalla tv e, moderno San Paolo, una volta convertito alla politica dal basso ha emesso una fatwa contro il satanico strumento che pure lo ha reso un volto noto a tutti. Il secondo viene da quella galassia dei movimenti che 14 anni fa protestava a Genova: ha scritto una tesi sui Disobbedienti e fatto un po’ di carriera accademica mentre si faceva conoscere come conduttore e opinionista in tv. Vista da qua la Spagna sembra un’oasi serena, dove l’accademia non è vista con sospetto, e la tv non seleziona urlatori ma leader intelligenti e affabili. E torniamo all’eterna domanda: cos’è andato storto da Genova in poi? se al governo c’è un venditore di pentole, e all’opposizione un vecchio comico stanco, sarà colpa di quei due o di un’intera generazione che in dieci anni non si è fatta viva con leader, con progetti, con qualcosa?

attivismo

Il referendum che Landini non può vincere

Scava una buca / organizza un referendum. 

Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po’ la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader – e ce ne sarà bisogno – non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che – se ho capito bene – passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.

Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell’occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l’obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.

Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?

Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.

Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull’Euro – quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l’obiettivo di Grillo non è uscire dall’Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l’abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po’ nello stesso modo.

Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull’Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti “Vabbe’, ci abbiamo provato”. O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.

Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull’articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c’erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c’erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull’onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent’anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l’articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l’astensione è aumentata del 10%).

D’altro canto Fausto Bertinotti in quell’occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le “norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori“. Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l’anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po’ più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov’è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l’obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio…

Ehi, aspetta.

Forse c’è qualcosa di meglio. (Continua).

attivismo, cattiva politica

Vite parallele

Come molti oggi ricordano, Alex Tsipras nel 2001 avrebbe dovuto partecipare alle proteste contro il vertice G8 di Genova: fu fermato dai carabinieri con tutta la sua delegazione nel porto di Ancona, e si prese pure qualche mazzata. Se fosse riuscito a passare, magari le avrebbe prese insieme a noi, marciando tra gli altri insieme a Francesco Caruso, Luca Casarini, Vittorio Agnoletto: quelli che già ai tempi cominciavamo a chiamare “non leader”. Il loro scarso carisma, che li rendeva già allora poco interessanti a buona parte di chi li fiancheggiava, era ai tempi rivendicato come un segno di diversità: beata la rivoluzione che non ha bisogno di eroi.

Ai tempi Tsipras era leader dell’area giovanile di Synapsismos; nel 2004 entra nella segreteria politica. Nello stesso anno Agnoletto diventa europarlamentare con Rifondazione Comunista. Caruso ce ne mette due in più per approdare a Montecitorio, sempre con RC (racconterà di aver seminato piantine proibite nei vasi del cortile). Di Casarini nessuno sembra più parlare, ma nel 2005 la sua area di riferimento era ricomparsa sotto i riflettori nazionali per aver candidato alle primarie del PD un anonimo in passamontagna arcobaleno: il “candidato senza volto”. Nel 2006 Tsipras è eletto consigliere comunale ad Atene. Due anni dopo è eletto presidente di Synapsismos: fonda Syriza (che si attesta alle elezioni sotto il 5%) ed entra in parlamento.


In quel 2008 cade il governo Prodi, Napolitano scioglie le camere, e non si sa bene che fine faccia Caruso (anche nel suo curriculum il buco è molto vasto). Pansa, in un libro contro la “casta rossa” scrive che avrebbe lavorato nel Parco del Gran Sasso. In compenso nel 2008 fa parlare di sé Casarini, che pubblica un romanzo con Mondadori! Dell’anno successivo è una sua intervista famosa in cui spiega di aver aperto una partita iva e di simpatizzare con gli imprenditori che fanno disubbidienza fiscale. In quel momento immaginarlo come una scheggia impazzita ormai convergente con la Lega era plausibile.

Nel 2009, intanto, Agnoletto riprova a candidarsi per il parlamento europeo, ma Rifondazione ormai non riesce più a superare la soglia del 4%. Gli va male anche l’anno dopo la campagna per il consiglio regionale lombardo. Nel 2014 ritroviamo Casarini nelle liste dell’Altra Europa con Tsipras, anche lui non eletto. L’ultimo dei non leader italiani ad aver dato notizia di sé è Francesco Caruso, per una cattedra di sociologia affidatagli dall’Università Magna Grecia di Catanzaro. I gradini saliti da Tsipras negli ultimi anni (17% e poi 27% nel 2012, 35% oggi) li sapete.

Tutto questo vuol dire qualcosa? Magari no. Magari se Caruso o Casarini avessero insistito con più serietà sulla propria carriera politica, innestandosi con più convinzione in un partito e mantenendo ferma la barra tra una tempesta e l’altra, magari… non sarebbe successo niente di diverso. La Grecia non è l’Italia, anche se a momenti stavamo per regalarle un sistema elettorale altrettanto demenziale. Quel che posso dire è che il composito mondo di sinistra che per più di un decennio non si è preoccupato di costruire nessun leader credibile ha avuto esattamente quel che desiderava: nessun leader credibile. Se c’è stato forse un momento in Italia per costruire qualcosa di diverso, in quel momento nessuno ha voluto o potuto metterci la faccia. Alla fine ce l’ha messa Beppe Grillo, uno che passava di lì e probabilmente voleva soltanto vendere qualche libro, qualche dvd.

aborto, attivismo, manifestaiolismi, omofobie

Come dar ragione alle Sentinelle

Trentino – Corriere delle Alpi, 5 ottobre
È molto difficile immaginare ormai come sarebbe la mia vita senza social network – senz’altro più piena, più soddisfacente, e chissà quanti libri avrei letto in più eccetera – in particolare credo che questa settimana non avrei sentito parlare delle Sentinelle, un gruppo non particolarmente numeroso o interessante di attivisti pro-life e anti-gay, che a quanto pare si ritrova nelle piazze a legger libri. Svanito l’effetto novità, un tipo di manifestazione del genere è destinato a scivolare nelle pagine locali dei quotidiani, dove senz’altro non me lo sarei andato a cercare: e probabilmente a questo punto me le sarei anche dimenticate, le Sentinelle. 
Invece è da sabato che sento soltanto parlare di Sentinelle sui social network, il che è molto interessante dal momento che come tutti tendo a selezionare, più o meno consapevolmente, i contatti che condividono con me informazioni e sensazioni. Chi continua a farmi sapere quanto siano fasciste le Sentinelle, intolleranti le Sentinelle, stupide e ignoranti le Sentinelle, è una persona che più o meno la pensa come me su tante cose. Nello specifico, considera l’aborto un diritto, e il matrimonio pure, e ritiene che finché quest’ultimo non sarà esteso anche ai gay, essi saranno vittima di una grave discriminazione. Io perlomeno la penso così, e così più o meno la pensa la nuvola di contatti che mi circonda sui social. Ed è da tre giorni che gran parte di questi contatti mi sembrano scandalizzati, piccati, in alcuni casi persino arrabbiati, perché un gruppo di attivisti che non la pensa come loro sta manifestando in alcune piazze nel modo più pacifico possibile.
È come se l’abitudine di circondarsi di persone che la pensano come noi ci stesse in un qualche modo disabituando a convivere con un dato di fatto: là fuori c’è un mondo, che molto spesso (quasi sempre) non la pensa come noi. In particolare l’omofobia delle Sentinelle, per quanto penosa, si attesta probabilmente intorno alla media nazionale: che è poi il banale motivo per cui in altri Paesi i gay si sposano tranquillamente da anni, ormai, e da noi i politici fanno ancora un po’ di fatica a parlarne. Però con le Sentinelle avviene una curiosa inversione: quando sento parlarne sui social, mi sembra quasi che la minoranza siano loro. Insomma, tutti gli danno addosso. Tutti li prendono in giro. Li trovano ridicoli, irridono le loro fisionomie e i libri che leggono, li paragonano a nazisti o mullah, eccetera. Un’altra caratteristica dei social, proprio perché formano comunità più o meno lasche di individui, sono le dinamiche di branco; non importa quanto siamo in pochi, c’è da qualche parte in rete uno spazio in cui siamo la maggioranza, la pensiamo tutti uguale, e quindi possiamo infierire sulla pecora nera. Con le Sentinelle il meccanismo scatta fin troppo facilmente, anche perché pur muovendo da premesse fasciste e omofobe, ostentano in piazza l’atteggiamento più passivo possibile. Si mettono lì in piedi e leggono un libro (va bene uno qualsiasi). Troppo facile prenderli di mira, no? Appunto. Così facile che basta rifletterci appena un po’ per fiutare il trabocchetto. Il tizio che va in piazza, e nemmeno ha uno slogan da comunicare; nemmeno prova a convincerti; si mette lì impalato e sfoglia un libro, che altro sta facendo se non offrirsi proprio al tuo sdegno? E se ti sdegnerai, come in fondo è normale che sia se solo accetti di dargli un po’ della tua attenzione, non gli starai per caso facendo un favore?
Si fanno chiamare Sentinelle, ma funzionano da esche: si mettono in mostra affinché li odiamo, e in breve riescono a invertire il quadro. Non sono più espressione di una maggioranza silenziosa omofoba o antiabortista, ma eroici difensori di una minoranza perseguitata, vilipesa, e sbeffeggiata. Poi, sì, restano omofobi; ma con poca fatica sono riusciti a dimostrare che sono gli altri a odiarli: gli altri, la maggioranza succube dell'”egemonia omosex”. E per farlo è sufficiente passare una mezza giornata in piedi. Non male per un gruppo né particolarmente numeroso né molto interessante. A volte davvero basta avere l’idea giusta. 
Io credo che irridere i propri avversari non faccia avanzare di un passo la lotta per difendere o estendere i diritti civili, e che insomma la migliore risposta alle Sentinelle sia ignorarle. Non mi stupisce che a Bologna si sia fatto l’esatto opposto: nello stemma ideale dei movimenti bolognesi è ormai iscritto il motto “sbagliamo tutto dal ’77”. Reagire al loro silenzio con un silenzio incomparabilmente superiore: mi rendo conto quanto sia difficile, nel momento in cui pure io sto buttando giù 5000 battute sull’argomento. Da una parte c’è la loro esigenza di trasformarsi in vittime, dall’altra il nostro bisogno di sentirci più intelligenti, più liberi, ma anche più tosti – avrete fatto caso a come una certa goliardica arroganza sia il vestito di ordinanza in ogni comunità che prenda forma su un forum o un network. Ma insomma questi arrivano coi loro libriccini e le loro idee sceme, in sostanza ti supplicano di detestarli – e noi siamo troppo furbi, troppo splendidi per non cascarci a piedi pari. 
attivismo, Beppe Grillo, ho una teoria

Contro la Ka$ta delle placche tettoniche

Su un sito di petizioni on line è possibile da poche ore combattere una delle piaghe che affligge il nostro pianeta da miliardi di anni, la deriva dei continenti:Ogni giorno, i continenti si allontanano tra loro. Questo rende più difficoltosa la comunicazione tra le popolazioni, e più dispendiosa l’importazione di tecnologia da Cina e Corea verso l’Italia. Dobbiamo fermare questa degenerazione che appare inarrestabile. Se firmiamo tutti questa petizione, può darsi che Dio ce la mandi buona” Ok, è solo uno scherzo. Da dilettanti. Ma mi è venuta voglia lo stesso di firmare, dopo aver letto l’annuncio del prossimo V-Day, una specie di adunata del Movimento 5 Stelle – salvo che chi lo convoca non è ovviamente il M5S, ma lo staff di Beppe Grillo.

Beppe Grillo non è un dilettante. Nel post in cui invita i suoi lettori incazzati a Genova, ci ricorda le tappe che lo hanno portato convocare la terza vaffa-convention. Ricorda per esempio come “Il secondo [VDay] si tenne a Torino il 25 aprile del 2008 per un’informazione libera senza finanziamenti pubblici e senza l’ingerenza dei partiti. Raccogliemmo 1.400.000 firme. Nessuno ritenne di ascoltare i cittadini“. Si dimentica di accennare al fatto che più della metà di quelle firme furono ritenute non valide dalla Corte di Cassazione; un classico quando si pretende di raccoglierle in fretta e furia lontano dalla residenza dei firmatari (ogni firma va verificata presso l’ufficio comunale di residenza). E soprattutto tace sul dettaglio più penoso: le firme richieste da Grillo nel 2008 non avrebbe portato comunque a nessun referendum perché, per legge, non è possibile raccoglierle  nell’anno delle elezioni legislative, e il V2-Day si celebrò proprio dieci giorni dopo le elezioni. Grillo conosceva la legge (continua sull’Unita.it, H1t#202).

Grillo, facciamo qualcosa per la deriva dei continenti?

Grillo conosceva la legge: sapeva benissimo che il lavoro di centinaia di volontari nelle piazze di tutt’Italia non avrebbe portato a nessun esito concreto; sapeva benissimo che stava chiedendo agli italiani una firma inutile. Non erano le firme che gli interessavano, non era il referendum di cui adesso ha smesso di parlare. Grillo voleva soltanto fare incazzare il suo popolo un po’ di più, promettendo qualcosa che l’ordinamento repubblicano non gli poteva consentire; sapendo che tutta la responsabilità per il fallimento della raccolta firme si sarebbe potuta attribuire alle ka$te dei politici cattivi e dei giornalisti faziosi. Una mossa spregiudicata che ci avrebbe dovuto far riflettere sulla sua abilità di demagogo e politico. E invece anche in quell’occasione molti lo liquidarono come un dilettante.
Ma Grillo non è un dilettante. Per questo vorrei rivolgergli una sommessa proposta: al prossimo V-Day, oltre alla lotta contro la finanza o l’euro o gli stipendi di tutti i presentatori Rai che portano ricavi all’azienda, non si potrebbe fare davvero qualcosa di serio contro la deriva dei continenti? Non si può lasciare questa emergenza a quattro gatti on line, ci vuole il know-how di Casaleggio. “Con un unico continente tutto sarà a portata di mano, non ci vorranno né barche né aerei né ponti ma potremmo andare tutti in autostrada da un punto all’altro del mondo senza molta fatica.” Qualcosa per cui vale la pena lottare, io trovo. E che Dio ce la mandi buona… http://leonardo.blogspot.com
attivismo, italianistica, manifestaiolismi

Dal G8 a Grillo

Questo anniversario di Genova casca più del solito a sproposito, e mi trova filo-governativo mio malgrado, senza essermi mai iscritto né all’albo né, ahimè, al libro paga. L’altro giorno un tizio è venuto qui sotto nei commenti a postare un intervento di Wu Ming, chiamandomi “servo organico”. Ecco, per esempio, i Wu Ming: loro sono ancora intellettuali non asserviti come dodici anni fa, loro sono ovviamente contro il PD, contro Grillo e tutto il resto: e quindi? Cosa pensano che dovrebbe succedere a questo punto? Voi lo avete capito?

Più in generale lo vorrei chiedere a chi passa di qui e inveisce contro il vergognoso governo di compromesso, e contro il compromesso stesso, chiamandosi fuori: come se ci fosse ancora un fuori. Con tutto il garbo che riesco a simulare: ma insomma, voi cosa proponete esattamente? Elezioni in settembre? Con la stessa legge elettorale? E pensate che ne uscirebbe una situazione molto diversa? Siete sicuri che sarebbe una situazione migliore? Vale la pena di rischiare? Ma insomma che governo vorreste, visto che questo vi fa schifo (e fa schifo anche a me: ma voi ci tenete a comunicare che vi fa schifo di più, vi fa schifo in un modo che non riuscite a tollerare, e questa vostra insofferenza è un valore, mentre la mia sopportazione è evidentemente una colpa). Posso capire i renziani: loro probabilmente credono di poter risolvere la situazione a vantaggio loro e di tutti. Ma non sono tutti renziani, anzi. E quindi: se pensate che il PD si sia definitivamente compromesso, con o senza Renzi, cosa vi aspettate esattamente dalla prossima crisi di governo? L’apocalisse grillina? L’insurrezione delle masse? Volevo chiedervelo perché onestamente non lo so.

E in mezzo a tutto questo casca l’anniversario di Genova, e la sirena suona più lugubre del solito. Ho forse tradito la mia gioventù? Gli ideali per cui bla bla bla? Cambio argomento.

Ai tempi di Genova andavano molto di moda i cosiddetti noir italiani. Anche in ambienti tradizionalmente poco sensibili alla letteratura di genere i polizieschi venivano considerati un modo nuovo e originale di descrivere la realtà italiana. Così fu abbastanza naturale che il G8 di Genova finisse in diversi libri del genere, per lo più nello sfondo: persino Camilleri stava per far dimettere il commissario Montalbano dalla vergogna, eccetera. Ma la scena che più mi è rimasto in mente è in Gorilla blues di Sandrone Dazieri, ambientata durante la manifestazione genovese avvenuta un anno esatto dopo – cioè undici anni fa – e che per me e per molti è un ricordo altrettanto vivido del G8 del 2001.

In quelle pagine, se ricordo bene, il protagonista a un certo punto passa per una stanza dove è riunita una cosa fighissima che si chiama “comitato per l’autodifesa”. Questo comitato è fatto di giovani, probabilmente ancora in braghe a vita bassa e canottiera, e sicuramente qualcuno porta i dreadlocks. Ma sono fighissimi. Sì, è difficile spiegare, ma nel 2002 si poteva ancora portare i dreadlocks ed essere fighissimi protagonisti della controcultura. Sono hacker, sono videoreporter, sono persino blogger, sono il futuro della sinistra e dell’Italia. Purtroppo sono soltanto un’invenzione letteraria dell’autore, che li descrive in due paginette e poi porta il Gorilla in un altro posto. Nella nota finale Dazieri stesso vorrà precisare che “non esiste nessun comitato di autodifesa come quello che ho descritto”. Però, quando uscì Gorilla blues, i lettori di Dazieri in quel comitato ancora ci credevano. Sapevano che da qualche parte nel movimento di Genova c’era gente veramente in gamba (stavo per scrivere “coi controcoglioni”, ma ho un’età), che sapeva maneggiare le nuove tecnologie e capiva molto più in fretta degli altri dove stava andando il mondo. Ci speravano. Ci abbiamo sperato. Proprio come il Gorilla, ogni tanto tra un forum e un corteo transitavamo per ambienti dove c’era gente davanti al monitor o con la videocamera in mano e sembravano veramente cazzuti competenti. E alcuni forse lo erano. Ma se ne sono andati presto. Quel che è rimasto era molto, molto inferiore alle attese. Salvo i Wu Ming.

Loro sono rimasti. Erano bravi, e lo sono ancora. Ma probabilmente non bastavano. Adesso è il 2013 e diventa molto difficile spiegare alla gente che tu per qualche anno hai pensato che Indymedia fosse un progetto interessante, o sei andato dietro a personaggi come Casarini. E in effetti non è così, se ti ricordi bene, se vai a leggere il blog, tu non hai mai espresso sentimenti di cieca fiducia in Casarini: non lo hai mai considerato nel modo in cui i grillini considerano il Beneamato Beppe. A me, e a tanti come me, è capitato di trovarci in coda a un corteo di Casarini perché ritenevamo che in quel corteo ci fosse gente aggiornata, lungimirante, con le informazioni giuste e con le chiavi di lettura giuste. Come i Wu Ming, per dire. Ma forse a parte i Wu Ming non c’era molto, e gli stessi Wu Ming non hanno sempre azzeccato le chiavi di lettura.

Adesso – se ho capito bene – accusano Grillo di avere occupato lo spazio dei “movimenti radicali” (sempre al plurale, come ai vecchi tempi), impadronendosi di alcune parole d’ordine e virando tutto a destra. Hanno l’onestà di riconoscere che non è stato Grillo a uccidere i movimenti (un lento suicidio di massa era già in atto da tempo), ma adesso che c’è lui non si riesce più a trovare lo spazio per ricominciare da capo, che è quello che probabilmente interessa a loro. Ricominciare da capo con altri movimenti radicali. Come negli altri Paesi dove Grillo non c’è, e infatti ci sono i movimenti radicali, e infatti…

…non sta succedendo niente.

Niente o quasi. Magari mi sbaglio, magari mi sembra la bonaccia definitiva e invece è l’occhio del ciclone. Però un paio di anni fa c’erano gli Indignados in Spagna: risultati? Occupy Wall Street: conseguenze? La rivolta turca come va? In Egitto, Piazza Tahrir ha buttato giù il regime, non si può dir di no. Oppure si potrebbe dire che l’esercito ha mollato Mubarak e ha affittato piazza Tahrir. Vedremo. Cosa resta? In Libia e in Siria più che movimenti sembrano bande armate. Forse in Tunisia. Non è un bilancio entusiasmante. Tornando da questa parte del mediterraneo, si fa fatica a immaginare che oggi possa sorgere un movimento di protesta di base non antieuropeo: è un’altra simpatica conseguenza del rigorismo imposto dalla Germania. Ma a un movimento antieuropeo la sinistra starà sempre stretta: è sempre più difficile non lasciar filtrare istanze di destra, tradizionaliste e identitarie. Insomma, è triste dirlo, ma in questa fase i “movimenti” avrebbero virato verso destra anche se non ci fosse stato Grillo. Grillo poi ci ha messo l’organizzazione – quella che i “movimenti” non hanno mai voluto avere, e infatti sono tutti implosi: il M5S ancora no. I Wu Ming “tifano rivolta” nella base del M5S, esprimono l’auspicio che “le contraddizioni si acuiscano ed esplodano”, un sintagma così deliziosamente anni ’70 che mi ricorda l’ultima volta che ebbi a che fare con dei tizi di Indymedia (mi augurarono che il mio blog esplodesse in virtù delle sue contraddizioni). Forse ritengono che “destra” e “sinistra” nel M5S si possano ancora separare, come l’acqua dall’olio, perché sono due cose diverse che Grillo ha messo assieme per accidente: ma è destino che non vadano assieme. E quindi prima o poi si separeranno, le contraddizioni scoppieranno, e a sinistra sorgerà di nuovo un movimento, anzi tanti movimenti, radicali.

Io non la penso così.
Per quel che conta.

Ma probabilmente mi sono sempre aspettato molto meno dai movimenti. Per esempio: mai pensato che si potesse fare la rivoluzione, armata o no. La tentazione palingenetica, direbbe Bersani, ecco: mai avuta. Per me i movimenti avrebbero dovuto attirare tanta gente, spostare il baricentro dell’opinione pubblica verso sinistra, e soprattutto portare alla ribalta una nuova classe dirigente. Quelle famose persone fighissime, ancora giovani, ma aggiornate, in grado di padroneggiare le nuove tecnologie e di capire prima degli altri dove stavamo andando. Per me i movimenti erano anche e soprattutto un’occasione per trovare queste persone, che una scuola di partito non avrebbe selezionato mai. E un grosso problema del PD è senz’altro la scarsa selezione nelle vecchie scuole di partito. Ma se nel 2001 mi capitava di pensare al futuro, non m’immaginavo un eden bucolico coi piadinari al posto dei MacDonald’s. Speravo che nel 2013 in Italia ci sarebbe stato un solido partito di sinistra guidato e sorretto da gente capace e competente che si era fatta le ossa nel Movimento dei Movimenti. Non è andata così.

E in coscienza non credo che sia stata colpa delle vecchie nomenklature dei partiti di sinistra; non credo che sia stato un complotto di D’Alema o Bertinotti per tenere alla larga le menti migliori della mia generazione. Purtroppo temo di non averle mai viste, le menti migliori della mia generazione. Anche quando i partiti imploravano facce nuove, e D’Alema e Bertinotti si stavano pensionando, non si è presentato nessuno. Nel frattempo i movimenti si erano ridotti al lumicino e candidavano alle primarie PD il Candidato Senza Volto. Una pagliacciata che tutto sommato riassume tutta l’inadeguatezza di una generazione, la mia, che non può neanche dire di aver perso come quella di Gaber, perché per perdere bisogna almeno partecipare, metterci la faccia, e noi no.

Abbiamo cominciato a contestare l’idea di leader, non era giusto esprimere un leader (e quindi nessuno sentiva la necessità di sbattersi per conquistarsi una qualche leadership); bastavano i portavoce. Poi anche i portavoce hanno iniziato a mettersi il passamontagna, sia mai che ti scappasse per sbaglio a qualcuno di diventare una faccia nota, magari (brrrr) televisiva. Abbiamo reclamato la disorganizzazione e l’anonimato, e coerentemente siamo scomparsi nel caos. Poi è arrivato Beppe Grillo, e ha rilevato tutto per due lire. Da quel che ho capito i Wu Ming ritengono sia una specie di errore di percorso, nulla che non si possa correggere con molto ottimismo della volontà. Per me no, per me è l’esito naturale di tutto il movimentismo italiano degli anni Zero. I fermenti di destra c’erano già al G8, magari nascosti nell’insalata del banchetto Bio. Matti con i volantini sul signoraggio e le schie chimiche circolavano già La superficialità, la demagogia, la disorganizzazione, erano già presenti e al tempo ci sembravano inevitabili, qualcosa di cui ci saremmo liberati crescendo. Ma non siamo cresciuti, è la nostra tragedia. Io non credo che oggi ci possa essere in Italia un altro movimentismo fuori da quello di Grillo, che riunisce così bene tante cose disparate che erano saltate fuori nel decennio prima. E non è colpa del solo Grillo se il risultato è catastrofico e oggettivamente prolunga la carriera di Berlusconi (e di D’Alema). Il movimentismo era miope e votato all’autolesionismo prima di incontrare Grillo, che non ha fatto che interpretarne le istanze più riconoscibili: morte al compromesso, qualsiasi compromesso. Viva la verità alternativa, qualsiasi sia la fonte, ogni cazzata ha diritto al suo quarto d’ora. Abbasso i complotti, la trilaterale e Bilderberg: quanto se ne parlava su Indymedia ai tempi. Abbasso l’organizzazione, decide tutto un pool di uomini illuminati e fighissimi blogger e videoreporter nel camper di Grillo: e si vota su internet, la prima volta che sentii proporre di votare su internet ero esattamente a Genova, 12 anni fa. Mi dispiace scriverlo, più che a voi dispiaccia leggerlo, ma io da Genova a Grillo vedo una lunga linea abbastanza rettilinea. Poi vabbe’, Casarini mi stava più simpatico di Grillo. Ma non molto di più. Indymedia sembrava più interessante di Beppegrillo.it. Ma non molto di più.

E non vedo perché dovrei tifare rivolta, stavolta. Potete anche darmi del servo del potere: siete ottimisti, se pensate che questo straccio di Potere possa ancora pagarsi la servitù. Non penso di dover difendere il governo Letta; penso sia un accrocchio vergognoso; non capisco quale alternativa abbia in mente chi implora la crisi al più presto. Ho una famiglia, un mutuo, queste triviali cose che m’impediscono di unirmi allo spensierato coro del Tanto Peggio Tanto Meglio, di quelli che non vedono l’ora che scoppino le contraddizioni. Per mia esperienza, in Italia le contraddizioni tendono a non scoppiare: trovano un equilibrio e ti prendono per stanchezza. Ovviamente spero di sbagliarmi.

attivismo, Beppe Grillo

E poi?

Prima ti ignorano,
poi ti deridono,
poi ti combattono,
poi vinci!

E poi?

Poi non sai esattamente che fare;
poi combatti quelli che te lo dicono,
poi deridi quelli che non ti ascoltano più,
poi…
poi chissà, adesso vediamo.

attivismo, Beppe Grillo, cattiva politica, elezioni 2013

No Limits al peggio

Scenari (rigorosamente a caso)

#19. Continuano tutti a discutere Bersani sì / Bersani no, Grillo sì / Grillo no per un mesetto; nel frattempo gli investitori esteri si fanno un’idea della situazione, lo spread schizza a seicento, default, l’Italia esce dall’euro senza neanche bisogno di indire il referendum. Nuove elezioni, vince Berlusconi promettendo più lire per tutti.

#31. Si riuniscono le Camere, Napolitano dà il mandato a Bersani, lui propone un programma di minima al M5S, Grillo col cavolo che accetta: è da anni che dice che PD e PdL sono la stessa cosa, vuole che governino assieme almeno quindici giorni per poi tornare alle urne e stravincere. Cosa che avviene di lì a poco. Entro l’anno il parlamento viene sostituito da un forum gestito dalla Casaleggio che si pianta ogni mezz’ora. I ministri vengono rimpiazzati dai Top Commentator, che risolvono i problemi insultandoli.

#33. Si riuniscono le Camere. Bersani forma un governo, i cinquestelle scelgono di astenersi uscendo dall’aula, purtroppo escono dall’aula anche i berluscones: niente da fare. Ci riprovano col sistema del palo (detto anche “governo di Schrödinger”) brevettato da Mau: “I rappresentanti pentastellati se ne stanno vicino alle porte e contano: per ogni pidiellino che non vota uno di loro [entra e] vota contro”. Il governo si pianta tre settimane dopo sull’emendamento per pagare la pensione agli esodati rivendendo le traversine del TAV.

#46. Si smette di considerare un interlocutore Grillo – che è un privato cittadino – ci si rivolge direttamente ai 54 senatori e ai 108 deputati eletti dal Movimento 5 Stelle con alcune proposte concrete e abbastanza radicali (dimezzamento dei parlamentari, una pietra sopra il TAV, ecc). Alcuni tentenneranno pubblicamente, Grillo si innervosirà, i media evidenzieranno il paradosso di un partito eletto dal popolo ma nominato da un vertice, le famose contraddizioni scoppieranno, e se 30 senatori ci stanno un governo si fa. Però dura poco e alle elezioni seguenti vince Grillo (non necessariamente il Movimento, sono due cose un po’ diverse).

#48. Napolitano dà l’incarico a Grillo. Non sa cosa farsene (non è un negoziatore). Rinuncia quasi subito: elezioni.

#52. Va bene, dice Napolitano, siete una manica di fessi: siccome non posso sciogliervi perché sono entrato nel semestre bianco, mi dimetto io. Alla quindicesima chiamata viene eletto, boh, Roberto Saviano, che prova a fare una cosa creativa: scioglie solo il Senato (non si è mai fatto, ma forse si può). Non serve a niente, vince Grillo o Berlusconi; bisogna sciogliere anche la Camera.

#61. ((c) Thomas): Non si forma nessun governo nuovo: rimane in carica Monti per il disbrigo degli affari correnti, forse è incostituzionale ma in attesa che si pronunci la Corte passano diversi mesi, una specie di stallo alla belga, il tempo di fare ah ah, scusate, stavo dicendo il tempo di fare una nuova legge elettorale che stavolta assicuri, uh, la governabilitàHAHAHAH.

#99. Corsa al Quirinale: Grillo propone Fo, Fo ringrazia e rilancia Petrini, Petrini ci pensa un po’ e poi butta lì Margherita Hack, e così da palo in frasca nel giro di una settimana prende sempre più consistenza la candidatura di Amedeo Nazzari.

#104. Berlusconi sale da Napolitano e dice che ci pensa lui. Rivende Balotelli – che ormai il suo dovere l’ha fatto – e col ricavato si compra la Casaleggio Associati.

#105. Uguale alla 104, ma si compra direttamente i 50 senatori che gli servono tra PD montiani e cinquestelle – non fate quella faccia, non avete la minima idea se siano incorruttibili o no; li conoscete appena: molta gente è incorruttibile soltanto perché nessuno le ha mai fatto un prezzo.

#121. Sai che c’è, dice Bersani, mi avete rotto tutti i coglioni, tanto il PD è fottuto comunque, faccio un governo di legislatura con Berlusconi, mi diverto per cinque anni e poi io ad Antigua e voi coi cazzivostri. Gotor affianca immediatamente Greggio a Striscia la Notizia, il Giornale diventa un inserto dell’Unità o viceversa, e via che si va. Renzi passa in clandestinità e fonda il Nuovo Partito Democratico Quello Vero Contro La Ka$ta, che nel 2018 partecipa alle elezioni ma perde perché la gente vuole dei giovani, no le solite facce.

#549. Berlusconi muore. E perché no, capita a tutti almeno una volta nella vita. Un centinaio di senatori pidiellini da un momento all’altro non sa più che ci fa a Palazzo Madama. Decidono di dare un senso alla propria vita appoggiando un esecutivo PD+Monti che rassicura i mercati.  

#745. Nel frattempo al Conclave lo Sprito Santo opta per un italiano, mettiamo Giovanni Battista Re, e nella disperazione collettiva la fumata bianca viene interpretata come un segno divino: la Repubblica si arrende al Papa Re che procede alla nomina dei ministri dello Stato Pontificio (purché giovani, no le solite facce).

#13459. I Maya si erano sbagliati solo di sei mesi, meno male.

attivismo, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo

Il cattivo, la simpatica e il cialtrone (e tanto fracking)

 Promised Land (Gus Van Sant, 2012).

Matt Damon è il migliore in quello che fa, purtroppo anche stavolta si tratta di raccontare bugie (è incredibile quanti ruoli da bugiardo abbia interpretato, pensateci). Stavolta batte l’anonimo Midwest comprando per un tozzo di pane la terra che la sua Malvagia Compagnia Petrolifera poi frantumerà per estrarne le scisti, per il fracking, insomma. Se qualcuno ha qualcosa da dire, lo corrompe. Finché in un paesino sperduto del Sarkazzota non incontra la sua nemesi, il suo Gemello Buono, che ha il sorriso amabile di John Krasinski e rappresenta un’Eroica Associazione Ambientalista. Ma se Matt non è del tutto cattivo, anche John potrebbe non essere del tutto buono… possiamo guardarci cento minuti di Promised Land senza nemmeno accorgerci che, gratta gratta, è proprio lui, il caro vecchio Film Western.

Eppure c’è tutto: il paesino dimenticato da Dio, la Compagnia disposta a tutto per ottenere le terre che gli spettano dai contadini riottosi e ignoranti; i due pistoleri che si fronteggiano – senza pistole, il che non è nemmeno così realistico: considerati i dollari in ballo, qualche pistola dovrebbe pur sparare prima dei titoli di coda, e invece… c’è persino il saloon. Una delle scene più intense è una colluttazione in un saloon, nemmeno Tarantino ci ha provato. C’è la bella del saloon (anche se di giorno fa la prof di scuola media) e indovinate, i due pistoleri se la disputano. È questo il vero film western del 2012/13; Django è troppo meta e poi è ambientato nel Sud. Promised Land invece non ha nessuna ambizione citazionista; se  racconta la solita vecchia storia di C’era una volta il West o del Petroliere è semplicemente perché questa storia è maledettamente attuale, il petrolio facile sta finendo e le Compagnie stanno realmente comprandosi la terra sotto i piedi dei bifolchi per tentare di spremere qualche succo bituminoso. È l’affare del secolo, ma è anche orribilmente pericoloso e inquinante (continua su +eventi!)

attivismo, Beppe Grillo, internet

Grillo il Censore

Il non rifiuto di una non leadership.

Siccome il ruolo di Casaleggio nel Movimento5Stelle non si scopre oggi, e il fatto che le stesse Cinque Stelle siano proprietà di Beppe Grillo non è senz’altro una notizia, cerchiamo di allargare un po’ il quadro: può darsi che ne salti fuori qualche considerazione più originale. Il M5S non è il primo movimento nato negli anni Zero e cresciuto in Rete anche grazie a un generale sentimento di delusione per la politica tradizionale. Prima ci fu per esempio il Movimento dei Movimenti (qualcuno forse ancora se lo ricorda, i giornalisti ci chiamavano “noglobal”), la Rete di Lilliput, i girotondini. Dopo ci furono ancora i Viola, e l’Onda studentesca, e buoni ultimi i cosiddetti indignados di Occupy. Quanti movimenti. Pure troppi, mi viene istintivo soggiungere. Forse ne sarebbe bastato uno solo, un po’ meno instabile, che fosse riuscito a cambiare almeno qualcosa. Ma non è così che funzionano i movimenti. Nascono dal basso, si alimentano con l’entusiasmo, soffrono qualsiasi attrito con la realtà che richieda un minimo di organizzazione, di struttura. Sono perlappunto movimenti: non riescono a star fermi un istante, non è nella loro natura. È anche ingiusto mescolarli nello stesso calderone: ognuno di questi movimenti aveva caratteristiche e rivendicazioni diverse.

Se provo a isolare i tratti comuni a tutti questi movimenti, ne trovo due: l’uso della Rete e il rifiuto della Leadership. La Rete per la verità l’abbiamo usata tutti, negli anni Zero, e non è detto che a usarla meglio siano stati proprio i movimenti (è stato più bravo Obama, ad esempio). Il rifiuto della leadership è un tratto molto più peculiare e interessante. Tutti questi movimenti così diversi (tranne forse i girotondini) hanno tentato in vari modi di eludere il problema. Questa ritrosia ha ispirato episodi grotteschi, come la partecipazione di un “candidato senza nome” alle primarie dell’Unione nel 2005, che avrebbe dovuto (non)rappresentare un’area della sinistra radicale, un’area che trovava scandalosa la sola idea di metterci la faccia, e mandava avanti un tizio incappucciato. La stessa ritrosia ha fatto sì che negli ultimi dieci anni in Italia ci siano stati tanti movimenti ma veramente poche facce nuove. Colpa della Casta, dicono: certo. Ma anche un po’ colpa di quei movimenti che le facce preferivano coprirle, prima coi cappucci e poi coi mascheroni di Guy Fawkes. Per dire, il ’68 e il gruppettismo successivo qualche leader politico lo sfornarono. I movimenti nati negli ultimi dieci anni sembra che facciano di tutto per scongiurare che la cosa si ripeta. Per quanto diversi in tutto, sono tutti ugualmente pervasi da un’anarcoide insofferenza per ogni cosa che sappia vagamente di delega, di rappresentanza, di democrazia indiretta. E sono tutti rimasti in uno stato nebuloso che dopo un po’ li condanna alla dissoluzione. Questa fase finale ha spesso inizio quando nella nebulosa qualcuno comincia a distinguere dei grumi, dei tentativi di organizzarsi in qualcosa di più solido, addirittura degli individui dotati di faccia e nome che cominciano a richiamare l’attenzione dei media e che tendono a comportarsi da portavoce.  La reazione del movimento è una serie di spinte centrifughe che dovrebbero servire a espellere ogni grumo o residuo di struttura, e che spesso hanno ragione del movimento stesso.

Più o meno è sempre andata così, con un’unica, importantissima eccezione: il Movimento 5 Stelle. L’unico nato negli anni Zero che è riuscito a darsi obiettivi misurabili e li ha conseguiti, riuscendo a far eleggere i suoi uomini nelle amministrazioni locali, e dall’anno prossimo in parlamento. Perché il M5S ci è riuscito e gli altri no? Era meglio organizzato? Non sempre. Il meno confuso? Direi proprio di no. Quello con la base più ampia? Il movimento pacifista contro la guerra in Iraq ne aveva una ancora più ampia. Il M5S è riuscito a darsi una vera forma perché, alla fine della fiera, ha una leadership che tutti riconoscono. È una curiosa forma di leadership recalcitrante, però alla fine c’è, e tanto basta. Grillo e Casaleggio sono stati bravi. Sin da subito hanno messo per iscritto regole che impediscono a Grillo, la figura carismatica, di candidarsi a qualsiasi carica. E ci siamo cascati, perché siamo italiani, e l’unico dittatore che abbiamo avuto aveva ottenuto un incarico di Presidente del Consiglio. Se fossimo un Paese ex sovietico, per dire, sarebbe più facile per noi ricordare che il segretario di un soviet può avere più potere del presidente nominale della repubblica. Io resto convinto che Grillo non si candiderà mai: chi glielo fa fare? Il ruolo di predicatore che si è ritagliato gli è molto più congeniale. Ma non bisogna trascurare un’altra carica che si è assunto (assieme a Casaleggio): quella che nell’antica repubblica Romana spettava ai censori. Grillo possiede le cinque stelle, non ne ha mai fatto mistero: spetta a lui e solo a lui decidere chi se le merita e chi no, chi è dentro e chi è fuori. Non è probabilmente l’idea di democrazia diretta che avevate voi, ma rispetto a modelli più perfetti ha il grosso vantaggio di funzionare. Magari nei prossimi mesi ci saranno spinte e controspinte, ribellioni e scissioni. Ma alla fine di tutto, da una parte starà magari un abbozzo di classe dirigente senza partito; dall’altra Grillo, Casaleggio, il loro blog, e quasi tutti i loro elettori. Elettori che in maggioranza non votano 5 stelle per le proposte varate nei MeetUp (il cui funzionamento resta alquanto farraginoso), o perché hanno partecipato ad assemblee aperte al pubblico. Votano 5 stelle perché quelle 5 stelle le mette Grillo, e di Beppe Grillo si fidano. Sì, alcuni di loro qualche anno fa si fidavano di Berlusconi o di Veltroni, o di altri ancora. Per la verità anch’io, quando voto, decido di fidarmi di qualcuno. A volte mi sbaglio, altre no, ma è l’unica difettosissima democrazia che funzioni. Si chiama democrazia indiretta, e il M5S ne fa parte, anche se finge di no. Se non ne facesse parte, si sarebbe dissolto nella stessa nebbia in cui si è dissolto tutto il resto.

attivismo, ho una teoria, manifestaiolismi

La guerriglia prevedibile

(Fermo così, sei perfetto).

D’altro canto chi poteva aspettarsi che una manifestazione al di sopra delle parti e dei partiti rigorosamente spontanea senza leader e senza servizio d’ordine potesse andare a finire con della gente vestita di nero e organizzata non si capisce da chi e da cosa che brucia le macchine e scrive sui muri e la polizia invece di fermarli carica la povera gente che non se lo poteva aspettare? Chi se lo poteva aspettare?
Mah, per esempio, tutti. La non imprevedibile vittoria dei Caschi Neri (H1t#95) è sull’Unità, e si commenta là. Venite senza casco.

Anche a me è capitato, come a tanti, di restare sbalordito di fronte alle immagini che sabato arrivavano da Roma. E però dopo un po’ che guardavo caschi neri e camionette in fiamme mi sono chiesto: ma di cosa oso stupirmi, ancora? Non avrei dovuto aspettarmi tutto questo? Non è lo stesso copione delle marce in Val di Susa, non sono successe cose simili il 14 dicembre, per tacere del g8 di Genova, dopo il quale davvero non dovrei più essere autorizzato a stupirmi di niente? Non è in fondo il solito compitino sulla traccia impartita da Francesco Cossiga (“lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città…”)? No, io non credo di avere il diritto di stupirmi, e non credo che ce l’abbiano i manifestanti del movimento. Che rinasce ormai più volte all’anno con nomi e rivendicazioni diverse, dall’onda viola agli indignados, e ogni volta fa marcare la sua distanza da quello che c’era prima, e dai partiti e dai sindacati, e insomma rivendica il suo diritto a rinascere mondo di ogni peccato e inconsapevole di ogni dinamica di piazza – salvo poi inorridire davanti a disordini e situazioni che chiunque ha frequentato la piazza negli ultimi anni purtroppo non può fingere di non conoscere. E mentre rinasce vergine ogni sei mesi, i parassiti devastatori in casco nero si presentano a ogni appuntamento più organizzati e professionali. Alla fine non dovrebbe davvero sorprenderci se sono loro a prendersi le prime pagine. In fondo se le meritano, sono gli unici che hanno memoria e sanno imparare dai loro errori.

Tra sei mesi, quando soltanto qualche automobilista danneggiato si ricorderà più dei fatti di Roma, e le condanne o le assoluzioni per devastazione e saccheggio finiranno a pagina venti, è facile immaginare che sorgerà un nuovo movimento su facebook o altrove, che difenderà giustissime istanze e sacrosantissime recriminazioni colpevolmente fino a quel momento ignorate eccetera. I leader saranno ovviamente facce nuove, che rifiutano la vecchia politica dei partiti e la vecchia gestione della piazza dei sindacati. Resta da vedere se anche loro commetteranno l’errore di accogliere, nella propria piazza, dietro ai propri slogan, chiunque vorrà venire, pur di far numero. Perché l’errore sta tutto lì. Gli indignados avrebbero potuto mantenere un’identità forte, una piattaforma precisa, e puntare più sull’ostinazione che sul numero: come i loro ispiratori di Wall Street, o gli egiziani di piazza Tahrir che prima di essere migliaia furono centinaia. Ma in Italia non si fa così. In Italia prima si rimarca la distanza tra partiti e associazioni; e poi si fa entrare allegramente chiunque, pazienza se hanno il casco. I dieci anni da Genova avrebbero potuto insegnarci qualcosa, ma noi ci ostiniamo a rinascere tutti gli anni dimentichi degli errori dei padri, o dei fratelli maggiori, o di noi stessi quando invece di essere indignados eravamo noglobal o qualcos’altro.
Nel frattempo Libero e il Giornale festeggiano con la stessa, identica prima pagina. Ieri, come un anno fa, le immagini di Roma in fiamme soccorrono Berlusconi proprio quando ha bisogno di mostrare che l’unica alternativa a sé stesso è il caos. Ora, tagliamo corta la dietrologia. Il metodo Cossiga è pur sempre un metodo, che per essere applicato necessita di risorse e intelligenze, ed è lecito a questo punto domandarsi se al Viminale queste risorse, queste intelligenze ci siano. Ed è pure vero che i tagli hanno colpito anche le forze dell’ordine.

Però non potete venirci a raccontare che gli stessi organi di polizia che riescono ad arrestare boss di mafia e camorra non siano in grado di capire chi siano i caschi neri né quando e dove colpiranno. Va bene, non sono tutti ragazzini; non sono tutti di estrema destra; non sono tutti ultras; non sono tutti dei centri sociali. Ma sono tutti lì. Comunicano con sms e forum, mica pizzini. Non dovrebbero essere così difficili da intercettare o infiltrare. Allora i casi sono due: o li avete intercettati, e magari infiltrati, dando loro una mano a devastare il devastabile; o avete deciso di non intercettarli e infiltrarli, permettendo loro di devastare il devastabile.

Non so quale delle due prospettive mi piaccia meno, ma entrambe portano alla stessa conseguenza: questa è la devastazione che serviva al governo per tenersi in sella e dissodare l’imminente campagna elettorale, questa è la devastazione che i caschi neri prontamente gli hanno servito, questa è la devastazione che le forze dell’ordine si sono ben guardate dal reprimere, contentandosi come sempre di sparare fumogeni e manganellare un po’ a casaccio. Tutto stupefacente, se non fosse già successo fin troppe volte. E può darsi perfino che succeda ancora, ma per favore, che nessuno si senta più sbalordito da qui in poi.http://leonardo.blogspot.com

anniversari, attivismo, manifestaiolismi

Ok, disperdiamoci

Dieci anni sono un intervallo interessante. Di solito, se è ancora troppo presto per il “com’eravamo stupidi”, è quasi sempre il momento in cui si smette di dire “sembra ieri”. Questo è curioso perché in effetti qualche somiglianza con ieri (le manifestazioni anti-tav, o quelle studentesche dell’autunno scorso) persiste. Eppure non c’è nessuno in giro che osi dire sembra ieri. Genova è già un termine di paragone storico: i suoi protagonisti (Agnoletto, Caruso, Casarini, i vertici della polizia italiana, Scajola, George W. Bush) sono lontani dai riflettori; l’espressione “Movimento di movimenti” nessuno la sente più da anni; il social forum nessuno si ricorda bene cosa fosse; indymedia Italia fa gli accessi di un blog di provincia. A quanto pare l’unico termine che è sopravvissuto nella memoria collettiva è “black bloc”, salvo che ormai vuol dire tutto e niente.

Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l’unico aspetto ancora assolutamente attuale dell’esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l’altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L’ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un’opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.

Io ovviamente non sono d’accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.

Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c’era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all’attivismo anni ’90 e all’idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l’altro fu uno di quei casi in cui l’insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c’erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c’era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c’era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos’è successo? Tante cose.

Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all’elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell’ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L’undici settembre, e l’immediata invasione dell’Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c’era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori ‘soft’ come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l’invasione dell’Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all’indomani dell’assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un’enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all’indomani dell’assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l’esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c’era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell’Italia dall’Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos’è successo dal 2004 in poi?

In un certo senso, niente. A invasione dell’Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l’estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c’era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l’esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po’ meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi… ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po’ autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all’ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni’80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c’è gente che manifesta da vent’anni per lo stesse cose, anche se – comprensibilmente – ogni tanto cambia berretto).

Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c’è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un’altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell’Arte dell’informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.

attivismo, Gheddafi, ho una teoria, manifestaiolismi, Veltroni

Se non ora, dopo.

Dunque, come forse già sapete ieri Walter Veltroni – un rappresentante del PD che questo blog segue con un certo interesse – si è domandato su facebook perché nessuno va a riempire le piazze per manifestare contro il cattivo Gheddafi. L’episodio credo che farà storia, anche soltanto per le modalità con cui Veltroni ha deciso di intervenire in un argomento delicato che sta tormentando molte coscienze pacifiste e non: cosa dovremmo fare per i libici? Ecco, mentre noi stavamo a tormentarci le coscienze, Veltroni ci ha scritto che dovremmo darci da fare, che una volta eravamo più attenti, che siamo rifluiti al “nostro giardino”, e lo ha fatto su Facebook, così, senza filtri. A questo punto è cominciato il tiro al piccione, che su Facebook viene benissimo.

Mentre Veltroni veniva ingiuriato in vari modi, io ho scritto la mia teoria del lunedì (qui la copia cache), nella quale in sostanza gli spiegavo che Gheddafi non è quel tipo di persona che se riempi una piazza a Roma se ne va; che è un po’ semplicista affrontare i problemi in questo modo; che un leader politico si vede anche dalla capacità di offrire a un movimento di piazza delle proposte concrete, invece di lagnarsi perché la gente in piazza non ci va e la domenica preferisce stare a casa a innaffiarsi il giardino. Il pezzo sull’Unità.it stava andando abbastanza bene, ma adesso c’è un problema tecnico e i blog dell’unità risultano (spero momentaneamente) inesistenti. Così per ora lo ricopio qua sotto (update: è tornato, andate a leggerlo di là).

Caro Veltroni, ecco perché non scendo in piazza contro Gheddafi è on line (spero) sull’Unita.it. Si commenta su facebook oppure qui.

Caro onorevole Veltroni, chi le scrive è uno dei tantissimi che manifestarono, tra il 2002 e il 2004, contro l’invasione dell’Afganistan e soprattutto dell’Iraq. Le scrivo perché mi sento tirato in ballo da quello che ha scritto ieri sul suo profilo Facebook. “Perché nessuno scende in piazza al fianco dei patrioti libici?”, si è chiesto. Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?

Dunque, non so gli altri, ma io non provo a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi principalmente perché non sono uno stupido; non credo che una o cento piazze piene in Italia possano avere qualche effetto sulle scelte del dittatore Gheddafi, proprio perché è un dittatore e se ne frega persino delle piazze dei libici (che hanno dovuto sparare per cominciare a farsi sentire), si figuri di quelle degli italiani. Non è neanche esatto che io abbia manifestato “contro Bush e gli americani”. Io manifestavo per dimostrare la contrarietà mia, e di moltissimi italiani, a due guerre alle quali l’Italia avrebbe partecipato. Sì, ero contro la guerra di Bush, ma era davanti a Berlusconi che sventolavo la bandiera arcobaleno, e non me ne pento. Si è pentito invece Berlusconi, che anche a causa di quelle guerre perse sonoramente le elezioni regionali del 2005 e, di misura, le legislative del 2006. Al suo posto arrivò Prodi, e una delle poche promesse che fece in tempo a mantenere fu il ritiro del contingente italiano dall’Iraq. Siamo rimasti in Afganistan, è vero, ma lo stesso Berlusconi non si ricorda più il perché.
Ora una breve digressione, che spero mi perdonerà. il mio pacifismo militante è cominciato con la prima guerra del Golfo, ero al quarto anno di liceo e lo occupai. Mi piace pensare che non fossi stupido nemmeno allora. Avevo molti brufoli e una cotta imbarazzante per una compagna, ma non ero stupido, quindi votai una mozione che dichiarava la contrarietà del mio liceo all’intervento militare dell’Italia. Era una minuscola cosa, certo, ma molti miei compagni non erano d’accordo nemmeno su quella, e preferivano sostenere una mozione vaga, che era contraria alla Guerra con la G maiuscola, la guerra in generale, non a quella guerra specifica e non all’intervento italiano. Ecco, per me occupare il liceo così, contro la guerra in generale, mi sembrava solo una perdita di tempo. Non ho cambiato idea: le manifestazioni, le occupazioni, gli scioperi, secondo me si fanno per ottenere obiettivi minimamente concreti: non si manifesta contro un dittatore, ma per chiedere al proprio governo di troncare i rapporti con quel dittatore. Faccio questo esempio perché su facebook c’è adesso chi le chiede con insistenza dov’era quando in Parlamento si votava il Trattato Italia-Libia, il perno dell’asse Berlusconi-Gheddafi. In quell’occasione i voti contrari, anche tra le file dell’opposizione, furono davvero pochi.
Caro Veltroni, quello che io ho imparato occupando per qualche giorno un liceo nel gennaio del ’91, è che le persone che manifestano contro la guerra si possono dividere in due gruppi. Ci sono quelli che vorrebbero cambiare le cose, anche di poco: quelli scenderanno in piazza solo se credono di poterci riuscire, e ci resteranno solo finché ci credono, non un solo momento di più. Di solito avranno obiettivi precisi: convincere l’opinione pubblica che la tal guerra è sbagliata, spingere un partito a votare contro un intervento, mostrare al governo che questo eventuale intervento andrebbe contro la volontà popolare, eccetera. Sono queste le persone che hanno fatto grande il movimento pacifista che riempiva le piazze otto anni fa. Sono questi che possono andare fieri del nostro ritiro in Iraq: lo hanno chiesto, hanno spostato un po’ di opinione pubblica dalla loro parte, e alla fine lo hanno ottenuto.
Poi c’è un altro gruppo di persone: quelli che manifestano per il gusto di farlo: perché in un corteo c’è sempre qualcuno che sta davanti, e può diventare uno importante. Costoro di solito non hanno obiettivi precisi, anzi, hanno la necessità di restare sul vago, perché l’obiettivo preciso si può raggiungere o si può fallire, ma una Manifestazione contro la Guerra in Generale si può convocare sempre (guerre ce ne sono sempre) e farà sempre sentire tanto buoni tutti quelli che vi partecipano. Ecco, nel 1991 ho imparato a non fidarmi di quelle persone. Sono passati vent’anni e continuano a tormentarmi su facebook, hanno sempre qualche oscuro senso di colpa su cui far leva, qualche oscuro dittatore contro il quale non ho manifestato e di cui quindi dovrei sentirmi complice. Qualche anno fa volevano che sfoggiassi uno straccetto verde per l’Iran, o uno rosso per la Birmania, o era il Tibet, non ricordo. Ma io non ho mai pensato che uno straccetto indossato a mille miglia di distanza possa influire sul karma di un dittatore: mi sbaglio?
Magari mi sbaglio, caro Veltroni, ma quando mi chiede di scendere in piazza contro Gheddafi, mi pare che lei si guardi bene dal mostrarmi un obiettivo concreto. A parte un sostegno generico a chi si batte contro un dittatore, cosa dovremmo chiedere, e a chi? Dobbiamo mostrare vicinanza a chi si batte, dice. Va bene, ma quelli più che della nostra vicinanza hanno bisogno di armi e munizioni: apriamo una sottoscrizione? “Ci vuole un grande impegno politico e umanitario”, ha detto ai microfoni del tg3. Ovvero? Caro Veltroni, ribadisco: non siamo stupidi, e sappiamo che nessun impegno umanitario è possibile, in un teatro di guerra, senza una copertura militare. Quindi, concretamente, vogliamo chiedere all’Unione Europea (o alla Nato, o all’Onu) una “missione di pace”, di quelle che di solito si fanno con le forze armate? Se ritiene che sia una buona idea lo faccia, caro Veltroni: se ne prenda la responsabilità, e poi proponga a chi è d’accordo di riempire una piazza con lei. Forse a quel punto accetterei il suo invito.

Ma lei in questo momento non sta facendo questo. Si sta lamentando perché non manifestiamo contro la Guerra in Generale, contro il Dittatore in quanto tale, e si permette pure di darci degli egoisti, di parlare di riflusso (“Anche le coscienze di tutti noi sono rifluite dal mondo al ” nostro giardino” ?”) come se fosse l’egoismo a toglierci la voglia di scendere in piazza per obiettivi vaghi che nessuno centrerà mai. “Ho la sensazione che nessuno si mobiliti per la Libia perché tutti aspettano chi vince”, dice. In realtà siamo confusi: non dovremmo esserlo? La situazione non è chiara, e non siamo tutti esperti di geopolitica. In casi come questi un leader politico dovrebbe fornirci un’interpretazione convincente di quello che sta succedendo, e proposte concrete per cui lottare. Lei invece si lamenta perché non abbiamo le idee chiare, e ci accusa più o meno di disertare le piazze per egoismo.

Vede, caro Veltroni, è vero che noi pacifisti abbiamo famiglie, lavori, impegni, quel famoso “giardino” che in sostanza è la nostra vita, nella quale possiamo pure trovare qualche fine settimana per manifestare, ma per obiettivi concreti. Non per il gusto di farlo, non per dimostrare semplicemente di essere in tanti, e di sicuro non per portarla sugli scudi, caro Veltroni, senza che lei si prenda neppure la briga di proporci una direzione precisa. A proposito: ha letto quanti commentatori su facebook le chiedono piuttosto di manifestare contro Berlusconi? Non li snobbi: rifletta bene se è più concreto chi chiede a Roma di manifestare contro Tripoli. 

attivismo, Forum Mondiali, ho una teoria, manifestaiolismi

Che fare?

Va bene, insomma, è andata così. Ma adesso cosa farete?

Cosa fare dopo la spranga è sull’Unita.it, e si commenta qui, (ma anche qui, e magari in altri posti che non so). In bocca al lupo a chi ne ha un gran bisogno.

Cosa fare dopo la spranga

Se c’è qualcosa che ho trovato discutibile, nelle parole di Saviano sugli scontri di Roma, è l’evocazione degli anni anni di piombo, “la trappola degli anni ’70, di cui si sente già il puzzo”: l’idea, insomma, che gli incappucciati di lunedì diventino, man mano che si alza la tensione, i brigatisti di domani. È una teoria suggestiva, che si è sentita tante volte, e che a mio parere non funziona. La spranga non conduce alla p38, così come la canna non porta infallibilmente all’eroina.

Proviamo per una volta ad accantonarli, quei puzzolenti anni ’70, e a dare un’occhiata al passato più recente. Dieci anni fa, per esempio, in Italia c’era un movimento composito e più o meno organizzato che aveva per obiettivi i vertici internazionali. Tute bianche a nord, Rete No Global a sud, e una spolverata di anarcoinsurrezionalisti qua e là, oltre ai fantomatici Black bloc dal nord Europa. Anche a quei tempi di spranghe e di caschi se ne videro parecchi, anche allora la repressione fu pesante. Bene, dove sono i ‘violenti’ di dieci anni fa? Hanno formato gruppi terroristici? No, non è successo. Nessuno è entrato nelle vecchie organizzazioni, come le Br, ridotte a una setta di reduci; nessuno ne ha fondate di nuove. A meno di non voler contare i bombaroli dei cassonetti, quegli anarchici informali che sono pure l’organizzazione terroristica autoctona oggi più temuta dal ministero degli Interni (il che equivale a dire che oggi non esiste una organizzazione terroristica italiana degna di nota).
Persino nei momenti più difficili, quando a Genova i manifestanti furono caricati e torturati con una brutalità sistematica che non aveva precedenti, nemmeno il più esagitato attivista prese mai seriamente in considerazione l’opzione del terrorismo. La stagione della p38 è finita, in Italia e in generale in Europa: semmai sono stati gli anni Settanta un’eccezione, nata e alimentata all’ombra della cortina di ferro, in una situazione geopolitica che non esiste più. Tirarli fuori è un riflesso condizionato dei reduci – che a questo punto vanno verso la sessantina. Chi è più giovane dovrebbe preoccuparsi d’altro.
Per esempio: se dopo la spranga non c’è la P38, cosa c’è? Ecco, il problema è un po’ questo. Per Berlusconi c’è la campagna elettorale, che paradossalmente è cominciata proprio col voto di fiducia del 14 dicembre; e dal suo punto di vista non poteva iniziare meglio. L’immagine di Piazza del Popolo a ferro e a fuoco era esattamente quello che gli serviva per dimostrare ai suoi tele-elettori di età medio-avanzata che l’unica alternativa a lui è il Caos. Il favore reso dai vandali a Berlusconi è tanto evidente che siamo stati in molti, a caldo, a pensare agli infiltrati. È un sospetto che rimane legittimo, anche dopo che è stato identificato il ragazzo del famoso “cappotto marron”; se non altro perché certi metodi in Italia sono stati usati più volte, Cossiga insegna; ma visto che mi ero ripromesso di non parlare più dei ’70, mi basta ricordare che di infiltrati ce ne furono a Genova, che si misero perfino a fabbricare molotov; e se nel frattempo i quadri della polizia non sono troppo cambiati, gli uomini al governo sono più o meno gli stessi. Certo, per trasformare un corteo in una battaglia non basta una manciata di agenti provocatori; eppure alcuni dettagli restano inquietanti: quel camion di cantiere pieno di badili e pale, lasciato in bella mostra a pochi passi dal Senato; il modo in cui la camionetta dei finanzieri è stata lasciata in prima fila, quasi a fare da esca, che ricorda in modo sinistro la dinamica di Piazza Alimonda.

Detto questo, diversi studenti hanno probabilmente scelto la spranga convinti che quella fosse l’unica opzione praticabile in quel momento. Sono stati messi in condizione di farlo da un governo che finora ha irriso le loro richieste, e al momento giusto li ha messi all’angolo, col vecchio trucco della ‘zona rossa’. È andata così: ma adesso? Cosa succede dopo la spranga?

Potrebbe anche non succedere più niente: la spranga sarebbe semplicemente l’inizio della fine. A volte è successo. La risposta di molti giovani (e meno giovani) a Saviano è stata: non c’eri, non puoi capire, è da un anno che manifestiamo pacificamente e non succede nulla, adesso siamo stanchi. La spranga come segno di disperazione, di stanchezza. Ci può stare. Il problema è che di solito dopo la stanchezza e la disperazione non viene nulla di buono: la rassegnazione, il più delle volte. Qualcuno si radicalizzerà, raccogliendo le provocazioni del governo che blatera di “daspo” e “arresti preventivi”. Qualcun altro non raccoglierà; ci saranno distinguo e secessioni; qualcuno, semplicemente se ne andrà, come il quindicenne che era in piazza a tirare verdura alla polizia, aggredito da un cappuccio nero, che si è svegliato all’ospedale e ha già fatto sapere che nei cortei non verrà più: uno in meno. Altri emigreranno all’estero, altri resteranno e si rassegneranno a un futuro difficile, magari aspettando la prossima riforma sbagliata, la prossima ondata di protesta, la prossima repressione.
Io però voglio essere ottimista: la spranga potrebbe anche essere un errore da cui si impara. Gli studenti che in questi giorni sono entrati in sciopero della fame sono già entrati con molta serietà in una fase diversa, ugualmente rischiosa, ma lontana dalle trappole mediatiche. Certo, non si tratta semplicemente di dire “no” al tafferuglio, ma di inventarsi qualcosa di nuovo. Anche in questo caso ci sono precedenti: chi ricorda Genova nel 2001 non dovrebbe dimenticarsi che l’anno dopo ci fu il Forum Mondiale di Firenze, tre meravigliosi giorni di incontri e non di scontri, per la stizza di Oriana Fallaci che era venuta apposta a fiutare il sangue e i fumogeni, e trovò una festa di gente che discuteva di tagli alle emissioni e Tobin Tax (le cose di cui oggi, troppo tardi, si parla ai vertici veri).
Il guaio è che a distanza di così pochi anni di quel Forum non si ricorda quasi più nessuno. Delle mazzate di Genova, sì, ci ricordiamo. Persino delle p38 degli anni Settanta, che sono roba dei nostri genitori, a volte dei nonni. Ma dei grandi cortei pacifici contro la guerra in Iraq no, si è quasi persa la memoria. È come se il tempo spazzasse via tutto, gli errori e le cose buone che abbiamo fatto, e ci lasciasse soltanto il ricordo delle mazzate che abbiamo preso o dato. E questo, purtroppo, resta il più grande argomento a favore della spranga.http://leonardo.blogspot.com
attivismo, la Cina è vicina

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Altri stracci

Stavolta scrivo proprio a te, che qualche mese fa hai iniziato a portare uno straccetto rosso per la Birmania, e che poi, un giorno, non lo hai messo più.
E non credere che ti biasimerò per questo. Tra me e te non c’è nessun piedistallo su cui io possa salire anche solo un momento, nemmeno un tappetino, niente. Tu eri quello che portava lo straccetto, io quello che scuoteva la testa, e a distanza di mesi probabilmente sembriamo pirla uguale.

Però c’è stato un giorno – ci deve pur essere stato – in cui hai deciso che non l’avresti messo più. Un mattino in cui hai avuto meno tempo per vestirti o preoccuparti. La vita è fatta di singoli momenti, e non ci mancano certo le preoccupazioni per riempirli, eppure almeno due secondi per dire a te stesso “basta” devi averli spesi. Ti ricordi come ti sei sentito, in quel momento? Non è curiosità. Vorrei soltanto che tu sapessi che anch’io io mi sento così, tutti i giorni. Magari un secondo al giorno, ma la frustrazione è esattamente quella. Per cui lo vedi, alla fine lo straccetto a me non serviva davvero. E magari, per lo stesso motivo, tu hai fatto bene a metterlo. E pensi di rifarlo, adesso?

Gli storici avranno poi un’eternità a disposizione per stabilire se la Cina è diventata il futuro del mondo grazie o nonostante Marx e il suo materialismo storico, grazie o nonostante Mao e i suoi catastrofici balzi in avanti. Fatto sta che lo è diventato, principalmente per una questione demografica, e lo resterà ancora per un po’. Nel frattempo le nostre proteste lasciano il tempo che trovano. Se quel che scrive oggi Rampini non ti basta, ti consiglio un’inchiesta dell’Atlantic uscita sullo scorso Internazionale, che conferma più o meno la stima della riserva valutaria cinese, intorno ai 1000-1500 miliardi di dollari. È un dato che da solo squarcia il velo: la qualità della vita degli americani, quel valore che su tutti Bush riteneva sacro, è in ostaggio dei funzionari cinesi. Gli americani potranno continuare a consumare allegramente solo finché Pechino lo vorrà, e Pechino forse lo vorrà, perché se smettesse di sostenere il consumismo americano (e quindi il nostro) si troverebbe davanti a un’enorme crisi di crescita, senza precedenti storici: una prospettiva di fronte alla quale la repressione etnico-religiosa in Tibet impallidisce – e non credere che queste cose io le scriva a cuor leggero.

Perché sto scrivendo precisamente che il mio benessere di marca occidentale (taroccata a Singapore), già di per sé traballante, è fondato tra l’altro anche sulla repressione del Tibet, e che la globalizzazione è riuscita là dove le famigerate Ideologie del secolo scorso avevano fallito: per quanto possa aver corteggiato le dottrine comuniste io non sono mai stato complice di Pol Pot, ma vivendo in una società neoliberista sono complice di Hu Jintao e di Vladimir Putin, e il massimo lusso che posso concedermi è un dibattito sull’opportunità di boicottare le olimpiadi – rendiamoci un attimo conto, quelli sparano alla folla e noi discutiamo di olimpiadi. In verità vale la pena di assistere a testa alta ai giochi di Pechino, proprio perché celebreranno davvero la fine dell’ultimo sogno del Novecento: il sogno della democrazia, dell’autodeterminazione dei popoli, della libertà. Non c’è democrazia, non c’è libertà, e non ci sono popoli: c’è solo il mercato, e sul mercato l’indipendenza del Tibet non vale abbastanza.

Protestare ha senso? Certamente. Io ho protestato sin da bambino per questa o quella repressione e ho una stima sincera per chi lo fa. Un mio meccanismo di difesa interiore mi impedisce di abbracciare le cause che mi sembrino davvero senza speranza: la protesta può dare un senso alla vita, ma se quel senso è la sconfitta e la frustrazione, io mi scuso e mi chiamo fuori. Ho protestato per Tienammen, perché credevo sinceramente che la Cina fosse al bivio e che la democrazia fosse un’opzione praticabile: solo col senno del poi posso darmi torto. Ho protestato per l’Iraq, per i bombardamenti su Belgrado, e di nuovo per l’Afganistan e l’Iraq, perché ritenevo che nel mondo cosiddetto libero un margine di libertà esistesse davvero, e che la protesta civile lo potesse colmare, richiamando i governanti a più miti consigli. Ho protestato e protesto per la politica di occupazione di Israele, perché sono convinto che l’opinione pubblica occidentale giochi un ruolo in quel conflitto. Ma di fronte alla repressione in Tibet o in Birmania, e in Cina in generale, mi fermo. Non metto straccetti perché non li merito; o forse perché ritengo più dignitosa una posizione di consapevole disperazione. Sei libero di pensarla diversamente e di disprezzarmi pure, ma vorrei dirti un’ultima cosa.

Sono una persona, come te, e come te sono limitato in tutto. Anche nella mia disperazione. La Cina è gigante coi piedi d’argilla, che quella crisi di crescita la vivrà, prima o poi: forse tra trent’anni, quando sarà una nazione di figli unici di mezza età. Nessuno può dire come sarà il mondo per allora, ma per favore non pensare a me come a un disperato che si sfoga su un blog. Io credo di poter migliorare il mondo entro certi margini, e ci provo, tutti i santi giorni. Il mio lavoro, i miei studi, persino questo blog, sono fondati su questo. Da quando sono nato so di essere piccolo: ero un quattro-miliardesimi di umanità, in seguito sono diventato un sei-miliardesimo, e continuo a rimpicciolire, ma questo non vuol dire che io mi ritenga inutile. Non ancora. Se può servire a ricordartelo, a ricordarmelo, quello straccetto lo metterò anch’io. Il problema è che penso già al giorno in cui non avrò più voglia di metterlo, e i problemi saranno ancora là.

attivismo, terrorismo

regalo di Natale

(Il pilota, al giornalista: “La cosa più difficile è schivare quelle bestioline nere che schizzano da un lato all’altro della strada”)


Di abolire la Parigi-Dakar si parla quasi da trent’anni; più o meno quando nel 1988, in un villaggio del Mali, una bambina di dieci anni attraversò una strada e venne messe sotto da un motociclista. Si chiamava Baye Sibi. Sono state firmate petizioni, organizzati boicottaggi. Ma il rally non si è fermato.

18 anni più tardi, Mohamed Ndaw (12 anni) è morto nello stesso modo: attraversando la strada mentre passava un camion di supporto. La morte sua e di un altro bambino (Boubacar Diallo) ha portato all’ennesima mobilitazione di associazioni della società civile europea e africana, che per l’occasione si sono federate nel CAVAD, Collettivo per la Vittime Anonime del Dakar. E ancora petizioni, ancora richieste boicottaggio. Tutte inutili.

Secondo Wikipedia, dal 1979 al 2007 il rally del deserto ha fatto 50 morti. Tra loro, se ho fatto i conti bene, 32 concorrenti, 1 fondatore (Thierry Sabine, in elicottero contro una duna), 7 giornalisti, nove bambini: quasi tutti colti nell’atto colpevole di attraversare la strada.

Poi, la vigilia di Natale del 2007, è cambiato qualcosa. Un’organizzazione terroristica in Mauritania (“affiliata ad Al Qaeda”, come si dice in questi casi), ha ucciso quattro turisti francesi. Sarkozy ci ha riflettuto bene, e ha fatto sospendere la gara. Come possa il Presidente della République sospendere una gara organizzata da privati cittadini in territorio straniero resta per me un mistero, ma tant’è.

(Un turista osserva un souvenir realizzato con degli ossicini, e chiede: “Bello questo, come si chiama?” E l’africano: “Thierry Sabine”).

Ricapitolando:

I bambini dell’Africa sud-sahariana si sono trovati la Parigi-Dakar tra le palle per vent’anni. Vent’anni di proteste formali, petizioni, boicottaggi, e altri inutili blablabla. Vent’anni di morti e feriti. Poi un giorno un gruppo di terroristi islamici in Mauritania ha fatto la pelle a quattro francesi. E di colpo la Parigi-Dakar ha smesso di esistere.

Non starò neanche a far la morale sul valore irrisorio sul peso che sulla bilancia globale ha la vita di un negretto rispetto a quella di un turista francese – tanto l’uguaglianza è una storiella che ci siamo lasciati indietro alle elementari, no?

Ma spiegatelo voi, adesso, ai bambini dell’Africa sud-sahariana, che il terrorismo è brutto, è dannoso, non si fa. Io, se fossi il fratellino di Diallo, o di Mohamed, a questo punto i terroristi islamici li adorerei. E voi datemi torto.

attivismo, Berlusconi, cattiva politica, fratelli d'I., tv

gazebole

Il Polipo delle Libertà

– Io non ho la minima idea di quanti gazebo fossero attivi in questi tre giorni. Sul sito di Forza Italia si parlava di aprirne 10.000, una stima lievemente ottimista per quel poco che m’intendo di attivismo politico. Sarebbe come dire un gazebo ogni 6000 italiani, bambini ed extra inclusi.
Ma diamogliela per buona, gliene abbiamo date tante. Supponiamo che in Italia in questi tre giorni ci fossero 10.000 gazebo aperti (3×10=30.000) dalle otto del mattino a mezzanotte con orario continuato, quindi per un totale di 16 ore (30.000×16=480.000). In totale questi gazebo sono stati aperti per 480.000×60=28.800.000 minuti, pari a 28.800.000×60=1.728.000.000 secondi.
Berlusconi ormai sta parlando di 10 milioni di firme. 1.728.000.000 diviso 10.000.000 fa 172,8. Significa una firma ogni tre minuti scarsi, no stop per sedici ore al giorno, in diecimila gazebo. Correggetemi se sbaglio, ma insomma, la sostanza è che avrebbe firmato un italiano su sei. E scusa, con dei numeri così, come fai a perdere tempo con dei mentecatti stile Bossi o Fini? Come fai a non fondare un partito nuovo? È il popolo che te lo chiede.

– Durante il week-end mi sentivo in effetti un po’ stanco, esaurito. Ora so il perché: evidentemente sono andato a firmare anch’io, facendo una lunga coda al freddo, prima di poter scorgere il gazebo all’orizzonte. Non me lo ricordo perché ero in trance, ma statisticamente qualcuno nel mio quartiere deve pure esserci andato. Dunque ho firmato per… per andare a votare subito, no? E chi le ha raccolte tutte queste firme? Berlusconi! E cosa ci fa con queste firme Berlusconi? Non hanno ancora smontato i gazebo che lui già sta mercanteggiando con Veltroni per prolungare la legislatura in attesa di una nuova legge elettorale. Ma come? 10 milioni di italiani firmano per le elezioni subito e tu li prendi in giro così? E nessuno protesta? Protesterò io! Oh, Silvio, abbiamo firmato una petizione, mica un assegno in bianco! La legge elettorale che c’è va benissimo, del resto l’ha fatta il tuo governo, come può farti schifo?

– Uno sarebbe in effetti portato a riderci su. La possente corazzata della CdL ha sbattuto contro il fragile governo Prodi ed è andata in pezzi. È bastata una cosa semplicissima e inaudita: che i senatori si dessero un po’ da fare, che approvassero una finanziaria senza fiducia e senza indulgere al mercato acquisti. Un sussulto di dignità che forse in parte dipende anche dalla famosa ondata antipolitica.

– …Eppure non ce la faccio. Temo Berlusconi anche quando regala gazebi. So benissimo che non ha nessuna vera idea nuova, non ignoro che possegga ormai un decimo della vitalità e della fantasia del 1994. Come può riciclarsi cambiando semplicemente nome e ragione sociale? Con che faccia convincerà i liberisti, lui che in due governi non ha liberizzato quasi niente? Con che sorriso prometterà posti di lavoro, lui che ha ruminato un po’ la Treu e l’ha rigettata peggio di prima? Forse che calerà le tasse, come ha fatto nel… nel… nel… forse che le ha mai calate? Eccetera eccetera. Chi ci può cascare ancora? Mah, gli italiani, per esempio.

Siamo così stupidi? Sì, può darsi. Se abbiamo appena fatto aprire un centro bellezza a Vanna Marchi, perché non dovremmo ricomprarci lo stesso Berlusconi avanzato da due anni fa nel nuovo pacco novità? La stupidità italica è un’ipotesi di lavoro; io non è che stia conducendo ricerche in merito, salvo ogni tanto a cena quando vedo Affari Tuoi. Il gioco dei pacchi, sì. È un format internazionale, perciò sarebbe interessante vedere come funziona all’estero. Da noi è un disastro. I concorrenti non hanno quasi mai il minimo rudimento di matematica e statistica; viceversa si affidano alle cabale più oscene, rifiutano offerte allettanti e vanno avanti anche quando hanno cinque pacchi brutti contro uno buono. Ogni sera vedono sbagliare i loro connazionali, e quando tocca a loro vanno e sbagliano. È una specie di istinto di autodistruzione che ci ha preso da trent’anni in qua, come ai lemmings. Salvo che la storia dei lemmings che si suicidano in massa era una bufala, mentre gli italiani… noi sì che dovremmo andare su discovery channel, un giorno o l’altro. “Italiani: il segreto di un popolo votato alla perdizione!” Peccato non esserci quando lo trasmetteranno.

attivismo, Beppe Grillo, cattiva politica, la sinistra perde anche per questo motivo, Pd, Veltroni

il problema non è parlare di Grillo

Il problema è non parlare di Veltroni

Chiedo scusa, ma non c’è niente da fare.
Questa sensazione settembrina di compiti da fare in arretrato non se ne va, non se ne andrà, finché non avrò scritto anch’io qualcosa su Beppe Grillo. Cercherò di non dire banalità, ma sarà dura.

“E tu che hai un blog, ci sei andato a Bologna?”
Sì: in questi giorni capita d’incontrare persone che t’iscrivono d’ufficio al partito di Grillo per il semplice motivo che hai un blog. Se poi sapessero che hai un’auto, e che anche Mussolini amava guidarla…
Peraltro, come nessuno è profeta in patria, nemmeno Grillo può vantare molti seguaci tra i blog. Come ha ben spiegato Mantellini, nel mondo dei blog italiani il sito di Grillo è un’enorme isola che non comunica col resto del mondo: il problema è che quest’isola è più frequentata di tutto il resto delle terre emerse. È frustrante, sì.
E tuttavia è pur sempre un blog che sta ispirando i titoli dei tg e dei giornali: la prova che il web italiano è diventato uno spazio importante, anche se è uno spazio usato ancora in modo rudimentale. Proprio mentre parla di partecipazione dei cittadini, Grillo produce un sito assolutamente monolitico in cui Lui parla e gli altri possono solo ascoltare. Il web 2.0 condivide, socializza… Grillo detta la linea. È come attaccare un’automobile ai buoi.
Fatto è che in Italia in questo momento attaccare un’automobile ai buoi funziona. Forse è il modo migliore di spostarsi, visto che le strade asfaltate sono ancora inaccessibili, o comunque poco conosciute e frequentate. Il problema (ma non sono nemmeno sicuro che sia un problema) è che la politica in Italia è sempre un discorso di massa, e le masse, in un meccanismo delicato come il web 2.0, forse non ci entreranno mai. Non ce le vedo le masse a realizzare un programma politico via wiki, come stanno facendo iMille, per esempio.

“Sì, ma tu poi di Grillo cosa pensi?”
Io credo che sia in buona fede. Non lo vedo nel ruolo di attentatore alle istituzioni democratiche. Secondo me è assolutamente convinto di lavorare per il bene del Paese, oltre che per un modesto tornaconto personale. È precisamente queste buona fede che lo rende così pericoloso.
Credo anche che sia un po’ più furbo di quanto non sembri. Due delle tre proposte di legge per cui ha raccolto le firme non hanno nessuna possibilità di passare in Parlamento (una è probabilmente anticostituzionale: un condannato che ha scontato una pena torna in possesso dei suoi diritti civili e politici, e quindi nessuno può impedirgli di candidarsi). Allora perché ha mobilitato milioni di persone per un’iniziativa di legge popolare che è destinata ad arenarsi alle camere? È chiaro che pensa già alla fase due: la fase, appunto, in cui i parlamentari saranno costretti a bloccare le sue proposte benedette dal bagno di folla di Bologna (non potrebbero fare diversamente).

“Era una trappola?”
Direi. Che speranza possono avere, quelle proposte di legge, al nostro parlamento? Se non sono anticostituzionali, comunque fanno a pezzi l’establishment: la proposta di mandare a casa i parlamentari dopo due legislature è una pura e semplice provocazione. Si può essere d’accordo o no (io no), ma quale senatore o deputato oserebbe votare una cosa del genere? Nessuno vota per la propria autodistruzione. E Grillo lo sa benissimo. Il suo obiettivo non era fare approvare le sue proposte. Il suo obiettivo è portare a un grado massimo l’indignazione popolare, e quando le leggi si areneranno tra Camera e Senato, ci riuscirà.

“La vittoria dell’antipolitica…”
Io lo trovo molto politico, invece. Se la politica è astuzia e strategia, con questa storia delle proposte di legge è riuscito a mettere in sacco un bel po’ di mummie molto più navigate di lui. Se la politica consiste nel saper intercettare il sentimento popolare, beh, non lo trovo molto inferiore a Bossi o D’Alema. Non è politico perché non crede nei partiti di oggi? Non ci credevano neanche Fassino o Rutelli, se hanno appena sciolto i loro partiti. L’unica differenza, evidenziata da Luttazzi, è che Fassino e Rutelli comiziano gratis, mentre Grillo si fa pagare. Il che, da un punto di vista meramente economico, significa che Grillo è un oratore di gran lunga superiore.

“Quindi tutto bene. Viva Grillo…”
No, Grillo è il sintomo della prossima sconfitta del centrosinistra. Anzi. Facciamo dei nomi. Grillo è il segno della sconfitta di Veltroni. Non della sconfitta alle primarie, che vincerà in souplesse. Ma la sconfitta politica. Veltroni doveva recuperare al PD un’ampia fetta di elettorato di centrosinistra delusa da Prodi, da D’Alema, dal carovita, dal TAV, da qualsiasi cosa. Questa era la missione di Veltroni: il famoso valore aggiunto tra Ds e Margherita.
Invece Veltroni ha fatto una bella orazione ecumenica al lingotto, poi è partito per i mari del sud, è tornato molto abbronzato, e con la scusa di evitare le polemiche da bassa politica ha praticamente evitato la politica. C’è stato un appassionante dibattito sulla sicurezza; lui è il sindaco di una città assediata da ubriachi internazionali; vi ricordate esattamente la sua presa di posizione? E meno male che era un gran comunicatore. La sua strategia in questi giorni mi sembra ispirata al migliore Gianfranco Fini: silenzio e raggi UV. Certo, meno parlano, meno dicono cazzate: intanto però Grillo parla e riempie le piazze.

In quelle piazze, nel settembre 2007, avrebbe dovuto esserci Walter Veltroni. Avrebbe dovuto avere parole di speranza per chi paga troppo il pane e l’Ici. Avrebbe dovuto trovare la quadra tra i lavavetri e gli automobilisti frustrati. Avrebbe dovuto essere populista e ragionevole, e tirare bordate al vecchio establishment. E invece al momento è ammiraglio di una corazzata arrugginita sulla quale sono saliti tutti: D’Alema, De Mita, Rutelli, tutti. C’è anche Fioroni. Fioroni è il ministro dell’istruzione che qualche settimana fa è andato al meeting di Rimini ad annunciare che lo Stato avrebbe pagato a mamma e papà il liceo privato del figliolino. Un altro bel buco nel bilancio dell’istruzione pubblica, ma probabilmente ha conquistato 15 voti a Formigoni. Ecco, gli uomini di Veltroni sono questi qui. Se la gente non è entusiasta, se si butta sul primo comico che non le manda a dire, la responsabilità è anche sua.

“Quindi Grillo fa più proseliti al centro-sinistra?”
Mi sembra di sì: al centro-sinistra e al centro-nord. Lo scrive Ilvo Diamanti e io stavolta mi fido. Vado più in là: a me sembra che ci sia una continuità tra il grillismo, i girotondini, una parte del movimento di Genova (quella più moderata, intorno alla Rete di Lilliput) e più su, più su, fino a quelli che manifestavano contro il colpo di spugna e raccoglievano le firme con Segni e Orlando. Sono diplomati e laureati, prevalentemente impiegati e insegnanti, che hanno vissuto venti o trent’anni in un Paese di furbi dove sembra che paghino le tasse soltanto loro. Oscillano abbastanza comprensibilmente tra rabbia e speranza. Finché c’è Berlusconi a coalizzare la loro frustrazione, sfoggiano adesivi e spillette anti-nano; quando Berlusconi se ne va, e l’Italia non diventa immediatamente il Bengodi degli Onesti, diventano matti: non sanno nemmeno più in cosa sperare. Comprano “La casta”, proprio come nel 2001 compravano “L’odore dei soldi”. Si buttano su Grillo, che li capisce perfettamente. E vuoi sapere la cosa più incredibile?

“Dai, dimmela”.
La cosa più incredibile è che questa sacca di malcontenti, quando è alle strette, si rifugia storicamente sempre sotto la stessa bandiera: la Costituzione. Quando Berlusconi si faceva le leggi ad hoc, loro lottavano in nome della Costituzione. Le botte di Genova furono criticate in nome della Costituzione. E anche adesso, gli strumenti usati da Grillo per rivoltare la politica come un calzino sono perfettamente costituzionali: una legge di iniziativa popolare, liste civiche, eccetera eccetera. Questo secondo me è il vero limite di questo movimento: la carta costituzionale come inizio e fine di ogni cosa, quando è proprio la stessa carta a sancire lo strapotere del parlamento. Questo è anche il motivo per cui, periodicamente questo movimento deve morire e reincarnarsi in qualcosa di nuovo: i suoi rappresentanti presto o tardi devono entrare in Parlamento, o almeno in un consiglio comunale: ma appena varcano la soglia, diventano i nemici, che siano Pardi o Cofferati. E si riparte con qualcosa di nuovo. Perciò non credo che Grillo si candiderà. Sarebbe la sua fine.

“E allora cosa succederà?”
Non lo so. È probabile che le liste civiche col bollino di Grillo abbiano un buon successo. Questo potrebbe risultare persino positivo, se contengono nomi davvero nuovi. In fondo è quello che vogliamo tutti, no? Nomi nuovi. A quel punto i dirigenti del Pd se la faranno addosso, e prometteranno ponti d’oro. Questo potrebbe essere anche il momento in cui D’Alema o De Mita decidono di pensionarsi, per il bene della collettività. Se a quel punto anche Grillo manterrà una posizione marginale, finalmente avremo un ricambio di classe dirigente in seno al maggiore partito del Paese. Però mi sembra una strada impervia. Avrei preferito che il rinnovamento cominciasse all’interno del Pd: contavo molto su quello che avrebbe fatto Veltroni. Forse avevo frainteso un certo suo piglio presidenziale.
Sono passati quattro mesi e Veltroni non ha fatto nulla. A questo punto Beppe Grillo ce lo meritiamo.

“Parlando d’altro: ti piace la radio?”
Da matti.

“Anche a Hitler. Non è per caso che…”
Ma vaffanculo, va.

attivismo, cattiva politica, iMille

iMac, iPod, iMille…

Il titolo non è mio, non sono così bravo: l’ho copiato da un commentatore di Scalfarotto.
E comunque è inutile star seduti qui sulla panchina a criticar qualunque cosa passi: io stamattina già inviato ad Adinolfi la mia timida adesione. Un passo avanti rispetto ad altre proposte precedenti mi sembra che ci sia: non vengono più proposte liste di cooptati e l’enfasi un po’ sospetta sui “giovani” è stata stemperata. Mal che vada, avrò altre storie da raccontare.

Ora, per favore, evitate commenti stile “ti facevo più di sinistra”, ecc. A parte che forse non è vero, per come la vedo le opzioni ora sono due: o faccio l’estrema destra nel partito di Mussi & co., o mi pianto nell’estrema sinistra del Pd. Ditemi voi qual è la più divertente.

(Grazie a Umarells per la foto).

1977, attivismo, Br, Cgil, DS, famiglie, memoria del 900

scuola di brigatismo, 1

Effetti non collaterali

E continuano a parlare di Brigate Rosse. Tanto chiasso per un gruppetto che non era ancora riuscito a scassinare un bancomat.

Minimizzo? Beh, dipende. D’accordo, il brigatismo uccide. Quanto? Negli anni Zero direi una media di un morto ogni tre anni. Nel frattempo – sarà un po’ banale ricordarlo – abbiamo due o tre Regioni controllate da bande criminali spesso in guerra fra loro. In ogni caso non fanno in un anno i morti che fa il traffico.

Volendo restare ai morti ammazzati, ci sarebbe un’altra emergenza: le famiglie. Il posto più rischioso in assoluto, come sa chiunque ne abbia una (Ratzinger, per esempio, non lo sa). In realtà, se si potessero abolire, si salverebbero centinaia di vite all’anno. Peraltro, se non ti ammazza un parente, spesso è il vicino di casa. In confronto alla casa e al quartiere, lo stadio è un ambiente relativamente più sicuro – più o meno un morto all’anno. Sempre peggio dell’emergenza brigatismo, comunque.

Se comunque preferite discutere di quest’ultima, prego. Ci sono comprensibili motivi per cui periodicamente il brigatismo in Italia diventa un’emergenza più chiacchiarata di mafie, camorre, traffico, violenze domestiche e stadi in rivolta.

Da una parte è una questione politica: lo spauracchio rosso da agitare prima delle grandi manifestazioni. Ma non è solo questo. Il brigatista è quanto di più romantico la cronaca nera ti possa offrire. Infiltrazioni, agguati, complotti, cosa vuoi di più? Solo i padrini mafiosi potevano reggere il confronto; ma da quando hanno iniziato a prenderli si sono scoperti più simili allo zappatore di Merola che a Vito Corleone, e la fascinazione collettiva si è un po’ ammosciata. Meglio allora l’antico killer idealista e metropolitano, metodico e allo stesso tempo fuori del mondo, il che fa sentire un po’ più intelligenti noi che, in questo mondo, ormai ci siamo dentro.

E perché no, dopo tutto. Soltanto, non vorrei che si raccontassero storie ai ragazzini.

Perché il rischio è altissimo, e il tempo non aiuta. I ragazzini non sono copie conformi a quelli che eravamo noi: ormai sono nati a muro di Berlino crollato. Il comunismo è un concetto che dovrebbero imparare a scuola, se ci arrivano. E anche se ci arrivano, cosa vuoi che possano capire sui banchi di un concetto che tiene insieme Marx, Berlinguer, Guevara e Mao – per fare il nome di quattro persone che, se fossero vissute nella stessa unità di tempo e spazio, probabilmente sarebbero venuti alle mani o al Kalashnikov. Se poi pretendiamo di allargare la foto di famiglia per includere Curcio o Moretti, non facciamo che complicare un pastrocchio.

Si rischia, per amore di brevità, di avallare la favola del collateralismo: i brigatisti erano rossi, quindi collaterali a Pci e Cgil. Le cose sono assai più complicate. I brigatisti s’infiltravano e s’infiltrano nella Cgil: tante grazie, dove dovrebbero infiltrarsi? Nella Cisl? Nei circoli Acli? Ma questo non toglie che le Br, vuoi per strategia, vuoi per istintivo settarismo, abbiano sempre considerato la sinistra ufficiale come un obiettivo primario. Ed è vero anche l’inverso: la sinistra ufficiale – che era cosa ben diversa da quella che ci troviamo oggi – ha capito abbastanza presto che il brigatismo era il nemico.

Nei salotti era un’altra cosa, è vero. Lì una zona grigia c’era: del resto la rivoluzione era data per imminente, e non sarebbe stato un pranzo di gala. Lo slogan Né con lo Stato né con le Br tradiva l’atteggiamento di chi stava semplicemente aspettando il vincitore per attaccarsi al carro. Ha vinto lo Stato, e oggi le Br sembrano una banda di matti. Facile, col senno del poi.

Ma chi lo spiegherà ai ragazzini, che proprio il PCI era la bestia nera dei brigatisti, e viceversa? Con la litigiosità istituzionale, e l’ansia dei piccoli partiti di raccattare qualsiasi voto d’estrema sinistra, è diventato difficile capire l’atteggiamento del partito di Berlinguer. Gli si può rimproverare molto, ma certo non la connivenza col brigatismo. Addirittura gli si può rimproverare il contrario: il brigatismo si sviluppò e fece adepti nella sinistra estrema anche perché il PCI, in un decennio che complessivamente andava verso sinistra, intraprese una lunga e faticosa marcia nella direzione opposta, verso quell’impossibile Grossa Coalizione DC-PCI che crollò proprio nel giorno in cui le Br sequestrarono Moro. È quel che scrive per esempio Paul Ginsbourg, e forse stasera mi conveniva semplicemente copiare e incollare.

Un secondo fattore(*) è da ricercarsi nella frattura, sempre più marcata, che si creò tra il Pci e quel ceto giovanile urbano e universitario che gli aveva dato un appoggio cruciale nelle elezioni di giugno [1976]. Più il partito di avvicinava al governo rafforzando la sua alleanza con la Dc, più cercava di stabilire con forza le proprie credenziali come “responsabile” partito di governo. Qui Berlinguer compì uno dei suoi più gravi errori. Nei trent’anni di vita della Repubblica gli attivisti del Pci erano sempre stati presi di mira dalle misure repressive della polizia; dal 1976 in poi, invece, il partito divenne il più zelante difensore delle tradizionali misure di legge e di ordine, anziché farsi campione delle campagne per i diritti civili. Un esempio emblematico di tale atteggiamento fu l’appoggio acritico dato al governo per il rinnovo della legge Reale sull’ordine pubblico, contro la quale il Pci aveva votato nel 1975. Sui temi cruciali che riguardavano i giovani politicizzati – il diritto a manifestare, i poteri della polizia, la detenzione preventiva, la riforma carceraria – i comunisti mantennero un silenzio che non lasciava presagire niente di buono.
I più severi critici del partito imputarono al suo passato stalinista questo ritrovato autoritarismo. Quali che ne fossero state le cause, gli effetti erano indubbi. Qualsiasi opposizione al compromesso storico veniva spesso qualificata semplicemente come atteggiamento deviante. […] Si generò un terribile paradosso: i comunisti volevano prevenire l’estendersi della violenza, ma la loro politica creava un terreno più fertile per i terroristi.
L’anno 1976 vide infine un rafforzamento in termini numerici e organizzativi delle bande terroriste, in stridente contrasto con la caduta verticale della forza e delle attività di gruppi similari negli altri paesi europei interessati dal fenomeno.

(Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi Torino 1989, pagg. 512,513).

È una lunga citazione, ma credo ne valga la pena. Considerato che stiamo ancora scontando, a trent’anni e più, le conseguenze di una svolta centrista che lasciava troppo spazio scoperto a sinistra (non vi ricorda qualcosa?) Continuiamo a discutere di manifestazioni, detenzioni preventive e carceri allo sfascio; la legge Reale, più o meno, è sempre lì. Gli allievi di Berlinguer che oggi formano la classe dirigente dei DS dovrebbero meditare su quello che successe allora. Gli orfani di Berlinguer che ancora oggi oscillano tra manifestazioni antimperialiste e rimpianti per il vecchio PCI dovrebbero scrostare un po’ di nostalgia e ricordare quel periodo con più freddezza.

E tutti dovrebbero impegnarsi a raccontare meglio quel periodo ai ragazzini. Senza inutili nostalgie, e senza troppe storie: la Storia di per sé, con tutti i suoi errori, è già fin troppo interessante.

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(*) Il primo fattore era la crisi dei “gruppetti” extraparlamentari, Lotta Continua, PotOp, ecc.; anche di questo varrebbe la pena di parlare, perché i gruppi avevano costituito fino a quel momento una sorta di ‘tampone’ che aveva assorbito le energie di un pubblico che diversamente avrebbe potuto indirizzarsi alla lotta armata. Qualcosa di simile per certi versi a quello che oggi fanno i movimenti: quelli che portano la gente pacificamente in piazza a Vicenza. E attenzione: periodicamente vanno in crisi anche loro.

2025, attivismo, invecchiare, sesso

– 2025

Rapporti sessuali verticali

Caro Leonardo, come va?
Come vuoi che vada.
Non mi faccio illusioni. So cosa mi sta succedendo, era previsto, era descritto. E so cosa accadrà. Nulla di buono per me, in definitiva. Non si spianeranno le rughe sulla mia fronte, non mi cresceranno i capelli; non si spegnerà il fuoco allo stomaco, né il mal di schiena; i ricordi continueranno a sbiadire e i sogni a non farsi ricordare. È solo primavera, una in più, una in meno. Non si rinasce in primavera, al limite ci si innamora, e non c’è nulla di eccezionale in qsto. Era previsto. E quando dico ‘previsto’ non mi riferisco mica a horus o barbanera, heh. È stato Arci.

Fu una delle prime volte che ci rivolgemmo la parola – già ci conoscevamo di vista, eravamo membri di un’associazione che poi confluì in un partito che si scisse in due tronconi, di cui il nostro passò in clandestinità e si federò a un’altra rete di movimenti che organizzava spesso riunioni a San Petronio, prima che la città prendesse qsto nome. Eravamo in pausa pranzo e lui mi stava spiegando che faceva nella vita.
“Ricercatore”.
“Pure tu, un’orda, siete. E che ricerchi?”
“Statistica applicata alla sociologia. Studio i rapporti sessuali verticali”.
“Ah, sì. Interessanti, anche se io preferisco…”
“No, non in quel senso. Per ‘verticale’ si intende intergenerazionale: i rapporti sessuali tra individui di generazioni diverse”.
“Mm”.
“Non fare qlla faccia. Fino a cento anni fa erano i rapporti più frequenti, anzi, a ql tempo erano i rapporti tra individui della stessa generazione a esorbitare dalla norma. Il matrimonio ‘standard’ prevedeva una differenza di 15-25 anni tra uomo e donna. Poi qlcosa è cambiato, e non è chiaro il perché”.
“La parità dei sessi…”
“La parità dei sessi è un grosso problema, da un punto di vista sociale, perché crea un conflitto in più. È chiaro che due persone della stessa età, con esperienze magari diverse, ma di cui si riconosce la pari dignità, non potranno che entrare in competizione e lottare per il predominio, fino a far scoppiare il rapporto di coppia. I matrimoni intra-generazionali, cioè tra persone della stessa generazione, durano in media 15 anni”.
“Perché, i rapporti tra vecchi e ragazzine durano di più?”
“Buffo, sì”.
“Che?”
“È un dato molto curioso, che nessuno ha interesse a divulgare, comunq sì. I matrimoni intergenerazionali sono più stabili. In pratica, accade che in coppie di qsto tipo non ci sia una vera lotta per la conquista del ruolo di capofamiglia, perché nella prima parte del rapporto esso spetta di ‘diritto’ al coniuge più anziano, mentre in seguito…”
“…il vecchio rincoglionisce e la signora prende il comando”.
“In pratica sì, ma qsto succede anche a sessi scambiati, sebbene siano casi più rari. In pratica, la lotta per il predominio viene sostituita dal normale avvicendamento biologico. Il coniuge più debole sa che un giorno sarà il più forte, e qsto rende più sopportabile la sua momentanea sudditanza. E poi c’è un aspetto fondamentale: il trapasso delle nozioni sessuali”.
“Sarebbe a dire…”
“L’educazione sessuale. Sai che è solo con la diffusione della coppia orizzontale che nasce la moderna educazione sessuale. E perché nasce? Perché un maschio e una femmina alla prima esperienza non hanno la minima idea di cosa fare e perché. Con la coppia orizzontale viene a mancare un aspetto fondamentale della conoscenza sessuale: il trapasso delle nozioni”.
“Se ho ben capito, stai dicendo che era meglio nell’Ottocento. I ragazzini imparavano educazione sessuale al casino…”
“Con professioniste più anziane di loro, esatto”.
“E poi si sposavano verginelle sedicenni e…”
“E trasmettevano in qsto modo le loro nozioni sulla pratica sessuale”.
“Lo trovo ripugnante”.
“Ma funzionava”.
“Ma che vuol dire funzionava, anche il calesse coi buoi funzionava”.
“E funziona. E non ha mai smesso di funzionare. In realtà è stato dimostrato che anche in una società orientata verso i rapporti orizzontali, l’iniziazione sessuale avviene per via verticale. Cerca di ricordare le tue prime esperienze sessuali. È probabile che tu ti sia rivolto, istintivam, a una partner più esperta di te”.
“Che mi diede picche”.
“Vedi qnt’è frustrante, ai nostri giorni? In ogni caso, per diversi anni la tua pratica sessuale è stata (mi auguro) piacevole, in quanto scoperta, processo di conoscenza. Oggi, probabilm, hai scoperto tutto ql che dovevi scoprire”.
“Ma mi diverto ancora molto”.
“Infatti sei ancora relativam giovane, per gli standard attuali. Ma è inevitabile che da qui a vent’anni inizierai a rivolgerti a partner più giovani. Trarrai piacere non più dallo scoprire, ma dall’insegnare”.
“Non credo che avrò nulla da insegnare a…”.
“Qsta è una tua valutazione razionale, di cui tra vent’anni la tua libido si fregherà altamente”.
“La mia libido”.
“Tra vent’anni ti suggerirà di instaurare rapporti di coppia verticali con ragazze di vent’anni più giovani”.
“Beh, sarà molto difficile, non lavorando io all’università”.
“Ih, ih, in effetti l’ambiente accademico è una delle poche oasi dove è possibile coltivare i rapporti verticali al giorno d’oggi. Non che siano particolarm incentivati. Ma altrove non sono nemmeno tollerati. Ed è un grande problema, perché sempre più uomini e donne tendono a cercare partner intergenerazionali. Purtroppo la società non fornisce molti luoghi adatti a intrattenere qsto tipo di relazione. E qsto è uno dei motivi per cui sono qui”.
“Qui dove? A un congresso di un movimento politico clandestino?”
“Ssst. Non dirlo in giro”.
“Vuoi dire che sei qui perché stai facendo una ricerca sul sesso nei…”
“Nei movimenti politici. È buffo, ma il secondo luogo più adatto dopo l’accademia, per i rapporti verticali, sembra essere il movimentismo politico. Avrai notato anche tu che tende a essere sempre più intergenerazionale: vai a un forum e ci trovi la diciottenne, il ventiquattrenne, la trentaseienne, il quarantacinquenne… Guardati in giro”.
Io lo feci: mi guardai in giro e vidi Concetta (che non si chiamava così) puntare dritta verso di me, con un plico di fotocopie in mano. “È una mezz’ora che ti cerco. Hai visto Defarge?”
“È senz’altro giù al bar che complotta. Ti posso presentare…”
“…dopo. Ho qui un messaggio che devo portare a Defarge subitissimamente. Ci vediamo. Un bacio. Ciao”.

Vidi che Arci si mordeva le labbra, in un’espressione che avrei imparato ad associare all’imbarazzo.
“Carina, è la tua ragazza?”
“Sì”.
“E avete più o meno la stessa età”.
“Pochi mesi di differenza, sì”.
“Complimenti”.
“Abbiamo tutte le statistiche contro, vero?”
“Ah, ma il futuro è molto incerto. E poi: sai qual è il rapporto tra le statistiche e gli individui?”
“No”.
“È un rapporto orizzontale. Le statistiche si fottono degli individui. E gli individui si fottono delle statistiche”.
“Grazie”.
“Ma di che”.

attivismo, DS, Fassino, manifestaiolismi

Fermati, Piero

(ma tu non udisti, e il tempo passava…)

Io temevo, andando a Roma sabato, di annoiarmi un po’: tanto ormai il copione della Grande Manifestazione di Primavera lo conosco, e anche voi.
Ma non mi aspettavo quello che è successo.
Per prima cosa non mi aspettavo che un milione di persone scegliesse, come me, di sottoporsi a questa routine sfibrante (e se non erano un milione, non erano comunque molti meno, e non fa veramente differenza).
E poi non mi aspettavo di restare tre ore fermo in Piazza della Repubblica, perché… il corteo non partiva. Ma perché non partiva?
Per tutto ieri ho pensato a un problema di gestione della folla. Eravamo veramente troppi. Ma non poteva essere solo questo. Oggi forse sono riuscito a capire il perché. Dal newswire di Indymedia

Il tir dei disobbedienti è stato fermo a piazza dei Cinquecento dalle 14 alle 16 (eppure all’appuntamento della manifestazione era quasi all’inizio del corteo) perchè il cordone dei Ds/Cgil messo a protezione e, soprattutto a far paura, voleva far entrare lo spezzone del “partito” e far finire in coda tutti gli altri; a questo punto “anch’io con la tessera in tasta dei Ds” sono andata a fare un cordone contrapposto al loro per far passare il tir dei disobbedienti ed l’autobus di Global Tv! Dal loro Cordone è volato qualche schiaffo ma nessuno ne parla perchè il nostro cordone è stato abbastanza responsabile da chiudure comunque via Amendola per far passare il corteo che seguiva il normale tragitto della manifestazione (senza fare i “furbi” come invece etichetta Fassino tutti gli altri!!).
Quando il cordone dei disobbedienti si è tolto perchè il loro spezzone era passato, e stavano già passando anche gli universitari, i Ds si sono inseriti alla fine del corteo. Ora se sono stati presi a parolacce e al lancio lattine o aste “di plastica” di bandiere subito dopo è una conseguenza dei fatti “da loro stessi” architettati (hanno voluto forzare la mano per dire c’ero anch’io!

Come sono andate le cose non lo sapremo mai: come in molti incidenti, credo che sia lecito ipotizzare un concorso di colpe: alcuni disobbedienti (o simili) aspettavano Fassino al varco, e Fassino è stato abbastanza impudente da mostrarsi proprio a quel varco lì. Il che spiegherebbe l’enigmatica frase riportata stamattina da Repubblica a pag. 3, “Infilarci qui è stato un azzardo fottuto”: no, non sono i Guerrieri della Notte, bensì un tizio del servizio d’ordine Diesse (ma siccome la Repubblica è un giornale moderno, e i DS sono un partito moderno, si parla di un “responsabile dei bodyguard”).

Il problema, poi, non è soltanto chi abbia menato chi, ma chi abbia provocato chi. Ed è curioso che i DS, partito di massa (almeno nelle intenzioni) con un robusto servizio d’ordine, riescano a passare per vittime sacrificali. Ne è perplesso pure Paolo Flores D’Arcais, noto estremista anarcoinsurrezionalista:

I giornali di oggi danno eguale rilievo alla manifestazione “per la pace e contro il terrorismo” e alla aggressione dei “disobbedienti” contro Fassino. Verrebbe da notare che i manifestanti erano oltre un milione e gli aggressori qualche decina. Diciamo pure un centinaio: sarebbero lo 0,01%. Un tasso di stupidità statisticamente fisiologico in qualsiasi iniziativa anche la più perfettamente riuscita. Dare alle due notizie lo stesso peso vuol dire, perciò, scambiare il giornalismo con la manipolazione propagandistica. Ma la seconda notizia – l’aggressione – era davvero tale? Perché a leggere riga per riga le cronache, mettendo a confronto quelle delle testate più diverse, si riesce ad enucleare solo questa sequenza di fatti: Fassino viene contestato esclusivamente sul piano sonoro-verbale (fischi e lazzi) dunque assolutamente nella norma. Il suo servizio d’ordine reagisce in modo eccessivo, passando ai “fatti” e spedendo a terra qualche manifestante, compresa una ragazza giovanissima. Qualche decina di minuti dopo che il segretario Ds ha abbandonato il corteo, passano inammissibilmente “ai fatti” anche alcuni isolati manifestanti, gettando qualche asta di bandiera (di plastica sottilissima) e qualche bottiglia (vuota e di plastica sottilissima, o di leggerissima “lattina”).

In queste ore ho letto diversi predicozzi ai disobbedienti: in linea di massima mi associo, non si fa così, bricconi, e insomma, ecc.

Ora però vorrei fare un discorso più in astratto. Mi sbaglio a dire che una cosa del genere può succedere soltanto in Italia, o meglio, soltanto in una manifestazione della sinistra italiana? Com’è possibile che il partito-massa (nelle intenzioni), il primo partito della sinistra, non riesca a scendere in strada in occasione di un corteo che mette insieme tutti, dalle suore agli anarchici? Possibile che sia tutta colpa di Caruso? Accidenti, però, ‘sto Caruso, che organizzazione.

Ora, il problema è che nei giorni scorsi Fassino si è comportato proprio con la supponenza che Caruso e altri gli hanno rimproverato. Si è auto-invitato, ha preteso di cambiare la piattaforma, non ce l’ha fatta, ha aderito all’aborto di contro-manifestazione indetto da Berlusconi (un piccolo tranello a cui ha smesso di credere per primo lui stesso) e alla fine ha preteso di scendere in piazza come se nulla fosse successo. Ha ragione il signore, è stato un azzardo fottuto.

Quel che butta giù è il paragone con la Spagna. Là c’è un popolo di sinistra che nel momento di crisi ha fatto quadrato intorno ai partiti della sinistra, e in particolare intorno al candidato del Psoe, Zapatero. Ora, non è che la posizione di Zapatero sulla guerra sia limpida e cristallina: via dalla guerra, sì ma non subito, anzi, restiamo ma sotto l’Onu… finché qualcuno non fa notare che l’Onu ci sarebbe già, almeno nelle intenzioni. Ma l’opinione pubblica spagnola (ed europea) è disposta a perdonare a Zapatero questa e altre confusioni: quello che importa è che Zapatero non sia un filo-Bush, e che la linea della Spagna, in un qualche modo dovrà cambiare. Il ritiro delle truppe, l’egida dell’Onu… i “se” e i “ma”… sono dettagli. Importanti quanto si vuole, ma dettagli.

E torniamo in Italia. Qui vediamo che i “se” e i “ma” diventano imprescindibili, e che Fassino, che sull’Iraq ha più o meno la stessa linea di Zapatero, non riesce neanche a fare cinquanta metri di corteo senza essere fischiato. Solo dai disobbedienti? No. Da tutti. Di chi è la colpa?

Credo che la colpa non sia in particolare di Fassino, che sconta un sacco di errori non suoi.
Credo che la colpa sia un po’ di tutti noi, che non riusciamo ad andare d’accordo, e soprattutto dei vertici dei DS. Cioè di tutti i DS, visto che si tratta di un partito che da anni, ormai, rappresenta soltanto il suo apparato.
L’aggressività, la profonda irritazione, il prurito alle mani che fanno venire i vertici dei DS in piazza, non sono un raptus collettivo, ma il risultato di una lunga storia di incomprensioni. Diciamo pure che i DS continuano a scontare l’errore di aver chiesto a tutti gli italiani di non andare a Genova il 21 luglio 2001: ma non è stato l’ultimo caso. Negli anni successivi molti elettori si sono abituati a scendere in piazza ignorando le indicazioni dei loro vertici. Ma lo scollamento data da un sacco di tempo prima. È il destino di un partito che ha rinnegato la sua vocazione (essere il grande partito della sinistra italiana) per andare in cerca di una manciata di voti al centro. Questa idea, che poteva ancora essere giustificabile qualche anno fa, non lo è più da quando a destra dei DS c’è un partito dalla fisionomia robusta e dall’identità riconoscibile: la Margherita. Ora forse i DS dovrebbero smettere di contendere i voti al loro alleato più affidabile, e cercare di rosicchiarli altrove: a sinistra. Dando un’immagine di sinistra. Votando in parlamento come deve votare un partito di sinistra. E perché non lo fanno?
Questo è il grande mistero. La prima ipotesi che mi viene in mente (che non lo facciano perché siano troppo rincoglioniti dallo pseudopotere che ricavano dalle amministrazioni locali e da un po’ di poltrone in parlamento) la rigetto, in quanto inverosimile.

Per Fassino le cose sono molto più semplici: è tutta colpa di Cossutta, Rizzo, Occhetto, Gino Strada… “Ora basta”, dice, “qualcuno dovrà cambiar registro”. Anvedi Fassino…
A Roma si fa una manifestazione di un milione di persone o quasi: il misero spezzone blindato di Fassino non riesce per ore a trovare un punto dove partire senza essere contestato, e per Fassino è tutta colpa di tre persone elette in qualche “collegio sicuro”. Dove si capisce che per Fassino il sentimento popolare non esiste proprio: è fuori dalla sua forma mentis. Per Fassino può esistere soltanto una manciata di parlamentari che sobilla la folla. Altrimenti a nessuno verrebbe in mente di fischiare un dirigente DS. Scherziamo?

Non viene nemmeno in mente, a Fassino e ai suoi, che se in Italia ci fosse un grande partito di sinistra, aggregante e non di apparato, personaggi come Cossutta, Rizzo e Occhetto non avrebbero nemmeno ragion d’essere. Perché non sono sobillatori, ma cani sciolti che fiutano il malcontento e cercano di cavalcarlo. Mostrando, almeno in questo, più fiuto dei vertici DS.

(Quanto a Occhetto, l’ho visto a Pza Repubblica e non stava sobillando: cercava disperatamente di infilare il suo striscione tra Attac e quei pirla del PMLI).

Personalmente, mi dispiace per come sono andate le cose, e mi unisco alla ferma condanna… per quel che servono i “personalmente”. Per quel che servono le “ferme condanne”. Storicamente, quando un partito di massa non riesce nemmeno a stare in piazza, ha già smesso di essere un partito: resta un cartello di professionisti che puntano a spartirsi un po’ di ministeri col portafoglio. Ne abbiamo visti tanti, tanti ancora ne vedremo. Il grande partito della sinistra italiana è tutto da fare. Se qualcuno dei DS ci si vuole mettere di buona lena, è benvenuto.

Sullo stesso argomento: Michele Marziani.

Le manifestazioni se le dovrebbero organizzare ad hoc pagando anche degli interinali per andarci… (Anonimo su Indy)

attivismo, contro l'identità, guerra, manifestaiolismi, terrorismo

La mia posizione
(se proprio vi interessa)

Ci sono momenti, come questi, in cui preferirei non averne una: guardarmi intorno, ascoltare la radio, leggere i giornali, navigare, essere libero di non avere opinioni o averle tutte. Invece ho una posizione.
Non l’ho da oggi, l’ho presa da un po’, è stato un lungo processo di avvicinamento, finché alla fine io ho trovato lei e lei ho trovato me, e adesso non mi resta che tenere la mia posizione – proprio come si fa nelle battaglie. Qualsiasi cosa succede, non ci si sposta più. Si dovrebbe strisciare, ed è comunque molto pericoloso. Indietro non si torna. E non si cambia più idea, avete notato? Conoscete qualcuno in grado di cambiare idea? Presentatemelo. A pensarci, è incredibile la coerenza che c’è in giro. Crolli il mondo – e il mondo sta crollando – noi teniamo la posizione.

Grosso modo la scena è la seguente: fautori della Guerra contro il Terrorismo e detrattori del Nuovo Imperialismo Americano. I primi rinfacciano ai secondi di essere contro la democrazia, i secondi ribattono che è tutta una messinscena per petrolio e materie prime. Gli argomenti sono questi, e tutto sommato non abbiamo più niente da dirci. Davvero. È da mesi che non ci stiamo più dicendo niente. Ci stiamo soltanto palleggiando prove di seconda mano, il detenuto di Guantanamo che mangia il bigmac contro i dossier farlocchi sulle armi di distruzione di massa. È uno spettacolo un po’ osceno, tutto sommato.

Ora, la notizia – la sapete – è che sono morte 200 persone a Madrid. Questo dovrebbe far cambiare idea a qualcuno? E a chi?
Vediamo. La notizia potrebbe far pensare ai fautori della Guerra al Terrorismo che questa guerra la stiamo perdendo, visto che a 30 mesi esatti dall’11 settembre in Europa (e in Medio Oriente, e in Afganistan) siamo meno sicuri che mai. Che forse varrebbe la pena di ricominciare da capo su basi diverse. Smettere di giocare al conflitto di civiltà come se fosse una sciocchezza che si può accendere e spegnere qua e là senza rimanere mai bruciati. Riflettere su cosa significa pretendere di esportare la democrazia senza ridistribuire la ricchezza (significa creare nazionalismi e populismi, il Novecento ce ne ha mostrati tanti). Ma un ripensamento del genere significherebbe ammettere che si ha avuto torto: strisciare, mandare a casa Bush e la sua cricca (e Berlusconi, e Aznar…) Non lo faranno mai. Terranno la posizione. Alcuni sono pagati per farlo, altri no. Solidarietà con gli ingenui, pietà per i venduti. E dall’altra parte?

Dall’altra parte ci sono anche io, e francamente non so cosa dovrei concedere. Anche perché non mi è rimasto niente. Non sono un gandhiano, ma non apprezzo lo strapotere degli Stati Uniti e del blocco occidentale in generale. Quando dopo l’11 settembre è scoppiata la Giustizia Infinita, io mi sono opposto non perché avessi simpatia per i Talebani o per Saddam Hussein – su di loro, anzi, sono disposto a credere alle storie più bieche che sono state raccontate. No. Pensavo che creare nuovi focolai di guerra non fosse un modo di risolvere il problema. Ora, non è che i fatti mi diano ragione, (di sicuro non mi danno torto). I fatti, semplicemente, hanno preso una piega diversa: George Bush ha dichiarato guerra all’Islam, contro la mia opinione. Fatti suoi, non fosse che in mezzo ci sono io, che vivo in Europa e a volte prendo il treno. Devo anche chiedere scusa? Al massimo posso ammettere di non avere, io, ricette per salvare il mondo. Miliardi di persone vivono in regimi dittatoriali come quello di Saddam Hussein, e io non so cosa farci. La mia posizione, da questo punto di vista, è molto debole. Ma è la mia posizione.

Il fatto che siamo tutti scivolati dentro queste posizioni ci fa spesso assumere atteggiamenti e dire cose che in futuro ci sembreranno riprovevoli. Tanto peggio per il futuro. Per esempio: su Nassiriya sarei portato a pensarla come Pfaall: non dovevano andare, ma adesso non possono tornare. Né gli italiani né gli americani né i polacchi o gli inglesi. Non si può disfare tutto e poi dire scusate ora ci leviamo di torno. (Grosso modo è la posizione del centrosinistra italiano). Insomma: devono tenere la posizione. Lo dice la logica, lo dice il buonsenso. Perciò stavo pensando di non partecipare alle manifestazioni del 20 marzo.

Poi ho pensato a una cosa. Che il motivo per cui tanti pacifisti sfileranno il 20 marzo, è esattamente lo stesso per cui i carabinieri dovrebbero restare a Nassiriya: tenere la posizione. Altrimenti, ci faremo tirare per la giacchetta in eterno. Come D’Alema, come Fassino, come questi dirigenti del centrosinistra che si credono di avere il coraggio degli statisti, e invece si fanno suonare come pifferi dal primo imbonitore, cabarettista e pianista da pianobar. Dire “Senza Se e Senza Ma” è un altro modo per dire, (come recita uno striscione spagnolo visto in questi giorni): “non siamo mica scemi”. Altrimenti continueremo a essere contro la guerra ma a permettere che, per motivi di buonsenso, i nostri concittadini siano impegnati su tutti i fronti del mondo. A un certo punto non si può più essere ragionevoli. Non si può più essere sfumati. Bisogna dire no e basta. Senza se, senza ma, senza buonsenso I carabinieri di Nassiriya sono andati a farsi sacrificare in una base che non poteva difenderli, anche per tutelare gli interessi della compagnia petrolifera italiana. Non si fa un torto a loro, né ai loro cari, chiedendo il ritiro immediato del contingente. Si fa semplicemente il proprio dovere di pacifisti. Questa guerra l’Italia non l’ha mai dichiarata, ma – come tante altre volte, dal Corno d’Africa in poi – pretende di farcela ingoiare un po’ alla volta, con un po’ di lacrime ogni tanto per mandarla giù. No. Non nel nostro nome. Così penso che ci andrò, il 20 marzo.

Il 18 marzo, no, non vedo proprio perché. Dovrei manifestare contro il terrorismo? Ma questo terrorismo non teme certo le nostre manifestazioni: non mira a sollevare le masse, mira ad annientarle: vederne un po’ in tv non farà che solleticare il suo appetito. (Come ai tempi della peste nera si facevano processioni religiose: forse che il contagio diminuiva?) Peraltro, non c’è nulla di male nello scendere in piazza per dire di no a qualcosa: siamo in un regime libero. Andateci voi, allora, tenete la vostra posizione. I vostri argomenti li capisco, in parte, astrattamente, potrei persino condividerli: ma il tempo delle discussioni ragionate è finito da un pezzo. Ora è il tempo degli urli, delle lacrime e dei risolini. Voi avete la vostra posizione, io la mia, la prossima settimana andremo alla conta. Non vi sembri una sfida, lo dico con molta stanchezza: vincere o perdere a questo punto non m’interessa. Forse m’interessa tenere soltanto – in maniera se possibile dignitosa – la mia posizione.

(“Ma la tua allora è una scelta identitaria!”
Temo di sì).

attivismo, Forum Mondiali, manifestaiolismi

Descrizione di una battaglia

(Bozza. Continua da ieri)

Nel saggio conclusivo Paolo Ceri afferma che i movimenti…

…sono caratterizzati dall’insolita combinazione di mobilitazione e partecipazione. Tale combinazione […] è generativa del movimento, al punto che il suo attenuarsi o squilibrarsi provoca il dissolvimento o la trasformazione del movimento in qualcosa d’altro. Se a declinare è la partecipazione spontanea (alle decisioni e alla vita associativa), il movimento si radicalizza, fino a trasformarsi in setta, oppure diviene puramente rituale. Se a venir meno è la mobilitazione, esso subisce un processo di istituzionalizzazione, fino a diventare un attore del sistema politico. Date queste differenze, si capisce come per i movimenti la posta in gioco – la scommessa – sia quella della durata che, in luogo d’essere questione di purezza ideologica, è questione d’equilibrio vitale tra una partecipazione effettiva e una mobilitazione spontanea.

Partecipazione. Mobilitazione. Altrove si parla di “concezione funzionale” e “concezione processuale”; di “azione” contro “consenso”: io mi metto subito a immaginare un gruppetto di persone che dice: “dobbiamo fare questo e quello entro la tale data”… e un altro che replica: “un attimo, chi siete voi per dirlo? Fermiamoci un attimo e ragioniamo su come deve funzionare il movimento”. Il dialogo può proseguire per molto tempo: nell’ultimo stadio il gruppo “azione” viene accusato di leaderismo, e il gruppo “consenso” di paranoia. Questa esperienza l’abbiamo vissuta in molti. Ma forse le cose sono un po’ più complesse. Ceri soggiunge: “col tempo e le risorse intellettuali necessarie, una storia sociologica dei movimenti potrebbe essere realizzata proprio ricostruendo le dinamiche e i rapporti tra mobilitazione e partecipazione”.

Questa “storia sociologica” m’interesserebbe. Posso proporre un contributo? Per me sarebbe opportuno distinguere tra Movimento del 20 luglio e del 21 luglio. Cerco di spiegarmi.

Il Movimento non ha una vera data di nascita, ma indubbiamente ha una data “di esplosione”: il 21 luglio del 2001. Genova è un big bang. Ma tutta l’energia che si disperde nell’universo nei mesi successivi, da qualche parte esisteva già. L’anno precedente una serie di associazioni di volontariato e gruppi di base (di matrice non solo cattolica) si erano messi “in rete” con Lilliput: nella primavera del 2001 molti gruppi, per lo più della sinistra post-marxista (ma non solo), si erano ritrovati a una prima assemblea preparatoria di Attac; i centri sociali erano ormai parte del paesaggio urbano da vent’anni, e negli ultimi due o tre avevano anche iniziato a far parlare di sé come centri delle nuove “tute bianche”. Semplificando al massimo, si può dire che l’obiettivo di Genova aveva fatto sì che una serie di realtà frammentate si coagulassero in due o tre sigle riconoscibili. Questo coagulo accelera proprio nei giorni di Genova: i Disobbedienti, si sa, nascono allo stadio Carlini, dall’incontro delle tute bianche del nord-est e dalla Rete no global del sud (che in un primo momento si chiamava “Rete del Sud Ribelle”). Talmente eccezionale è l’appuntamento con gli “otto grandi della terra”, che questi grandi coaguli, appena nati e quindi fragilissimi (ma anche molto entusiasti) sentono subito il bisogno di connettersi tra loro, di formare un fronte unito. Questo incontro avviene sotto il “cappello” del Genoa Social Forum, che all’inizio era semplicemente il coordinamento delle associazioni che avevano partecipato al World Forum di Porto Alegre.

Questo è più o meno lo stato dell’arte del Movimento, il 20 luglio del 2001: una varietà enorme di sigle, associazioni, gruppi e gruppetti, coagulati in tre o quattro macro-gruppi “di affinità” (il termine è di matrice anarchica, ma credo che renda bene l’idea), che dialogano tra loro (e con il resto del mondo) attraverso il Genoa Social Forum. In realtà non è un fronte così unito: è una composizione ancora fragile e magmatica. Segno di questa situazione è la scelta, mai abbastanza biasimata, di dividere le manifestazioni del 20 luglio in più “piazze tematiche”, dove i macro-gruppi (Attac, proto-disobbedienti, Lilliput, Cobas…) possono rivendicare pratiche e identità diverse. Sappiamo tutti benissimo com’è andata. Le “piazze tematiche”, separate tra loro in una città blindata, sono facili prede per l’infiltrazione e la repressione. A un certo punto il GSF dà l’ordine di “rientrare a Piazzale Kennedy”: qui la maggior parte dei manifestanti scopre cos’è successo tra Corso Torino e Piazza Alimonda. Scopre che i portavoce della sinistra istituzionale stanno invitando a non partecipare al corteo del giorno dopo. La sera del 20 luglio del 2001 il Movimento è isolato e solo. E lo stesso GSF mostra crepe abbastanza evidenti.

Il big bang avviene il mattino dopo. Il lungomare di Genova si riempie di manifestanti arrivati solo quel mattino. Sono arrivati ignorando gli inviti di partiti e sindacati. Sono venuti malgrado le scene di violenza proiettate in tv. Sono centinaia di migliaia – non tantissimi, in realtà, negli anni successivi ci abitueremo ad adunate molto più massicce: ma sono sensibilmente molti di più che il giorno prima. E la maggior parte non rientra in nessuno dei grandi macro-gruppi. È così che il 21 luglio del 2001 ci accorgiamo che Attac, Lilliput, gli stessi centri sociali, in fondo non sono che piccoli luoghi di concentrazione di un movimento molto più vasto. E che non si può più pensare al Movimento, come si era fatto ancora il giorno prima, come un insieme di piazze tematiche collegate fra loro: se non bastasse il vecchio adagio, “divided we fall”, è stata la repressione poliziesca a insegnarcelo, sulla nostra pelle.

Dal 21 luglio 2001 al settembre dello stesso anno, assistiamo a un fenomeno curioso e impressionante: in Italia nascono i Social Forum. Senza che nessuno sappia, esattamente, cosa sono e come dovrebbero funzionare. Lo stesso nome è del tutto involuto: è un calco dal “Genoa Social Forum”, che si era dato un nome inglese perché a Porto Alegre e poi a Genova aveva co-ordinato gruppi italiani ed esteri. Da semplice coordinamento di associazioni, il GSF è diventato qualcosa di più importante (e più inquietante): un archetipo, come lo definisce nel suo saggio Gian Luca Fruci.
Ma in realtà i nuovi Forum hanno poco a che vedere con l’originale GSF: sono gruppi che in molti casi nascono dal basso, dall’iniziativa di persone che non si riconoscono in nessun altra associazione di riferimento.
Nelle province dell’impero la confusione è grande. In vari centri esistevano già molti gruppi sensibili ai temi del Movimento: molti avevano partecipato a Genova, e in quei mesi stavano organizzando i primi embrioni di Attac o Lilliput. Quando arriva l’onda d’urto dei Social Forum: ovviamente gli stessi personaggi sono investiti in pieno, né possono sottrarsi dall’opportunità di farsi conoscere a un pubblico più vasto. Succede così che al Movimento “20 luglio” (quello dei macro-gruppi, delle piazze tematiche, dei centri sociali) si sovrapponga il Movimento “21 luglio”, il movimento dei “social forum”. Nella sovrapposizione è inevitabile che ci siano tensioni tra i gruppi, ma in generale sembra che tutti abbiano da guadagnare: le prime assemblee si fanno in grandi sale, si vedono un sacco di facce nuove. È un’esplosione d’interesse che prosegue anche dopo l’11 settembre, anzi: la sensazione che “nulla sarà come prima” rende tutti un po’ più attenti ai temi del Movimento. Una serie di scadenze ben definite aiuta gli attivisti a non disperdersi. Per un po’ sembra che debba nascere un Forum Sociale Italiano. Poi la tensione si allenta, e di Forum Italiano si smette di parlare.
Nei mesi successivi, la spinta propulsiva del big bang si esaurisce. Le facce nuove smettono di affollare le assemblee: i forum esistono ancora, ma sotto i forum s’intravedono sempre più evidenti i gruppi pre-esistenti. Quelli del 20 luglio. A tre anni di distanza, questo libro lo testimonia abbastanza fedelmente: su otto capitoli, uno è dedicato a Lilliput, uno ad Attac, uno ai centri sociali, uno al Commercio equo e solidale, uno agli anarchici (e al black bloc). Nel sommario riaffiora così la vecchia distinzione in piazze tematiche.

Attenzione: questo non significa che i forum non esistano più; ce ne sono ancora parecchi. Ma non sono più le adunate assembleari dell’estate 2001: in alcune città esistono ancora come tavolo di confronto tra vari gruppi (si è tornati insomma al modello 20 luglio); in altri casi sono sopravvissuti specializzandosi su alcuni temi: in pratica sono diventati anche loro “gruppi di affinità”, che si incontrano periodicamente, seguono campagne e organizzano iniziative. In pratica, hanno smesso di essere luoghi di partecipazione: sono diventati, anche loro, gruppi di mobilitazione. Del resto anche in Lilliput, dopo l’ondata costituente, gli organismi che hanno dato più prova di funzionare sono i GLT, “gruppi di lavoro tematico”: piccoli tavoli di persone interessate a uno specifico problema. In Attac mi sembra di assistere a una tendenza analoga. Quanto ai Centri Sociali, ci si chiede se in fondo non abbiano sempre lavorato così.

Se c’è una “crisi” del Movimento, insomma, è una crisi di partecipazione. Per contro, le mobilitazioni riscuotono ancora qualche successo. Ha vinto il gruppo dell’“azione”, quello che sin dall’inizio pretendeva di dettare il calendario. E come ha vinto? Per sfinimento. La democrazia è una cosa sfibrante, specie quando è partecipata. Si salva soltanto chi è particolarmente motivato, chi ha il tempo per partecipare alle riunioni infrasettimanali, chi ha la possibilità di dedicare un week-end a un’assemblea, ecc..

Io però non me la sento di biasimarli. Temo che abbiano vinto anche perché avevano ragione loro. Io ero stato tra quelli che aveva sopravvalutato il 21 luglio: pensavo che dopo il big bang nulla sarebbe stato come prima. Pensavo che dopo la sfilata sul lungomare di Genova, in Italia ci fossero almeno 300.000 persone interessate a partecipare alle decisioni del Movimento. Non era esattamente così. Il popolo del 21 luglio ha frequentato, sì, le assemblee, ma non era così interessato a partecipare ai meccanismi decisionali. In realtà veniva soprattutto a informarsi sulle successive scadenze. Dopo il 21 luglio ci sono state due Perugia-Assisi, e il 23 marzo, la grande manifestazione della CGIL. Poi c’è stato l’anniversario di Genova. Poi il Forum Sociale Europeo a Firenze. Poi la marcia contro la guerra a Roma. Il popolo del 21 luglio non si è perso un corteo. Tanto ama i bagni di folla, quanto disdegna le assemblee. Per lui tutte queste iniziative sono, essenzialmente, una forma di protesta: ieri contro la globalizzazione, oggi contro la guerra. Che il movimento potesse essere anche altro, un esperimento di democrazia, è un pensiero che l’ha appena sfiorato.

Questa forma di partecipazione ‘debole’ è ben rappresentata, secondo me, da due realtà particolari: il negozio di Commercio Equo e Solidale e il Centro Sociale. Apparentemente hanno poco in comune: di solito li immaginiamo frequentati da persone diverse. Però, guarda caso, sono due “luoghi” inseriti nel tessuto urbano, dove la gente può entrare anche se non condivide gli assunti ideologici degli organizzatori. Non c’è bisogno di essere noglobal, anarchici, sandinisti: ci si può limitare a essere clienti. Così come il Commercio Equo è un negozio alternativo, il Centro Sociale è un locale alternativo (nei casi migliori è molto di più, ma la maggior parte degli ‘utenti’ lo considera in questo modo). Si può decidere di entrare a far parte della cooperativa, o del Centro Sociale: occorrerà entrare in una rete di relazioni complesse e non sempre formalizzate, e, soprattutto, lavorare: impegnarsi, dimostrarsi degni di fiducia, assumersi delle responsabilità. Ma si può anche decidere di non fare nulla di tutto questo, di limitarsi a entrare, comprare il tè biologico o ascoltare un concerto a prezzo politico. Ecco, secondo me molto spesso la dicotomia tra mobilitazione e partecipazione ha assunto questo aspetto: da una parte una minoranza di attivisti a tempo pieno, impegnatissimi e un po’ matti; dall’altra la massa, anzi, la moltitudine dei clienti: quelli del 21 luglio. (Quante volte in mezzo a un corteo ci è sembrato di essere a un concerto).

Capita a tutti nella vita di trascorrere alcuni anni navigando a vista. Non sappiamo esattamente dove stiamo andando, e ci aggrappiamo alle scadenze. Non chiediamo più la luna, ma di arrivare alla fine del mese. E anche al Movimento, non chiediamo più una rivoluzione, ma un calendario di iniziative. E forse biasimiamo con troppa leggerezza chi si fa in quattro per offrirci le nostre occasioni mensili di mobilitazione. In ogni caso la scommessa di far convivere mobilitazione e partecipazione era persa in partenza. Non lo dico io, lo dice Ceri:

Si tratta di una scommessa che, per loro natura sociologica, i movimenti sono destinati a perdere. Si tratta di una sconfitta che, beninteso, è condizione necessaria perché il loro potenziale di modernizzazione e di rinnovamento democratico possa trasfondersi nelle istituzioni. Tutto dipende, quindi, da come e quando si compie la «sconfitta».

Il Movimento, insomma, deve morire per dare un buon frutto. Ma che frutto sarà? In cosa consiste questo “potenziale di modernizzazione”? Ceri e i suoi colleghi guardano a tutte le pratiche di democrazia partecipativa, agli esperimenti fatti in questi anni. Io non sono altrettanto sicuro. Mi guardo indietro e ho la sensazione che il maggior regalo che il Movimento farà alla società saranno le persone. Persone che in questo periodo hanno partecipato a riunioni e assemblee, hanno sbandato tra partecipazione e mobilitazione, hanno sperimentato, hanno chiesto e dato fiducia, e si sono fatte riconoscere tra i loro compagni. E domani potrebbero ritrovarsi trasfuse nella nuova classe dirigente. Non sarebbe neppure la prima volta.

Purtroppo, queste trasfusioni di solito si fanno al netto delle ideologie. La classe dirigente non ha bisogno di idee, quanto di organizzatori capaci. E il Movimento, si è visto, sta selezionando proprio queste figure: gli esperti di mobilitazione. Oggi in piazza, domani nelle stanze dei bottoni?
È una prospettiva un po’ avvilente. Ceri e i suoi colleghi sono molto più ottimisti. Il futuro darà ragione a me o a loro: è uno di quei casi in cui preferirei avere torto.

attivismo, Forum Mondiali, manifestaiolismi

Descrizione di una battaglia
(bozza)

La democrazia dei movimenti. Come decidono i Noglobal. A cura di Paolo Ceri, Rubbettino, 2003

Non so se si possa dire, dei saggi di sociologia, che “si leggono in un fiato”: fatto sta che io l’ho letto davvero in un fiato, questo saggio di sociologia: e questo vorrà dire qualche cosa. Almeno due.
La prima è che, evidentemente, si tratta di un testo molto leggibile, scorrevole e non prolisso: fatto tanto più lodevole in quanto non si tratta di un saggio solo, ma di una raccolta di piccoli saggi composti da sette autori diversi (quasi tutti giovani ricercatori), diretti da Paolo Ceri. Il risultato però è un quadro d’insieme armonico: un testo scientifico che funziona anche come opera divulgativa.
La seconda cosa è più personale. Il libro sarò anche leggibilissimo: ma se l’ho letto d’un fiato è anche perché avevo bisogno di leggerlo. Non si divorano testi scientifici per pura curiosità: qui c’era qualcosa di più. In questo libro stavo cercando qualcuno che mi raccontasse la mia Storia. Perché, non la conoscevo già? Non più di quanto non la conosca il combattente nel mezzo della battaglia. (Nessuno ti spiega quel che succede nel mezzo della battaglia: questa verità, ben nota a Fabrizio Del Dongo e alle generazioni attraversate da guerre mondiali, noi l’abbiamo scoperta solo da Genova in poi).
Quello che cercavo in questo libro era – per dirla con una parola che improvvisamente, oggi, si comincia a sentire in riunioni e assemblee – una narrazione. La riorganizzazione delle mie esperienze, frammentarie, confuse, contraddittorie, in un racconto. Possibilmente a lieto fine – ma in fondo mi contentavo di meno. Mi sarebbe bastato trovare un senso a tutto quello che era successo e che tuttora ci succede. Mi contento di poco?

C’è stato un periodo – 2001, 2002 – in cui ho partecipato a molte assemblee, riunioni, cortei, organizzati da una serie di sigle diverse, ponendomi spesso una domanda non retorica: ma il Movimento è democratico? Ce lo siamo chiesti in molti. In teoria sì: il Movimento nasceva proprio dall’esigenza di rinnovare la democrazia, di scuotere gli apparati decisionali delle istituzioni politiche, di trovare o creare nuovi luoghi di partecipazione alle decisioni. In pratica, però, in quei mesi si trattava di partecipare ad assemblee con ordini del giorno fittissimi di iniziative e contro-iniziative, e in fondo non c’era nulla da decidere: o si aderiva, o non si aderiva. Chi stilava l’ordine del giorno, chi teneva il microfono in mano (e sceglieva a chi darlo), rischiava grosso: se si metteva troppo in luce poteva essere accusato di tentato leaderismo. Accusa pesantissima. D’altro canto, non si poteva nemmeno perdere tempo a decidere un meccanismo di rotazione dei portavoce, o un metodo formale per raggiungere le decisioni; parole come “delega” e “rappresentazione” erano bandite; e soprattutto: non c’era tempo. C’erano troppe cose da fare.
(C’era, naturalmente, un “gruppo di lavoro sulla democrazia interna”, ma non riusciva mai a inserirsi all’ordine del giorno [vedi questo vecchio pezzo]).

Dopo qualche mese è diventato evidente che l’emergenza non sarebbe mai finita. Non solo perché vivevamo in tempi eccezionali – in pochi mesi Genova, l’11 settembre, la guerra in Afganistan, la Palestina… – ma soprattutto perché quest’idea dell’“emergenza”, del calendario fitto, era diventata parte integrante del nostro modo di pensare, di agire, e di rimandare il problema della democrazia. Ma non potevamo rimandarlo per sempre. E così, a un certo punto, lo abbiamo affrontato. C’è stata una lunga stagione costituente, burrascosa e incostante, che ha attraversato gran parte del Movimento: i saggi del libro documentano le fasi alterne di questa stagione della Rete di Lilliput, Attac, i Forum Sociali. In tutti e tre i casi abbiamo assistito a qualcosa di simile: i gruppi che avevano fondato e ‘organizzato’ questi movimenti (e che avevano portato avanti le iniziative nei giorni dell’emergenza) sono stati contestati. Non si contestavano le persone, né quello che avevano fatto fino a quel momento. Si contestava il solo fatto che ci fosse da qualche parte un tavolo di portavoce, un direttorio, un “governo”. Così Lilliput ha rifiutato il ruolo di coordinamento del Tavolo Intercampagne; così Attac ha vissuto una forte dialettica tra consiglio direttivo e comitati locali; così il Forum Sociale Italiano, che doveva costituirsi, non è mai nato. “Rappresentanza”, “delega”, “portavoce”, rimanevano parole tabù. Tabù era diventato anche prendere una decisione per alzata di mano. Dal saggio di Francesca Veltri scopro finalmente in cosa consistesse quel famoso “metodo del consenso” adottato da Lilliput. È un sistema piuttosto complesso che consente a un’assemblea di arrivare a decisioni comuni senza votazioni e scontri interni (grazie anche all’ausilio di assistenti neutrali, detti “facilitatori”). Pare che funzioni, ma richiede molto tempo. E del resto Lilliput sembra aver deciso di prendersi tutto il tempo che vuole (“all’interno di Lilliput sta prendendo piede l’idea di rifiutare totalmente la presa di posizioni a carattere urgente, considerate incompatibili con la specifica struttura del movimento”). Si passa così dall’emergenza infinita al rifiuto del solo concetto di emergenza. Dal calendario fitto al calendario vuoto: perché no? Ma si può ancora chiamare Movimento, qualcosa che non si dà più nessun tipo di scadenze? Si “muove” ancora?

Il grande dibattito sulla democrazia attraversò anche il nostro piccolo forum sociale. Finalmente il gruppo di lavoro sulla democrazia interna poté relazionare. Ci furono i consueti diverbi, risolti probabilmente con il metodo del consenso o qualche altra pratica sfibrante – e alla fine anche il nostro Forum ebbe il suo regolamento scritto. La sua democrazia formalizzata.
Dopodiché accadde qualcosa di un po’ inquietante: io – che mi ero sempre lamentato della mancanza di democrazia del forum – smisi per un po’ di andarci. Non mi appassionavo più.
Ma non è successo solo a me. Le assemblee hanno cominciato a svuotarsi. Attenzione: non le riunioni operative, non i banchetti nelle strade, non i cortei: le assemblee. I luoghi dove, in teoria, la democrazia avrebbe dovuto essere partecipata. E invece sembrava che nel 2002 gran parte degli attivisti fossero ancora interessati a seguire iniziative e marciare dietro striscioni, e sempre meno a partecipare alle decisioni. L’Assemblea Nazionale di Lilliput, nel gennaio 2001, mi sembra un caso tipico: per la prima volta il “Metodo del Consenso” viene utilizzato in un’assemblea su scala nazionale, e… pare proprio che funzioni! Ma funziona anche perché quell’assemblea nazionale in realtà è piuttosto ridotta: si presentano soltanto 300-400 persone. E gli altri? Ricordiamo che Lilliput non accetta il concetto di delega. O meglio: gettata dalla finestra, la “delega” viene recuperata dalla finestra col nome più rassicurante di “fiducia”. Ma è davvero un passo avanti? Non è anche un segno di stanchezza? Dopo aver rifiutato meccanismi formalizzati di rappresentanza, molti lillipuziani si sono limitati a “fidarsi” dei compagni che avevano il tempo, o la voglia, di recarsi alle assemblee. Lilliput è solo un esempio: la stessa cosa è accaduta un po’ ovunque.

Dal 2002 in poi credo che tutte le assemblee si siano, non dico svuotate, ma ‘asciugate’: dove prima c’erano trecento persone ora ce ne sono cinquanta, dove ce n’erano cinquanta ora ce ne sono dieci, ecc.. Chi è rimasto?
In molti casi sono rimasti gli uomini dello stato d’emergenza. Quelli che nella prima fase tenevano il microfono, stilavano l’ordine del giorno, si assumevano la responsabilità delle iniziative. Quelli che rischiavano di passare per verticisti, e in certi casi lo erano davvero. Quelli che in molti casi hanno assistito alla stagione costituente con una smorfia di fastidio. Ma come mai hanno resistito proprio loro? Non era finita, l’era delle emergenze? E perché loro non si sono stancati, e gli altri sì? Avrei tanto voluto che qualcuno me lo spiegasse. Anzi, no, che me lo raccontasse. (Continua)

ascesa e caduta di S. Cofferati, attivismo, riflusso, Tobin Tax

non sono ioAttaccatemi

(esame di coscienza di un attivista)

Ma che fine hanno fatto quelli del Movimento? Quelli di Genova, insomma?
Casarini, si sa, litiga con Bertinotti su violenza e non violenza, finalmente un argomento originale. Agnoletto scrive libri e risponde solo di sé stesso. E poi? Forum sociali, lilliput, che fine hanno fatto? C’è stata una crisi? (Ce ne sono state tante). C’è stato un riflusso? (Anzi, diversi). C’è stato un ritorno al privato? Non che ci fosse un granché a cui tornare. Esagero se dico che il privato si è fatto pubblico come non mai? Una volta per fare opposizione dovevi tenerti informato e andare le riunioni, adesso basta fare la spesa. E tutta questa stanchezza in giro, non crediate, è una stanchezza molto politica. Berlusconi sostiene che sto meglio, ma in effetti mi sembra di lavorare il doppio dell’anno scorso. E guadagno meno, anche se l’Istat non ci crede.
E allora che fine vuoi che abbiano fatto, quelli del Movimento. Di sicuro non sono passati alla Casa della libertà. Probabile che non si facciano vivi perché hanno un sacco d’impegni, come te e come me. Resta un vago senso di colpa e la sensazione che le cose sarebbero potute andare meglio, se. Se cosa?

Oggi a Grottammare (AP) comincia la terza assemblea nazionale di Attac Italia. Lo sapevate? Avete mai sentito parlare di Attac Italia?
Attac sta per Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e l’Aiuto ai Cittadini. È un’associazione nata da un gruppetto di studiosi francesi. In Italia arrivò proprio alla vigilia di Genova, e prese subito una via diversa. Da quel che mi è parso di capire (forse mi sbaglio), i francesi lo vedevano come una specie di think-tank anti-neo-liberista, un gruppo di pressione di intellettuali. Ma in Italia abbiamo una vocazione a volgarizzare tutto quanto, e già alla prima convocazione eravamo già in grado di riempire un palazzetto (e nessuno si conosceva). In seguito con molti ci siamo persi di vista, ma qualche palazzetto abbiamo continuato a riempirlo (memorabile Firenze, novembre 2002), e anche oggi continuiamo a essere in troppi per entrare in un think-tank.

Piccolo esame di coscienza personale: quando io sentii parlare di Attac per la prima volta, avrei potuto accorgermi che cercavano soprattutto intellettuali, ma me ne fregai. Ho preferito portare gli striscioni, fare servizio d’ordine (un’idea abbastanza balzana, se ci penso), montare banchetti, al massimo scrivere “qualche pezzo di colore”. Perché, contrariamente a quanto si crede di solito, fare l’intellettuale è faticoso. Bisogna farsi delle idee. Io invece speravo che me ne arrivasse qualcuna a buon mercato.
Di tutto l’apparato scientifico di Attac intuivo soltanto una cosa, che avevo sempre trovato sacrosanta: il mondo è un problema economico. Ergo, bisogna studiare l’economia. E mi rivedevo al liceo, mentre dicevo alla prof: non il latino, prof, la lingua che dovevate insegnarci è l’economia. Sì, bravo, però nel frattempo erano passati diversi anni, e cosa avevi fatto, Ognibene? L’avevi poi studiata, l’economia?
“Ehm, no. Mi sono laureato in lettere”.

E allora, scusa, non è senza dubbio colpa della tua prof d’italiano se sei rimasto un pirla (ora che ci penso, alla primissima assemblea di attac ci incontrai pure lei).
Attac nasceva come “Gruppo di Autoeducazione all’Azione”: bravi, bene, sottoscrivo in pieno. Io però preferivo vendere libri ai banchetti piuttosto che leggerli. Con tutto quello che c’era da fare, scusate.

La cosa paradossale è che, per quanto io sia rimasto un bell’ignorante in materia, il senno del poi ha dato ragione a me piuttosto che a un Fazio o a un Tremonti. Fazio all’inizio del 2002 sosteneva che la Tobin Tax era impossibile perché “non si possono controllare miliardi di computer”. Miliardi? Davvero il Governatore della Banca d’Italia era convinto che nel mondo ci fossero miliardi di computer, e che in tutti transitassero le transazioni finanziarie? Ok, io sono un ignorante in economia, ma Fazio sarebbe un esperto? E Tremonti che proponeva l’A-tax, cioè una tangente da devolvere a enti di beneficenza invece che allo Stato, una modo per trasformare definitivamente cose come San Patrignano in enti parastatali: ne ha più sentito parlare nessuno?
Invece si è sentito parlare di junk bond. Sapete chi è stato il primo a parlarmi di junk bond? Attac. E di dumping? Attac. E chi ha tradotto e pubblicato il primo libro italiano sui paradisi fiscali? Mi pare proprio Attac. E le migliori analisi sul WTO, per cui alla vigilia di Cancun sapevamo già che sarebbe andata male? Attac. Chi è che si è accorto dei danni che avrebbe potuto causare sulle democrazie il GATS, l’accordo multilaterale dei servizi? Non so voi, ma nel mio caso è stato Attac. Ma vedi che allora funziona, l’autoeducazione all’azione. E se è funzionata in questi anni, in cui io mi sono autoeducato al 10%, figurati se mi fossi impegnato di più. Ma perché non mi sono impegnato di più?

Attac, si sa, secondo i francesi doveva essere una cosa, ma gli italiani l’hanno trasformata in un’altra cosa: un movimento italiano di sinistra. Vogliamo dire la parola un po’ d’annata: extraparlamentare? Ora, noi non siamo più intelligenti di chi è venuto prima di noi. Al massimo ci possiamo arrampicare sulle spalle di qualcuno, ma a volte non c’è nemmeno molto su cui arrampicarsi.
La sinistra extra in Italia ha un movimento oscillatorio talmente regolare e prevedibile, che avrebbe già potuto descriverlo uno di quei maledetti studenti pisani, Galileo. Fa così: esplosione, espansione, collasso, gruppettismo, riflusso (i gruppetti vanno a sbattere l’uno contro l’altro e fanno le scintille), risucchio, implosione. E poi di nuovo: esplosione, espansione, collasso, gruppettismo, riflusso… è successo ai nostri padri e ai nostri nonni, perché non dovrebbe succedere a noi? Siamo forse più intelligenti? Io no (posso parlare solo di me, in effetti). A Genova era pieno di signori che continuavano a dire: “mi sembra di essere tornato nel 196… o nel 197…”. Nostalgie a parte, l’impressione di trovarsi in un copione già scritto era molto forte.
Era scritto che il 2001 dovesse essere un anno di grandi entusiasmi. Poi c’è stato quel famoso giorno di settembre, e di colpo in bianco ci è saltato il paradigma. Noi avevamo in mente la lotta al neoliberismo, ai potenti della terra, allo sfruttamento che oggi si chiama speculazione. Di colpo saltava fuori che il problema era l’Impero, lo scontro di civiltà, la guerra globale. Attac diceva: parliamo di economia. Il mondo rispondeva: no, parliamo di guerra. Poteva esserci gara? La guerra è infinitamente più sexy. Le bandiere ai balconi non le metti per i junk bond, anche se i junk bond ti hanno fatto più male dell’uranio impoverito. Ma il manifestante ha bisogno di forti tensioni ideali, di lottare contro l’Impero del male (proprio come Bush, in fondo: lui e Toni Negri hanno molto in comune). Lui vuole odiare gli Stati Uniti d’America. Vagli a spiegare che il vero nemico può essere, non so, il Liechtenstein.

“Perché il Liechtenstein?”
“Perché è un paradiso fiscale”.
“Ah”.

Abbiamo tenuto duro. Appena si è abbassato il polverone dell’Afganistan, abbiamo lanciato una campagna in grande stile per presentare una legge sulla Tobin Tax in parlamento. Servivano 50.000 firme: ne abbiamo raccolto più di 180.000. Firme vere, di persone fermate per strada o a un concerto, a cui veniva spiegato cos’era la Tobin Tax e a cosa sarebbe servita; firme autenticate in migliaia di comuni di tutt’Italia. Rispetto all’anno prima, avevamo imparato a conoscerci, a volte a stimarci, a volte a volerci bene. E avevamo fatto un gran lavoro.

“Ma la proposta di legge, poi, che fine ha fatto?”
“È ancora lì, in Parlamento”.
“Ma ne discuteranno un giorno?”
“Ma sì, un giorno ne discuteranno”.

Poi ci fu l’anniversario di Genova. Poi il forum di Firenze. Poi, di colpo, esistette solo l’Iraq. La gente si mise a mettere le bandiere ai balconi e il Movimento si gettò a pesce sulla nuova ondata, con l’aria di chi boccheggiava già da un pezzo. Attac cosa poteva fare? Insistere sull’aspetto economico, forse. Ribadire che l’Impero è sì un impero, ma è pur sempre un’entità neoliberista (ma sarà vero?) L’economia è la grande assente della vulgata neocon. Per loro c’è solo la democrazia, una cosa che un giorno si pianta e un altro giorno, improvvisamente, cresce. Ci credono veramente, o è solo un modo per occultare ancora e sempre i rapporti di proprietà? È difficile entrare nelle loro menti (in quella di George W Bush, soprattutto). Ma è difficile anche cercare di appiccicare l’economia a qualsiasi problema. Alla fine l’unica cosa che ti viene da dire è: Lo fate per il petrolio. Che è probabilmente vero, ma è anche una banalità. Ma anche noi siamo persone banali, a volte. Non siamo mica intellettuali. Ci manca il tempo e ci è mancata la pazienza.

Mentre i liberatori cannoneggiavano Bagdad c’è stato un altro brutto episodio, che oggi si tende a dimenticare: il referendum sull’articolo 18. Una campagna a perdere, fatta anche con l’intento di dividere un po’ di sinistra e di emarginare il Sig. Cofferati: cosa che è puntualmente avvenuta. Dopodiché, di articolo 18 non ha parlato più nessuno. Ma molti, non si sa perché, si sono guastati in bocca. Guardacaso gli storici litigi, le furenti lettere di dimissione, le polemiche, etc… sono accaduti proprio nei mesi successivi. Se vi devo dire chi ha iniziato e perché, non me lo ricordo, e neanche me lo voglio ricordare. Viste da un attivista lontano tutti questi distinguo sembravano solo un momento dell’eterno oscillare galileiano: collasso, riflusso, scazzi interni per questioni personali, risucchio, flop.
In controluce, la minaccia dei “professionisti della politica”: quelli che mentre tu sgobbi tramano alle spalle, e poi quando non ne poi più e senti il richiamo del privato, si aggrappano al posto di comando e non lo lasciano più. Ma le cose sono davvero così? Non sarà, semplicemente, che certe persone hanno più capacità di altre, più flessibilità di altre, più idee di altre (anche perché magari hanno più esperienza di altre)? Ma la meritocrazia è proprio vietata? E non è un po’ colpa nostra, se a un certo punto ci siamo sentiti stanchi e abbiamo iniziato a delegare? Quanto abbiamo odiato questa parola, delegare. Ma credevamo davvero di poterne fare a meno?

La questione è aperta. Tutte le questioni sono aperte. E nei tempi lunghi saremo tutti morti, lo so perché lo ha detto un economista. Ma nel frattempo, non è una consolazione sapere di avere avuto ragione su Parmalat, su Cirio, sulla speculazione finanziaria, sul WTO? No. No, perché tutto quello che è successo io l’ho capito al 10%. Perché non ho studiato. Me lo diceva sempre la prof, sì, Ognibene, tu sei bravino, però studia. E io niente. Ma da domani…

Guardo l’orologio. Oggi è già domani. Sei ore alla sveglia. E poi dieci ore. Dieci. Come se fosse normale. È la mia vita. È così. Non riuscirò mai a studiare, è inutile.
Poi ci ripenso. Se non riesco a studiare, è perché devo lavorare. Una volta si chiamava alienazione. Ed è un problema esistenziale ed economico. Se togli la mia esistenza, che interessa solo a me, ti resta solo il problema economico. L’associazione che cerca di interpretare il mondo come un problema economico è Attac. È la mia associazione. Domani vado a Grottammare.