dialoghi, racconti, Renzi, Roma

Perdere Roma per vincere cosa

“Ciao Leonardo”.
“Ciao, scusami”.
“Di cosa?”
“Insomma, ti piombo così in casa senza preavviso e…”
“Ma figurati, è anche casa tua”.
“Ma hai capito chi sono io?”
“Certo”.
“Io sono te”.
“Quel taglio non ti dona”.
“Non capisci… io non sono semplicemente una copia di te stesso, io…”
“Tu vieni dal futuro”.
“Da cosa lo hai capito?”
“Sei più brutto”.
“Mi dispiace”.
“Ma figurati, è colpa mia. Dovrei cominciare una dieta sul serio, uno di questi giorni”.
“Lo dici sempre”.
“Già”.
“Senti, avrei tante cose da dirti su di noi, ma il tempo stringe, in tutti i sensi, e non è questo il motivo per cui sono qua. Se ho calcolato bene dovrebbe essere…”
“Diciotto giugno 2016”.
“Sta per avvenire la singolarità. Tra poche ore avverrà qualcosa che avrà un effetto…”
“…catastrofico sulla storia dell’umanità?”
“Come hai fatto a capire?”
“Di solito i viaggi nel tempo si fanno per motivi importanti”.
“Non ti ricordavo tanto sveglio”.
“Mi hai sempre sottostimato”.
“Forse. Senti, nel mio presente siamo disperati. Le speranze di cambiare qualcosa sono minime, pure bisogna tentare in ogni modo. Tra poche ore a Roma…”
“…si apriranno i seggi per il ballottaggio”.
“Già…”
“E vincerà la Raggi”.
“Ma la vuoi piantare? Sono io quello dal futuro”.
“Hai ragione, scusa, il fatto è che…”
“Lo sai che sei insopportabile? Te l’hanno mai detto che sei insopportabile?”
“In tanti, ma se lo dici tu è diverso”.
“Dunque. Cosa stavo dicendo. Vincerà la Raggi, con un largo margine, e questo avrà ripercussioni fatali”.
“Bene. Cioè, no, male”.
“Vuoi tirare a indovinare queste ripercussioni?”
“Beh, immagino che la città, governata da un pugno di incapaci eterodiretti, andrà al collasso”.
“Proprio così”.
“Salvo che è già al collasso, cioè, non credo che uno si metta a collaudare i viaggi nel tempo per dirmi che il traffico sulla Prenestina…”
“Un’epidemia di peste ti può bastare?”
“Ecchecazzo, la peste?”
“Ora non ricordo bene, ma credo che già ai tuoi tempi si chiacchierasse del fatto che c’erano parecchi topi, laggiù”.
“E quindi insomma alla fine il Movimento Cinque Stelle è crollato?”
“Il che?”
“Il Movimento Cinque Stelle, quello che governava Roma…”
“Ah già, me l’ero praticamente dimenticato. Nessuno ne parla più”.
“E Renzi?”
“Renzi guida un esecutivo di emergenza con poteri speciali”.
“Insomma, perdere a Roma è stato davvero un investimento”.
“Non scherzare, per favore. Centinaia di migliaia di morti”.
“Poi ha vinto le elezioni, immagino”.
“Non… non si fanno più”.
“Non si fanno più?”
“Un plebiscito ogni tanto”.
“Ahi”.
“E in più la peste”.
“Ok, insomma, ho chiaro il messaggio, il me del futuro dice che bisogna votare Giachetti passaparola”.
“Siamo disperati”.
“Sì, sì, certo”.
“Non ti sento molto empatico”.
“Hai ragione, scusa, è che… come faccio a spiegarti senza turbare il continuum spazio-tempo…”
“Guarda che sono io quello dal futuro”.
“Lo so”.
“Sono io che turbo il continuum”.
“Lo so, però vedi… è appena stato qui il mio io del futuro”.
“Eh? Sono io il tuo io del futuro”.
“Di un altro futuro”.
“Stai scherzando?”
“È per questo che non sono affatto sconvolto, vedi… tu sei già il secondo, oggi, comincio a farci l’abitudine. Lui veniva dal futuro in cui io e te a questo punto ci facevamo un selfie, poi un video, li mettevamo su fb, si attivava un passaparola pazzesco e alla fine Giachetti vinceva le elezioni”.
“Fantastico!”
“Con poteri speciali per sterminare i topi”.
“Quindi ha funzionato!”
“Anche troppo”.
“In che senso?”
“Un mix di veleno per roditori filtrerà nelle condutture idriche e renderà l’urbe inabitabile”.
“Perché adesso che cos’è?”
“Non scherzare. È una cosa seria. Miliardi di danni. Migliaia di morti”.
“Sempre meglio della peste”.
“Pare di no, visto che hanno deciso di inventare la macchina del tempo e a mandare il me stesso del futuro ad avvisarmi, un’ora e mezza prima che arrivassi tu”.
“Aspetta. Aspetta. Qualcosa non va”.
“Lo dici a me? Mi state facendo perdere un pomeriggio. E a me Roma neanche piace”.
“Io non dovrei essere qui”.
“Cioè bella, per carità. Ma non ci vivrei”.
“Concentrati. Se tu davvero hai ricevuto una visita da quel me stesso del futuro… il futuro è cambiato”.
“Già”.
“Giachetti ha vinto le elezioni e io… non dovrei essere qui”.
“In effetti quell’altro non era sicurissimo che saresti arrivato. Nel suo futuro i cronoviaggi sono una cosa nuovissima, non si è ancora capito come funzionano”.
“Anche nel mio”.
“Dunque tu arrivi da una linea temporale che in teoria non esiste più, perché è stata cambiata”.
“Appunto”.
“Ma forse non è affatto cambiata. Forse alla fine ha vinto la Raggi”.
“E allora non sarebbe dovuto arrivare quell’altro”.
“Infatti a un certo punto si è dissolto e… scusa, chiamano al citofono”.
“Chi è?”
“Perdio, no”.
“Un altro di noi?”
“Dice che bisogna assolutamente evitare che al ballottaggio vinca la Meloni”.
“La Meloni?”
“Deve aver sbagliato linea temporale”.
“Eh, diglielo”.
“Parlagli tu che sei più esperto… ma senti, ma proprio me dovete venire a disturbare, tutti quanti? Dovreste pure saperlo che giugno è un casino”.
“Ssst, non capisco cosa sta dicendo quell’altro”.
“Ci sono gli esami, gli invalsi, mi ha appena chiamato il Caf che c’è da riaprire la dichiarazione dei redditi, e adesso pure cambiare il futuro. Non posso fare tutto io sempre”.
“Vuoi star zitto? Sembra che abbiamo fatto un casino”.
“Voi lo avete fatto. Io oggi non ho combinato niente”.
“Ancora no, ma… senti, se ho ben capito quel che sta succendendo ora io mi dissolverò”.
“Meno male”.
“E sarò sostituito da una versione di me che ha le istruzioni per trapiantare un nuovo cuore a Berlusconi”.
“Che c’entra Berlusconi, adesso?”
“Pare che in una linea temporale fino a qualche tempo fa abbastanza improbabile, Berlusconi sia l’unico in grado di sconfiggere la tirannide di un Renzi-re-dei-topi geneticamente modificato”.
“Ah, ok, sto sognando”.
“Mi sento mancare… concentrati, ti prego”.
“Dimmi almeno chi ha vinto l’europeo”.
“L’Ibernia”.
“La che?”
“Forse abbiamo sottovalutato l’effetto papillone”.
“Intendi l’effetto farfalla?”
“Cos’è una farfalla?”
“Ora mi sveglio”.

lavoro, racconti

Non andremo in pensione a 75 anni (e lo sappiamo)

Con tutto il rispetto per il presidente Boeri, sappiamo tutti che non andrà così. Non andremo in pensione a 75 anni. 

Oddio, qualcuno ce la farà. Qualche stakanovista, qualche assenteista – buffo come gli estremi si incontrino. Ma la maggior parte di noi non andrà in pensione a 75 anni, e lo sappiamo. Voglio dire, basta guardarsi attorno.

Vedete molti colleghi di 74 anni?

E allora lo avete capito anche voi. Non ci succederà di andare in pensione a 75.

Cosa ci succederà?

Continuate pure a guardarvi attorno. Prima o poi bisogna cominciare. È fastidioso, è proprio questo il punto. Malattie, congedi, prepensionamenti, a parlarne sembra quasi che tu abbia poca voglia di lavorare. Ed è proprio in quel momento che arriva la mazzata.

C’è qualcosa che non va.

Fai più fatica ad alzarti, ti addormenti prima. C’è un dolorino che non passa. Un po’ di pelle si desquama. Ma soprattutto c’è un bambino nel cervello che continua a ripeterti che non è niente, non è niente, puoi farcela, sei immortale. È quello che ti frega, in molti casi. Coi dolorini puoi venirci a patti, negoziare paci separate. Ma quel bambino prima o poi ti fa commettere un’imprudenza. Esci senza sciarpa. Oppure fuori piove ma fanculo, prendo la bici lo stesso.

Ti rompi un femore, resti a casa.

Ne approfitti per riposare, perché diciamocelo, negli ultimi tempi eri un po’ esaurito. Torni dopo un mese e senti qualcuno che mormora. Te la sei presa comoda, hanno dovuto sostituirti, certo, è stato un incidente, però anche tu, in bici alla tua età, non hai giudizio. I colleghi ti guardano strano – cioè, strano. Ti guardano. Prima non ci facevi caso.

Il capo deve farti un discorso.

Con la tua assenza hai fatto perdere tempo a tutti, per cui adesso ci si aspetterebbe da te un po’ più di impegno. Oppure, se proprio non ce la fai…

Come sarebbe a dire che non ce la fai? È il tuo mestiere, hai dovuto fermarti per un incidente, ma…

Ma non sei più produttivo come prima.

Ma stanno scherzando? stai facendo esattamente quello che facevo prima! (il bambino nella testa è molto incazzato)

Si vede che non basta più. Mettiamola così. Prima dell’incidente davi un certo affidamento. Nel meccanismo generale eri un pezzo magari un po’ usurato, non abbastanza perché qualcuno si desse la pena per immaginare come sostituirti. Poi è successo qualcosa. Hai cominciato a sanguinare. Lo sai cosa succede intorno a te quando cominci a sanguinare?

C’è gente che ha fame.

Sono giovani.

Tu sanguini.

È stato solo un incidente!

Il bambino nella tua testa ha paura. Forse non sei così immortale dopotutto.
Ti guardi intorno. Di chi ti puoi fidare? Bisogna anche stare attenti a non diventare paranoici. Dovrai lavorare un po’ di più e fargliela vedere. Peccato che

non ce la fai a lavorare di più.

Dieci anni fa, magari, ma adesso no. La famiglia si è presa i suoi tempi, e anche la salute reclama i suoi. Se tiri troppo una corda si spezza – tutte queste corde, poi, neanche le vedevi fino a qualche anno fa. E adesso devi calibrare tutto al centimetro. Se prendi un permesso per una visita medica, qualcuno mormorerà. Se smetti un’abitudine per risparmiare il tempo e il denaro, poi sarai nervoso per mesi e mesi. Litigherai con qualcuno che a tempo debito te la farà pagare. Insomma è dura e dopo un po’ – senza neanche accorgertene, sei a casa di nuovo. Malattia.

Si sta bene a casa in fondo.

Certo, a voler pensare a quel che ti aspetta quando torni, i colleghi che ti odiano, il capo che ti vuole fuori dai piedi… però non è che ci devi pensare per forza. Sei malato. Devi concentrarti su te stesso.

Quando torni, non li guardi neanche più. Separare gli amici dagli ipocriti è già troppa fatica. Ti vogliono fuori dai piedi? Devono avere almeno il coraggio di dirtelo.

Nel frattempo ti hanno cambiato posto. Sembra che qualcuno si sia messo d’impegno ad affidarti tutti quei progetti che nessun altro voleva. Nessuna volontà punitiva, ti spiegano. È solo che tu non c’eri e gli altri si sono presi lo spazio. Ma se riesci a resistere fino alle ferie… ah, e poi devo dirti che non puoi sempre andare in bagno alle dieci. La gente mormora.

La gente cosa? È da quando lavori qui che vai in bagno alle dieci. È un tuo diritto! E anche se non lo fosse, è il tuo corpo. Non puoi sostituire quella parte del corpo che ha bisogno di andare in bagno alle dieci. Ma insomma è mobbing questo? Ti stanno mobbizzando?

Ma no.

È solo che sanguini.

E loro hanno fame.

Va bene. Però in pensione non puoi ancora andarci. Se ci vai adesso, prendi una miseria.

Il capo ti vuole parlare.

Quel progetto lì, è andato da schifo. I clienti si sono lamentati.

Certo che è andato da schifo. Tanto per cominciare non era tuo, te l’hanno appioppato quando sei tornato dalla convalescenza. Grazie alla tua esperienza hai ridotto i danni, ma –

C’è un reclamo scritto.

Lo sa che non è obbligato a lavorare con noi, vero? e lo sa che non siamo obbligati a tenerla.

Allora, questa è una porcheria. Una grossa porcheria. Non hai fatto niente di male. Hai lavorato più di tanti altri qui dentro. Ti vogliono punire soltanto perché…

Dillo.

Stai invecchiando?

Puoi stringere i denti e andare avanti. Ma per quanto? Dieci anni? Cinque? L’hai capito almeno che il tempo non è una linea retta? Potresti ammalarti sul serio. Forse sei già ammalato sul serio. Una cosa è certa.

A 75 anni non ci arrivi.

Vabbe’, che posso dirti, a me stavi simpatico. Mi dispiace per come ti hanno trattato i colleghi, e anche il capo, davvero – non farmelo dire. Fortuna che queste cose a me non succedono. Sai che non vado mai in mutua io. Certe volte sono andato al lavoro con trentasette e sette. Anche adesso, la mattina prendo la bicicletta, anche se piove –

La grande gara di spunti, nazismo, racconti

L’impatto ambientale del nazismo, e altre tesi interessanti

Estat ai en greu cossirier 
per un cavallier q’ai agut, 
e voill sia totz temps saubut 
cum eu l’ai amat a sobrier…

L’incubo iniziò un paio d’anni fa. Mi sentivo così giovane e cinico. Stavo cercando di vincere una borsa di studio con un progetto che mi sembrava geniale: una proiezione distopica su un’Europa nazista di fine XX secolo. Hitler aveva vinto, ma ormai era solo un ricordo. Quello che invece non era più nemmeno un ricordo, era la storia dei popoli che aveva sterminato. Ebrei, Rom, Sinti, scomparsi da tutti i documenti. Una cosa del genere era fattibile, da un punto di vista tecnico?

Mi ero tappato in casa per tre mesi, mi ero fatto sbloccare l’accesso a paper dimenticati di oscure facoltà della bassa Sassonia e della Cisgiordania. E un radioso mattino d’aprile ero andato a presentare il progetto al professor Arci. Avevo riempito la borsa di scartoffie più o meno pleonastiche, per darmi un tono – in realtà il grosso dei documenti era on line, ma non era escluso che il professore volesse dare un’occhiata.

Non volle.

(Questo pezzo potrebbe essere considerato persino offensivo se non partecipasse, come fa, alla Grande Gara degli Spunti! – prosegue la traccia di Nessuno si ricorda dei Catari Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

“Molto interessante”, disse, con l’aria di chi guarda per la terza volta il film delle vacanze del cognato. “Ma se vuole approfondire l’argomento, c’è un lavoro che potrebbe esserle d’aiuto… credo sia dietro di lei”.

Mi stava indicando una pila di tomi sulla mensola di fronte a lui. Una tesi in tre volumi. Il titolo sulla costa: L’EUROPA NAZISTA NEL 2000: UN’IPOTESI ECOLOGICA, mi colpì come un gancio allo stomaco. Soffocai un gemito a stento.

“È un lavoro molto serio, l’abbiamo discusso lo scorso semestre”.
“Cioè in pratica la mia idea… è già stata presa”.
“Beh, sì, come tutte le idee del resto. Non faccia quella faccia. E comunque no, ora che ci penso non è proprio la stessa idea, l’autore si soffermava soprattutto sull’impatto ambientale del nazismo. L’idea centrale è: se avessero vinto, i nazisti avrebbero distrutto il loro habitat naturale più o meno di quanto abbiamo fatto noi? In altre parole: dal punto di vista della natura, chi avrebbe dovuto vincere la guerra? Una domanda molto cinica, ma anche molto interessante”.

Ogni volta che diceva “interessante”, sembrava perdere qualche anno di vita. In uno dei WC del dipartimento c’era una sua caricatura che fissava lo scarico. Era impossibile pisciare senza leggere ogni volta la nuvoletta che diceva: “molto interessante”.

“E la risposta?”
“Mah”.
“La risposta è Mah?”
“Certo, che si aspettava?”
“Un sì o un no”.
“Capisco. Ma un Mah è già parecchio, considerata la domanda. Lei pensa sul serio che un dottorando possa sostenere una tesi in cui dice: sì, l’impatto ambientale del nazismo sarebbe stato inferiore a quello dell’American Way of Life, dal momento che prevedeva la reintroduzione della schiavitù e una classe media di dimensioni assai più ristrette e dallo stile di vita più spartano? Meno automobili, meno bistecche, meno campi da golf, meno monossido di carbonio…”
“Ma le autostrade tedesche…”
“Ottima obiezione. Hitler partì dalle autostrade. Ed era culo e camicia con gli industriali. Per cui in effetti forse l’Europa nazista si sarebbe motorizzata peggio della nostra, va’ a sapere. Quindi la migliore risposta al nostro interrogativo è: mah. Invece la tesi che dovrebbe consultare è di un paio di anni fa, la trova due mensole più in alto”.

(STORIA DELL’EUROPA SENZA EBREI: UN’IPOTESI DISTOPICA).

“Un lavoro mirabile”, continuò. “L’autore ha finto, con indubbio cinismo, di essere uno storico nazista alle prese col problema di cancellare le tracce di presenza ebraica in Europa dal Rinascimento in poi. Se n’è uscito con un paio di soluzioni veramente brillanti. Non credo che un nazista vero ne avrebbe trovate di migliori”.
“Questa è… è esattamente la tesi che volevo scrivere io”.
“Ma no, non esattamente. Lei ha menzionato anche i Rom e i Sinti, se non erro”.
“Sì, ma…”
“E la consiglio di aggiungere anche qualche altro dettaglio, che so, gli affetti da sindrome di Down. I nazisti avrebbero fatto perdere ogni traccia della loro esistenza, ci rifletta”.
“Ma in generale non è che abbiamo tantissime tracce della loro esistenza, nei secoli precedenti”.
“Già. E comunque se ricordo bene una tesi del genere l’abbiamo discussa tre anni fa…”
“È sulla mensola più in alto?”
“No, no. Ma non si abbatta così. Pensava sul serio di avere avuto un’idea originale sul nazismo? Tutti vogliono fare i nazisti alla sua età. È una gara a chi è più cinico. Immagino che funzioni con le ragazze”.
“Io ero soprattutto affascinato dall’idea che la Storia si possa riscrivere”.
“Già, beh, ripartiamo da qui. Potremmo invertire i fattori. Immaginiamo per una volta che la guerra l’abbiano vinta gli Alleati…”
“Professore…”
“Lo so. È esattamente quello che è successo. Ma immaginiamo che ne abbiano profittato per cancellare qualche genocidio, proprio come avrebbero fatto i nazi”.
“Un genocidio? Ma chi avrebbero dovuto massacrare, scusi”.
“Ovviamente non lo sappiamo. È un popolo completamente cancellato dalla nostra Storia. Le sembra assurdo?”
“Sì, abbastanza assurdo”.
“Ma mi stava per proporre una tesi in cui i nazisti facevano la stessa cosa”.
“Beh, ma i nazisti…”
“Non erano superuomini. Non avevano basi sul lato oscuro della luna. Vuole essere cinico davvero? Immagini che i nemici dei nazisti siano stronzi quanto loro. Che la storia dei genocidi l’abbiano iniziata loro, prima del Quaranta. Trovi qualche popolo svanito nelle pieghe della Storia, che so, i Circassi”.
“I circassi sono stati massacrati dallo Zar”.
“Ah davvero? Va bene, s’inventi un popolo. Gli iperborei. Una minoranza etnica da qualche parte in Europa”.

La strana filastrocca di mia nonna mi tornò in mente in quell’esatto momento.

“Gli occitani”.
“Perché no? Salvo il piccolo particolare che esistono ancora, e quindi non possono essere stati sterminati”.
“Quelli che esistono ancora hanno rimosso. Sono stati sterminati i loro… i loro nemici di sempre”.
“Questo è interessante”.

Lo disse con un tono completamente diverso.

“Gli occitani di fede catara”, continuai.
“A quelli ha pensato l’Inquisizione, no? Nel tredicesimo secolo”.
“Questo è quello che ci hanno fatto credere”.
“Ecco. Questo è davvero interessante”.
“In realtà erano sopravvissuti. In alcune roccheforti tra le Alpi e i Pirenei”.
“E poi?”
“E poi… la Guerra dei Cent’Anni”.
“Saranno stati dalla parte degli inglesi”.
“E poi con gli ugonotti”.
“In realtà una buona parte di quelli che chiamiamo “ugonotti” erano Catari”.
“E la Rivoluzione francese?”
“Erano girondini ovviamente. Ma in Vandea esagerarono”.
“C’è una tesi sull’argomento che posso consultare?”
“No, che io sappia. Nessuno dei miei studenti mi ha mai proposto una tesi del genere”.
“Dovrebbe proporgliela”.
“Già, sarebbe finalmente qualcosa di diverso”,
“Di interessante”.
“Ci pensi su. La vedrei volentieri la prossima settimana”.
“Non sapevo che ricevesse anche la prossima settimana”.
“Non lo sa nessuno. E se lo tenga per lei”.

Il mio incubo iniziò così.

…ara vei q’ieu sui trahida 
car eu non li donei m’amor, 
don ai estat en gran error 
en lieig e qand sui vestida

Se vuoi proseguire in questo futuro distopico in cui i nazisti hanno perso contro nemici persino più stronzi di loro, assumitene le responsabilità e vota per L’impatto ambientale del nazismo, che oggi si batte ai quarti contro quella schifezza zombovegetariana. Puoi cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o scrivere nei commenti che questo pezzo ti è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
La grande gara di spunti, racconti

Il telecomando di Yasir

I primi sospetti Yasir li aveva avuti a fine maggio, quando i compagni di quarta fila avevano cominciato a presentarsi al mattino in classe con una strana espressione svagata e dolce. Per qualche giorno aveva temuto che si fumassero qualcosa; soprattutto che si fumassero qualcosa senza fargliela provare. Ma no: arrivavano alla spicciolata, quasi tutti col fiatone per un autobus perso o una volata in bicicletta: capelli arruffati e occhi semichiusi, non del tutto rassegnati alla luce di un sole già parecchio alto. Alla fine Yasir aveva capito: sognavano il ritorno.
Il primo a confessare era stato Taverniti : la ***** della sorella lo aveva interrotto nel bel mezzo di un ***** di sogno di mare, ma non un mare del ***** qualunque come ne avete anche voi nei vostri buchi *******, no: si trattava di uno specifico litorale calabrese che Taverniti riusciva a sognare meglio che al cinema, con l’odore della brezza e persino il ruvido degli scogli sotto i piedi, ******* di una ****** e ******! Ché se li sentiva ancora sotto le suole!
“Ma se non fate un po’ di silenzio laggiù… Taverniti!”
“Sipprof?”
“Taverniti, tu hai un’idea benché minima di ciò di cui stiamo parlando?”
“…”
“E tu invece di che parlavi?”
“Calabria, prof”.
“Calabria, interessante. Capoluogo?”
“…”
“Vedi, Taverniti? Tu riesci a prendere un quattro anche sulle cose che t’interessano”.

Taverniti in realtà non ignorava il nome e l’ubicazione del capoluogo calabro (Catanzaro), ma neppure sotto tortura lo avrebbe riconosciuto, a causa delle fiere origini reggine; in ogni caso il racconto del suo sogno aveva infranto l’omertà. La mattina dopo Qu Ti aveva dettagliato la sua accurata ispezione onirica al Grande Mercato dove lavoravano i nonni, e dove anche lui avrebbe preso servizio per le vacanze: una distesa di bancarelle grandi come una città, con odori e sapori accessibili solo in sogno qui, sull’altra faccia del terra. A questo punto Amir aveva ammesso un volo di ricognizione notturna sull’intera Tunisia. Il solito esagerato, ma Yasir queste cose le capiva.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti (è uno sviluppo di Non si esce vivi dalla scuola media). Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Anche a lui, qualche anno prima, era capitato di svegliarsi con un indefinibile sapore sotto la lingua. Ma adesso non riusciva a sognare più niente di familiare. Da quando suo fratello, che occupava il letto superiore al suo, aveva cominciato ad agitarsi nel sonno; o forse non era effettivamente sonno, in ogni caso quando finalmente Yasir riusciva ad addormentarsi, cadeva in una tenebra di piombo che al mattino non gli lasciava più nulla.

Ma forse, con un po’ d’impegno. Yasir aveva cercato di pensare intensamente al suo Paese, mentre si strofinava sul cuscino; ricordi non gliene mancavano, per esempio; i vecchi amici del cortile, gli occhi neri di Fahmida… a quel punto però il pensiero deviava immediatamente sulla foto ricordo del matrimonio che era arrivata tre mesi prima per posta, e questo non era più un ricordo. Per esempio, il tizio cicciottello in un ridicolo vestito blu che aveva sposato Fahmida nei suoi ricordi non c’era, essendo venuto giù dalla Germania apposta, per ripartire il mese successivo; ed ecco che Yasir si era già messo a riflettere sulla Germania, ottanta milioni di abitanti capitale federale Berlino, e dovrebbe farci più freddo di qui, e chissà se Fahmida le sapeva queste cose sulla Germania prima di trasferircisi? Forse avrei dovuto dirglielo un giorno, mentre giocavano a nasconderci tra gli ulivi: lo sai che la Germania è una fredda repubblica federale con capitale Berlino?

“Piantala di muoverti. Non riesco a prender sonno”.
“Sei tu che ti muovi”.
“Io ho smesso due minuti fa. Adesso sei tu”.

E insomma non era un’ingiustizia, che tutti riuscissero a sognare le vacanze e lui no? Con tutti i suoi sforzi, i sogni non lo portavano più in là del check-in all’aeroporto. A quel punto lo assaliva una tremenda necessità di pisciare, e quindi chiedeva alla madre che lo aspettassero, che ci avrebbe messo un minuto, un minuto appena, ma si sa come vanno a finire queste cose nei sogni. Appiccicato alla tazza del gabinetto c’era un insetto, che per quanto Yasir cercasse di indirizzare il getto non andava via. Quando finalmente usciva dal bagno, la famiglia non c’era più, e l’aereo era in partenza. Yasir si metteva a correre per tutto il lounge, incerto se cercare la famiglia o l’aeroplano, ormai sicuro in cuor suo che avrebbe fatto perdere le vacanze a tutta la famiglia…

“Ma la vuoi piantare! Sono le due! Sei un maiale!”
“Stavo facendo un brutto sogno”.
“Chiamiamoli così”.

Yasir aveva sempre saputo di non poter pretendere chissaché: in famiglia secondogenito, a scuola extracomunitario, un po’ disgrafico e allergico al pelo di cane. Non aveva mai preteso di dettar legge a nessuno. Mai aveva trattenuto per sé il telecomando, perché uno solo era il satellite, e scegliere i programmi non spettava certo a lui. Tutto questo era nell’ordine delle cose – ma almeno i sogni erano suoi, non li divideva con nessuno; quindi perché non ne poteva scegliersi almeno quelli? Chi gli aveva nascosto il telecomando, e perché?

“Amir”.
“Dormi”.
“Amir, tu sogni mai di tornare a casa?”
“Sì, certo”.
“E come fai?”
“Come faccio cosa?”
“Come fai a sognare proprio quel sogno?”
“Non so come faccio, mi viene e basta”.
“A me non viene più”.
“E cosa sogni? La biondina della tua classe?”
“No”.
“Meno male, la devo sognare io. Dormi”.

Non importa su cosa lo si interrogasse, Amir era in grado di far entrare le ragazze in qualsiasi risposta. Yasir era spaventato da questo. Pensava: succederà anche a me?

Per ora le uniche donne che riusciva a sognare erano professoresse che lo interrogavano. Spesso era la Zenobia, che nei sogni dava più quattro che dal vero. Con altre le cose andavano meglio. Certe interrogazioni in inglese o in geografia erano anzi prodigiose, Yasir sentiva la lingua sciogliersi e pronunciava lunghi e saggi discorsi con parole che non aveva mai conosciuto, e che purtroppo dimenticava appena sveglio. Ma era bello sentirsi sapiente. A volte le professoresse iniziavano a fargli domande insidiose e personali: dove abiti? Come va con la famiglia? Ti fa sempre impazzire Amir? Ti piace la tua classe? C’è qualcosa che possiamo fare per te? Nel frattempo la classe era scomparsa, restavano solo lui e la prof in un ambiente più raccolto che forse era lo sgabuzzino dei bidelli al primo piano. Yasir non avrebbe saputo spiegare quanto questi sogni lo commuovessero. Poi però arrivava a scuola e rischiava di salutare una prof con troppa familiarità: e questa, ignara di aver assistito a una sua lunga confessione notturna, gli affibbiava note sul registro difficili da contestualizzare.

Per fortuna in famiglia avevano ben altri problemi. L’estate era vicina, sarebbe stata la più calda del secolo, e papà ancora non aveva comprato i biglietti dell’aereo. Non è prudente, diceva, c’è la guerra. La madre friggeva: quale guerra? Non c’è nessuna guerra.

“Non ne parlano, ma c’è”.
“Ci sarà qualche bomba ogni tanto, e allora?”
“Qualche bomba ogni tanto? Ti senti? Dovrei spendere tremila euro di biglietti per portare la mia famiglia in un posto dove tirano qualche bomba ogni tanto?”
Al che la madre ribatteva i tremila euro sarebbero stati a malapena ottocento se papà avesse pensato a prenotarli per tempo, e che erano tutte scuse, la guerra, le bombe: lui non voleva tornare al Paese perché non aveva il coraggio di affrontare la questione dell’eredità, il fratello che aveva approfittato della loro assenza per intestarsi l’intera proprietà, e inoltre –
“Una volta per tutte: mio fratello si può tenere tutte le proprietà che vuole! Di sicuro non faccio un viaggio di trentamila chilometri per reclamare due pollai”.
“Perché sei un debole, aveva ragione tua madre quando mi diceva che… ma si può sapere chi c’è in bagno? Yasir, sei tu?”
“Amir, forse”.
“Amir! Sei dentro da un’ora, stai male?”

Amir passava la notte ad agitarsi sul letto, e il giorno fuori e dentro il bagno, e secondo la mamma il ritorno al Paese gli avrebbe fatto bene. C’entrava forse anche un fidanzamento, ma su questo il padre era categorico: se voleva frequentare una ragazza, che se la cercasse in Italia, avrebbe avuto tutta l’estate.

In quindici anni di permanenza in Italia, Yasir non aveva mai visto suo fratello scambiare due parole con un individuo di sesso femminile, nemmeno una barista o la panettiera: e con tutta la sua più sfrenata fantasia non riusciva a immaginarselo nel ruolo di corteggiatore. Difficilmente l’estate in città avrebbe migliorato le cose. Perciò era normale che sognasse il favoloso oriente, dove le bambine s’innamorano di te a distanza, non devi parlargli, tu un bel giorno arrivi lì e sono già lì sotto il velo, pronte ad amarti per tutta la vita, questa è civiltà.

Poi le togli il velo ed è una chiatta coi baffi, hai presente la moglie di Khan?

Se trovi che questa roba abbia un senso, almeno un po’ più senso di una finta saga young adult su una ragazza che incontra uno zombie, non esitare a votare per Il telecomando di YasirPuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l’attenzione e arrivederci al prossimo spunto.

futurismi, La grande gara di spunti, racconti, repliche

Il chiar di luna colpisce ancora

“Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.” L’alcova di acciaio, 1921 (1).

“Professor Modena, voi ritenete che esista un argomento inappellabile contro la possibilità di viaggiare nel tempo, non è vero? ”

Angelo Modena riprese fiato e tornò a fissare il suo interlocutore nella penombra del salotto. Le mani dell’uomo aderivano ai braccioli della poltrona come se ne fossero un’estensione naturale. Sembrava aver preso forma in quella stessa posizione, pochi minuti prima, mentre in cucina il professore preparava un caffè.
Una pioggia opaca sbatteva granuli di piombo sulla parete-finestra, affacciata sulla laguna. La tangenziale di Venezia era da qualche parte oltre lo smog. Più in fondo lampeggiava il faro per i dirigibili in cima all’orribile grattacielo Sant’Elia, appena inaugurato e già annerito da un catrame che sembrava secolare.

(Questo è un racconto di qualche anno fa, ambientato in un passato alternativo non molto diverso da quello di Il chiar di luna non passerà! Tutto questo partecipa ovviamente alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

“Non sono un’allucinazione, professor Modena. Sono perfettamente reale e potrà toccarmi, se lo desidera. Ma la prego, risponda alla mia domanda. Qual è la miglior prova del fatto che i viaggi nel tempo non siano possibili?”
“Stamattina ho scritto un appunto”.
“Sul vostro diario, certamente, eccolo qui”. L’interlocutore estrasse da una tasca esterna un taccuino ingiallito, oscenamente logoro. “Tre febbraio 1929. Ho ritrovato una vecchia edizione di un grande amore della mia gioventù, La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Oggi come ieri mi sbalordisce l’intuizione del tempo come quarta dimensione. L’idea del viaggio nel tempo è una delle più originali mai concepite, anche se purtroppo impraticabile al di fuori della finzione narrativa. D’altro canto è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“Chi vi ha dato il permesso di frugare tra i miei appunti?”
“Il vostro diario è come sempre nel cassetto dello scrittoio. E non ricordo dove voi teniate la chiave. Stavo dicendo: è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“…non abbiamo mai avuto visite dal futuro”.
“Molto brillante, professor Modena. È vero. Se il viaggio nel tempo fosse praticabile, noi riceveremmo senz’altro visite degli uomini dal futuro. Ma questa – se posso farle un’obiezione – non è una vera prova contro il viaggio nel tempo. Al limite è un indizio. E forse non ha valutato altre ipotesi”.
“Quali ipotesi?”
“Viaggiare nel tempo potrebbe essere molto complesso. E pericoloso. I viaggiatori nel tempo potrebbero essere costretti a nascondersi per evitare alterazioni nei rapporti di causalità, mi segue? Essi proverrebbero da un futuro che consegue dal nostro presente, ma palesandosi per viaggiatori nel tempo altererebbero questo stesso presente, generando nuove catene di cause ed effetti che potrebbero mettere a rischio la loro stessa esistenza, non so se riesco a spiegarmi”.
“Potrebbero uccidere un loro antenato”.
“Per esempio”.
“O sé stessi”.
“Non deve veramente preoccuparsi di questo”.
“Si verrebbe a creare una specie di…”
“Noi lo chiamiamo paradosso”.
“Voi del futuro, mi è lecito immaginare”.
“Proprio così, professor Angelo Modena. Il viaggio nel tempo è possibile, voi stesso lo dimostrerete tra sette anni. Ne serviranno altri tre per le verifiche sperimentali, dopodiché…”
“Questo spiega le rughe e la calvizie, professor Angelo Modena. Deve aver lavorato molto nei prossimi dieci anni”.
L’interlocutore sospirò. “Mi dispiace. Mi rendo conto di essere un’immagine perturbante per lei. Ne ho discusso a lungo coi miei collaboratori. Abbiamo vagliato diversi scenari, ma alla fine abbiamo convenuto che nulla sarebbe stato più convincente di vedere una copia invecchiata di sé stesso…”
“Sulla mia poltrona, come il cattivo demone di Stavroghin. Potevo avere un infarto! E voi sareste morto con me”.
“Questo non sarebbe stato possibile. E infatti non è successo, come vede. Abbiamo un cuore di ferro, io e voi. E possiamo concederci un dito di cognac, la bottiglia che nascondete dietro all’attestato della Corporazione Futurista Israelita”.
“Quella ve la ricordate”.
“La memoria funziona in un modo davvero curioso, lo sto sperimentando”.
“Spiegatemi però meglio questo punto”, continuò il Modena meno anziano, mentre strappava l’etichetta fiammante dei futur-monopoli dal tappo del liquore. “Io inventerò la macchina del tempo – a proposito, dov’è?”
“È restata nel mio tempo. Non è un veicolo come quella di Wells – pensate piuttosto a una specie di cannone. E a me come a un proiettile umano”.
“Ma questo significa che…”
“Non posso tornare nel 1949, no. Almeno finché non ne costruiamo un altro”.
“Voi mi avete appena spiegato che il viaggio nel tempo è possibile. E mi avete convinto. Questo avrà senz’altro cambiato il rapporto di causa-effetto che vi ha portato nel 1949 a farvi sparare qui col cannone”.
“Certamente. Il 1949 non è più quello da cui sono partito. La mia sola partenza lo ha già modificato per sempre”.
“Eppure voi continuate a esistere, e a ricordarvi quel 1949, che è giocoforza diverso dal 1949 che io vivrò. Per dire, se io ora prendessi un coltello dalla cucina e mi praticassi un taglio…”
“Non comparirebbe sul mio corpo nessuna cicatrice, no. Non sono più soggetto ai rapporti di causa-effetto che ho contribuito a modificare”.
“Ne è sicuro?”
“Ragionevolmente sicuro. Ci abbiamo messo molto tempo, e abbiamo spedito molti oggetti e cavie nel passato per misurare gli effetti. Vedete, viaggiare nel tempo significa precisamente sottrarsi dai rapporti di causa-effetto. Viaggiando, ho modificato il mio presente dal mio punto di osservazione, restando però uguale a me stesso, e continuando a conservare gli stessi ricordi di un tempo che non esiste, e rughe scavate da esperienze che non esistono più. In effetti non sono io il viaggiatore, io rimango fermo. È il continuum causa-effetto che si modifica intorno a me, riuscite a capirmi?”
“Forse. È curioso che continuiamo a darci del voi”.
“Non riesco a farne a meno”.
“Nemmeno io. Ma dev’essere successo qualcosa di orribile, immagino”.
“Come avete fatto a…”
“Per venirmi a trovare avete distrutto venti anni di esperienze. Voi non lo fareste… io non lo farei mai, a meno che non fossi costretto da ragioni estreme. Ho ragione?”
“Ovviamente”.
“È successo qualcosa a Isacco?”
“Vostro figlio sta benissimo. Nel 1949 che ho lasciato era il vostro collaboratore più prezioso. Nel nuovo 1949 naturalmente le cose potrebbero essere diverse, ma c’è ben altro in gioco”.
“Non riesco a immaginare nulla di più…”
“L’umanità, professore. La stessa vita sulla terra. Nel futuro da cui provengo vi sono state altre due spaventose guerre mondiali, e la quarta è alle porte. Lo stesso progresso tecnico-scientifico che ha reso possibile il mio viaggio, ha trasformato i conflitti in spaventose carneficine. Intere città possono essere distrutte in pochi secondi, grazie a bombe di spaventoso potenziale attivate su razzi comandati a distanza. I gas venefici sono stati sostituiti da agenti batteriologici in grado di contagiare milioni di persone. Gli abitanti autoctoni dell’Africa nera sono stati scientificamente sterminati. Di decine di milioni di cinesi si ignora il destino – non sono mai esistiti. La stessa Europa è una polveriera radioattiva…”
“E tutto questo dipende da me?”
“Tutto questo dipende dalla Guida – lo chiamate ancora così nel 1929, se non sbaglio. Il primo Ardito, l’Audace, Il Volante della Nuova Italia. In seguito rivaluterà l’impero Romano e prenderà il titolo di Duce, ne apprezzerà la sintesi. Ma in sostanza è sempre lui”.
“Filippo Tommaso Marinetti. È ancora al potere?”
“È durato molto più di tanti papi e imperatori del passato che disprezza. Ha saputo sbarazzarsi con destrezza dei rivali più pericolosi. Lo si è già visto, no? Nel modo in cui liquidò i Savoia e riuscì a emarginare D’Annunzio dopo la Corsa su Roma”.
“Sapete, questo mi stupisce molto. Detto tra noi, non l’ho mai ritenuto un uomo particolarmente prudente”.
“Lo so. Ci sbagliavamo sul suo conto. O forse non è la prudenza che mantiene un uomo in una posizione del genere. Da un certo momento in poi, per lui si è trattato di correre o cadere. E ha corso molto. Il suo sogno di svecchiare l’Italia poteva realizzarsi soltanto con una politica aggressiva su tutti i fronti, e così è ridiventato il vecchio guerrafondaio degli anni Dieci – se lo ricorda?”
“A quei tempi era solo un artista. Abbastanza mediocre, a voi posso dirlo”.
“Era già un buon organizzatore, con un gusto spiccato per il paradosso”.
“Sì, ma quando uno va al governo e poi Venezia la asfalta davvero…” (2)
“Nel mio 1949 Porto Marghera è la capitale tecnicoindustriale d’Europa. La messa in vendita dei patrimoni artistici del passato (3) ha fornito la spinta necessaria a un’evoluzione senza precedenti, attirando nei nostri laboratori gli scienziati più visionari e spregiudicati del Vecchio e del Nuovo Mondo. È il secondo Rinascimento italiano, quello tecnico e scientifico. Conoscete Enrico Fermi”.
“Un bravo ragazzo”.
“Tra quattro anni la sua équipe scinderà per la prima volta il nucleo di un atomo di uranio”.
“È a questo che stanno lavorando?”
“Non ancora. La guerra civile in Germania accelererà di molto le cose. Anche Albert Einstein si fermerà da noi per un po’”.
“Quindi ci sarà una guerra civile in Germania”.
“I gotico-nazionalisti prenderanno per qualche mese il controllo della Baviera. A Berlino il cancelliere Gropius accuserà il partito della Tradizione di aver incendiato il Reichstag”.
“Quel tizio non ha l’aria di un assassino”.
“Il potere corrompe, specialmente quando comincia a traballare. Lo aiuteremo noi, e i cubosovietici naturalmente. Lui e Majakovskij si spartiranno anche la Polonia. Noi ci accontenteremo di avere campo libero nei Balcani e in Africa. Vendicheremo Adua con le armi batteriologiche”.
“Adua? Per quale motivo al mondo…”
“L’uranio. È inutile essere la nazione più progredita, se mancano le materie prime. È una bizzarria della storia che Marinetti si adopererà a correggere. La Repubblica Futurista Italiana diventerà l’Impero Futurista Mediterraneo e Africano. E il nostro “duce” perderà completamente la testa. Nel tentativo di giustificare il massacro di intere popolazioni, svilupperà un’ideologia sempre più razzista. Lo scandalo internazionale ci porterà alla seconda guerra mondiale contro gli inglesi e i francesi”.
“Gli ultimi da cui prendere lezioni in fatto di umanità coloniale”.
“L’antico amore di Marinetti per la Francia la salverà dai bombardamenti più atroci. Brazzaville, nel Congo francese, e York, saranno letteralmente spazzate via dalle prime bombe nucleari che verranno messe a punto qui, tra quindici anni, dai migliori alunni di Fermi”.
“Bombe nucleari?”
“L’arma spaventosa che garantirà a noi e ai nostri alleati – razionalisti tedeschi, cubosovietici russi, industrialisti giapponesi – la superiorità militare per quasi un decennio. La Francia capitolerà, Le Corbusier sarà messo a capo di un governo collaborazionista…”
“Mi faccia immaginare, sventrerà i fauburg per costruire grattacieli”.
“Sarà inevitabile. L’Inghilterra negozierà una tregua che metterà tutto il continente africano a nostra disposizione. Credetemi quando vi dico che il ricordo dei vecchi soprusi coloniali sbiadirà di fronte alla crudeltà dei giovani cresciuti alla scuola del futurismo politico italiano. Le popolazioni negroidi verranno usate per testare nuove armi batteriologiche. Giapponesi e cubosovietici faranno la stessa cosa coi cinesi. E nel 1941 l’attacco nipponico a una base americana nel Pacifico darà inizio alla terza guerra mondiale: inglesi e americani contro le tecnocrazie di Europa e Asia”.
“Il capitale contro la tecnologia…”
“Sarà più complicato di così: gli inglesi riusciranno a salvare la loro isola dalle incursioni dei nostri bombardieri, grazie a un’arma segreta difensiva. E a partire dal 1944 anche gli americani avranno sviluppato la bomba atomica. Dopo l’armistizio comincerà una lunga corsa agli armamenti. Già verso il 1950 il potenziale accumulato negli arsenali dei paesi europei e in USA sarà sufficiente a porre fine alla vita sulla Terra”.
“Ed è tutta responsabilità di Marinetti? Mi state dicendo questo?”
“È più complicato, è sempre più complicato di così. Non si tratta di responsabilità, ma di una variabile cruciale di una complessa formula causa-effetto… nel vostro 1929 non esiste nemmeno la matematica necessaria per dimostrarvi quello che vi sto spiegando. Dovete fidarvi di me – è il motivo per cui abbiamo deciso di inviare me stesso, l’unica persona che vi può chiedere un simile atto di fede. Anni di calcoli ed esperimenti ci portano a concludere che sia Marinetti la chiave di volta delle catastrofi scoppiate in Europa a partire dagli anni Trenta del secolo XX. Senza il suo esempio cruciale, nessuna avanguardia artistica si sarebbe tramutata in partito politico. Gropius e Le Corbusier sarebbero rimasti architetti, Majakovskij un poeta inquieto. Dovete credermi quando vi dico che le artecrazie europee si sono rivelate la forma di governo più crudele della storia dell’umanità. Abbiamo formulato ipotesi anche su questo – la componente narcisistica che era fortissima nelle avanguardie storiche, una volta trasferita sul piano politico, ha propiziato massacri di intere popolazioni, di intere classi sociali”.
“E quindi, lasciatemi indovinare, io dovrei cercare di avvicinarmi al Primo Ardito d’Italia e traforargli le cervella con un revolver?”
“Sarebbe inutile. Probabilmente un attentato del genere fallirebbe, oppure lo spazio occupato da Marinetti verrebbe riempito da qualcuno molto simile a lui. In anni di esperimenti abbiamo capito che i rapporti di causa-effetto hanno una certa rigidità. La Storia si può entro certi limiti cambiare, ma non si può prendere di petto. È come cercare di spezzare un diamante con un temperino. Io sono riuscito a prendere forma in questo salotto, oggi pomeriggio, perché le modifiche che il mio lancio ha compiuto sulla Storia sono ancora molto contenute. E un lancio ancora più lungo è tecnicamente impossibile”.
“Quindi non possiamo soffocare il piccolo Marinetti nella sua culla, o impedire ai genitori di conoscersi”.
“Non funzionerebbe, no. Ma ora che sono qui, posso effettuare ulteriori modifiche”.
“Devo nascondervi?”
“Tutt’altro. Deve denunciare subito la mia presenza al ministero dell’innovazione scientifica. Il fatto che io sia qui, e che possa collaborare da subito con voi, ci permetterà di sviluppare la tecnologia dei viaggi del tempo con 10 anni d’anticipo. Fingeremo di lavorare a maggior gloria della Repubblica Futurista. Ma con il prossimo lancio dobbiamo riuscire a raggiungere il 1919”.
“Piazza San Sepolcro? Vuole tirare una bomba a mano sul palco?”
“Voi non sapete quanto mi piacerebbe. Ma no, i calcoli escludono che una mossa del genere sia possibile. Mi toccherà un ruolo più imbarazzante. Dovrò contattare una signorina di 21 anni, Benedetta Cappa. Avrete senz’altro sentito parlare di lei”.
“Una poetessa, mi pare. Una delle innumerevoli amichette del Primo Ardito”.
“È molto di più. Tra qualche anno denuncerà le violenze d’Abissinia e sarà espulsa dal partito futurista. Sarà una della principali organizzatrici dell’opposizione clandestina, e l’ispiratrice e finanziatrice delle nostre ricerche. In effetti il piano che sto eseguendo è in gran parte opera sua. In questa busta, che vedete, c’è una lunga memoria che la signora Cappa del mio 1949 ha scritto alla sé stessa di trent’anni prima. Io dovrò assicurarmi che la legga, e che accetti col suo sacrificio di salvare il mondo dal baratro”.
“Che tipo di sacrificio?”
“Dovrà fidanzarsi e sposare Marinetti”.
“Questo è ridicolo”.
“Purtroppo non posso mostrarvi le equazioni che lo dimostrano…”
“Il Primo Ardito conquistato da una ragazzina? Si ricorda cosa scriveva nei suoi manifesti? Il disprezzo della donna, eccetera? Non si sposerà mai”.
“Non è mai riuscito a trovare quella giusta. Una proiezione della madre, ovviamente. Leggete il polpettone futuristico che scrisse nel ’09, Mafarka, si chiamava. Un libro profetico, anche se di rara goffaggine. Tra qualche anno sarà introvabile. La Cappa è la donna che più si è avvicinata al suo ideale – ma si sono incontrati troppo tardi, quando la discesa nell’agone politico era ormai irrevocabile. Eppure è mancato poco – avevano già avuto un breve incontro nel 1918. La Cappa era una ragazzina, e quel reduce donnaiolo le faceva paura. Dovrò convincerla ad accettare le sue avances”.
“Avete ragione, sarà molto imbarazzante”.
“La memoria della Cappa cinquantenne la ragguaglierà su come soggiogare il suo seduttore. Il momento cruciale è l’autunno del 1919. Non so se ve lo ricordate, ma le prime elezioni a cui partecipò Marinetti furono un fiasco solenne. Fu arrestato la notte stessa per detenzione d’armi da fuoco. Passò una settimana in cella, era deluso e spaventato (4). Credeva che i bolscevichi avrebbero vinto. Quello è il momento in cui la signorina Cappa deve andarlo a visitare (5). C’è una finestra nel continuum causa-effetto che possiamo sfruttare. Cambieremo la Storia con un colpo preciso, come il tagliatore di diamanti che sa dove deve incidere per ottenere una sfaccettatura perfetta. Non siete convinto”.
“No”.
“Nessuno vi conosce quanto me. Siete già un uomo fuori dal tempo – positivista per formazione, e socialista per ideologia. Voi non accordate molta importanza al ruolo dell’individuo nella Storia. Credete che al posto di Marinetti vi sarà qualcuno come lui”.
“Sono in errore?”
“Vi mancano gli elementi per capire il vostro errore. Nel vostro 1929 la Storia è ancora una scienza umana, un’arte più che una scienza vera e propria. Nel mio 1949 è una disciplina scientifica rigorosa quanto la chimica o l’astrofisica. Ci sono eventi irripetibili – noi le chiamiamo “singolarità”. Uno di questi è l’avvento al potere di un artista d’avanguardia, Filippo Tommaso Marinetti. Un evento fortuito, verificatosi per un esilissima catena di circostanze, che avrà effetti a catena catastrofici. Non possiamo fare nulla per sciogliere le catene, ma se riusciamo a risalire al 1919 ci basterà un bigliettino profumato per salvare l’Italia dall’infamia e il mondo dalla guerra”.
“Chi prenderà il suo posto? Ignoro del tutto le vostre formule, ma so che l’Italia era alla vigilia di una rivoluzione. D’Annunzio?”
“Non ha nessuna chance, dopo Fiume è soltanto una presenza decorativa. Nessuno fa davvero affidamento su di lui. Abbiamo diversi scenari, tutti migliori di quello in cui Marinetti prende il potere. Per esempio… Si ricorda come si chiamava il movimento fondato a Piazza San Sepolcro?”
“I fasci futuristi, mi pare”.
“Fasci di combattimento. Il futurismo non era ancora la corrente egemone. C’era una forte componente socialista rivoluzionaria. Si ricorda di Benito Mussolini?”
“Il giornalista? È a Parigi coi Rosselli, mi pare”.
“Era lui il capo, a San Sepolcro”.
“Ma veramente?”
“La propaganda futurista sta già modificando la memoria collettiva. Ma controllate sui giornali del tempo. Mussolini verrà messo in minoranza soltanto al congresso del 1920, e poi cadrà in disgrazia. Il fidanzamento con Benedetta Cappa può modificare la situazione”.
“Niente più Corsa su Roma?”
“La organizzerà Mussolini. E otterrà l’incarico dal Re. È una persona molto più pragmatica di Marinetti; altrettanto ambiziosa, ma senza il narcisismo dell’artista. Non congiurerà contro la Corte; dovrebbe riuscire nell’obiettivo di pacificare socialisti e popolari”.
“Lo odiavano entrambi. I socialisti, soprattutto”.
“Vecchi rancori, li seppelliranno”.
“Ci sono delle equazioni che lo dimostrano, immagino”.
“Nulla è dimostrabile al 100%. Comunque è difficile immaginare uno scenario peggiore di quello dell’ascesa al potere di Marinetti. Ed è altamente probabilità che senza il suo esempio anche i cubofuturisti non riescano a liquidare Giuseppe Stalin. Quest’ultimo avvierà una politica di industrializzazione molto meno aggressiva – non massacrerà i contadini, è di estrazione contadina lui stesso. La repubblica di Weimar salderà il suo debito di guerra e grazie agli investimenti americani già verso la fine degli anni Venti sarà la prima potenza industriale d’Europa. Ovviamente ci saranno ancora guerre, e scenari al di là delle nostre possibilità di calcolo: ma l’incubo futurista sarà spazzato via prima ancora di prendere forma. Di Marinetti ci ricorderemo soltanto come di un artista mattoide che dopo la Grande Guerra mise giudizio e si sposò”.
“E Venezia?”
L’anziano professor Modena fissò negli occhi il sé stesso di venti anni prima, e sorrise. Per un attimo l’illusione di specchiarsi fu perfetta. “Venezia non sarà mai asfaltata. A nessun altro verrà in mente un progetto così folle”.
“Non me lo può garantire al cento per cento…”
“Al novantasei virgola quindici”.
“Mi basta e mi avanza”.
(Filippo Tommaso Marinetti e Benedetta Cappa si sposarono nel 1923. Il professor Angelo Modena non ha mai scritto il suo appunto sulla Macchina del Tempo di Wells. È morto a Birkenau nel 1944).

Se a differenza del professore hai una voglia matta di vedere Venezia asfaltata, approva con futuristico vigore lo spunto che oggi se la gioca contro Redenzione. Tutto quello che ti si chiede è mettere Mi piace su facebook, o esprimervi nei commenti. Grazie per l’attenzione e arrivederci al prossimo spunto.

La grande gara di spunti, racconti

La pace separata

“Ci sto ragionando sopra da qualche tempo, Prandini, e adesso vorrei discuterne con te”.

Prandini non poteva impedirsi di provare una certa deferenza nei confronti del vecchio. Quanti anni aveva? Per i ragazzi della Brigata esisteva da sempre, ed era sempre stato lì. Prandini se lo ricordava un po’ meno grigio, ai tempi della Stella. Era sopravvissuto a tutti i suoi compagni, così raccontava Prandini. Mentiva: una buona metà della Stella era passata dalla parte dei valligiani, in seguito a certi eventi confusi che era meglio ignorassero.

“Io ormai sono fuori dai giochi”, continuò il vecchio. “Hanno smesso di cercarmi”.
“Hai firmato la tua pace separata”.
Il vecchio corrugò la fronte, forse non aveva capito l’espressione. Oppure non gli piaceva.
“Sono un pensionato ormai. Hai mai pensato alla pensione, Prandini?”
“Da giovane”.
“Quando io me ne sarò andato – e non ho fretta, ma potrebbe succedere uno qualsiasi di questi giorni – tu sarai il più vecchio della montagna, lo sai?”
“Amen”.

(Questo pezzo prosegue lo spunto dei Banditi della montagna, e ovviamente partecipa alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 


“Ti ho osservato in questi anni. Hai fatto un buon lavoro coi ragazzi”.
“Grazie”.
“Prima di incontrarti erano una banda di monelli in gita. Non avevano speranza, nessuna”.
“Mentre adesso”.
“Quindi capisco la tua ritrosia ad abbandonarli”.

Fu il turno di Prandini di aggrottare la fronte.

“…ma prima o poi deve accadere. Proprio perché hanno imparato tanto da te, non hanno più bisogno come un tempo. Tra un po’ sarai un peso per loro”.
“Un peso”.
“Sei ingombrante. Hai sgozzato il figlio di un valligiano, ci sarà ovviamente un rastrellamento, e la colpa ricadrà su di te”.
“Non potevo fare diversamente”.
“Non ti sto giudicando. Ti sto dicendo come andranno le cose. Saliranno con l’artiglieria, faranno baccano per settimane”.
“Non lo troveranno mai”.
“È importante? Cominceranno a battere la montagna, dovrete ritirarvi dietro il crinale e perderete il raccolto. Ci saranno conflitti a fuoco, morti feriti e prigionieri e tutte queste stronzate che a una certa età, Prandini, stancano. Sul serio non sei stanco?”
“Io e te siamo diversi”.

Il vecchio chinò il capo di scatto, aveva capito l’insinuazione.

“Io non ti giudico, e mi piacerebbe che tu non giudicassi me”.
Ti piacerebbe.
“Ho fatto delle scelte discutibili”, continuò il vecchio, fissandosi le scarpe lacere, “che se avessi avuto più tempo per riflettere…”
“È così che è andata al passo del lupo? Li hai venduti perché eri stanco?”
“Oh oh”, il vecchio cercò di sorridere. Senza incisivi non gli riusciva molto bene. “Che parola che hai usato. Che brutta parola. È quel che pensi di me?”
“È quel che ho sentito dire”.
“Non ho venduto nessuno. Li ho salvati. Metà di loro non avrebbero passato l’inverno. A quel tempo coi valligiani si poteva ancora ragionare”.
“Spiegami il ragionamento”.
“Un accordo orale, un patto tra… come si dice?”
“Gentiluomini”.
“Grazie. Non avremmo cambiato bandiera. Ci chiedevano di mantenere un presidio sul passo, e di far transitare i loro convogli di notte, con discrezione. Impedendo a qualche altra formazione di prendere il nostro posto. Mantova ovviamente non era d’accordo”.
“L’hai ammazzato tu?”
“Ha importanza?”
“Curiosità”.
“Ha veramente importanza chi ha fatto fuori quella testa di cazzo che non chiedeva altro che morire in qualche sparatoria inutile? Cercava la gloria, è stato accontentato. Io volevo soltanto che la mia famiglia mi sopravvivesse. Anche tu avevi una famiglia, mi pare”.
“L’avevo”.

Se tutto questo per qualche motivo non ti dispiace, è l’ora di votare per La pace separata, che se la gioca contro CarcassonnePuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l’attenzione e arrivederci al prossimo spunto.

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Concentrati, Sirio

Tutti i compagni di studio di Sirio conoscevano la storia del video di Ghent, per averlo studiato in Sociologia Uno o Diritto Civile, e per averlo visto innumerevoli volte alla tv o su internet, spesso utilizzato come filmato di repertorio. Per popolarità e pervasività se la giocava col filmino di Zapruder che documentava l’attentato a Kennedy, o le riprese di qualche allunaggio, forse l’adunata di Norimberga. A differenza di tutti questi documenti, il video di Ghent non esibiva personaggi storici, bensì un ragazzo, (D.T.) di bell’aspetto, visibilmente contrariato per un’erezione che non arriva malgrado le sollecitudini della partner, di cui nella prima versione si vedevano soltanto le mani. Si sentiva però la sua voce, molto vicina alla videocamera, ripetere la parola concentrati, con una sfumatura ironica che a molti sfuggiva (a Sirio no).

Benché nel video originale la parola concentrati non si udisse più di tre volte, alcune manipolazioni successive l’avevano trasformata in un mantra. Dieci anni dopo la pubblicazione del video, era ancora impossibile coniugare in pubblico il verbo “concentrarsi” senza stimolare negli ascoltatori un’associazione col video – e con le disfunzioni erettili in generale. I vocabolari raccomandavano di usare sinonimi. Sirio ricordava benissimo quando aveva iniziato ad alzare le mani sui compagni che gli dicevano concentrati. Seconda elementare.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! È uno sviluppo di La prima volta si fa davanti a tuttiSe vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Tutti i coetanei di Sirio avevano studiato di come l’eccezionalità del video di Ghent, in un primo momento, fosse consistita in questo: era il primo esempio documentato di revenge porn al femminile. I genitori del ragazzo D.T., oltre a chiederne il sequestro (un gesto inutile, ma dall’alto valore simbolico), avevano denunciato la 17enne Cassiopea Ree. Sostenevano che lo avesse pubblicato per punire D.T. di averla lasciata. Tutti i compagni di Sirio sapevano più o meno com’era andata a finire: durante il dibattimento i legali di Cassopea avevano dimostrato che

1. Il video era stato girato e condiviso da due persone consenzienti (una delle quali, D.T., aveva già compiuto la maggiore età), le quali non potevano non essere consapevoli del rischio che correvano.

2. Se Cassiopea era effettivamente stata la prima a far circolare un frammento del video, non aveva agito per ritorsione o ricatto, ma per reazione a una minaccia di D.T., che in seguito a uno screzio le aveva annunciato di volerne pubblicare un’altra versione. Cassiopea lo aveva semplicemente battuto in velocità. Si era trattato di autodifesa.

A questo punto i legali dei genitori avevano chiesto che fosse divulgato il video nella sua interezza, ai fini di “contestualizzare” la défaillance sessuale di D.T. Richiesta stravagante che il giudice probabilmente non avrebbe autorizzato – non fosse stata la stessa Cassiopea, a quel punto maggiorenne, ad acconsentire. La versione lunga in effetti riabilitava parzialmente il povero D.T., ma soprattutto rendeva Cassiopea una celebrità mondiale, proiettandola non verso la carriera cinematografica che molti le prospettavano, ma verso la politica. Quindici anni dopo l’eurodeputata Ree era tra le firmatarie del Sex Act Act, il disegno di legge che regolamentava la pubblicazione di “video giovanili amatoriali a contenuto esplicitamente sessuale”. Tutti i coetanei di Sirio la stimavano come personaggio pubblico di specchiata onestà e profonda competenza. E tutti avevano visto almeno una volta nella vita quel video artigianale in cui ci dava dentro con la foga dei suoi 17 anni. Tutti.

Tranne Sirio Ree.

Il figlio di Cassiopea.

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La grande gara di spunti, racconti

La schiava (io ce l’ho e tu no)

Potevano passare mesi interi senza un solo pensiero di angoscia. Mesi interi in cui passando davanti allo specchio dell’ingresso Biagio non vedeva che un cinquantenne soddisfatto, con una carriera avviata nel ramo immobiliare, un figlio che lo adorava, una compagna che lo amava, e una schiava rinchiusa nel secondo piano interrato di una palazzina sfitta, una piccola cosa pronta a precipitarsi ai suoi piedi appena la porta blindata si fosse aperta, alle due del pomeriggio nei feriali, e a qualsiasi ora nella notte, senza preavviso. In qualsiasi momento fosse arrivato laggiù, portando un po’ di luce e cibo e amore, sapeva che Yris gli avrebbe fatto festa, non era un amore di cucciola? E lui non era il più fortunato degli uomini? Potevano passare mesi interi così.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabelloneQuesto è un capitolo qualsiasi dalla Prigioniera nella torre).

L’angoscia arrivava a tradimento, di solito in seguito a un’interruzione della routine. Un incidente domestico o un imprevisto sul lavoro. Persino una rimpatriata coi compagni d’università, dalla quale Biagio si aspettava solo soddisfazioni. Alcuni dei suoi amici avevano avuto più fortuna di lui nella vita: avevano auto più grosse, mogli più belle e giovani, e parlavano di luoghi esotici dove Biagio mai sarebbe andato in vacanza; ma cos’era tutta quella volgare esibizione di fronte alla sua gloria segreta? Nessuno di quei coglioni era riuscito ad avere dalla vita quel che Biagio si era conquistato. Nessuno ci era andato nemmeno vicino. Ogni gioia che riuscivano a prendersi, Biagio lo sapeva, non era che un simulacro di quella che lo attendeva al buio ogni primo pomeriggio nei feriali. E per quel povero simulacro erano costretti anche a pagare! In regali alla partner, in contanti alle escort, in alimenti elle ex, in assegni agli analisti.

Quella sera, mentre si contavano a vicenda le rughe sulla fronte, e confrontavano le cilindrate, e prendevano appunti mentali sul prezzo delle vacanze altrui, Biagio si sentiva il cuore gonfio. Era il re del mondo e nessuno lo sapeva. Aveva solo il timore di sembrare troppo allegro, troppo su di giri – era sicuramente una paranoia, ma ad ogni buon conto si era messo a bere. Un ottimo espediente, già collaudato. Nessuno fa più caso a te quando bevi. Puoi esultare e gridare al mondo intero di essere un mostro – nessuno ti starà ad ascoltare.

L’angoscia lo prese al risveglio, in un parcheggio poco lontano da casa. Non doveva aver dormito più di una mezz’ora, ma era come se tornasse alla vita dopo cent’anni di incubo. Chi era? Marchesani Biagio, nato a *** il primo ottobre 1963. Era il titolare di un’agenzia immobiliare, un padre di famiglia e un mostro. Da sei anni teneva prigioniera una ragazza in un sotterraneo, e non c’era modo di risolvere la cosa. Prima o poi sarebbe scappata, e lui si sarebbe ucciso. Oppure.

Oppure sarebbe stato lui a ucciderla. C’era sempre stata questa possibilità. Si sarebbe sbarazzato del corpo in uno dei cento modi che si era immaginato in quegli anni. Acido muriatico. Sega circolare. Un’intercapedine del muro. Ma forse la soluzione migliore era la più semplice: sacchi neri, qualche mattone, e una gita notturna al porto. Nessuno l’avrebbe mai cercata in quei fondali. E nessuno sarebbe comunque risalito a lui. E allora cosa aspettava? Aveva già rischiato troppo, mettendo a repentaglio la felicità della sua famiglia. Doveva farlo il prima possibile. Poteva farlo anche in quel momento. La palazzina era a cinque minuti di distanza. Cosa aspettava?

Già. Cosa aspettava a tornare il povero coglione di sempre, circondato da gente con macchine più grosse e compagne più giovani?

C’erano notti in cui varcando quel cancello Biagio non sapeva, non credeva di sapere se andava a strangolare Yris o a piangerle in grembo. Nei fatti Yris era ancora viva, e lo aspettava alzata.

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La grande gara di spunti, racconti

Le 1+2+3+4+5+6+… notti

Una donna molto ricca, una donna molto raffinata, è una donna molto arrabbiata. Ha appena scoperto di essere stata tradita dal suo fatuo marito, presidente del consiglio di una nazione trascurabile. Lo ha scoperto nel modo peggiore – glielo ha detto la sorella, quella smorfiosa. Ha subito preteso un divorzio milionario, ma non le basta. Ora vuole coricarsi con un uomo diverso ogni notte, e tagliargli la testa il mattino successivo. L’avvocato glielo sconsiglia. Il dottore suggerisce di variare i dosaggi. E poi in effetti tutto questo coricarsi con gli uomini non è detto che sia sempre divertente. C’è altro nella vita, indovinate cosa. Esatto, sì, lo storytelling!

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Una donna molto ricca, una donna in cerca di rivalse anche sul piano intellettuale, ha invitato nella sua tenuta 6 spasimanti. Ha spiegato che giacerà con uno solo di loro, colui che meglio saprà intrattenerla con fiabe o racconti. Dopo un primo turno in cui tutti e 6 hanno la possibilità di mettersi alla prova, la signora procederà all’eliminazione di un primo spasimante. Prima di lasciare la villa per sempre (esponendosi alla mortale epidemia gastroenterica che sta infuriando fuori dai cancelli), l’eliminato suggerirà il tema sul quale dovranno ruotare i racconti del turno successivo. Il secondo turno durerà 5 notti, e terminerà con una seconda eliminazione. Resteranno in 4, poi in 3, e così via. Ognuno degli spasimanti è caratterizzato da un’ossessione, che diventa l’argomento dei racconti suoi e degli avversari nel turno successivo alla sua eliminazione. Ogni racconto ha così due argomenti. Sembra un po’ macchinoso, vero? In realtà è un semplice talent show per racconti, e ha il grosso pregio che l’ho già scritto tutto, un agosto di qualche anno fa.

LE XXI NOTTI turni → 1° turno 2° turno 3° turno 4° turno 5° turno 6° turno
personaggi ↓ argomenti →      ↓ malattia comunicazione lavoro sesso economia religione
Prof Esso istruzione Il futuro di chi ha memoria Il re impiccione e lo specchio magico È un mercato pazzerello L’ombelico è un problema complesso La strage alla sagra d’Autunno Ognibene ippopotamo in Kenya
Don Tinto religione Sai-Pio sale in cielo Dio mi ama Di come Don Tinto perse la fede In bagno coi Maestri Karma 740
Teddi economia Di ronda in ronda Sono schizzato e mi piaccio così Razza di parassita L’amore gratis (I)
Mària sesso La mia amica Boa L’amore alla fine dei tempi Storia di Mària
Aureliano lavoro La supplente L’assedio in pausa caffè
Arci comunicazione Il contagio

E allora perché riproporlo? Perché non so più cosa inventarmi l’idea era buona e merita di essere sviluppata meglio: alcuni raccontini vanno rimaneggiati, altri rimpiazzati con raccontini più decenti. e mi piacerebbe aggiungere qualche personaggio (il che significa aggiungere come minimo 7 racconti, o 15, o 24…) Se la cosa ti sconfinfera, non hai che da votare per Le 1+2+3+4+5+6+… nottiche oggi se la gioca con Love of My LifeNon esitare a cliccare Mi Piace su Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo ti è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

futurismi, La grande gara di spunti, racconti

Non è poi lontana Copernico

A un certo punto sulla Terra si è fatto caldino e dovevamo assolutamente inventarci qualcosa, ad esempio inviare qualche migliaio di persone all’interno di enormi stazioni spaziali in direzione degli esoplaneti più vicini. Le stazioni, in teoria, sono autosufficienti – possono immagazzinare l’energia dei raggi cosmici e usare i propri rifiuti per concimare i campi dove coltivare frutta geneticamente modificata da usare come combustibile – ma abbastanza lente, per cui non si prevede che arrivino al pianeta Copernico 456b che in ventimila anni. Un periodo di tempo in cui qualsiasi cosa può andare storta.

In particolare gli antropologi ci hanno fatto presente che nessuna civiltà è esistita tanto a lungo, e in condizioni così particolari (chiusa in un proiettile sparato nel vuoto assoluto). Anche ammesso che per tutto il tempo continuino a credere alla stessa storia, è molto probabile che quando arriveranno avranno troppa paura per uscire dalla stazione e terraformare il pianeta. D’altro canto, sempre meglio che morire di caldo quaggiù…

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E poi ci sono le vasche criogeniche. Bruciano troppa energia perché si possa addormentare un intero equipaggio – però si può raffreddare un uomo solo e svegliarlo ogni tanto perché dia istruzioni alla comunità. Quando parte, il professor Salem ha quarant’anni. È sociologo, economista e storico, ed è stato opportunamente addestrato per vivere il resto della sua esistenza svegliandosi ogni settimana in un secolo diverso. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo lo spazio profondo.

La settimana seguente sono già passati cent’anni. La comunità della stazione spaziale si è rigidamente compartimentata in caste – Agricoltori, Macchinisti, Burocrati, e gli intoccabili che puliscono i bagni e trattano il concime. Il consiglio degli anziani ha proibito i matrimoni misti. Era una evoluzione prevedibile e per il momento Salem non crede necessario ostacolarla, dal momento che si tratta di una delle forme di società più conservative possibili, e di conservazione c’è un gran bisogno – tanto più che l’endogamia si può correggere con prelievi periodici dalla banca del seme.

La settimana dopo fervono i preparativi per incrociare una cometa – c’è ormai una disperata necessità di metalli e h20 (il ciclo dell’acqua della stazione non è perfetto al 100%). Al suo risveglio Salem è festeggiato come il simbolo vivente dello status quo e della società castale. La cosa lo spaventa un po’, soprattutto quando gli spiegano che ogni 18,5 anni circa scoppia una rivolta degli intoccabili. Costoro dubitano dell’esistenza di Copernico, ma anche della Terra: il loro obiettivo è costruire una società egalitaria all’interno della stazione. Salem si rende conto che se gli intoccabili dovessero prendere il controllo della stazione anche per breve tempo, gli staccherebbero la spina. Dà dunque disposizioni per il superamento della società castale: spiega agli Anziani, attoniti, che non è necessario che gli intoccabili diventano uguali agli altri, ma è importante che possano sognare di diventarlo: basta l’esempio di uno o due individui che hanno successo e salgono un gradino sociale, per disincentivare ogni proposito rivoltoso. Invece di fare la guerra agli altri, la faranno tra loro per primeggiare, e tra un secolo poi si vedrà. Buonanotte.

La settimana dopo tira una brutta aria. L’attracco alla cometa non è andato come previsto, e la scarsità di metalli ha costretto gli Anziani a dimezzare la Stazione (era una procedura prevista). La popolazione è calata del 50%, metà dei reattori sono stati fusi per ottenerne pezzi di ricambio per gli altri reattori. “E le rivolte?” “Quasi sparite. Tanto che abbiamo dovuto promuoverne”. “Che cosa?” “Sì, dovevamo uccidere qualcuno, e siccome gli intoccabili esitavano a rivoltarsi, li abbiamo provocati. È successo 23 anni fa, e calcoliamo che debba risuccedere tra cinque… ci stiamo già preparando”. “Non c’è nessuna cometa all’orizzonte?” “Nessuna, ma quando si sveglierà la prossima volta sarà già nel sistema Centauri. Dovrebbe assistere a un boom”. “Speriamo bene”.

Infatti la settimana dopo si sveglia a una festa. È il culmine di una settimana di celebrazioni. La stazione spaziale ha raggiunto il sistema di Alpha Centauri, riempiendo le stive di metalli, acqua, silicio, e ogni altro materiale prezioso. La popolazione è tornata al livello massimo consentito. C’è un ottimismo tangibile nell’aria (molto meglio ossigenata). Gli intoccabili non sono più tali; anche se restano sul fondo della società, molti di loro riescono ad avere carriere di successo e a diventare celebrità. Qualcuno ha proposto di restare nel sistema Centauri per sempre; è una proposta che Salem sa di dover respingere: le tecnologie a bordo della stazione non consentono di estrarre risorse in grado di far funzionare la stazione per più di qualche migliaio di anni. Per i rappresentanti della Stazione – quasi tutti quarantenni, o anche più giovani – non è un grosso problema. Per Salem sì.

La settimana successiva, infatti, la stazione non è ancora uscita dal sistema. C’è stato anche un tentativo – fallito – di colonizzare un pianetino. La popolazione della stazione è divisa in due fedi trasversali: chi vuole proseguire sulla rotta per Copernico, e chi vuole restare lì. C’è anche chi propone di tornare sulla Terra – non si riescono più a captare segnali, ma chissà, magari ora il problema del calore è stato risolto. Salem non ha molte scelte: se la stazione smette di puntare verso Copernico, lui rischia di diventare una curiosità, una mascotte, un corpo inanimato che in caso di carestia si può anche sacrificare; è il momento di attivare il protocollo 12. Per sterminare la fazione centaurista, Salem dona ai copernichisti la formula, nota a lui solo, con la quale si può distillare dalla frutta un’arma batteriologica. Poi si riaddormenta.

La settimana successiva Alpha Centauri è già lontana, una stella tra tante. Tra i lineamenti che è ormai abituato a riconoscere pur tra cento variazioni, non trova più quelli di una donna di cui si era innamorato due settimane prima: la sua famiglia è stata completamente sterminata durante i pogrom dei centauristi. La società si sta riorganizzando in caste, ma c’è una novità curiosa: nell’archivio della stazione qualcuno ha trovato il file di In tredici verso Centauro di Ballard e lo ha trasformato nel testo sacro di una nuova religione. I ballardisti credono che la stazione spaziale non stia viaggiando nello spazio, ma sia un’enorme simulazione, un esperimento custodito in un hangar sotterraneo nella Terra. Le stelle non sono che lampadine, e il prof. Salem tra un ciclo di veglia e l’altro andrebbe a riferire ai suoi superiori in un ufficio in superficie. Smetto qua sennò lo scrivo tutto stanotte. Continuerò se voterete per Non è poi lontana Copernico, che oggi se la gioca contro l’Universo PerpendicolarePotete cliccare, indovinate, sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

futurismi, La grande gara di spunti, racconti

Gli assassini del basilisco

Siamo in un futuro un po’ meno prossimo – diciamo una generazione dopo il Pianeta al gusto bubblegum: le persone di ceto medioalto ormai trascorrono gran parte della vita in piattaforme virtuali ispirate alle grandi saghe del passato.

Questi mondi ormai sono sensorialmente più coinvolgenti della vita reale, il che porta sempre di più gli utenti a domandarsi cosa sia, questa realtà. Quasi tutti sono ancora in grado di distinguere le piattaforme virtuali dal cosiddetto “Piano Zero”, quello in cui esistiamo ‘davvero’, e possediamo un corpo solo che nasce e muore. D’altro canto, come facciamo a essere sicuri che il piano zero sia veramente reale? Che non sia anch’esso il prodotto di un software, una simulazione? Ma una simulazione di cosa, se non c’è nient’altro?

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Malgrado ogni comunità religiosa abbia ormai creato la sua piattaforma a tema dove dare sfogo alla naturale aggressività, il terrorismo a matrice religiosa continua a essere un problema. La setta più pericolosa è costituita dagli Assassini del basilisco, che credono nell’esistenza del temibile Basilisco di Roko: pensano che il Piano Zero sia una simulazione creata da un’entità maligna che – se non obbediscono a ogni loro ordine – può torturarli per l’eternità. Il protagonista della storia è un programmatore che sta lavorando all’update di una piattaforma. Nei confronti dei terroristi nutre lo stesso approccio liquidatorio che abbiamo noi: fanatici pazzi che non hanno studiato, prima o poi la Ragione trionferà. Ma non è che si sia mai messo a pensare seriamente al problema del Basilisco. È una specie di argomento tabù, tutti preferiscono non parlarne. Non si pronunciano certi nomi, non si raffigurano certi volti, non si ragiona sul basilisco.

Mentre il programmatore sta lavorando al nuovo rendering di una caverna, si imbatte in un’affiliata della setta che si nasconde dai suoi compagni decisi a ucciderla. Malgrado sia stata accusata di tradimento senza nessuna prova, la ragazza crede ancora nel Basilisco e cerca addirittura di convertire il programmatore. Lui la lascia parlare, e presto si rende conto di non avere obiezioni razionali al suo ragionamento: se tutto si può simulare, anche noi possiamo essere una simulazione. Se in una simulazione si può creare un loop all’interno del quale un personaggio può essere torturato per un periodo illimitato, anche a noi può succedere la stessa cosa. Il programmatore, perplesso, torna al suo studio. Fa fatica ad addormentarsi.

Aspettando che il sonno arrivi, rimette mano a un suo vecchio progetto dei tempi di scuola. Crea un universo di media grandezza, ci grattugia dentro miliardi di galassie, e in qualche pianeta random insemina forme virtuali di vita unicellulare, in grado di evolversi adattandosi all’ambiente. Con qualche migliaio di righe di codice stabilisce che, qualora una razza pluricellulare sviluppasse la capacità di formulare pensieri simbolici, dovrà sottostare a un rigido protocollo di precetti assolutamente arbitrari (non mangiare determinate altre razze, uccidere determinati nemici, non disegnare determinate immagini), comunicate attraverso oracoli o profeti. Al termine della minuscola esistenza di ciascun individuo virtuale, il file che contiene ogni sua cellula e la sua coscienza verrà trasferito in un loop eternamente piacevole o eternamente doloroso, a seconda che abbia rispettato o no i dettami della legge. Prima di addormentarsi si sbizzarrisce un po’ scegliendo le torture più efferate da infliggere nel loop doloroso. Dopo aver creato il suo piccolo universo – ci mette un paio d’ore – il programmatore si sente più disteso, sbadiglia, si getta sul letto e non ci pensa più.

Noi viviamo in quell’universo.

Un romanzo magari non salta fuori, ma spero di avervi almeno terrorizzato. Comunque se lo spunto vi piace più di Nessuno si ricorda dei Catari non avete che da votarlo. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

invecchiare, La grande gara di spunti, racconti

Che ne sai tu di un campo di grano

Prisco e Davide sono amici d’infanzia. Suonano assieme in una band che viene liquidato nelle prime scene del film, perché Prisco, il cantante, scatena una rissa al concerto per la festa di laurea di Davide. (Il quale appena vede che le cose vanno male inizia a smontare la batteria).

L’indomani vediamo Davide appendere per sempre la maglietta dei Nirvana e infilare una timida giacca e cravatta. Inizia una serie di frustranti colloqui di lavoro, a cui assistiamo rapidamente, per flash: non si sa bene cosa abbia studiato Davide, ma è qualcosa di abbastanza inutile: in tanti modi diversi tutti gli dicono di no. L’estate è alle porte, e lui non ha di che andare in vacanza. Incontra Prisco che sta andando a farsi due settimane in collina, un bel posto, c’è l’aria buona. Con che soldi? Niente soldi, vado a fare volontariato in una comunità terapeutica. C’è un frate che conosco. Coi tossici in astinenza? Tu sei matto. Sarà, io intanto vado al fresco. Perché non vieni anche tu? Vitto e alloggio gratis. E poi è gente interessante.

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Il posto è sorprendentemente ameno, il frate assai simpatico. Davide confessa con lui le sue paure, di non saper trovare il suo posto nella vita degli altri, di essere un batterista fallito fra tanti, ecc. Devi avere pazienza, gli dice il confessore. Gli regala una strana sveglia fatta a mano. È puntata per suonare ogni tre anni, gli spiega. Conservala vicino a te, e quando la sentirai suonare, misurerai la strada che hai percorso.

Gli ex tossici sono in ottima forma (durante una partita a pallone fanno stramazzare i nostri eroi); mietono coi sistemi tradizionali il grande campo di grano della comunità. Molti sembrano avere anche idee chiare sul loro futuro: metteranno su casa, famiglia, un agriturismo (pare ci siano dei fondi dell’UE per recuperare gente come loro).

“Questi qui stanno meglio di tutti quanti”, scappa detto a Davide una sera, mentre rolla di nascosto in un boschetto.
“L’hai notato?”, dice Prisco “Infatti mi è giusto venuto un’idea su cosa fare nella mia vita”.
“L’ex tossico?”.
“Proprio”.
“Dovresti prima intossicarti”.
“Non sarà questo gran sacrificio – hai sentito quel che ha detto la sdentata l’altra sera?”
“Ha veramente bisogno di una protesi”.
“Come novanta orgasmi in una volta. I neuroni sono sollecitati novanta volte di più. È scientifico”.
“E se ci prendi gusto?”
“Ma a quel punto arrivi tu”.
“Io”.
“Diamoci tre anni. Se tra tre anni io sono ancora nel giro, mi prendi e mi riporti qui. Anche se io non sono d’accordo. Me lo prometti?”
“Sei matto”.
“Punta la sveglia del frate”.

Tornato in città, Davide ricomincia il suo calvario di colloqui. Un giorno, al 57esimo no, esplode. “Tutti non fanno che dirmi di no”, si sfoga, “me lo sono sentito dire in 57 modi diversi”. “Davvero? Forse allora lei è l’uomo che cercavamo”.
Viene assunto in un’agenzia interinale. Lo pagano per dire no alla gente. Ora assistiamo a tutte le scene dei colloqui invertite: dietro la scrivania c’è lui. Rapidamente il taglio della giacca migliora.
Un giorno le capita un colloquio con una ragazza carina, Gloria. Davide gli pone tutte le domande di rito e anche altre più personali. Niente, non ne azzecca una. Davide le dice no e poi la invita a cena. In breve vanno a vivere insieme, prima in un bilocale, poi cinque stanze più cucina, gli affari vanno sempre meglio.

Una sera, uscendo dall’ufficio, Davide incontra Prisco, sono anni che non si vedono. Ha una pessima cera.
“Che ci fai qui?”
“Non lo so, andavo a una festa”.
“A una festa a quest’ora?”
“Perché, che ora è?”
“Ma ti senti bene?”
“Forse no”.
“Vieni a casa mia, dai”.
“Abiti qui?”

A casa i due vecchi amici rivangano i vecchi tempi. (Gloria cucina). Ti ricordi il gruppo, e di come mandasti a puttane la mia festa di laurea? Ah, che ridere. E quando siamo andati in vacanza coi tossici perché non avevamo un soldo? Che pazzi che eravamo. Prisco ha gli occhi lucidi. Si guarda intorno, Davide ha una bella casa. Ha una bella moglie. D’impulso decide di andarsene. Prima però chiede se l’amico non può prestargli cento, duecentomila lire. Intasca e scompare.

Che tipo strano il tuo amico, dice Gloria quella sera, a letto. Sembrava un po’ sconvolto, no? Sei sicuro che non prenda qualche cosa? Può darsi, risponde Davide, soprappensiero. Gli ho prestato dei soldi, avrò fatto bene? Del resto potevo anche dargliene di più, mi hanno appena fatto una gratifica… lui, invece… In quel momento (Gloria ha già cominciato ad accarezzarlo), si sente da molto lontano come uno squillo debolissimo di sveglia. Lascia perdere, dice Gloria, sarà l’antifurto del vicino. No, dice lui, è la sveglia del frate, dove l’avevo cacciata? In quale fondo di valigia? È il segno. Prisco si sta rovinando la vita, devo andare a salvarlo.

Si mettono sulle sue tracce. In un agriturismo un comune amico ex tossico conferma: sì, al ritorno si era messo in un brutto giro, sniffava, spacciava. Ha fatto le cose più strane. Anche girato un film porno: regista e interprete. Recuperiamo la videocassetta (suggerisce Gloria), magari c’è qualche indizio.

Le tracce raccolte qua e là (bische clandestine, bordelli, ippodromi) sembrano confermare soprattutto che negli ultimi tre anni Prisco se l’è spassata. Davide comincia ad avvertire i morsi dell’invidia, anche perché più l’amico si rivela una sentina di vizi, più Gloria sembra tradire un certo interesse.

Una sera arriva una telefonata: Prisco è stato visto al casino di ***. C’è da guidare tutta la notte, dice Davide. Lei: non importa, quando ci ricapita? Non usciamo mai. Arrivano molto tardi, ma davanti a un albergo c’è una Porsche che Prisco ha preso in leasing e mai restituita, la targa coincide. I due prendono una camera e decidono di aspettarlo al varco. Davide si addormenta come un sasso e sogna di suonare la batteria a torso nudo nel grande campo di grano. Quando si sveglia Gloria non c’è più. Non c’è neanche la macchina di Prisco. Se ne sono andati.

Davide picchia un po’ il muro (ha questo vizio di tamburellare su ogni cosa che ha in mano), poi ricomincia da solo la ricerca, tornando sui luoghi loschi dove Prisco era già stato visto: invano. Nella casa troppo grande, si decide a rimontare la batteria – ma appena comincia a pestare duro i vicini si lamentano. Qualche mese dopo ripassa per caso nell’agriturismo: trova i due piccioni nel parcheggio che litigano.

Sono già una coppia in crisi. Gloria ha persuaso il ragazzo terribile ad affittare anche lui il suo pezzo di terra: sogna di redimerlo attraverso il sano lavoro dei campi (e vuole un bambino da lui). Prisco si è lasciato fare, ma non è che ci creda così tanto: appena incontra Davide gli fa la festa e decide di scappare con lui. Ma quando è già salito in macchina scopre con orrore che Davide vuole portarlo nella comunità del frate, per tenere fede a una scommessa fatta per scherzo tre anni prima.

“Maccheccazzo ma anche tu vuoi salvarmi? Da cosa poi? Io tutto sommato me la passavo bene”.

Gloria li insegue e li raggiunge proprio davanti ai cancelli della comunità. Nel grande campo di grano, l’ultimo duello a tre. Prima una schermaglia verbale: Gloria chiede a Prisco di tornare, perché ormai ha delle responsabilità nei confronti di lei. Senti chi parla di responsabilità, ribatte Davide, e iniziano a rinfacciarsi le miserie di tre anni di matrimonio. Prisco ne approfitta per fare un passo indietro, lo bloccano in due. Il sole è alto in cielo. Le recriminazioni lasciano lo spazio al silenzio. Un minuto di primi piani.

Alla fine Gloria si gira e si avvia verso l’auto. Davide resta immobile. Prisco, incredulo: “ma come, non le corri dietro?”. Dopo un po’ le corre dietro lui. Davide, impassibile, bussa alla porta del convento.

Dieci anni, quindici chili più tardi, Gloria lavora in un ufficio di lavoro interinale. Esamina l’improbabile curriculum di un mezzo pancabbestia, sandali, barbone, brutti denti.
“E così lei ha una lunga esperienza professionale come percussionista?”
“Suono ai matrimoni, alle sagre, per strada, dappertutto…”
“Bene. E… oh, scusi, devo rispondere al telefono… Amore, non disturbarmi mentre… come non trovi i pannolini, guarda che la Chicca non li porta più da… ah sì? Beh, cerca di pulire intorno. Con una spugna, uno straccio, non so! Ti devo dire tutto io? E in posta ci sei andato?… Scusi, mio marito in casa è una frana. Dicevamo?”
“E avete un bambino?”
“Una bambina. Ma torniamo a lei. E quando ha deciso di fare il… percussionista?”
“È stato dieci anni fa, in seguito a un esaurimento nervoso. Mia moglie mi aveva lasciato, e avevo perso il lavoro, e…”
“Va bene, le faremo sapere”.

Fatemi sapere voi, votando Che ne sai tu di un campo di grano, che oggi se la gioca contro I banditi della montagnaPotete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

guerra, La grande gara di spunti, racconti

I banditi della montagna

Dal modo in cui sparava, Prandini sapeva di trovarsi davanti a un ragazzino.

Non era una buona notizia. Negli ultimi anni Prandini aveva rivisto tante sue convinzioni, tra cui quella che i giovani valligiani fossero meno pericolosi dei vecchi. Non si potevano sottovalutare i ragazzini. Non si poteva sottovalutare più niente. La radura era gonfia di gente che aveva sottovalutato qualcosa o qualcuno, e Prandini aveva deciso di starci lontano ancora per un pezzo. Aveva tante cose da fare, zucchine da selezionare, parole da salvare.

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Stava riparato dietro un faggio, un grosso tronco paziente che aveva già cicatrizzato altre scheggiature di pallottola, ricordi di vecchi conflitti a fuoco. Non te la prendere, gli illustrava la corteccia tra una raffica e l’altra: ci siamo tutti abituati. È solo guerra, la cosa più naturale del mondo. Ma il ragazzino sembrava terrorizzato, continuava a sventagliare senza metodo. Una cosa molto sciocca, oltre che pericolosa. C’era sempre la possibilità che una pallottola rimbalzasse su una pietra e lo facesse secco. Già successo. Prandini era scocciato.

Finalmente gli era venuta la parola. Lui era l’unico della Brigata a ricordarsela ancora: Scocciato. Un giorno se la sarebbe dimenticata per sempre, e la parola non sarebbe esistita più. Prandini ci teneva alle parole, era una delle sue debolezze. Non avrebbe mai voluto perderle. Era chiaro che una Brigata sempre più piccola non avrebbe avuto bisogno di troppe parole – per molte delle quali ormai mancavano i significati. Prandini lo capiva, ma non voleva accettarlo. Gli scocciava.

Due minuti di silenzio, e un’altra raffica. Ormai stava diventando una specie di richiesta di aiuto. Venite a prendermi! Ho snidato un bandito, ma non so come stanarlo. 

Dal rumore era un piccolo Uzi: bell’oggetto, ma inutile per Prandini. Avrebbe sparato ancora per un bel po’, raffiche sempre un po’ più brevi. Se il ragazzino era abbastanza scemo, avrebbe sparato fino all’ultima cartuccia: a volte era successo. A quel punto bastava saltar fuori e prender la mira. Però poteva anche essere una trappola. Anche questo a volte era successo. Ragazzini mollati a sparacchiare in preda al panico, come… come esche. Ecco un’altra parola importante: esche.

Peccato non avere carta e penna con sé. Succedeva sempre più di rado, ma certe mattine senza un motivo la testa di Prandini brulicava di parole importanti ormai dismesse. Esca è fondamentale, non è che esistano altre parole per rendere l’idea. Esca. Si fanno spesso riflessioni importanti durante i conflitti a fuoco. Di solito non c’è altro che aspettare e osservare, osservare e aspettare, e intanto i nervi girano a mille. Una volta si masticava gomma, poi era finita, e a quelli come Prandini non restava che rimasticare i concetti.

(Forse l’unica retorica a cui la mia generazione nicchia non riesce a ribellarsi è quella della Resistenza. Tutte le altre guerre sono sbagliate, ma quella no. Tutti gli altri martiri sono discutibili e discussi, ma i partigiani mai. Peraltro se ci provi il rischio di trasformarti in Giampaolo Pansa è fortissimo. Eppure a ripensarci fu un episodio non solo periferico rispetto alla guerra mondiale in corso, ma abbastanza limitato nel tempo – due anni! Così mi sono chiesto che succederebbe se un gruppo di persone imbevuto di cultura resistenziale, alternativa, ecc., si trovasse a combatterla davvero, nel solito futuro prossimo, ma non per un anno o due: a oltranza. Quando esattamente si trasformerebbero da eroi in carogne?)

Quante munizioni poteva avere? Quante potevano lasciarne, a un ragazzino? Magari era scappato. Aveva litigato coi suoi e aveva deciso di unirsi ai Banditi. Era successo anche questo, una volta. Si era capito subito che non sarebbe durato. Certe abitudini che Prandini non metteva più in discussione da anni, per il nuovo arrivato erano privazioni intollerabili. Lo avevano messo al muro con l’accusa di essere una spia, non avevano aspettato di avere una prova. Probabilmente non lo era, ma facilmente lo sarebbe diventato, prima che l’inverno picchiasse duro. Soprattutto erano stanchi di sentirlo lagnarsi per il freddo o la fame. Non mangiava farina di castagne: un’intolleranza alimentare, diceva. Il processo era stato rapidissimo e Prandini non vi aveva preso parte, ma non aveva neanche avuto nulla da obiettare.

Un’altra raffica – un po’ meno generosa. Esca o non esca, il panico del ragazzo lo avrebbe condannato. Con un po’ di fortuna tra mezz’ora Prandini lo avrebbe raccolto in un cespuglio, con gli occhi sbarrati che hanno i bambini quando vogliono scacciare la realtà che hanno davanti. (Anche questo era già successo? A volte Prandini aveva paura di inventarsi i ricordi).

(C’è stata una catastrofe. Forse semplicemente il riscaldamento globale. La pianura è diventata invivibile, le montagne si sono ripopolate. Ma non è stato un processo lineare. I primi a tornare in montagna sono stati i neorurali, i collettivisti, i primitivisti, qualche hipster, Civati. Gli altri per un po’ hanno insistito a vivere in new town pedemontane fortificate e aircondizionate. Ma serviva molta energia per farle funzionare, e dopo un po’ è finita; così alla fine i valligiani hanno attaccato le montagne. Sono più numerosi e meglio armati, ma non conoscono il territorio e non sono abituati alle scomodità della guerriglia. I montanari viceversa avevano già cominciato a scannarsi tra tribù, per questioni politiche ma soprattutto perché di terreno fertile ce n’è sempre meno. Quando arrivano i valligiani qualche comunità si compatta, altre tradiscono. Prandini è l’ultimo sopravvissuto di un agriturismo biodinamico, tutti i suoi amici e la sua famiglia sono stati uccisi o fatti schiavi. Per sopravvivere si è unito a una brigata comunista che di comunista non ha più niente, ormai sono tutti giovani molto selvatici, Prandini è un nonno saggio che sa quand’è ora di seminare le patate. Ha fatto cose orribili, ma sopravvivere in questo consiste).

Invece se lo vide lampeggiare a pochi metri – al centro della maglietta, la sagoma di una band che non gli era mai piaciuta. Stava banalmente scappando via, disorientato, nella direzione sbagliata. Un’esca non lo avrebbe fatto. “Ma dove vai, aspetta” – si sentì dire Prandini, in un accento quasi credibile, e per qualche secondo il ragazzino lo fece. Aspettò. Fu appena un’esitazione, ma non poteva permettersela. Prandini mirò la zazzera del cantante. Il colpo volò un po’ più sotto, dove fa ancora più male. Si sentì un urlo inumano, l’obiettivo rantolò per terra in preda a convulsioni. Prandini provava pietà per quel povero corpo che adesso bestemmiava e piangeva, ma non aveva intenzione di sprecare una cartuccia in più. Snudò il pugnale.

Era un davvero un ragazzino. Biondo, lentiggini, a chi somigliava? Seduto sulla sua schiena, mentre con la sinistra gli afferrava il ciuffo, Prandini ebbe un’epifania: l’ovetto kinder. Stava per sgozzare il bambino dell’ovetto kinder.

Come andrà a finire? Per saperlo occorre votare per I banditi della montagna, che oggi se la gioca contro Che ne sai tu di un campo di grano. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

cristianesimo, La grande gara di spunti, racconti

Gesù è il mio crononauta

Sennò si potrebbe fare così. Un viaggiatore del tempo chiede udienza alla corte del potente re Erode. Ha un accento molto buffo, porta doni e spiega che viene da molto lontano e sta cercando Gesù di Nazareth. Chi?
“Il messia, dai”.
“Buon uomo, di messia ne nascono tutti gli anni, non potrebbe essere un po’ più preciso?”
“Eh, purtroppo sono sempre stato una schiappa a catechismo, comunque è un tizio che… dovrebbe essere nato qualche anno fa, a occhio… sua madre si chiama qualcosa come Maria, Miriam”.
“È il nome più diffuso in Giudea”.
“E suo padre Giuseppe, Iosef, Yussef”.
“Andiam bene”.
“Nato a Betlemme…”
“Ma non era di Nazareth?”
“Più o meno la stessa cosa, no?”
“No, straniero, non è affatto la stessa cosa, e tu evidentemente vieni da molto lontano”.
“Ah, non sai quanto. Comunque si tratta di un tizio che tra qualche anno comincerà a far parlare di sé come il Messia…”
“Capirai”.
“…il re dei Giudei…”
“Ehi ehi ehi, calma. Hai detto re dei Giudei?”
“Proprio così”.
“Io sono il re dei Giudei”.
“Ah sì? Buffo”.
“E dici che è nato a Betlemme? Ma quando?”
“Qualche anno fa… non è che per caso è passata una cometa, qualcosa del genere…”
“È cascata una stella quattro anni fa”.
“Bingo! Allora a questo punto ha quattro anni e… dovrebbe essere in Egitto, sì, questa me la ricordo”.
“L’Egitto è da quella parte, straniero”.
“Grazie per l’accoglienza!”
“Ma figurati, e grazie per i doni”.

Appena lo straniero esce, Erode ordina alla sue guardie di ammazzare tutti i nati a Betlemme quattro anni prima, ché non si sa mai.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

In realtà lo straniero non è che ci tenesse così tanto a incontrare Gesù. L’idea originale era uccidere Hitler o qualche altra banalità, ma i viaggi nel tempo non sono precisi come l’ascensore ché sai sempre esattamente a che piano ti porta. Diciamo che il margine di errore oscilla intorno ai 2000 anni, e lo straniero non è stato fortunato. Si è ritrovato nel bacino del Mediterraneo sotto l’imperatore Tiberio, ma era una schiappa anche in Storia antica e quindi l’idea di prendere il posto di Seneca e manovrare un paio di imperatori non lo ha nemmeno sfiorato. Il personaggio che ritiene di conoscere meglio di tutto il periodo è appunto Gesù, e così si è incamminato per la Palestina, con tutto l’oro che è riuscito a portarsi con sé nel cronotrasferimento, e che gli serve per le spese di ogni tipo (cibo, pernotto, battello, lezioni di lingua). Non potendo uccidere Hitler, ha deciso di uccidere Gesù e vedere cosa succede. (Lo straniero ha fatto l’asilo in un collegio di suore sadiche, da cui un giudizio abbastanza netto sull’essenza del cristianesimo). Gesù però è introvabile.

http://infinivert.com/2013/04/jesus-christ-time-traveler/

Deciso ad attenderlo, lo Straniero si stabilisce a Nazareth. Fa amicizia con una manciata di pescatori del lago di Tiberiade, a cui promette ricche ricompense se riusciranno a intercettarlo (“voi siete pescatori di pesci, ma dovreste pescarmi un uomo”). A un certo punto sembra averlo trovato in un tizio barbuto e cencioso che predica sulle rive del Giordano… falso allarme, è solo Giovanni Battista. Comunque prima o poi di lì il messia dovrà passare, quindi per rimanere nell’orbita dei discepoli di Giovanni decide di farsi battezzare. Il battista però lo squadra in un modo molto strano. “Beh?”, gli dice, “Che stai aspettando? Fa’ quel che devi fare, no?”

Da quel momento, alcuni discepoli di Giovanni cominciano a seguirlo. Lui per allontanarli comincia a raccontare storie senza senso, a fare il matto… niente da fare. Nel frattempo Giovanni viene arrestato per sedizione, e in Galilea molti cominciano a guardare allo Straniero come al suo naturale successore – non fosse per i minimi accorgimenti coi quali gli capita di confortare i malati che incontra, sterilizzando le infezioni e usando un minimo di buon senso per tranquillizzare i malati mentali. Siccome non ha nessuna voglia di farsi notare da Erode, scappa nel deserto. Lo vanno a prendere, lo portano su un monte e lo mostrano a una folla. Lui non sa bene cosa dire, si arrangia con quel poco che si ricorda del vangelo. Sta cominciando ad accettare il fatto che Gesù Cristo è lui. D’altro canto – ragiona – se io sono Gesù, per farla finita col cristianesimo basta che mi faccia ammazzare, no? Facile! No, non sarà così facile. Per sapere come andrà a finire, dovete votare per Gesù è il mio crononauta. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

La grande gara di spunti, musica, racconti

La vita segreta di Ziggy Stardust

Allora sentite questa. Anni Ottanta, in una cittadina dell’East Anglia un mediocre pittore di ritratti riceve il messaggio di un giornalista che vuole intervistarlo, non è ben chiaro il perché. Vuoi vedere che a Londra si sono accorti di me? Ma, in effetti, perché dovrebbero? Faccio le stesse cose da vent’anni… Il pittore è uno di quei personaggi grigi alla Coe, alla Hornby, sotto la cenere dei quarant’anni covano braci di ambizioni divoranti. Il giornalista si rivela un tizio strano; guida un modello di Volvo mai visto, e insiste per fargli delle domande su David Bowie. Le piace Bowie? Ha predilezioni per un periodo in particolare della carriera di Bowie? C’è una canzone di Bowie che sente particolarmente sua? Ecc. ecc. È più teso del pittore, tradisce un atteggiamento reverenziale nei confronti dell’ospite che quest’ultimo non ha mai sperimentato, e a un certo punto riceve una chiamata su una specie di cercapersone e si dilegua (non prima di aver lasciato un biglietto da visita per proseguire l’intervista con calma in un ufficio a Londra).

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

Rimasto solo, il pittore riflette. Ha la netta sensazione che al giornalista della sua pittura non importasse nulla. Eppure era emozionatissimo, come se si trovasse davanti a una celebrità. E continuava a spostare la discussione su Bowie. La cosa più inquietante è che il pittore ha in effetti uno strano rapporto con la musica di Bowie. La prima volta che aveva ascoltato Space Oddity, ne era rimasto stranamente spaventato. Si era messo a dipingere quadri di tema spaziale, tutti poi bruciati in un momento di crisi. Non ne aveva sentito più parlare fino a Ziggy Stardust, disco che trovava insopportabile ma che in un qualche modo lo incuriosiva, e che lo aveva spinto a recuperare qualche album precedente. Era rimasto particolarmente turbato dall’ascolto di The Man Who Sold the World, un disco di cui gli sembrava di riconoscere tutte le melodie. Forse le aveva sentite davvero in sottofondo alla radio, mentre lavorava nel suo atelier. Sarebbe stata una spiegazione logica, se nel suo atelier non si ascoltasse solo musica classica e Jacques Brel. La cosa che più lo aveva turbato è che il disco fosse dedicato al fratello di Bowie, affetto da schizofrenia. Anche al pittore era stato diagnosticato un disturbo psicotico a vent’anni – aveva anche trascorso qualche mese in una clinica. Col tempo le allucinazioni uditive erano quasi scomparse, ma la paranoia era sempre dietro l’angolo, e le melodie di quel disco sembravano affiorare da una vita precedente. Alla fine il pittore decide di andare a Londra. Sul treno ha la sensazione di essere spiato.

L’ufficio segnalato nel biglietto da visita non esiste; in compenso c’è la Volvo misteriosa parcheggiata bene in vista. Il pittore decide di entrare e scopre di non essere più negli anni Ottanta, ma in una cronostazione del 2100. “Mi scuso davvero”, gli dice l’intervistatore. “La mia agenzia non ama interferire con gli abitanti del passato, ma il suo è un caso molto particolare. Lei è vittima di un orribile furto di proprietà intellettuale. Un certo Ziggy Jones…”
“Ma sentito parlare”.
“Ovviamente, è nato nel 2115. Un certo Ziggy Jones ha rubato un modello rudimentale di macchina del tempo Sola Andata ed è riuscito a sbarcare nel 1965. Dopo un po’ di gavetta ha cominciato a far successo pubblicando le canzoni che ha scritto lei”.
“Ma io non ho mai scritto una canzone”.
“Proprio in questo consiste il furto: Ziggy le ha incise prima che lei le scrivesse. Nel suo passato originale, lei componeva Space Oddity nel 1971. Ziggy ha avuto l’idea di pubblicarla in concomitanza col primo allunaggio americano, nel 1969. Sull’onda di quel successo ha inciso quattro dischi di canzoni che lei avrebbe scritto nella seconda metà degli anni Settanta. Il più famoso, the Rise and Fall of Ziggy Stardust, è chiaramente ispirato alla sua vicenda artistica… Poi è andato in crisi, probabilmente non riusciva più a ricordare altri pezzi da copiare… nella macchina del tempo non puoi portare con te nessun supporto… si è rifugiato nell’eroina, ha fatto quel buffo film che è una mezza confessione, non trova?”
“Ma quindi David Bowie… sono io?”
“David Bowie è solo l’alter-ego di Ziggy Jones, un ladruncolo. Lei è Jacques Stardust, il più grande cantante glam inglese”.
“Ma non ho mai scritto una canzone in vita mia”.
“Perché qualcun altro le ha incise prima che a lei venissero in mente. Ora, se accetta di collaborare con noi…”
“Un momento. Ma nel 2115 la terra ha esaurito le risorse come in Five Years? Bowie ha rubato le mie canzoni per lanciare un messaggio? Ma poi progressivamente gli stupefacenti gli hanno fatto dimenticare la sua missione trasformandolo in una rockstar decadente?”
“Ehi ehi, non esageriamo. Comunque se lei accetta di collaborare con noi, possiamo tendere una trappola al cosiddetto David Bowie, riportarlo nel suo periodo originale, e restituirle il posto che le compete nella storia della musica”.
“Riavrò i miei vent’anni? Mi darò al sesso e alla droga e al rok’n’roll?”
“No, troppo tardi, ormai è invecchiato. Ma potrà almeno conservare i ricordi di quel periodo”.

Il pittore è perplesso.

Tanto più che – scoprirà – le cose non sono esattamente come gli hanno spiegato. La situazione è più complessa ma per scoprire come stanno le cose veramente, dovete votare per La vita segreta di Ziggy Stardust! Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

dialoghi, omofobie, racconti, scuola

La scuola dell’amore (non passerà!)

(Notate prego la pubblicità progresso in cima).

Sul sito di una rivista un tempo autorevole, Famiglia Cristiana, è comparso il “decalogo per difendersi” dal “gender a scuola”, di un Forum delle associazioni dell’Umbria. È un testo abbastanza esilarante, ma chi non è pratico di cose di scuola rischia di perdersi gli aspetti più buffi della cosa. Così ho pensato di fare cosa gradita pubblicandone ampli stralci, con le mie glosse.

(Racconti del mese, novembre)

Cosa fare prima di scegliere la scuola per i vostri figli  1. Prima dell’iscrizione verificate con cura i piani dell’offerta formativa (POF) e gli eventuali progetti educativi (PEI) della scuola, accertandovi che non siano previsti contenuti mutuati dalla teoria del gender. Le parole chiave a cui prestare attenzione sono: educazione alla effettività, educazione sessuale, omofobia, superamento degli stereotipi, relazione tra i generi o cose simili, tutti nomi sotto i quali spesso si nasconde l’indottrinamento del gender. Ricordatevi che i genitori sono gli unici legittimati a concordare e condividere i contenuti di una seria e serena educazione alla affettività dei per i loro figli , rispettandone la sensibilità nel contesto del valore della persona umana

Non ho ben chiara cosa sia la “teoria del gender”, ma l’educazione sessuale in scienze si fa alle medie; vorresti che la prof di scienze smettesse di parlare degli organi riproduttivi? Parlane con i genitori più islamici, potreste scoprire di avere molte cose in comune. Quanto all’educazione all'”effettività”… probabilmente intendevi “affettività”… mi spiace deluderti ma è praticamente in tutti i POF; se in qualche POF non c’è, è perché se la sono dimenticata o semplicemente la danno per scontata. Hai dato un’occhiata al libro di lettura di tuo/a figlio/a? C’è sempre una sezione sulle emozioni e l’affettività. In tutti i volumi. In tutti gli anni. La fanno anche nell’ora di religione cattolica (nella quale quasi sempre non si fa religione cattolica, il che è molto interessante). Secondo me la fanno persino nelle scuole cattoliche, anche se per farti piacere probabilmente si inventeranno un nome diverso. Ma sarà sempre affettività. L’unica tua chance è educare i vostri figli sanissimi in casa, probabilmente senza inutili lezioni sulle emozioni imparerà un sacco di cose in più.

2. Durante le elezioni dei rappresentati di classe esplicitate la problematica del gender e candidatevi ad essere rappresentanti oppure votate persone che condividano le vostre posizioni in materia . In ogni caso tenetevi informati con gli insegnanti, i rappresentanti di classe e di istituto per conoscere i n anticipo eventuali iniziative formative in materia di “gender”

Ti prego, fallo. Alla prima elezione dei rappresentanti di classe, quando sarete più o in meno in tre, prendi la parola e invece di fare domande e proposte sulla visita di istruzione, o sul calendario dei colloqui coi genitori, o sull’erogatore delle merendine o qualsiasi altro problema concreto, comincia a parlare di gender. Chiamalo proprio così: gender. “Se mi eleggete rappresentante prometto che mi preoccuperò di conoscere in anticipo eventuali iniziative formative in materia di gender“.
Il trenta per cento non capirà quello che stai dicendo.
Un altro trenta per cento concluderà che sei gay e ti interessano tanto le loro problematiche.
L’altro trenta per cento sei tu.
È assai probabile che tu vinca le elezioni, semplicemente perché hanno capito che hai voglia di fare il rappresentante e loro no. Ché poi se sei gay son fatti tuoi, basta che fai il rappresentante.

3. Controllate ogni giorno quale è stato il contenuto delle lezioni e almeno una volta a settimana i quaderni e i diari scolastici, parlandone con i vostri figli. Non siate in alcun modo pressanti verso i figli ma siate coinvolgenti e attenti al loro punto di vista, pronti a render ragione della vostra attenzione.

Come ben sapete, se c’è una cosa che i vostri figli sanissimi non vedono l’ora di fare una volta tornati a casa dopo cinque ore di scuola, è subire l’interrogatorio da un sollecito genitore che vuole sapere Cosa hai fatto Di cosa hai parlato In cosa ti hanno interrogato. È sempre così coinvolgente. Soprattutto se gli “rendete ragione della vostra attenzione”.
“Avete parlato di gender a scuola oggi?”
“No”.
“La prof di scienze non vi ha parlato di gender?”
“No”.
“Il prof di italiano non voleva discutere di gender?”
“No”.
“E di cosa avete discusso?”
“No”.
“Ma in cinque ore avrete ben…”
“Mamma NON ABBIAMO PARLATO DI GAY, OGGI, VA BENE?”
“Non parlarmi con quel tono”.
“QUANDO PARLIAMO DI GAY TI AVVERTO IO, OK?”
“Io lo faccio per il tuo bene”.
“CRISTO MAMMA DOMATTINA VADO DAL PROF E GLIELO CHIEDO. GLI CHIEDO SE CI PARLA DEI GAY. COSI’ SEI CONTENTA”.
“Non bestemmiare, non…”
“SE IL PROF NON NE SA UN CAZZO MI INFORMO IO, VADO ALL’ARCIGAY, CE L’AVRANNO BENE DEL MATERIALE INFORMATIVO. BASTA CHE LA PIANTI MAMMA”.
“Ma perché ti comporti così? Sempre il contrario di quello che ti chiedo. Non capisco”.
“PERCHE’ SONO UN FOTTUTO ADOLESCENTE, MAMMA! Ci comportiamo così, non lo sapevi?”
“No”.
“Ma non l’hai fatta educazione all’affettività alle medie?”

4. Visitate spesso il sito internet della scuola per verificare che il gender non passi attraverso ulteriori lezioni extracurricolari (es. Assemblee di istituto o altre attività straordinarie ).

“Beh, senti questa. Sai che gestisco il sito della scuola, no?”
“Dev’essere eccitante”.
“Meglio della vernice che si asciuga. Beh, c’è un IP che tutti i giorni entra nel sito della scuola. Tutti i giorni”.
“Un maniaco”.
“Ma non è tutto. Tutti i giorni fa le stesse query. Le stesse”.
“Ovvero?”
“GENDER”.
“Uhm…”
“SESSUALITA’. ADOLESCENTI. GAY. LESBICHE”.
“Sul sito della scuola”.
“Sul sito della scuola”.
“Hai l’IP?”
“Certo”.
“Perché forse una segnalazione alla polizia postale, hai visto mai…”
“Già fatta”.
“Bene”.

COSA FARE SE LA SCUOLA ORGANIZZA LEZIONI O INTERVENTI SUL GENDER PER GLI STUDENTI

6. Date l’allarme! Sentite tutti i genitori degli studenti coinvolti e convocate immediatamente una riunione informale, aperta anche agli insegnanti

L’ideale sarebbe installare in tutte le case dei compagni dei vostri sanissimi figli un allarme di quelli assordanti, collegato alla vostra abitazione: appena scoprite che la scuola organizza lezioni, GONG! ALLARME GENDER! Fino a quel momento dovrete rassegnarvi a usare uno strumento un po’ meno molesto (comunque il più invasivo a vostra disposizione): il telefono.
“Pronto”.
“Sono Xyx, il rappresentante di classe…”
“Ah, è per la gita di istruzione?”
“No…”
“Perché io già gliel’ho detto alla prof di francese, che novanta euro mi sembrano troppi francamente”.
“È che a scuola è successo un problema…”
“Già gli ho appena sborsato i venticinque del contributo volontario, che almeno la piantassero di chiamarlo volontario visto che non ti smollano finché te li han scuciti, e poi l’assicurazione per la palestra che è volontaria pure quella ma se non paghi tuo figlio non va in palestra.., ma voi rappresentanti ne avete parlato con il preside di questa roba?”
“Ma questa è un’altra cosa, un po’ più grave”.
“Sentiamo”.
“Ecco, la scuola sta organizzando una lezione sul gender”.
“Sul che?”

“Sulla sessualità, l’omosessualità, queste cose…”
“E quanto ci costa?”
“Niente”.
“Niente?”
“Sì, ma è comunque molto grave perché…”
“Signora scusi ma qui ogni volta che passo da quella scuola mi ficcano le mani nel borsello, e lei non l’ho mai sentita, e mi chiama a quest’ora per dirmi che finalmente sono riusciti a organizzare una lezione senza chiedermi un soldo?”
“Mi scusi lei, ma quando mi avete eletta lo sapevate quanto fosse importante per me la tematica del gender”.
“Ma l’hanno eletta in due ma che cazzo vuole da me, mo’ ce la deve far pagare a tutti se suo figlio è gay”.
“Mio figlio non è gay!”
“Guardi che non c’è niente di male”.
“Mio figlio non è gay!”
“A parte quella mania di chiedere tutti i giorni a qualsiasi insegnante quand’è che parliamo dei gay?, Diosanto, renderebbe omofobo anche Vladimir coso, lì, il Lussuria”.
“Non bestemmi”.
“Mi dispiace se l’ho chiamato nel modo sbagliato, non lo seguo molto”.

8. Dopo la riunione informale potrete chiedere la convocazione d’urgenza di un consiglio di classe straordinario per discutere della questione, eventualmente inviando una lettera raccomandata al dirigente scolastico e per conoscenza al dirigente dell’ufficio scolastico provinciale in cui chiedete le stesse informazioni e, qualora tale intervento non sia previsto dal piano dell’offerta formativa, chiedere che sia annullato. 

“Ah, e poi questa è arrivata stamattina”.
“Uhm. Alla cortese attenzione del dirigente scolastico blablà… lezione blablà… sessualità… gender… Ah”.
“Importante?”
“Ma niente, è quel genitore fulminato di terza K che vuole che sospendiamo la lezione sulla sessualità”.
“E perché?”
“Dice che non era nel POF”.
“Ah beh, allora sospendiamo pure il gemellaggio con la Bassa Sassonia”.
“Non c’è nel POF?”
“Lo abbiamo aperto un mese dopo”.
“No ma vabbe’ ma sul piano strettamente tecnico potrebbe anche aver ragione, e poi queste lezioni sulla sessualità, diciamola tutta…”
“La vuole sospendere?”
“Se la sospendo finiamo sul giornale”.
“Magari finiamo sul giornale anche se non la sospende”.
“Ora come ora è meno probabile. C’è un accenno all’affettività nel POF?”
“Altroché”.
“Allora da quella parte abbiamo il culo coperto. Le scrive per favore una rispostina in cui con molta diplomazia le dice picche?”
“Ricevuto”.
“Ma poi cos’ha questa, perché è così ossessionata dai gay?”
“Forse è per via di suo figlio”.
“Che ha suo figlio”.
“Sta venendo a scuola con un boa di piume di struzzo”.
“Ahah, ma è solo per incazzare i genitori, dai”.
“Oppure è il vecchio trucco”.
“Che vecchio trucco?”
“Ai miei tempi dopo sei mesi così li facevamo entrare nello spogliatoio delle ragazze”.
“E voi ci cascavate?”
“No. Era un gioco delle parti. L’idea era che uno disposto a subire le umiliazioni del caso per tutto quel tempo si meritasse comunque un premio”.
“E io mi sono perso tutto questo”.
“Non ha fatto educazione affettiva?”

10. Nel caso in cui la scuola rifiuti di ascoltare ogni vostra richiesta, inviate una raccomandata al dirigente scolastico e per conoscenza al dirigente provinciale in cui chiedete che l’iniziativa sia immediatamente sospesa e comunicate che in caso contrario eserciterete il vostro diritto di educare la prole come sancito dall’art. 30 della Costituzione e che pertanto, nelle sole ore in cui si svolgeranno tali lezioni terrete i vostri figli a casa.

“Cosa c’è scritto su questa giustificazione? Non capisco…”
“(Auff) Ma niente, prof, è mio padre”.
“È scritto piccolissimo… Nizzoli mi presti la lente? Dunque: “in base all’art. 30 della Costituzione…” tuo padre ti ha tenuto a casa in base all’articolo 30 della Costituzione?”
“Per favore, prof, non davanti a tutti…”
“Intendiamo esercitare il nostro diritto di educare… ma non poteva scriverci MOTIVI FAMIGLIARI come fanno tutti? Vedi Nizzoli per esempio… perché eri in ritardo stamattina?”
“Motivi famigliari”.
“Eri al bar, ti ho visto”.
“Mio cugino è cameriere”.

11. Fatevi aiutare dalle associazioni di genitori o dal Forum delle associazioni familiari per ogni azione più decisa quale, ad esempio, la segnalazione al ministero di eventuali abusi oppure eventuali ricorsi al TAR oppure per la redazione di formali diffide.


“Cos’hai detto che c’è scritto nella diffida?”
“C’è scritto che non escludono di ricorrere al TAR”.
“Al TAR? Contro quale atto amministrativo?”
“Non c’è scritto”.
“Cioè adesso il TAR è competente sull’omosessualità?”
“Si sono fatti aiutare dal forum delle associazioni familiari”.
“Apperò. E meno male che si sono fatti aiutare. Sennò ricorrevano all’Aja?”

12. Custodite i vostri figli, alleatevi con loro, fornite loro fin da ora un adeguato supporto formativo e scientifico in base alla loro età così da proteggerli e prepararli a fronteggiare la teoria del gender. Spiegate loro il perché di ogni vostra azione, coinvolgendoli nelle scelte della famiglia. Fate in modo che non si sentano mai soli in ogni vostra iniziativa, ma coinvolgete anche altri genitori e conseguentemente anche altri loro compagni di classe. L’unione fa la forza. Anche in questo caso.

Cara mamma, caro papà.
Ci è voluto molto coraggio per scrivervi questa lettera, che è un po’ il mio coming out.
È qualcosa che mi tengo dentro da anni – insomma, per farla breve, non sono gay. Non lo sono mai stato.
Ho cominciato a scuola soltanto per farvi incazzare – voi eravate impallinati con quelle storie sui gender, e io non vi sopportavo. Mi dispiace avervi fatto soffrire tanto.
Non ho mai avuto rapporti omosessuali in vita mia, per quel che conta. Invece ho avuto qualche ragazza, e soprattutto un anno fa ho incontrato Miriam. Credetemi se vi dico che l’ho amata dal primo momento. Con lei ho condiviso tutto, compresa la decisione di rispettare i nostri desideri e arrivare casti al matrimonio, al quale siete invitati anche voi – venerdì 25. 
Miriam, che vi ama già tantissimo, non vede l’ora di conoscervi, e così i suoi genitori.
A presto,

PS: è un matrimonio musulmano, mi sono circonciso venerdì scorso. Insciallah.

racconti, repliche, scuola

I piccoli elettori della Prima Esse

(racconti del mese, ottobre)
(È un pezzo di qualche anno fa).

“Buongiorno, è la Prima Esse questa?”
“Sì, ma tu chi sei, signore?”
“Io sono il supplente”.
“E la profFarfarella?”
“Non so, immagino che sia ammalata”.
“Quindi non c’è”.
“Infatti ci sono io che sono il supplente. Quindi voi siete la Prima Esse. Era da un bel pezzo che non venivo qui, ma vedo che, ehm…”

(L’intonaco scrostrato trattiene poche tracce dell’ultima mano di verde marcio. Dal soffitto secentesco – quest’ala della scuola è stato un convento, una casa di reclusione per figli indesiderati – pendono ragnatele ripugnanti, scure come i rami, dita di un orco che picchietta alle finestre, “fammi entrare”. Tre cartelloni sull’apparato digerente ornano la parete in fondo, chi li ha disegnati si è laureato da un pezzo ed ha lasciato il Paese per sempre. Intorno al termosifone le zanzare africane fiutano la carne fresca e scaldano i motori. L’ultima classe che ho avuto qui dentro contava tre dislessici, due asociali e tre possessioni demoniache).

“…vedo che è tutto al suo posto come sempre. Bene. Facciamo l’appello? Abati, Bandiera, Bauadanogou, si pronuncia così? Carotone”.
“Catorone”.
“Ops, scusa. Dgfhj. Elamiri. Fghkj”.
“Fkhjg”.
“Scusa anche te. Beh, mi sono un po’ stancato di questo appello. Ditemi chi non c’è e facciamola finita”.
“Scusa signore, ma tu sei un professore?”
“Sì”.
“Ma in che classe insegni?”
“Insegno in una classe lontana lontana, dall’altra parte del plesso”.
“E cosa insegni?”
“Mah, di solito italiano, storia, geografia…”
“Ma noi adesso avevamo matematica, tu la conosci la matematica?”
“Beh, boh, dipende. Cosa avevate per oggi?”
“I numeri irrazionali”.
“Ah, bene, ecco, ho un’idea. Come sapete alla quarta ora c’è l’elezione dei rappresentanti”.
“Cos’è l’elezione dei rappresentanti?”
“Ecco, appunto, potremmo usare questa ora per parlarne, che ne dite?”
“Ma è vero che dobbiamo votare?”
“Dunque, su questo vorrei esser chiaro, perché a volte ci sono dei ragazzini che confondono un po’ la realtà coi telefilm e pensano che si tratti di votare per la ragazza-o più carina-o, ecco, no, non c’entra niente. Anzi, se volete un mio consiglio, votate dei tipi anche bruttini ma determinati, perché in pratica si tratta… avete presente il Preside? Ecco, i vostri rappresentanti andranno a parlare con il Preside”.
“Ma cosa hanno fatto di male?”
“No, niente! Non hanno fatto niente di male, anzi… dunque, ricominciamo. Vi siete mai chiesti chi comanda nella scuola? Cioè chi ha deciso, poniamo, che la scuola comincia il 15 settembre e che il riscaldamento si accende oggi e la campana suona alle otto eccetera?”
“Berlusconi”.
“No. Cioè, anche lui in un certo senso, ma prima…”
“Il preside”.
“Beh, senz’altro il preside è importante, ma non decide tutto lui. Ci sono infatti altri organi, per esempio c’è una riunione di tutti i docenti, cioè gli insegnanti, che si chiama appunto collegio docenti. E poi c’è il consiglio di istituto, e ce ne sono altri che sulla lavagna non vi scrivo perché francamente li devo ancora capire io, comunque il senso è che tutti decidiamo un po’, nella scuola. I docenti, i collaboratori che sarebbero i bidelli, i funzionari che sarebbero le segretarie nell’ufficio là in fondo, insomma tutti. No, aspettate. Mi sto dimenticando qualcuno. Di chi mi sto dimenticando?”
“Il cane del bidello Guercio”.
“Quello in teoria non dovrebbe entrare. No. Parlo di un sacco di gente che viene a scuola tutti i giorni, ma non sono docenti, non sono collaboratori, non sono funzionari, non è il preside, insomma, chi è?”
“Siamo noi”.
“Ecco, questa cosa a un certo punto è sembrata ingiusta al preside, che disse a noi insegnanti: perché non facciamo anche un’assemblea degli studenti, con i rappresentanti eletti di tutte le classi? E noi insegnanti gli rispondemmo – io mi ricordo, ero al primo incarico – gli rispondemmo che era una follia, far votare gli undicenni, che se vi lasciavamo soli con delle schede e una scatola per mettercele dentro (si chiama urna elettorale) probabilmente vi sareste mangiati le schede e poi vi sareste buttati dalla finestra, perché insomma, in quegli anni non ci fidavamo molto degli studenti. Ma lui volle provare e devo dire, dopo tanti anni, che forse aveva ragione, nel senso che non c’è quasi più nessuno che si mangia le schede, anche i precipitati dalle finestre non sono aumentati negli ultimi anni, in compenso adesso c’è questa assemblea di studenti che può fare proposte anche molto costruttive”.
“Scusa professore…”
“Prova a dire Scusi professore, dai”.
“Scusi professore, dai, ma non ho capito. Vuole dire che noi possiamo fare delle proposte al Preside?”
“Vedi che invece hai capito benissimo? Soltanto che non potete andarci tutti, dal Preside, e quindi ci mandate due rappresentanti – un ragazzo e una ragazza. Quindi alla quarta ora vi porteranno una scatola, delle schede, e ognuno scriverà sulla scheda il nome di un ragazzo e di…”
“Posso votare per due maschi?”
“No. Devi votare per un maschio e per una femmina”.
“Ma io non voglio votare una femmina!”
“Abituati all’idea”.
“Ma non posso votare per chi mi pare?”
“Beh, sarebbe meglio che qualcuno si candidasse… cioè, qualcuno dicesse a tutti gli altri: voglio provarci, voglio essere io il vostro rappresentante, dal Preside ci vado io… e se mi votate, prometto che gli chiederò… ecco, cosa chiedereste al Preside? Pensateci bene, e mi raccomando, non fate le solite proposte assurde, tipo…”
“Allungare l’intervallo!”
“…è un classico. No, questa non si può fare”.
“Perché?”
“Perché l’orario della scuola non dipende dal Preside, ma dall’ufficio da cui dipendono tutti i presidi d’Italia, che si chiama Ministero (la faccio molto più semplice di quanto non sia, ma fidatevi), e quindi no, l’orario non si cambia: l’intervallo non si allunga e le lezioni non si restringono”.
“E più ore di fisica?”
“Fisica nel senso di Scienze Motorie? Non si può. Bisognerebbe togliere altre lezioni, e quali? E poi nominare altri insegnanti, e probabilmente ci vorrebbe un’altra palestra, e quindi no, non è una promessa elettorale realizzabile, mi dispiace”.
“Ma allora è una fregatura. Non è vero che possiamo decidere”.
“Non potete decidere su tutto subito, tante grazie. Avete undici anni. E comunque chi credete che decida per voi? Il Ministro, lo sapete chi lo nomina?”
“Berlusconi”.
“Complimenti. E Berlusconi chi lo ha nominato?”
“Si è nominato da solo”.
“No, anzi, ha dovuto spendere un sacco di soldi, mettere i manifesti, perché? Perché è stato e-let…”
“Eletto?”
“…proprio come i vostri rappresentanti, solo che lui è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, che ha votato per il suo partito, e quindi il presidente Napolitano lo ha chiamato nel suo palazzo che si chiama il Quirinale e gli ha detto: Berlusconi, ti do l’incarico di formare un governo nominando i ministri che credi siano i migliori sulla piazza, e lui l’ha fatto”.
“Ma Napolitano sta a Napoli?”
“Sta a Roma. Quindi, ricapitolando: l’intervallo non si può allungare perché è di competenza del Ministero, che comunque è stato eletto indirettamente dal popolo italiano che sarebbero i vostri genitori. Educazione fisica non si può raddoppiare. Cosa si può fare?”
“La carta igienica nei bagni”.
“Bravissimi! Ecco, la carta igienica è un argomento alla vostra portata. E poi?”
“Le ragnatele”.
“Per esempio. Ecco, su queste cose i candidati vi possono fare delle promesse. Per esempio: Se votate per me farò togliere i ragni dai soffitti! Cose così”.
“Ma se non li hanno fatti togliere i ragazzi dell’anno scorso…”
“Magari non sono stati abbastanza convincenti. Oppure i ragni sono tornati quest’estate. Nessuna battaglia è vinta per sempre in democrazia. Ma sentiamo la vostra compagna che ha alzato la mano. Ti vuoi candidare?”
“…”
“Non fare la timida, eh? Perché se ti votano dovrai partecipare a un’assemblea con quelli di seconda e di terza, e se non prendi la parola loro di sicuro non te la daranno. Dai. Hai delle promesse da fare ai tuoi compagni?”
“Ma io pensavo… che potevamo chiedere di poter usare i cellulari…”
“Eh, i cellulari. Ma lo sapete che è complicato, il discorso-cellulari”.
“Però la profFarfarella…”
“Sapete che all’inizio dell’anno abbiamo fatto firmare ai vostri genitori un avviso che parla chiaro: non li vogliamo vedere. Perché poi va a finire che li usate per scambiarvi le foto, poi si vedono le pareti dei bagni della scuola su facebook, insomma non è tanto bello”.
“Però i miei mi hanno detto che lo devo portare lo stesso, perché se mi succede una cosa grave…”
“Tipo che rimani schiacciata sotto un armadio e non riusciamo a capire chi sei, ma ti riconosciamo dal cellulare, una cosa così?”
“Ma no, però mettiamo che foro la bicicletta”.
“Eh, capisco. E pensa che per un secolo i tuoi compagni sono venuti a scuola in bicicletta ma senza il cellulare, perché non lo avevano ancora inventato, e quando foravano, sai cosa gli succedeva?”
“No prof”.
“Guarda, è una cosa molto triste. Passava un orco e se li mangiava, poi sputava le ossa qui intorno”.
“…”
“Sul serio, nel seminterrato abbiamo l’ossario, l’ossario di tutti i bambini che sono venuti a scuola in bicicletta senza cellulare dal Seicento in poi, è una storia tristissima. Pensate anche solo alle povere madri, che al mattino abbracciavano il bambino pensando: lo rivedrò?”
“Prof, lei non ci sta prendendo molto sul serio”.
“Hai ragione, scusa. Comunque la questione è molto semplice: se un prof vi vede il cellulare ve lo sequestra, ma il prof non ha il diritto di perquisirvi, quindi se lo tenete spento… ma per spento intendo spento, non come quelli che dicono che tolgono la suoneria e poi hanno un vibro che vengono giù le tegole”.
“Però alla profFarfarella le suona sempre”.
“Ma quello che c’entra scusa, lei è una prof… le prof hanno regole diverse”
“Ma una volta che faceva lezione le hanno telefonato dieci volte per offrirle dei lavori e lei diceva sempre di no e metteva giù”.
“Ecco, lo so perché ci sono passato, si vede che la vostra prof è una precaria, cioè il suo nome è in una lista, e quando in una scuola si libera un posto, devono chiamarla, e finché lei non risponde anche solo per dire di no, loro non possono chiamare un’altra, capite? Per cui uno deve portare sempre il cellulare con sé, ma è per una cosa seria, mica per l’orco delle ruote sgonfie. Dovete capire che gli adulti hanno delle preoccupazioni che voi nemmeno…”
“Ma di solito lo usa per chiamare suo marito”.
“Magari suo marito sta molto male, che ne sai. Non si deve mai giudicare il p…”
“Ma gli dice delle cose tipo Butta la pasta
“Stavamo parlando di candidati alle elezioni. Qualcun altro si vuole candidare, o anche solo suggerire delle proposte? Tu là in fondo, dai”.
“Io… la macchinetta delle merendine”.
“Ecco, guarda, me l’aspettavo. Perché sto invecchiando. La macchinetta delle merendine, ragazzi miei, io capisco che vi possa sembrare una cosa fantastica, ma credetemi, è un diabolico arnese. Una volta ce l’avevamo, sapete?”
“Infatti mia sorella…”
“Ecco. Però forse tua sorella non ti ha raccontato di quando passava metà dell’intervallo a far la fila per comprare una merendina che costava dieci volte il prezzo che spenderebbe tua mamma al supermercato. E tutte le monetine che si è mangiata senza restituirle. E tutte le volte che premendo schiacciatina usciva il terribile fruttino alla pera appiccicosa. Lo so anch’io che fa scena, una bella macchinetta delle merendine, ma quando il principale passatempo dei ragazzi di terza diventa prenderla a spallate, e i bidelli li aiutano pure… insomma c’è un motivo se l’abbiamo tolta e…”
“Ma al piano di sotto ce l’hanno”.
“Ma quella è la macchinetta dell’acqua”.
“Ma adesso ci hanno messo dentro le merendine”.
“Sul serio?”
“Sììììì”.
“Questa è un’ingiustizia però”.
“Allora possiamo chiederla anche noi?”
“Beh, in linea di… cioè io non vi appoggio assolutamente… ovvero vorrei che fosse messo a verbale che è una proposta che non condivido, però se al piano terra l’hanno messa, voglio dire, voi chi siete? I figli delle badanti?”
“Ma prof”.
“Dicci”.
“Nella scuola elementare che facevo io, nell’intervallo, passava il bidello Giorgio col carrello con le focaccine”.
“Ma pensa”.
“Che erano molto buone perché le andava a comprare calde nel forno, e c’erano anche le fette di pane con la marmellata o la nutella”.
“E la tua scuola si chiamava”.
“Santissimo Cuore Addolorato della Beata Vergine”.
“Invece questa si chiama Scuola Pubblica, benvenuta. È la campana, questa? Scusate, eh, resterei con voi tutto il mattino, ma devo andare dai miei”.
“Ciao prof”
“Si dice arrivederci”.

calcio, migranti, racconti, ragazzini, scuola

Il piccolo centravanti africano

(I racconti del mese, settembre)

Non è che gli alunni mi salutino mai troppo volentieri, incrociandomi sul corso; ma è ai primi di settembre che cominciano a nascondersi dietro le colonne, quasi vergognandosi di abbronzature perfette. Hanno un gelato in mano e una ben più fredda consapevolezza sulle spalle: non ce la faranno mai a finire i compiti. Li hanno appena iniziati. Forse non vale neanche la pena di provare. Io faccio finta di niente, e penso che forse era più onesto Mahmadou.

Mahmadou era nero e centravanti prima che fosse cool. Non era esattamente un campione – sgambava tra l’area e il centrocampo in magliette sempre troppo larghe sulle spalle, eredità di un fratello maggiore; aveva fiato e un buon tocco, ma era ancora troppo cucciolo per mettere in soggezione terzini e portiere. Anche i suoi compagni più cari lo chiamavano Mamma, soprannome sommamente infelice a cui si era affezionato. Mamma me lo disse chiaro e tondo, quando in giugno fui per dettare i compiti delle vacanze: non se li sarebbe scritti, un po’ perché aveva lasciato a casa il diario, un po’ perché dai, non ne valeva la pena; quell’anno andava in vacanza anche lui, e non poteva portarsi i libri giù in Africa.

Obiettai che poteva farne comunque un po’ prima di partire; mi spiegò che partiva subito, appena finita la scuola; che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di mandare i genitori a ritirare la pagella, l’aereo si stava già scaldando sulla rampa. Né poteva posporli al ritorno, i compiti, perché sarebbe tornato tardissimo, a settembre inoltrato, se non più in là: non dovevamo però preoccuparci, potevamo benissimo cominciare la scuola senza di lui. Portarsi i compiti giù al villaggio? Fuori discussione: anche se si fosse trovato un posticino in valigia – e non c’era – Mamma mi spiegò che la vita nel villaggio è molto diversa da quella che conduciamo qui: c’è tutta una dimensione comunitaria che purtroppo a noi sfugge, blindati come siamo nelle nostre nicchie alienanti. Una volta arrivato laggiù, Mamma si sarebbe messo immediatamente a giocare a pallone coi suoi amici, perché è così che funziona; e non avrebbe smesso finché l’aereo del ritorno non avesse iniziato le procedure di decollo. Mi spiegò, Mahmadou, che la sola idea di dire ai coetanei: “ora non posso giocare, devo fare i compiti” era da rigettare come un ingenuo cascame del mio colonialismo interiore: in una società rurale africana non ci si può isolare dal gruppo, non si possono fare i compiti. La volontà di isolarsi si trasforma immediatamente in uno stigma sociale, quando non somatizza prendendo le forme di una vera e propria malattia. Davvero volevo renderlo un paria, un lebbroso agli occhi dei suoi fratelli? Non poteva fare i compiti; non dipendeva da lui. Eccetera.

“Ora prendi un foglio e te li scrivi lo stesso”.
“Ma prof…”
“Qualcuno ha una penna da prestare a Mahmadou?”

Verso i primi d’agosto ormai l’ordine alfabetico degli alunni è un ricordo lontano, che si infrange tra la lettera G e la L. Per quanto possano riempirmi di vita fino a metà giugno, i loro volti svaporano nel giro di due mesi, e così a momenti non riconobbi Mahmadou, un pomeriggio che passai per l’Africa, diretto alla coop. L’Africa in questione era il parcheggio di un centro direzionale affacciato sull’incrocio: un luogo losco a un’ora dal tramonto, ma ideale per il calcetto, a causa di un materiale gommoso, nero, con cui era stato pavimentato, più morbido del cemento – anche se assorbe il calore del primo pomeriggio come una spugna, e non lo lascia andare fino a mezzanotte. Mamma teneva un Supertele in grembo. Lui e i suoi amici indigeni erano seduti sul muretto che delimitava il continente, a prender fiato: sarebbe stato il momento giusto per un sorso d’acqua o magari un gelato, ma avrebbero dovuto lasciare l’Africa nera, attraversare la strada e aprire una linea di credito col barista cinese.

Mahmadou fu di parola: passò tre mesi interi nella sua Africa di quartiere, senza mai venir meno alle regole non scritte della tribù. A settembre tornò tra noi, senza penna né diario. Com’è andata l’Africa, Mahmadou? Bene, prof, bene. Là è tutto diverso, la vita non stinge sotto la pioggia, né imbrunisce col sole. Ogni cosa ha per sempre quel colore con cui uscì dallo stampo.

futurismi, la sinistra perde anche per questo motivo, racconti

La Sinistra Intestinale Autonoma

Una mattina, svegliandosi da sogni contrastanti, il compagno K. si sentì confuso. Il suo stesso corpo gli mandava segni contraddittori: una curiosa sensazione di leggerezza, mai sperimentata prima, si sovrapponeva a un inquietante peso sullo stomaco. La penombra della stanza era rischiarata dal telefono che vibrava in silenzio.
“Che mi sia trasformato in un enorme coleottero?”, pensò, e si sorprese nel soggiungere: “Magari”. Il telefono insisteva, qualcuno lo stava cercando, probabilmente per litigare. Di lì a poco sarebbe comunque scattato il messaggio della segreteria…
Pronto, siete in linea con la direzione del Nuovo Partito di Unità Socialista e Ambientalista, lasciate il vostro messaggio dopo il bip“.
“Porcaputtana K stacca quella segreteria! Ti devo parlare subito! È importante!”
“Ulrich? Sei tu? Non dovresti chiamarmi, lo sai che siamo ancora in causa per l’attribuzione della sede e…”
“Lascia perdere queste cazzate. Hai visto Tonio ieri sera?”
“Uh, può darsi”.
“Lo hai visto o no?”
“Chi lo vuole sapere? Il mio amico Ulrich o il dirigente di zona di Sinistra Unitaria Democratica Ambientalista?”
“Ancora con ‘sta storia… non c’è più il SUDA”.
“Ah no?”
“Ci siamo sciolti un mese fa”.
“Cazzo mi dispiace. E Lotte?”
“Se n’è andata con i Nuovi Comunisti Unitari”.
“Uh che brutta gente”.
“Ma no, perché, sono due tipi a posto. Stanno in un villino sui viali, hanno anche un cane, un cocker, mi sembra”.
“I comunisti unitari?”
“I Nuovi Comunisti Unitari. Tu stai pensando alle Cellule Comuniste Unitarie di tre anni fa, quelli a cui sequestrarono il furgone in Val di Non con le molotov”.
“Quelli, giusto, sì, che fine han fatto poi?”
“Non li ha più visti nessuno, in quei boschi non prende il gps”.
“Magari si sono radicati nel territorio”.
“Seh, certo. Ma insomma Tonio l’hai visto o no?”
“Come faccio a dirtelo… Non so nemmeno in che partito tu militi in questo momento”.
“Sono tornato all’ovile”.
“Rifondazione Unitaria? Ma non si era sciolta?”
“Nuova Rifondazione Unitaria”.
“Avete rifondato la rifondazione?”
“Ci siamo rimessi assieme, è finito il tempo delle scissioni”.
“Vi siete rimessi assieme in quanti?”
“Per adesso siamo io, Agatha e Karl…”
“È per questo che stai cercando Tonio? Stai cercando di fottermi il tesoriere?”
“Perdio, K, ma tesoriere di cosa, si può sapere? Il tuo partito ha la sede legale nella tua cameretta in casa dei tuoi, il vostro organo di stampa è un blog che non aggiornate dal 2017…”
“Voi invece ce l’avete, un organo?”
“Senti, non è come tu pensi. Non ti voglio fottere Tonio. È una questione privata”.
“Il privato è…”
“…un casino. Agatha è incinta”.
“Uh, complimenti!”
“Non stiamo più assieme da sei mesi”.
“Sei mesi… vuoi dire il congresso della Sinistra Unita? Vi siete divisi lì?”
“Sintomatico, vero? Lei andò coi comunisti democratici, io rimasi con quella frangia della Sinistra Unitaria che poi si spezzò subito dopo”.
“E Tonio cosa c’entra?”
“Tonio e Agatha stanno assieme”.
“Questo è impossibile”.
“Lo sanno tutti, K., dai”.
“Tutti chi?”
“Ma ci vai su facebook ogni tanto?”
“Ho l’account del partito, vedo solo l’attività degli iscritti”.
“Cioè non vedi più niente, ci hai fatto caso? Quanti siete rimasti?”
“Quanti? Beh, non devo dirlo a te, comunque Tonio risulta ancora fidanzato con Ines”.
“Non posso crederci”.
“Come no? Noi del Nuovo Partito di Unità Socialista e Ambientalista siamo persone serie, se ci impegniamo in una relazione…”
“Ines è una spia”.
“Eh?”
“E una trotschista della sesta internazionale, il suo vero nome è Else, si era infiltrata da voi per mettervi contro ai Comunisti Ambientalisti Zona Nord Italia”.
“I CAZoNI? Non ho niente contro i CAZoNI, sono simpatici, mi invitano sempre su in collina a Natale a festeggiare il sol dell’avvenire…”
“In effetti la missione è fallita e adesso lei si sta riciclando coi Socialisti Unitari Libertà Ecologia Autonomia Duemila”.
“Quelli invece sono delle merde, mi devono ancora i soldi della corriera per la manifestazione in Val di Ma. Comunque non ti credo. Ines è una grande compagna, leale e…”
“Si chiama Else. Ci sei andato a letto anche tu?”
“Quando si è uniti nella lotta queste cose succedono”.
“Vai tranquillo, quella si è fatta mezza sinistra extraparlamentare in città”.
“Stiamo comunque parlando di…”
“Di mezza dozzina di persone, sì, più o meno”.
“Quindi Ines…”
“Si chiama Else”.
“…Non è più nel mio partito?”
“Non credo, no. i Socialisti Unitari Libertà Ecologia Autonomia Duemila le hanno promesso un posto in lista per il consiglio di circoscrizione, avrà voglia di sistemarsi nelle istituzioni”.
“Questo è orribile!”
“Ma dai, comincia ad andare per i trentacinque, non è che puoi restare trotschista tutta la vita, prima o poi ti infiltri nella fessura giusta e…”
“Ulrich, non hai capito. Se Ines se n’è andata…”
“Else”.
“Siamo rimasti solo io e Tonio nel partito”.
“Sul serio?”
“Ma ieri sera io e Tonio…”
“Mi stai dicendo questo? Siamo arrivati a questo?”
“Abbiamo litigato… sull’opportunità di fare o no una lista comune coi CAZoNI… lui ha sbattuto la porta, ha svegliato mia madre e…”
“Fermo. Resta fermo. Potrebbe essere più grave di quel che sembra”.
“Vuoi dire che sta succedendo a me? Proprio a me?”
“Come ti senti in questo momento?”
“Strano. Mi sento molto strano. Leggero e… pesante”.
“Respira lentamente”.
“In effetti faccio un po’ fatica, c’è qualcosa che mi opprime”.
“Non accendere la luce! Aspetta”.
“Sul serio sta succedendo a me? La Singolarità?”
“Prima o poi sarebbe successo, K. Quando ero nel SUDA temevo che potesse capitare a me. Negli ultimi anni le tendenze scissionistiche che devastano la sinistra italiana hanno superato il punto di non ritorno. Era solo una questione di mesi prima che succedesse…”
“Ma perché proprio a me?”
“Tu sei solo il primo. Il primo partito politico a coincidere con una sola persona. In un certo senso sei una nuova specie vivente, un passo avanti nell’evoluzione”.
“Non mi sento affatto bene, Ulri”.
“Cerca di vedere le cose in un modo positivo. Non ti senti finalmente… unitario? Ora non devi più lottare per condividere le tue idee. Niente più lotte intestine. Puoi farti tutti i congressi che vuoi, senza aspettare il numero legale”.
“Ulri, non respiro”.
“Tieni duro”.
“Io adesso accendo la luce”.
“Non lo so, non mi sembra una buona idea”.
“Che cosa potrebbe essermi successo?”
“Non lo so, K., non lo so. Qualcosa che non è ancora successa a nessuno”.
“Addio Ulri”.
“No, aspetta, K., sto arrivando, io…”
Clic.

Contò fino a tre. Quattro volte. Per un attimo che gli sembrò lunghissimo, non respirò più. E poi accese.
Quello che vide davanti a sé, non l’aveva mai visto realmente. Davanti ai suoi occhi ancora storditi dal sonno, c’era il suo culo.

Il suo culo si era separato dal tronco, si era seduto sulla sua pancia, e meditava sul da farsi.

“Torna con me”, bisbigliò K. “Possiamo fare ancora tante cose assieme. Dobbiamo… dobbiamo guardare a ciò che ci unisce, non a ciò…”
Una lungo peto troncò la discussione, annunciando nel contempo la nascita del Partito della Rinascita Intestinale Autonoma Popolare (PRIAP).

futurismi, racconti

Ritorno al Futurismo

Anche quest’anno la casa editrice inesistente Barabba ricorda Carlo Fruttero con un’antologia di racconti di fantascienza che vale la pena giudicare dalla copertina, splendida, di Isola Virtuale. Su questo blog potrete leggerli, uno al giorno, per parecchi giorni. Oppure potete scaricare il tutto in vari formati, qui. Ecco il mio contributo, breve come al solito:


Il Chiaro di Luna colpisce ancora
Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.” L’alcova di acciaio, 1921.
“Professor Modena, voi ritenete che i viaggi nel tempo siano impossibili, per un motivo autoevidente, mi sbaglio?”
Angelo Modena riprese fiato e tornò a fissare il suo interlocutore nella penombra del salotto. Le mani dell’uomo aderivano ai braccioli della poltrona come se ne fossero un’estensione naturale. Sembrava aver preso forma in quella stessa posizione, pochi minuti prima, mentre il cucina il professore preparava un caffè.
Una pioggia opaca sbatteva granuli di piombo sulla parete-finestra, affacciata sulla laguna. La tangenziale di Venezia era da qualche parte oltre lo smog. Più in fondo lampeggiava il faro per i dirigibili in cima all’orribile grattacielo Sant’Elia, appena inaugurato e già annerito da un catrame che sembrava secolare.
“Non sono un’allucinazione, professor Modena. Sono perfettamente reale e potrà toccarmi, se lo desidera. Ma la prego, risponda alla mia domanda. Qual è la miglior prova del fatto che i viaggi nel tempo non siano possibili?”
“Stamattina ho scritto un appunto”.
“Sul vostro diario, certamente, eccolo qui”. L’interlocutore estrasse da una tasca esterna un taccuino ingiallito, oscenamente logoro. “Tre febbraio 1929. Ho ritrovato una vecchia edizione di un grande amore della mia gioventù, La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Oggi come ieri mi sbalordisce l’intuizione del tempo come quarta dimensione. L’idea del viaggio nel tempo è una delle più originali mai concepite, anche se purtroppo impraticabile al di fuori della finzione narrativa. D’altro canto è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“Chi vi ha dato il permesso di frugare tra i miei appunti?”
“Il vostro diario è come sempre nel cassetto dello scrittoio. E non ricordo dove voi teniate la chiave. Stavo dicendo: è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“…non abbiamo mai avuto visite dal futuro”.
“Molto brillante, professor Modena. È vero. Se il viaggio nel tempo fosse praticabile, noi riceveremmo senz’altro visite degli uomini dal futuro. Ma questa – se posso farle un’obiezione – non è una vera prova contro il viaggio nel tempo. Al limite è un indizio. E forse non ha valutato altre ipotesi”.
“Quali ipotesi?”
“Viaggiare nel tempo potrebbe essere molto complesso. E pericoloso. I viaggiatori nel tempo potrebbero essere costretti a nascondersi per evitare alterazioni nei rapporti di causalità, mi segue? Essi proverrebbero da un futuro che consegue dal nostro presente, ma palesandosi per viaggiatori nel tempo altererebbero questo stesso presente, generando nuove catene di cause ed effetti che potrebbero mettere a rischio la loro stessa esistenza, non so se riesco a spiegarmi”.
“Potrebbero uccidere un loro antenato”.
“Per esempio”.
“O sé stessi”.
“Non deve veramente preoccuparsi di questo”.
“Si verrebbe a creare una specie di…”
“Noi lo chiamiamo paradosso”.
“Voi del futuro, mi è lecito immaginare”.
“Proprio così, professor Angelo Modena. Il viaggio nel tempo è possibile, voi stesso lo dimostrerete tra sette anni. Ne serviranno altri tre per le verifiche sperimentali, dopodiché…”
“Questo spiega le rughe e la calvizie, professor Angelo Modena. Deve aver lavorato molto nei prossimi dieci anni”.
L’interlocutore sospirò. “Mi dispiace. Mi rendo conto di essere un’immagine perturbante per lei. Ne ho discusso a lungo coi miei collaboratori. Abbiamo vagliato diversi scenari, ma alla fine abbiamo convenuto che nulla sarebbe stato più convincente di vedere una copia invecchiata di sé stesso…
“Sulla mia poltrona, come il cattivo demone di Stavroghin. Potevo avere un infarto! E voi sareste morto con me”.
“Questo non sarebbe stato possibile. E infatti non è successo, come vede. Abbiamo un cuore di ferro, io e voi. E possiamo concederci un dito di cognac, la bottiglia che nascondete dietro all’attestato della Corporazione Futurista Israelita”.

Vi ho fregati anche quest’anno, per sapere come va a finire dovete scaricare il libro. Buona lettura!

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Usciamo dal metro, dal chilo, da TUTTTOOO!!!

Nel Paese dei Cazzetti

Io, a differenza di tanti che parlano parlano, io ci sono stato nel Paese dei Cazzetti, e devo dire che è molto meglio di come lo dipingono. La gente perlopiù è gentile, i semafori godono di un certo rispetto; inoltre non ci si spara per strada, in generale, se si dispone di un luogo appartato.

Certo, il primo impatto può essere uno choc, perché i Cazzetti pur assomigliandoci divergono tra noi per tanti piccoli bizzarri particolari, ad esempio le unità di misura. Me ne accorsi il primo giorno, appena entrai in un ascensore col mio accompagnatore. Era un ascensore un po’ angusto, così mi capitò di far caso alla targhetta con le specifiche tecniche, di solito non la leggo mai.

“Ehi, ma qui c’è scritto che regge solo…”
“Ottanta chili, sì”.
“O mio Dio adesso si pianta”.
“Ma no, ma cosa dice”.
“Siamo in due, ne faremo come minimo centoventi. Ho anche il bagaglio a mano…”
“Stia calmo. Lei più di trenta chili non pesa…”
“Eh?”
“Io ne faccio quaranta, e il suo bagaglio è leggerissimo. E comunque sono sempre sottostimati questi ascensori, non si preoccupi”.
“No, senta, io la ringrazio, ma come può pensare che io pesi trenta chili, mi ha visto?”
“Ah, ma dimenticavo. Lei ragiona in chili internazionali. Questi non sono chili internazionali”.
“Come, no?”
“No, sono chili cazzetti”.
“Ovvero?”
“Ovvero non saprei… mi sembra che un chilo cazzetto valga due chili internazionali virgola qualcosa”.
“Virgola qualcosa?”
“Eh sì, dipende un po’ dall’andamento generale”.
“Quindi non avete il sistema metrico decimale?”
“Lo avevamo, ma poi abbiamo avuto dei problemi… vede? Siamo arrivati. La sua stanza è in fondo al corridoio. La accompagno?”
“Se non le dispiace. Ma che genere di problemi?”
“Ecco, non so se se n’è accorto, ma noi Cazzetti tendiamo a essere un po’ corpulenti”.
“Eh, sì”.
“Questa cosa nel medio-lungo termine rischiava di avvilirci, di deprimerci, e così il nostro governo ha deciso di varare una manovra per farci sentire più leggeri, insomma è uscita dal sistema metrico internazionale”.
“E avete rivalutato il chilo”.
“All’inizio era solo di un decimo, però si è visto che la gente tendeva a mangiare di più, e si è pensato che serviva una manovra più drastica, insomma… adesso siamo a due e qualcosa. Le piace la stanza?”
“Molto spaziosa”.
“Ah sì, è la più larga del piano, sono cento metri quadri”.
“No, mi scusi, questo è impossibile”.
“Come no? C’è anche qui nella targhetta sulla porta, vede?”
“Guardi a me va benissimo così, come vede ho solo un bagaglio a mano, però non sono cento metri quadrati. Sarebbe un appartamento. Questa è una bella camera, tutto qui”.
“Ah già, giusto, lei pensa ai suoi metri quadrati”.
“Perché, non mi dirà mica che…”
“Eh sì, i nostri valgono un po’ di meno”.
“E come mai? Qual era il problema?”
“Eh, è un po’ imbarazzante”.
“Vi sentivate stretti? Bassi di statura? Suvvia, a me può dirlo”.
“Lei non ignorerà l’etimologia del termine Cazzetti“.
“Ahem, aspetti, ricordo che me ne parlò una volta il mio professore di filologia arcaica, era qualcosa che aveva a che fare con l’apparato riproduttivo, mi pare”.
“Piselli piccoli. Cazzetti significa Piselli piccoli“.
“Ah già, giusto! Dall’italico cazzo, di etimo incerto!”
“Ecco”.
“Ma sarà senz’altro un nomignolo che vi è stato appioppato da qualche nemico invidioso della vostra prestanza”.
“Sì, la teoria ufficiale è quella. Però c’è un’altra ipotesi che gode di un certo credito presso l’opinione pubblica”.
“Ovvero?”
“Forse ce l’abbiamo veramente piccolo”.
“E quindi avete pensato che…”
“Il governo ha pensato che accorciare i righelli avrebbe fatto bene alla nostra autostima”.
“E così avete svalutato i centimetri?”
“Sì, di parecchio”.
“Non è che la cosa abbia molto senso, eh”.
“Non mi dica che non le sarebbe piaciuto, quand’era giovane, poter vantare una trentina di centimetri con gli amici”.
“Mah, boh, può darsi, però… senta, quanto le devo?”
“Niente, per carità”.
“Come niente, una mancia la prenderà. Non mi dica che i cazzetti si offendono, se gli si offre una mancia”.
“Beh, se insiste…”
“Dieci euro?”
“Non sono nella posizione per dire di no. Con questa maledetta crisi…”
“È dura come dicono?”
“Durissima, si immagini che è crollato tutto il settore immobiliare, ormai un metro quadro non vale più nulla. La gente non compra più, siamo tutti terrorizzati. Con quest’euro maledetto…”
“Ma non avete mai pensato di svalutarlo?”
“Eh?”
“Sì, voglio dire, non avete mai pensato di uscire dall’euro e stampare una moneta diversa, abbassandone progressivamente il valore in euro? Non potrebbe essere un sistema per stimolare i consumi, rilanciare l’economia? Sto pensando ad alta voce, però…”
“Scusi, ma lei per chi ci ha preso?”
“In che senso?”
“Cioè, è vero, siamo i Cazzetti, non siamo famosi per la nostra intelligenza media. Siamo dei maledetti obesi e probabilmente abbiamo il pisello così piccolo che abbiamo dovuto rimpicciolire i centimetri per misurarlo; però questo non vuol mica dire che siamo del tutto coglioni, sa?”
“Mi scusi”.
“Si figuri”.

Io a differenza di tanti che parlano parlano, io ci sono stato nel Paese dei Cazzetti, e devo dire che è più complicato di quel che sembra. Ma la cucina è buona. E il metro quadro, confermo, costa un cazzo. Purtroppo non te lo accettano, vogliono gli euro.

Berlusconi, elezioni 2013, futurismi, Monti, Pd, racconti, satira, scuola

Non sempre si può perdere

Qualche notte fa, in un oscuro sotterraneo dalle parti di Arcore:

“…insomma, signori, i numeri sono questi”.
“Ma non è possibile! Tutti gli altri sondaggi…”
“Tutti gli altri sondaggi, con rispetto parlando, sono specchietti per le allodole. Questi sono i numeri veri e… non hanno pietà”.
“Ma com’è potuto succedere! Avevamo otto punti veri di distacco”.
“Li abbiamo recuperati abbondantemente, come vede”.
“È stato il Monte dei Paschi?”
“È stato un po’ tutto l’insieme di cose. Bersani è stato bravo, bisogna ammetterlo”.
“Sono stati tutti bravi. Impacciati e confusionari al punto giusto”.
“Si capisce che hanno tanta voglia di vincere quanta ne abbiamo noi. E adesso siamo nella merda”.
“Via, non precipitiamo….”
“Altro che precipitare. Qui c’è scritto che vinciamo le elezioni, vi rendete conto? Noi! Vincere le elezioni! È un maledetto incubo!”
“Non è ancora detta l’ultima parola…”
“Sentite, il Capo era stato molto chiaro. Aveva detto che voleva il venti per cento. Fine. Voleva divertirsi, fare un po’ l’antieuropeista, dettare condizioni, eccetera. E tornare a casa presto. Una cosa tranquilla. Ve lo ricordate, sì? Venti per cento, aveva detto. Al massimo 25, non un decimo di più. Ci andate voi di sopra a dirgli che è già a Palazzo Chigi?”
“Io non so cosa dire, le abbiamo provate tutte. Pure Santoro”.
“Lascia perdere Santoro che divento una belva”.
“Ma chi poteva aspettarselo… gli avevo scritto apposta quella letterina noiosissima, come facevo a sapere che… sono stati quei due stronzi, veramente stronzi, chi se lo sarebbe aspettato. Gli hanno fatto fare un figurone. Ma senti…”
“Che c’è”.
“Magari non gli dispiace poi così tanto vincere”.
“No, guarda, proprio non ne vuole sapere. Solo di investimenti ci perde dei milioni con lo spread. E poi che fa una volta che è lì, litiga con la Merkel? Taglia l’Imu, esce dall’Euro? Rinegozia il fiscal compact? Ammesso che sappia cosa sia”.
“Ecco, appunto, cos’è?”
“Senti, lascia perdere. Noi non siamo qui per far politica. Siamo qui per far perdere le elezioni a Silvio Berlusconi, che ci paga per questo. Possibile che sia così difficile? È un vecchio bavoso e avido, che altro possiamo aggiungere al pasticcino di merda per renderlo immangiabile? Controlla il calendario”.
“Che c’è sul calendario?”
“Non lo so, controlla. Mi do una settimana. Voglio perdere quattro punti in una settimana, perdio, controlla se ci sono delle scadenze importanti, degli anniversari, roba così”.
“Mah, è fine gennaio… c’è la Giornata della Memoria”.
“Bingo! Lo facciamo andare in qualche luogo simbolico, cerca se ci sono luoghi simbolici in zona”.
“A Milano c’è un memoriale della Shoah”.
“Lo mandiamo lì e gli diciamo di dire due paroline antisemite”.
“Ma sei sicuro?”
“È terrorizzato dall’idea di vincere, vedrai che farà tutto quello che gli diciamo”.
“No, dico, sei sicuro che con l’antisemitismo perde punti? Potrebbe anche recuperarne”.
“Dici?”
“Non so, forse dovremmo prima fare un focus, qualcosa…”
“Non c’è tempo. Senti, proviamo la carta del vecchietto patetico. Niente antisemitismo, una cosa tipo vecchio zio in braghette sotto la copertina, Mussolini ha fatto tante cose buone, eccetera. E vediamo come va. Cosa abbiamo da perdere?”
“Tutto”
“Mi basta un quattro per cento”.

Due sere fa, da qualche altra parte:

“…insomma, signori, i numeri sono questi”.
“Ma non è possibile! Tutti gli altri sondaggi…”
“Tutti gli altri sondaggi, con rispetto parlando, sono becchime per capponi. Questi sono i numeri veri e… sono devastanti”.
“Ma com’è potuto succedere! Eravamo terzi una settimana fa, una settimana fa! E adesso saremmo in testa?”
“Sono stati tutti molto bravi, bisogna ammetterlo. Bersani che si mette a sbranare a vanvera, quell’altro che sbava su Mussolini… due siparietti da commedia dialettale. E d’altro canto son mica scemi, chi glielo fa fare di vincere?”
“Il senso di responsabilità, per esempio”.
“Mi sa che dovremo tirarlo fuori noi”.
“Ma neanche per sogno, siam già stati responsabili abbastanza. I patti erano chiari: noi dovevamo fare l’ago della bilancia, metterci il know how. Al consenso popolare dovevano pensarci loro, i cosiddetti partiti di massa. Questa è un tradimento da parte loro, è… diserzione. Molto scorretta”.
“E che ci possiamo fare?”
“Tanto per iniziare cominciamo a perdere anche noi dei punti, subito”.
“Con tutto il rispetto, abbiamo appena mandato il Capo dai terremotati a prendersi le uova marce, e non è servito a niente, continua a sbancare i sondaggi”.
“Il terremoto è troppo settoriale, ci vuole un approccio più generalista”.
“Ovvero…”
“Non possiamo più permetterci di fare schifo solo ad alcuni, dobbiamo cercare di fare schifo a più gente possibile nell’unità di tempo. Trovare qualcosa che dia fastidio a tutti. Coraggio, ditemi qualcosa che dà fastidio a tutti”.
“Le tasse”.
“Le abbiamo già alzate, qualcos’altro”.
“Le banche”.
“Siamo coperti anche lì”.
“La sveglia alla mattina”.
“Bello spunto, mi piace. Tutti odiano la sveglia alla mattina. Lavoriamoci sopra. Cos’altro odiano tutti? Il lunedì”.
“E vabbe’, mica possiamo aumentare i lunedì alla settimana”.
“Non possiamo nemmeno allungare la settimana lavorativa, siamo liberisti”.
“La settimana lavorativa no… ma quella scolastica sì. Le scuole sono ancora di Stato”.
“Grazie al cielo, ma che vuoi fare? Se aumenti l’orario devi pagare di più gli insegnanti, hai voglia”.
“No. Non è detto. In luglio non li paghi di più, perché le scuole sono praticamente chiuse, ma loro sono reperibili. Bingo! Un bell’intervento contro le vacanze estive!”
“Tutti amano le vacanze estive”.
“Lanciamo un’agenzia, cominciamo a dire che d’ora in poi si frequenta per tutto luglio. Poi ovviamente rettificheremo, ma intanto la voce girerà. Mario Monti contro le vacanze estive. Boom!”
“Quattro punti li perdiamo come niente”.
“Ma anche cinque o sei. E poi voglio vedere cosa fanno quei due, ah ah”.

Un mese dopo
(ROMA) BERSANI: NON HO MAI “SBRANATO” BAMBINI. SOLO ASSAGGIATI UN PAIO MOLTO CATTIVI. Il segretario del PD ha smentito le affermazioni riportate ieri dai giornalisti, secondo le quali avrebbe ammesso di aver partecipato negli anni ’60-’70 a qualche banchetto a base di bambino bianco crudo alla festa dell’Unità di Bettola. “Non siamo dei barbari, noi i bambini li abbiamo sempre cucinati con molta umanità, e se devo dirla tutta non è proprio il mio piatto preferito, ne avrò assaggiato solo un paio ed erano bambini che si erano comportati davvero molto male con le loro mamme e con Stalin”.

(MILANO) BERLUSCONI: CULATTONI DI MERDA SONO STATO FRAINTESO, NON INTENDO AVVALERMI DELLO JUS PRIMAE NOCTIS A MENO CHE LE VOSTRE FIGLIE NON VALGANO VERAMENTE LA PENA. Il presidente Berlusconi durante la notte ha pubblicato su youporn un video girato con le sue fidanzate (in tenuta sadomaso-wehrmacht), in cui smentisce di volersi avvalere dello jus primae noctis in modo “universale”, come ventilato due giorni fa durante la conferenza stampa a Palazzo Grazioli. “C’è che voi giornalisti siete veramente dei culattoni, non capite… lo vedete questo, sì? Ecco, non lo capite, ora reggimelo, grazie cara”. Il presidente ha poi confermato che intende abolire l’IMU e sostituirla “con tua madre”, ha detto proprio così, ma forse era sovrappensiero.

(BERLINO) MONTI: INGIUSTIFICATE LE POLEMICHE SUL GATTO A NOVE CODE NELLA SCUOLA ELEMENTARE, sarà esposto soltanto alla parete come deterrente, ma le maestre dovranno limitarsi a bacchettate sulle nocche e gusci di noce sotto le ginocchia.

Continua… (in realtà no).

futurismi, italianistica, racconti, realtà alternative

Il pianeta al bubblegum

Oggi sarebbe il compleanno di Carlo Fruttero: per festeggiarlo, Barabba ha messo insieme un’opera megagalattica, l’Ennesimo libro della fantascienza, che si scarica a partire da oggi e si può leggere un racconto alla volta anche qui. La copertina, che a certe persone dà i brividi e io sono tra loro, è di Isola Virtuale. Questo è il mio contributo:

(Pandora 5.0, 16.27 GMT)
La notte era uno sfondo indaco che si screziava, all’orizzonte, nei toni di porpora del crepuscolo. Phil prese conoscenza acquattato sotto un cespuglio di fiorifunghi. Percepì una sensazione tattile estremamente precisa, il fresco solletico di una lucertola di palude che gli camminava sul lungo avambraccio. Non la disturbò, il panico l’avrebbe resa fosforescente. Voleva guardarsi attorno senza fare troppo scompiglio, visualizzare l’ambiente senza esserne il protagonista, ma era possibile? Tra i fiorifunghi qualcosa si mise a vibrare; era un messaggio pubblicitario. Lo escluse con un movimento di palpebra istintivo. Era sovrappensiero. Aveva sognato a lungo di essere lì, e ora che era arrivato si sentiva a disagio. Tutto come previsto, tutto simile ai sogni e alle proiezioni, ma qualcosa non quadrava. Si rese conto che non stava respirando, come le prede quando si nascondono. Ed era sbagliato, profondamente sbagliato, quello era il posto nell’universo più sicuro per lui. Fece un grosso respiro, inalò l’aria tersa di un’alba su Pandora, corretta dall’umidità dei fiorifunghi…
Sapeva di bubblegum alla fragola.
***
(Matrixhan, 18.11 GMT)
“Fragola?”
“No Arthur, non ho detto fragola. Bubblegum alla fragola. È diverso”.
“Diverso quanto?”
Nascosto dietro ampi occhiali neri, Phil si permise di alzare gli occhi al soffitto. La trama dei finti pannelli antirumore mostrava pattern regolari. Era evidentemente un solo pannello copincollato miliardi di volte, un’ingenuità che nessun progettista virtuale si permetteva più da decenni. Ma erano appunto questi piccoli difetti a rendere delizioso quel bar, quel grattacielo, quella città. “Hai mai assaggiato una fragola?”
“Penso di sì. È una specie di grappolo d’uva in miniatura, se non sbaglio…”
“Quello è il lampone”.
“Il lampone, giusto”.

Phil si aggiustò gli occhiali, e per un attimo fece filtrare uno sguardo di disapprovazione, più netto di quanto avrebbe desiderato – del resto portava la fisiognomica di Keanu Reeves che indossava non gli lasciava molto margine per le sfumature. Ursula approfittò di quel secondo di silenzio per mettersi in mezzo.

“Ne abbiamo discusso centinaia di volte. Un conto è l’effettivo sapore originale di un frutto, un conto è l’informazione condivisa, socializzata, sul sapore del frutto stesso, che si basa molto più spesso sugli estratti chimici che venivano utilizzati nel secolo scorso. La fragola è un classico esempio: la maggior parte di noi conosce il gusto del gelato, ma non saprebbe ricollegarlo al sapore del frutto originale”.
“Ok, ok. Continuo a non capire qual è il problema. Se nessuno sa di cosa sanno veramente le fragole, per quale motivo ci intestardiamo a voler riprodurre un sapore che…”
Phil sbuffò. “Non stiamo parlando di questo. Non ha nessuna importanza di che sapore sappiano le fragole vere. Non ci sono fragole su Pandora, e se decidiamo di metterle comunque saranno diverse da quelle sul piano Zero. Le faremo a forma di lampone, o grosse tre quintali, o volanti, o sessuate, decideremo. Non ha la minima importanza. Il problema…”
“Stai sudando, Phil”.
“Non sto sudando”.
Ursula aveva ovviamente ragione, benché il sudore non esistesse, a Matrixhan – come tutti ormai chiamavano la realtà virtuale Matrix 2.0. Il prodotto, ispirato come tutti da una saga cinematografica del secolo precedente, non era mai andata oltre la seconda release, un epico flop commerciale, che aveva conosciuto un bizzarro successo postumo una dozzina d’anni più tardi. Gli utenti non ci andavano per parare le pallottole col kung fu, e si disinteressavano totalmente all’Eletto e a Mr Smith che ogni tanto saltabeccavano tra un grattacielo e l’altro, dandosele di santa ragione – a parte quei due fanatici, Matrixhan era un posto comodo e pulito, facile da raggiungere, fuori dalle mappe dei ragazzini e dei tamarri di ogni età: divenne un ritrovo fuori orario per ingegneri e programmatori. L’atmosfera raggelante era in qualche modo congeniale – di Realtà ce n’erano tante, ma questa era l’unica dove tutti potevano indossare la stessa faccia senza stonare in nessun modo con l’ambiente. Perfetto per quel tipo di professionista che non vuole perder tempo nelle library a cercare l’avatar più originale, meglio intonato con l’umore, con il meme del giorno, con l’oroscopo – fanculo, ti metti il tuo Keanu Reeves di ordinanza e in cinque secondi sei già in un attico affacciato sul vuoto, a bere ipoalcolici insapori. Col tempo la gente cominciò a fissarci colazioni di lavoro. Phil sapeva che qualche start-up stava ragionando sull’idea di piazzare gli uffici direttamente lì – un’idea ridicola, veramente da startupper, però riusciva a capirla. Anche lui raramente si sentiva così a suo agio come in un bar qualunque di quella città di grattacieli, così dichiaratamente finta. Nessuno lo aveva capito ai suoi tempi, ma Matrix 2.0 era un capolavoro. Non per la storia, non per il realismo dei dettagli (già scadente all’epoca, ma 25 anni dopo era semplicemente retrò). Era semplicemente un posto comodo. Ortogonale, liscio, modulare, rassicurante. Il contrario di Pandora.
(Vi ho fregato, per sapere come va a finire dovete scaricarvi il libro)  



cristianesimo, Cristo, dialoghi, omofobie, racconti

Il Cristo gay e il Grande Inquisitore

Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa…

“Dunque, la scena comincia così: immaginati una processione, in una città medievale, oscurantista… facciamo Bologna”.
“Bologna, via, così oscurantista poi…”
“Bologna è perfetta, ci stanno i domenicani, quindi l’Inquisizione. Immaginati una di quelle processioni medievali coi flagellanti, no? E proprio durante questa processione, chi ti compare?”
“Chi mi compare?”
“Un Cristo gay”.
“Un Cristo gay”.
“È quel che ho detto”.
“Non so, Ivan, abbiamo già diverse polemiche in corso, se magari riusciamo a evitare di offendere cristiani e gay in un botto solo io preferirei…”
“Nonò fidati, un Cristo gay che appena compare, tutti all’improvviso capiscono che è lui, la folla si apre per lasciarlo passare, tutti lo seguono in silenzio, senza osanna, senza alleluja, tanto ovvio è che lui è Cristo”.
“E che è gay”.
“È un Cristo gay”.
“Ivan questa cosa però spiegamela meglio, perché io posso anche capire un Cristo a Bologna nel medioevo, cioè se sono in Strada Maggiore e all’improvviso vedo un ebreo con la corona di spine più o meno ci arrivo che è Cristo, ma spiegami come faccio a capire che è pure gay”.
“In effetti anch’io mi sono posto il problema”.
“Cioè non gli possiamo mica mettere l’aureola arcobaleno”.
“Perché no”.
“Perché è il medioevo a Bologna, cosa vuoi che ne sapessero dei colori del movimento LGBT”.
“Va bene, ci pensiamo dopo. L’importante è che sia evidentemente gay”.
“E tutti lo seguono”.
“Per forza, è un Cristo gay. Tu non lo seguiresti? Anche solo per curiosità?”
“E poi che succede?”
“Succede che a un trivio si devono fermare per dare la precedenza al cocchio, e il cocchio è ovviamente una cosa kitschissima, tutti intarsi e intagli e lacche in oro zecchino”.
“Nel medioevo? Non è un po’ presto?”
“Il cocchio però invece di sfilare inchioda, e dalla finestrella spunta il volto arcigno di un vecchio Inquisitore, sormontato da un tricorno fucsia molto chic”.
“Questa cosa finisce malissimo, vero?”
“Non abbiamo neanche iniziato. Anche l’Inquisitore ovviamente capisce subito chi ha davanti, ovvero…”
“…un Cristo gay”.
“Un Cristo gay, e gli basta un cenno perché gli uomini della sua scorta lo prendano in consegna. Ovviamente gli uomini della sua scorta sono maschiacci nerboruti e sudaticci, muniti di alabarde un po’ falliche”.
“Questi particolari sono tutti necessari?”
“No, però sono divertenti. Dunque l’Inquisitore si fa portare il Cristo gay nel suo palazzo, e dopo una sobria cena e un sobrio intrattenimento, decide di scendere nelle segrete per interrogarlo. Senza testimoni”.
“Ci mancherebbe”.
“La scena vera comincia adesso. Dunque l’Inquisitore entra nella cella, squadra il suo uomo a lume di candela e gli dice: taci”.
“Come taci, scusa, ma che interrogatorio è”.
“È un interrogatorio molto interessante. Gli dice, taci, non c’è bisogno che tu mi dica chi sei, e non c’è nulla che tu possa aggiungere per modificare la tua posizione. Non so cosa sei venuto a fare sulla terra una seconda volta”.
“Ma come non lo sa, scusa…”
“…ma non m’interessa, hai avuto una vita per parlare e adesso ti tocca ascoltare. Lo sai in che guaio ci hai messo? No che non lo sai. Ci hai dato la libertà, come credi che l’avremmo usata, se non per mangiarci a vicenda? Lo sai in che disastro ci hai mollati? E sai quanto ci abbiamo messo a pulire? Mille anni ci abbiamo messo. C’è toccato persino allearci col tuo nemico, sai, Satana. Abbiamo una joint-venture, adesso. Non lo sapevi? Vedi che in questo interrogatorio hai qualcosa da imparare. Non è che ne andiamo fieri, ma cos’altro potevamo fare? Siamo gay, perdio, quanti credi che siamo in tutto? Il dieci per cento della popolazione mondiale? Il quindici?”
“No, dai, il quindici no”.
“Che male ci sarebbe?”
“Mi sembra esagerato, via, il quindici”.
“Ma fosse anche il venti, è pur sempre una minoranza, lo sai cosa vuol dire?”
“Vuol dire che dovranno lottare affinché alle minoranze siano riconosciuti i loro diritti”.
“Ecco, lo vedi? Il classico ragionamento da Cristo gay. Ma non funziona così”.
“E perché non funziona così?”
“Perché l’umanità è una cosa un po’ meno nobile di come la raccontava lui, perché homo homini lupus e tutto il resto, e insomma non importa che sia una razza o un’identità di genere o una preferenza sessuale o il colore dei capelli: la minoranza sarà sempre angariata dalla maggioranza. Sempre”.
“Ma no dai, sempre no”.
“Sempre, te lo dico io. Cioè no, te lo dice il Grande Inquisitore Gay”.
“Ah, perché anche il Grande Inquisitore è…”
“Lo aveva appena detto. Quindi mettiti nei nostri panni, continua il Grande Inquisitore Gay, infilati nei nostri soffici ermellini. Se almeno fossimo stati una minoranza, che so, etnica. Potevamo sempre sperare di diventare una maggioranza da qualche parte, con guerre o complotti. Ma siamo gay. Non possiamo diventare una maggioranza, per definizione”.
“E perché no?”
“Perché siamo gay, stupido. Non siamo prolifici”.
“Ah già dimenticavo. Ma potevate adottare”.
“In effetti pensammo subito a questo. Ma come potevamo riuscirci? Tu che avresti fatto? Una bella campagna per il diritto della coppia gay all’adozione durante l’impero romano?”
“Beh, forse i tempi sarebbero stati un po’ prematuri”.
“Ah, perché invece nell’Alto Medioevo…”
“Quindi insomma niente da fare”.
“Al contrario. Ci siamo riusciti alla grandissima, spiega il Grande Inquisitore Gay (da qui in poi GIG). Siamo in assoluto la comunità che adotta di più. Abbiamo uomini in tutti gli orfanotrofi, anzi gli orfanotrofi li costruiamo direttamente noi. Non è stato difficile. Sai come abbiamo fatto?”
“Come avete fatto”.
“Abbiamo fatto coming in”.
“Coming in… cosa?”
“È un neologismo che ho inventato io, spiega compiaciuto il GIG. Ci siamo nascosti. Certo tu avresti preferito che noi vivessimo in mezzo alla gente fieri dei nostri costumi. Certo tu, caro Cristo gay, avresti preferito che il sale della terra rimanesse nella terra, e che la lucerna non restasse occultata sotto il moggio… ma ne abbiamo parlato con Satana e lui è stato molto più convincente. Ci siamo nascosti perché era l’unico modo per sopravvivere nei secoli, capisci. Noi non siam come te, che vieni, predichi tre anni e poi ciao ciao, fate i bravi, ci vediamo alla fine dei tempi. Noi abbiamo da pensare a sopravvivere per millenni, non possiamo accontentarci di qualche oasi di tolleranza qua e là, noi sappiamo che gli olocausti sono sempre dietro l’angolo e dobbiamo corazzarci”.
“Così insomma i gay ci sono sempre stati, ma si sono nascosti per sopravvivere”.
“Certo, continua il GIG, e lo sai dove ci siamo nascosti?”
“Non so, in qualche confraternita immagino”.
“Nella confraternita più esclusiva e allo stesso tempo più universale e più potente e allo stesso tempo più capillare dell’universo, sai qual è? La domanda la faccio a te, col Cristo gay non ce n’è bisogno, lui la sa già”.
“E quindi insomma…”
“Ma non hai capito? Hai davanti un Grande Inquisitore Gay, con lo zuccotto fucsia, l’ermellino, le scarpette di Gucci, eddai… dove vuoi che si siano nascosti”.
“No dai Ivan per favore”.
Nella Chiesa cattolica! Siamo tutti qui, continua il GIG. Da secoli siamo qui, e ce la spassiamo! Prolifici quanto mai, abbiamo in mano gli orfanotrofi, le scuole, i precettori nelle case private, se da qualche parte nasce un ragazzino o una fanciulla tendente all’omoerotico, fidati che lo troviamo all’istante, e ci preoccupiamo di lui per tutta la vita! Questo facciamo”.
“La Spectre gay”.
“Abbiamo inventato la Confessione, ti rendi conto? Non c’è mai stata in tutta la storia dell’uomo un età così fortunata per i gay”.
“Ivan, sei sicuro?”
“Altro che lottare per i diritti civili e la tolleranza e tutte queste menate. Noi non vogliamo la tua patetica tolleranza, dice il GIG a Cristo. Noi vogliamo il potere, e lo abbiamo. Siamo o non siamo stati bravi. Da secoli una congregazione di gay regna sull’Europa, così ben organizzata che gli etero ancora non se ne sono accorti, ed è meglio così, no? Per il loro bene”.
“Perché voi non ce l’avete con gli etero”.
“Ci sono indispensabili, poveretti. Lavorano, ci pagano le decime. E soprattutto sono prolifici, loro”.
“Qualcuno lo deve pur essere”.
“Finché non inventeremo l’inseminazione artificiale, l’utero artificiale, magari la clonazione, ecco, ma la scienza è ancora indietro, indietro…”
“Potreste provare a bruciare meno scienziati”.
“Comunque ci vorrebbero secoli, il nostro sistema è molto più efficiente. Ora capisci perché la tua libertà è solo una scemenza? Capisci perché non hai diritto di parlare con me, che sono l’esponente di un sapienza millenaria, veramente incarnata nel sangue vivo e putrescente dell’uomo? Tu sei solo il figlio di Dio, che ne sai? Uno si fa una passeggiata sulla terra, due o tre prediche e una morte in croce, e poi è convinto di aver capito, ma cosa hai capito, cosa? Non esiste la libertà, se non per piccoli periodi. Non esiste la tolleranza. Nel medio-lungo termine esiste solo il potere, esiste solo la sopraffazione, e noi gay perché dovremmo essere meglio degli altri? Perché? Perché non dovremmo anche noi tentare di prendere il potere e usarlo per abusare dei deboli e degli indifesi? Perché ce lo chiedi tu con quegli occhioni azzurri incongrui in un mediorientale? Adesso sai che faccio? Ti processo e poi ti brucio come pederasta. Gli stessi che ti hanno osannato stamattina, saranno lì a raccontare di quando molestavi i loro figli nel cortile. Io queste cose le so, io lo so come è fatto l’uomo. Adesso parla pure se ti va. Ma il Cristo gay non parla”.
“Lo sospettavo”.
“Non dice niente. Solo fa un passo avanti verso il GIG, e per miracolo le catene si sciolgono, le manette sadomaso si aprono con un clac. Il GIG spaventato si ritrae, ma il Cristo Gay lo abbraccia”.
“E lo bacia”.
“Ovviamente”.
“Avremo i troll cattolici e quelli LGBT per sei mesi, Ivan…”
“Sarà divertente”.
“Si baciano a lungo?”
“Quanto basta. Poi il GIG, sconvolto, apre la porta della cella e dice Vai Via! Vai Via e non tornare mai più”.
“E poi? Fa coming out? Denuncia la sporcizia annidata nella Chiesa?”
“No, macché. Torna nel castello in tempo per la finale del torneo canoro dei castrati Ma quel bacio, quel bacio continua a bruciargli nel cuore”.

animali, le 21 notti, racconti, repliche

Ognibene ippopotamo in Kenya

(1996)


Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà – e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine – sarà forse una tomba d’argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l’ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa… E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. “Bel Dio mi sono scelto – penserà, a modo suo – un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c’è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d’acqua limpida… laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi – guardali, lassù – e da iene”.


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia – nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell’acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz’altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell’universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori – e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? – non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all’anno, quando ti fa più comodo. D’accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D’accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente – pensa Ognibene – non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l’esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall’alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri – e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L’uccelletto scatta in volo per evitare d’infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l’altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d’acqua non scendessero un po’, otturandosi di fango una volta per tutte… Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi…

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un’ombra soltanto, in realtà, un’idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque – ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d’ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d’odio e di potenza. (C’è mai stato un animale più perfido dell’ippopotamo? L’unico che attenti alla vita del suo simile…). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d’ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d’acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d’un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott’acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d’acqua tutta l’aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall’acqua all’improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l’inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L’istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell’acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d’acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d’istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all’asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell’avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell’ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d’altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po’ i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l’imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell’ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po’, sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell’acqua, imbarazzato. Mamma mia l’ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l’affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un’infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste… Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall’asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell’ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai…

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l’avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e – ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c’è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell’estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d’incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe – del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte – luna piena – ora di pascolo, e l’istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C’era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d’acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l’estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un’ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell’argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall’assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell’ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz’ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l’Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all’improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all’erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d’importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c’era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi…

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell’alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell’ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l’altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c’era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall’odore del sangue, erano tornati all’attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall’argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt’intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l’argilla. Ognibene non li degnò d’uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell’ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell’ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l’hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull’altipiano: l’ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia… forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c’è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c’è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.

******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza
le 21 notti, prostituzione, racconti

L’amore gratis (II)

(Continua da qui)

Cercò di vivere, che è la scelta che facciamo più o meno tutti. L’essenziale è trovare qualche distrazione che ci impedisca di arrivare puntuali all’appuntamento con quell’unica cosa di cui moriremmo volentieri. Si cercò qualche altro vizio, per esempio si rimise ad andare allo stadio come da ragazzino. Prese molti chili. Poi decise che li avrebbe persi e si fece venire la mania per la palestra. Si possono passare molti anni così, girando intorno: c’è un’enorme saggezza in quel modo di dire, “ingannare il tempo”. Fece anche qualche ultimo tentativo di sistemarsi, ma forse era troppo tardi. Le donne che riusciva ancora a incontrare erano accecate dalla paura di restare sole e fingevano con troppa ostinazione di non vedere i difetti che Sergio sapeva di avere. Una in particolare era così determinata a sistemarsi con lui che quasi lo convinse. Si misero persino a cercar casa. Entrambi però avevano passato da un pezzo quell’età in cui mettersi insieme significa crescere assieme. Erano ormai dipendenti di cento piccole abitudini maturate nei loro trent’anni di solitudine, la soap a mezzogiorno, la sigaretta dopo cena, e la convivenza sarebbe stata, Sergio lo capiva, un’infinita teoria di compromessi e armistizi, un equilibrio estenuante di pesi e contrappesi, che forse non li avrebbe uccisi, ma avrebbe fatto passare a entrambi venti, trent’anni di inferno. Sergio veniva da una famiglia così e non sentiva nessun vero impulso a portare avanti la fiaccola dell’odio domestico, delle cene in silenzio, dei pugni al muro, delle vite passate a dormire di fianco a un Nemico che russa e suda. Non voleva avere un bambino per raccontargli bugie, per ripetergli che ci sono cose che non si possono comprare, quando non è vero: tutto si può comprare, al massimo non c’è abbastanza denaro per farlo, ma il denaro è appunto l’unità di misura di tutto ciò che l’uomo può desiderare: le cose insomma stavano così e Sergio lo aveva sempre saputo, ma trovò la forza per dirlo forte e chiaro a sé stesso solo quella notte in cui, dopo aver chiesto ufficialmente alla sua fidanzata di sposarlo, Sergio la riaccompagnò a casa e poi scelse la via più lunga per tornare alla sua, guidando in tondo per ore attraverso quartieri familiari e sconosciuti, su una rotta molto più aggrovigliata del suo ragionamento, finché l’auto non si decise a condurlo sulla circonvallazione.

Lì era tutto cambiato: una rivoluzione antropologica senza precedenti di cui Sergio fu spettatore (pagante). Tossiche e professioniste erano sparite: al loro posto era arrivato, in blocco, il Terzo Mondo, causando un’inflazione di sesso inimmaginabile fino a pochi anni prima. In tasca era convinto di avere una cifra appena sufficiente a permettergli una sveltina e quattro chiacchiere vaghe e consolatorie; scoprì invece di essere un gran signore in grado di concedersi notti intere con regine della savana che, certo, non erano in grado di chiacchierare nella sua lingua, ma lo avrebbero servito e riverito in tutto il resto. Sergio non si era mai sentito ricco in vita sua, non aveva neanche mai provato a immaginare come ci si potesse sentire di fronte a qualcuno che si inginocchia perché glielo chiedi, e per qualche lira in più si schiaccerebbe a terra. Come reagirebbe un ex alcolista se scoprisse che sotto casa vendono liquori esotici a un euro il litro? La sua ricaduta fu tombale: ci mise una settimana a farsi rendere l’anello di fidanzamento, un mese a spenderlo. Niente più stadio o palestra, basta. Ora si trattava di lavorare e spendere, nient’altro che lavorare pensando al momento in cui avrebbe speso, e poi spendere senza pensare più a niente. Sarebbe senz’altro morto di qualche malattia orribile ma non gli importava, le alternative a sua disposizione le aveva già sondate e non gli interessavano.

Non morì. A volte è la morte che non si fa trovare all’appuntamento, si vede che ha altri progetti. Dopo qualche anno di intenso corteggiamento, Sergio sentì che la furia rallentava, sostituita da una pulsione più fredda: da ghiottone stava diventando un gourmet. Era molto più attento a dove buttava i soldi, al rapporto tra qualità e prezzo, che da un certo punto in poi divenne parte integrante del piacere di andare a puttane (ormai tutti in Italia le chiamavano solo così, “puttane”: per l’unificazione linguistica c’erano volute le invasioni barbariche). Divenne davvero un antropologo, per lo meno trent’anni prima uno studioso avrebbe dovuto viaggiare il periplo delle terre conosciute per scoprire le banali nozioni che mise insieme lui. Per esempio: non importa quanto apparissero toniche e fiere, le africane avevano sempre paura di tutto. Della polizia, della madame, della magia nera, del medico bianco, del cliente ubriaco, del cliente che sembra calmo e quindi è uno psicopatico, dell’Europa che è un posto da matti. Col tempo potevano smettere di aver paura di un cliente affezionato, ma di solito a quel punto cominciano a disprezzarlo. Le slave invece avevano ambizioni; forse perché bianche erano convinte che non avrebbero fatto sempre lo stesso lavoro e più spesso di altre cercavano il fortunato o il pollo disponibile a riscattarle; ma miravano quasi sempre un po’ più in alto di Sergio, che non le biasimava certo per questo. Le cinesi (ma sarebbero arrivate un bel po’ più tardi) arrivavano da un altro mondo e ti trattavano come un oggetto di un altro mondo, di cui magari avevano letto su un manuale di istruzioni con poco testo e molte figure. Le sudamericane erano intense e leggere, il sesso per loro era soprattutto danza, a volte sfrenata, a volte pura coreografia. Vi erano poi altre categorie trasversali: a seconda di cosa stavano pensando le puttane mentre stavano con lui, Sergio le divideva in coatte, che facevano quel mestiere soltanto perché costrette, odiando sé stesse e i clienti; lavoratrici, che anche nei momenti più abietti stavano sempre pensando ai soldi che avrebbero inviato ai genitori lontani, o al figlio che stavano mandando alle elementari del quartiere, o al bar che avrebbero aperto o alla casa che avrebbero comprato; e infine tossiche: quelle esistevano ancora e sarebbero esistite sempre: non pensavano che alla loro morte personale, mentre aiutavano Sergio a morire.

Quanto a lui, non aveva vere preferenze: gli piaceva variare i sapori, improvvisare, sperimentare: poteva passare una notte intera a chiacchierare con una vecchia ballerina brasiliana e il giorno dopo farsi manipolare per pochi minuti da una orientale che non spiccicava una parola. Col tempo si costruì una specie di etica minima di sopravvivenza: niente stradali (troppo scomode), niente rapporti scoperti (i rischi restavano, ma la paranoia calava), niente amiche (mai tornare dopo la terza volta). Smise abbastanza presto di frequentare le cosiddette ‘coatte’, anche se all’inizio la sensazione di fare violenza su di loro lo aveva stuzzicato; ma senza essere mai stato un uomo buono, Sergio non era mai nemmeno stato un violento; la pulsione a fare male ad altri che a sé non che una distrazione di cui col tempo si liberò, così come pensava di essersi liberato del fantasma dell’amore gratis.

Fino a quella sera che non bussò alla porta di quel caseggiato di Santa Margherita, attirato dalla foto di un culetto sodo che aveva visto in uno dei primi siti internet di annunci. Sapeva già che raramente la foto di un culo ha a che vedere col culo effettivo, come del resto succede con le immagini del cibo sulle scatole dei surgelati. Gli piaceva però l’idea che quella ragazza avesse deciso di mostrare il culo e non la faccia: denotava una certa timidezza, magari era una cameriera che arrotondava. Più probabilmente il viso non era un granché, e anche questo andava benissimo per Sergio: col tempo aveva imparato a non fidarsi dei bei faccini, all’atto pratico non restituivano le soddisfazioni di un volto bruttino ma contratto dallo sforzo, dalla concentrazione a far bene. Che la ragazza non fosse un fiore lo confermò la penombra in cui lo ricevette: i due pattuirono rapidamente quello che ritenevano il giusto per un’ora di prestazione, ma Sergio forse era stanco o troppo carico, insomma risolse tutto in cinque minuti. Quando succedevano queste cose – sempre più di rado col tempo – non se la prendeva più di tanto: amava attardarsi a chiacchierare del più e del meno; a questo punto della vita del resto a parte le prostitute non conosceva più molta gente disponibile ad ascoltarlo
.
Fu proprio mentre si lamentava di un guaio successo in officina, o si abbandonava alla sua massima speculazione filosofica (“perché scopare costa così tanto rispetto al mangiare? Sul serio una sveltina vale come un pranzo di tre portate al ristorante? Quanta manodopera è servita per preparare quel pranzo?”), che la sconosciuta in penombra a cui era ancora vagamente abbracciato disse questa cosa che all’inizio lo stupì soltanto un poco:

“Posso baciarti?”

Il bacio, nella prostituzione, è una pratica piuttosto borderline. Molte professioniste non lo concedono, se non dietro l’esborso di un sovrappiù eccessivo che Sergio non riteneva quasi mai necessario. Perciò rispose alla domanda con l’allegria stupita del bambino a cui si offre un bicchiere di aranciata extra. Mentre si faceva baciare e ribaciava, Sergio si accorse che erano anni che non perdeva più tempo a fare questa cosa sciocca da ragazzini, che invece a ripensarci era potente, tanto che in pochi minuti si ritrovò a gestire una seconda erezione, evento che in quella fase della sua vita aveva del miracoloso. Fu insomma un’ora eroica, come non ne aveva passate da tempo: rincasando, esausto e felice, si ripromise di tornare la settimana successiva, cosa che faceva soltanto in casi straordinari sempre più rari. Si accorse poi l’indomani che stava contando i giorni. Quando finalmente arrivò il momento di ripresentarsi a quel portone (le tempie gli pulsavano come non gli succedeva da anni), di schiacciare un tasto dell’ascensore con una mano che gli tremava un poco, fu all’improvviso colto da un sospetto: forse quello era il suo giorno, forse stavolta la morte si sarebbe presentata all’appuntamento. Ma poi venne ad aprirgli la porta un’altra ragazza, che Sergio non aveva mai baciato.

“Ma tu non sei Gloria”.
“Certo che sono io, amore”.

Questa era una situazione classica, fin troppo nota a Sergio: una ragazza mette un annuncio, e se poi quella sera è impegnata lo passa a una collega. Non aveva senso prendersela tanto, e invece Sergio era mortalmente deluso e infuriato con sé stesso per non aver chiesto qualcosa di più. Non l’aveva nemmeno mai chiamata per nome: “Gloria” era quello che aveva letto sull’annuncio, ma più che un nome di persona era il marchio di un prodotto. Si rese conto che in tutta la sua vita aveva baciato davvero solamente una ragazza, e non sapeva come si chiamasse. Ma c’era di peggio: faceva fatica a ricordare il volto. Un po’ bruttino, senz’altro, irregolare, ma non riusciva a ricordarsi quale irregolarità: un naso schiacciato? gli occhi non simmetrici? Meglio non perder neanche tempo con l’acconciatura dei capelli.

“Scusa, io sono venuto mercoledì scorso, c’era per caso una tua amica?”
“Ah, mercoledì… no, mercoledì non so chi ci fosse… dovrei chiedere”.

Il peggio che poteva capitargli: era finito in un puttanodromo, un appartamento preso in affitto da un pappa che ci manda ragazze in rotazione: e Sergio sapeva che le ragazze potevano essere cinque, dieci, cento. Poteva trattarsi di una piccola impresa a conduzione famigliare o di un racket con diramazioni in tutt’Italia, l’unico modo per capirlo era tornare lì tutte le settimane, forse tutte le sere, è la sola persona che mi abbia davvero baciato (pensò), la sola che mi abbia voluto baciare… ero lì al buio che dicevo cazzate e me lo ha chiesto!

Che idiota era stato. Una persona aveva avuto voglia di lui, e lui aveva reagito nell’unico modo che ormai conosceva: scopandola e riscopandola, come probabilmente avevano fatto mille altri. Avrebbe dovuto continuare a baciarla per tutta l’ora della prestazione pattuita. Avrebbe dovuto continuare a baciarla tutta la notte. Gratis. E invece era andato via senza nemmeno guardarla bene in faccia, senza nemmeno chiedere il suo nome. Però poteva ritrovarla. Era senz’altro da qualche parte, magari in quell’esatto momento chiedeva baci a un altro sconosciuto. Prima o poi sarebbe tornata lì. Doveva tornare lì. Sergio l’avrebbe conosciuta. Non si permise di fantasticare più in là di così, anche se per qualche istante la prospettiva di un bar sulla spiaggia e due marmocchi gli balenò davanti. Era quello il vero progetto che la morte aveva per lui? Tanto peggio, lui non aveva davvero scelta a questo punto. Sarebbe tornato in quella casa finché non l’avrebbe ritrovata.

“E allora amore cosa facciamo? Te ne vai? Non ti piaccio?”
“No, anzi. Resto, resto”.
Non era il caso di offendere una persona che stava lavorando. Anzi, aveva bisogno di coltivare dei contatti, ora che diventava un cliente fisso della casa.

Nei tre anni successivi divenne qualcosa di più di un cliente fisso. Ne impiegò meno di mezzo per realizzare l’entità dell’organizzazione che affittava l’appartamento: non un racket miliardario, fortunatamente, ma una turbolenta cooperativa di signore che venivano tutte dallo stesso lontano paesello, a volte con un figlio e più di rado con un marito inutile appresso; e ai padri e ai fratelli restati a casa raccontavano di fare le badanti. Alcune di loro di giorno lo facevano davvero, senza molto entusiasmo, ma la pratica di regolarizzazione fila molto più rapida se ti presenti spingendo una carrozzina. La cooperativa faceva capo a due o tre matriarche, una delle quali si chiamava davvero Gloria e aveva detto il suo vero nome a Sergio, la seconda volta che si era presentato.

Erano brave donne, un po’ indurite dall’esperienza del mondo: Sergio non aveva nessuna difficoltà ad ammirarle per lo spirito di iniziativa con cui si erano tenute a galla, e loro cominciarono a provare riconoscenza per questa ammirazione: per gli altri italiani non erano che puttane, per i compaesani streghe che col loro nefasto esempio avevano portato alla perdizione una piccola truppa di cugine, sorelle, cognate (e intanto il paesello natale si arricchiva coi soldi delle rimesse, in giro cominciavano a vedersi automobili di una certa cilindrata). I loro uomini, arrivati col ricongiungimento famigliare, non erano riusciti a integrarsi altrettanto bene: trovarsi un lavoro sarebbe stato ridicolo, non c’era per loro in Italia nessun lavoro che fruttasse in un mese quello che le loro donne mettevano assieme in un fine settimana. In teoria dunque facevano i protettori, ma non è che ci fosse tanto da proteggere: l’appartamento era frequentato da tizi timidi come Sergio, che non creavano nessun problema alle ragazze, per cui non c’era necessità reale di nessun vigilante col coltello; non restava che appoggiare il culo in un bar poco lontano e mettersi a bere, col bel risultato di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine che poi bisognava distrarre imponendo alle ultime ragazze arrivate un sacco di straordinari quasi sempre non pagati. In mezzo a tutto questo, l’appartamento era in pessimo stato: chi chiamare quando si rompe un tubo? Ovviamente i condomini rifiutavano di collaborare.

In mezzo a tutta questa ridda di litigi famigliari, irruzioni, corruzioni, tubi rotti, Sergio cominciò a divertirsi come non gli era mai successo in vita sua. Non vedeva l’ora di staccare dall’officina – e salutò addirittura con sollievo la cassa integrazione – per salire nell’appartamento con la valigia degli attrezzi. Oppure c’era da portare una ragazza dalla ginecologa, o a malattie infettive, ma dopo un po’ anche dall’estetista, o al centro commerciale, o al cinema. Benché spesso gli affidassero le ragazze giovani, appena arrivate – o forse proprio per questo – Sergio le trattava con diffidenza. Avevano una luce negli occhi che prometteva male, i nastrini colorati della città ricca le distraevano dalle brutture del loro mestiere: pensavano ancora di vivere nel primo tempo di un film romantico che sarebbe finito bene. Di lì a poco, Sergio lo sapeva, avrebbero dovuto scegliere se diventare lavoratrici o tossiche: non gli piaceva troppo l’idea di essere lì mentre arrivavano al bivio, di essere l’uomo che le accompagnava. E poi erano snervanti, ci mettevano tre ore a far la spesa e riempivano il carrello di scemenze, che a Sergio toccava spingere.

Preferiva di gran lunga la compagnia delle matriarche. Con Gloria in particolare legò molto, era una donna molto intraprendente e decisa, e allo stesso tempo non aveva nessuna vergogna a chiedergli aiuto quando ne aveva bisogno. Ormai non scopava più molto: era in cassa integrazione dopotutto, e benché in quanto factotum della casa potesse contare sulla libera generosità delle operatrici, non se la sentiva di sollecitarla troppo. Capiva di amare quella casa che cascava a pezzi, quella strana famiglia di puttane nevrotiche, e di amarla gratis. O forse si era stancato del sesso, come ci si stanca di tutto, perfino di morire. Di sicuro ci pensava meno, una volta era il suo ultimo pensiero fisso prima di addormentarsi, ora no. L’unico chiodo che non riusciva a levarsi era l’ombra di quella ragazza che gli aveva chiesto di baciarlo. Nessun altro lo aveva fatto da lì in poi. Sergio aveva battuto tutte le piste, finché da qualche mezza ammissione di Gloria non aveva costruito questa verità: poteva trattarsi di una ragazza appena arrivata che dopo un breve periodo di prova se n’era ritornata al paesello. Evidentemente il bacio di Sergio non era riuscito a trattenerla: o forse la ragazza ci era rimasta male che dal rospo non fosse uscito subito un principe; insomma, se n’era andata, e a Sergio piaceva immaginarla certe notti su uno sfondo di cartolina, mentre trascinava per mano due marmocchi bruttini, ma pieni di vita. “Non ti sei persa un granché, sconosciuta”, diceva sottovoce; e ci piangeva un po’. Stava invecchiando.

In quel periodo Gloria e il suo marito inutile vennero alle mani, più volte; l’ultima toccò persino a Sergio dividerli, ma non fu difficile, l’uomo era fradicio. Lo avevano già avvisato di smetterla di molestare la Gloria, persino il maresciallo lo aveva preso in parte e gli aveva spiegato che sarebbero finiti nei guai tutti. Alla fine accettò un biglietto in business e una congrua liquidazione per tornare al paesello, dove erano già pronte le carte per il divorzio. Sergio aspettò una settimana e poi invitò Gloria a cena in un ristorante in centro. Non voleva chiederle di sposarla, ma voleva abituarsi all’idea che in un’altra sera del genere magari sarebbe successo. Gloria non seppe dirgli di no, era un buon uomo, forse l’unico italiano di cui era riuscita a fidarsi. La cena scivolò senza imbarazzi, del resto erano ormai abituati a chiacchierare con molta libertà, da buoni amici. A Sergio piacevano soprattutto gli aneddoti sui vecchi clienti come lui, i trucchi del mestiere eccetera. A un certo punto il discorso finì su quel classico tipo di cliente che dopo aver concluso, quando la lavoratrice è stanca e vorrebbe solo docciarsi, attacca a chiacchierare del più e del meno e va avanti per ore. Oh se ne conosceva Gloria, di tipi così! Insopportabili davvero, si pagassero uno psicanalista… e a quel punto, con un filo di panico nella voce, Sergio chiese come facesse di solito Gloria, a liberarsi di quei tipi lì.
“Cosa vuoi che faccia con quelli, c’è un solo modo per chiudergli la bocca. Mi metto a baciarli. Fa un po’ senso, ma almeno…”
“Cioè, loro stanno parlando e tu… ti metti a baciarli?”
“No, di solito glielo chiedo”.
“Glielo chiedi”.
“Sì: posso baciarti? Non ce n’è uno che risponda di no, eh, eh”.
“Eh, immagino”, rispose Sergio: e mentre rispondeva così, capì che stava morendo, dentro, nell’unico luogo dove aveva vissuto davvero; e che tutto ciò che sarebbe sopravvissuto da quella sera in poi, fuori dallo spazio di questo racconto, non era che un guscio senza importanza.

FINE

*******

“Sarò franca, mio buon Taddei”, rispose Verola quando la svegliarono. “Mi sono appisolata quando il tuo protagonista è partito per il militare. Tutte quelle fosse che abbiamo scavato stamane devono avermi un poco provato. Dimmi solo: l’ha trovato, il tuo Sergio, l’amore gratis?”
“Troppo tardi, mia signora”.
“Lo immaginavo. Va bene, domani tocca al prete”.

le 21 notti, prostituzione, racconti

L’amore gratis (I)

(2011)

Sergino, gli avevano detto sin da piccolo, i soldi sono una gran cosa, ma non ci puoi comprare tutto: la salute, per esempio, non si compra. Poi però la cara zia era morta mentre la portavano all’ospedale e Sergio aveva chiesto: ma se avessimo avuto più soldi non avremmo potuto portarcela noi in automobile, invece di aspettare l’ambulanza? O andar a vivere in una di quelle belle palazzine vicino al Pronto Soccorso? E a denti stretti il padre aveva ammesso che in certi casi la salute si può misurare in soldi. L’amore però no, aveva aggiunto. L’amore non si compra. Sergio però non aveva ben ancora chiaro cosa l’amore fosse: era una di quelle grandi parole che gli adulti usavano, scatole dentro le quali Sergio non sapeva ancora bene cosa mettere, e così dentro la scatola AMORE cominciò a infilare tutte le cose che non si potevano comprare, non per mancanza di soldi ma di commercio. Per esempio, le figurine erano un passatempo piacevole, ma si compravano: quindi erano un vizio. La partita a pallone nel cortile dell’oratorio, quella non si pagava: Sergio infatti ‘amava’ giocare a pallone dietro l’oratorio. Tutto abbastanza chiaro, finché non conobbe una brava ragazza e la corteggiò.

A quei tempi i corteggiamenti erano cerimonie molto più estenuanti di adesso, ma non era l’impazienza che stringeva il cuore a Sergio, quanto la sensazione che stare con questa ragazza gli costasse. Doveva portarla al cinema, a volte addirittura al ristorante. Farsi prestare l’auto del fratello maggiore e riportargliela pulita col serbatoio allo stesso livello. Detto questo, Sergio sentiva che avrebbe pagato volentieri anche di più, se ne avesse avuto, ed era questa sensazione a creargli dei problemi. Se per stare con la ragazza doveva pagare, non era vero Amore, erano ancora figurine: un passatempo piacevole, uno sfizio, una cosa che fai solo se te la puoi permettere, e forse Sergio ancora non poteva. Aveva appena iniziato a lavorare e sapeva di dover partir militare da un momento all’altro.

Eppure, al di là di tutte queste preoccupazioni, Sergio credeva di amarla, la sua bella. Non pagava mica lei, infatti, bensì tutti gli ostacoli che si mettevano tra lui e lei: la benzina per raggiungerla, il cinema per poter sedere vicini senza temere il giudizio altrui, né sforzarsi a trovare argomenti di discussione, l’abito necessario a mostrare uno stile di vita un po’ più sostenuto di quello che Sergio poteva realmente permettersi, non tanto per vanità, ma per mostrare almeno un po’ di ambizione nella vita. Tutte queste cose andavano pagate per arrivare a lei, ma Lei era altrove: se ne stava tranquilla, dall’altra parte di un’infinita teoria di dogane che Sergio doveva passare, sborsando ogni volta un pedaggio o un dazio, ma col sorriso di chi sa che non tornerà sui suoi passi, che prima o poi gli ostacoli sarebbero finiti e Sergio sarebbe infine approdato al vero amore, che è gratis.

Arrivò prima la cartolina del militare. Sergio si ritrovò sbalzato a quattrocento chilometri dalla sua amata, e al telefono era una frana, i gettoni cadevano in un silenzio gonfio di desiderio. Usò le prime tre licenze per andare a trovarla, e ogni volta la sentiva più lontana, le dogane tra lui e lei si erano quadruplicate e sembravano aumentare. Poi realizzò che semplicemente non se la poteva permettere. Fu quando ottenne una licenza breve e le propose di venire lei nella sua nuova città: e ancor prima di toccare l’imbarazzante tasto di chi avrebbe dovuto pagare il biglietto, si sentì controproporre una terza città, a metà strada. Sergio non conosceva ancora bene l’amore ma sapeva fare i conti: gli ci vollero pochi secondi a confrontare i tre viaggi compiuti solo per vedere lei (800 x 3 = 2400 km), col mezzo viaggio che lei era disponibile a sobbarcarsi (400 km). E insomma il rapporto era di uno a sei: poteva funzionare? Il viaggio andò a monte e quando fu congedato, otto mesi dopo, la ragazza era già ufficialmente fidanzata con un altro.

Nel frattempo Sergio aveva iniziato ad andare a mignotte, come si diceva in quella città (a quei tempi davvero ancora ogni città aveva nomi diversi), più per la necessità di stare in compagnia coi commilitoni che per autentica passione – come le figurine, le mignotte si pagavano: non si pagavano dazi o intermediari; non ti spillavano soldi in attesa di qualcosa che nessuno ti garantiva sarebbe arrivato: come le figurine, le mignotte restituivano una soddisfazione immediata e superficiale, qualcosa di cui Sergio era sicuro che si sarebbe vergognato non appena sarebbe cresciuto un po’. Questo capita a molti ventenni, di dare per scontato che cresceranno ancora. È comprensibile: in fondo non hanno smesso di crescere e cambiare da quando sono nati, ogni anno hanno scoperto qualcosa di diverso su di loro e sul mondo, con un andamento iperbolico che lascia immaginare scoperte e cambiamenti sempre maggiori. E invece Sergio non sarebbe mai più cresciuto: era già un uomo fatto, anche se ancora non lo sapeva; le passioni che aveva coltivato in quei vent’anni lo avrebbero accompagnato per il resto della vita; non si sarebbe mai davvero lasciato alle spalle la passione per le figurine, non avrebbe mai smesso di immaginare la felicità come un campetto dietro l’oratorio dove puoi andare a giocare a pallone quando vuoi e nessuno ti manderà via, e avrebbe continuato ad andare a mignotte, sempre vergognandosene un po’, ma non abbastanza per smettere.

Ci furono in mezzo alcune delusioni. Per alcuni anni Sergio continuò a pensare che avrebbe trovato la ragazza giusta, si sarebbe sistemato e avrebbe fatto dei figli, di cui per il momento non aveva nessun desiderio, ma col tempo gli sarebbe venuto. Molti suoi amici e coetanei gli stavano mostrando che si poteva diventare adulti così, senza sforzi sovrumani, semplicemente lasciandosi guidare dalla corrente, dal desiderio collettivo di tutte le persone accanto a te che ti desiderano sistemato. Ma Sergio forse non aveva abbastanza persone accanto a sé; la famiglia non lo poteva aiutare; a trovare un lavoro dignitoso ci mise un po’ di tempo, e nel frattempo invitare le ragazze fuori continuava a essere imbarazzante. E nessuna ragazza forse lo accecò al punto da non riuscire a vedersi per quel che era, un ragazzo bruttino senza grossi progetti per il futuro, chi se lo sarebbe preso un tipo così? A volte si accorgeva di nutrire un sottile disprezzo chi ancora accettava di uscire con lui. Del resto questo succedeva sempre più di rado; in un qualche modo Sergio aveva passato la boa dei trent’anni, che è più o meno il momento in cui la maggior parte di noi ha già incontrato almeno una volta la propria morte.

Ognuno la trova ovviamente in un luogo diverso: chi nell’alcool, in una droga, nella passione per uno sport estremo, o per il gioco compulsivo, o per le macchine che vanno troppo veloce; in un lavoro che ti succhia la vita e ti distrugge la famiglia, oppure in una famiglia che ti succhia la vita e ti impedisce di lavorare: ognuno di noi a un certo punto incontra quella cosa più forte di lui che sarà la sua fine. È una cosa che avviene di solito entro i trenta (in Italia: altrove saranno più rapidi, come al solito). Prima non capisci niente, provi tutto quello che riesci a provare senza capire se ti piaccia veramente o no, ti attacchi alla canna della vita con l’idea di poter inghiottire qualsiasi cosa e il bello è che per qualche anno è davvero così: riesci a inghiottire qualsiasi cosa, provi piacere e disgusto e non sai distinguerli. Bevi ettolitri di birra senza nemmeno accorgerti che sei un alcolizzato, poi un giorno ti svegli e capisci che lo sei: che l’alcool è la cosa più importante della tua vita; che il tuo stipendio lo calcoli in quanto alcool ci puoi comprare; che i tuoi amici li classifichi a seconda di quanto alcool ti possono offrire o scroccare. A quel punto non è che sei morto, ma hai visto la tua morte in faccia, e la cosa è più positiva di quanto sembri: ora che sai di cosa morirai, puoi anche decidere quando. Se vuoi vivere a lungo, da quel momento in poi metterai più ostacoli possibili tra te e l’alcool: disintossicazione, gruppi anonimi, metter su una famiglia, c’è gente che è arrivata a ottant’anni così, e alcuni non hanno nemmeno smesso di farsi una birra ogni tanto, giusto per il piacere di fare due chiacchiere con la tua più vecchia amica che è la tua personale morte.

Fu insomma verso i trent’anni che Sergio capì che la sua morte sarebbero state le mignotte. Aveva da poco ripreso ad andarci, dopo l’ennesima delusione; lo consolavano, davano un senso ai soldi che portava a casa e non stava investendo in nessuna casetta con giardino. Non le disprezzava, anzi ammirava la professionalità con la quale si abbassavano a stare un po’ con lui per soldi. A quel tempo si dividevano ancora sommariamente tra professioniste e tossiche. Le professioniste non mettevano fretta, cercavano per quanto possibile di fideizzare il cliente, insomma passavano rapidamente da amanti a mamme; e quello era l’esatto momento in cui Sergio capiva che lo stavano fregando, e troncava. E valeva la pena di pagare un pochino anche per il piacere di essere lui a troncare, a decidere di cancellare una frequentazione. Alle tossiche non interessava fideizzare, non interessava proteggersi, non interessava niente. Avevano bisogno di soldi e si facevano fare di tutto. Nei loro sguardi aggrottati e rapaci Sergio si riconosceva. Correndo verso la loro morte, avevano incrociato Sergio che si avviava più lentamente verso la sua. C’era ancora tempo, infatti: una malattia venerea, curabile ma fastidiosa, gli diede un grosso spavento e lo convinse a rigar dritto, per un po’ (continua).

Dio, l'educazione religiosa, lavoro, le 21 notti, racconti

Di come Don Tinto perse la fede

(2011)

Se proprio era inevitabile, e forse lo era, Don Tinto avrebbe preferito perderla in un incidente, come succede a tanti. Un ubriaco entra in autostrada contromano, fa secco tuo fratello che non ha mai fatto nulla di cattivo in vita sua, quindi Dio dov’è? Sarà che la sua parrocchia era nei pressi di un casello, ma Don Tinto ne ha conosciuti parecchi che hanno perso la fede così. Molti addirittura si sentivano obbligati a venire a spiegarglielo al confessionale, Don Tinto mi spiace, lei è tanto una brava persona, ma mia figlia è stata spappolata da un tir che ha invaso la carreggiata, prova evidente che Dio non c’è.

In questi casi il sacerdote professionale abbozza una smorfia di contrizione, protesta di non voler neanche tentare di consolare un dolore inconsolabile, farfuglia qualcosa sul mistero della provvidenza, e nel caso di Don Tinto si torce le mani nell’oscurità del confessionale, perché la voglia di tirare due ceffoni lo tenta fortissimo. Non dico alle elementari, eh, ma almeno dalle medie in su dovrebbe essere chiaro che i suoi disegni sono un filo più complessi e imperscrutabili delle statistiche sulla mortalità del traffico. Ma insomma signorino, lo scopri oggi che i tir ammazzano le persone, e che Dio in linea di massima non tira nessun freno d’emergenza? Il Dio in cui hai creduto fino a ieri non interviene negli incidenti stradali, e fino a ieri la cosa non ti turbava nemmeno. Poi un giorno ti toccano gli affetti e all’improvviso sai più teologia di San Tommaso, ma va’, va’, che la tua fede non era poi gran cosa se basta un autosnodato a disintegrarla.

E tuttavia almeno in casi del genere puoi prendertela con l’autosnodato. Mentre Don Tinto chi biasimerà? Sé stesso, soltanto sé stesso. La fede, non sa neanche dire quando l’ha persa esattamente. L’ultima volta che ricorda di averla vista era lì, sulla scrivania, tra i moduli della dichiarazione dei redditi e il rendiconto annuale della scuola materna (in rosso fisso). Rammenta in effetti di essersi detto che non era il posto adatto per una cosa tanto importante; che andava custodita con più attenzione, e di averla d’impulso spostata… dove? Maledetto impulso, non bisognerebbe mai spostare le cose senza pensare al quadro generale. Che poi finiscono in fondo ai penultimi cassetti vuoti che piano piano si riempiono di altre cose importanti che è meglio mettere in un posto al sicuro, e dopo qualche mese valli più a trovare, in mezzo a tutto quel casino di cose ugualmente importanti.

Imbarazzante, ma è così: Don Tinto non ha perso la fede in un incidente, per una delusione, al termine di una crisi, durante una malattia. L’ha persa un giorno qualunque che fuori pioveva, i conti non tornavano, la bici era sgonfia, c’erano formiche in cucina e la crepa dell’intonaco in soggiorno si stava allungando. In chiesa il riscaldamento non funzionava bene, benché il tecnico spergiurasse il contrario: bisognava farne venire uno più capace, ma questo equivaleva a offendere un parrocchiano, la sua famiglia, le sue zie generose con la questua eccetera. L’organo, un gioiellino di tardo Settecento inspiegabilmente rimasto lì, era mal temperato, e i Beni Culturali lo avevano diffidato a chiamare qualsiasi altro accordatore tranne quello di loro fiducia, esosissimo; al solo pensiero Don Tinto preferiva chiudere a chiave la tastiera e non pensarci più, ma questo significava concedere altro spazio all’azione giovanile e alle loro chitarre frastornanti, non ce n’era mai una accordata all’altra, mentre distribuiva meccanicamente il Corpo di Cristo Don Tinto malediceva il suo orecchio non assoluto, ma comunque esageratamente raffinato per le necessità di un sacerdote di provincia. O forse stava schedulando le benedizioni quaresimali a domicilio? o buttando giù tre idee per l’omelia di domenica? o pianificando la sagra, organizzando la pesca benefica per la sagra, cercando i premi per la pesca benefica, identificando gli sponsor adatti che avrebbero potuto offrire i premi… Oppure stava dormendo, anche i preti dormono. Don Tinto aveva necessità di otto ore filate, sennò si appisolava in confessionale. Magari mentre leggeva compieta gli si erano chiusi gli occhi, magari aveva pensato che cinque minuti di sonno non avrebbero offeso N. Signore, anzi, poteva essere un sistema per parlare meglio con lui (con molti Santi funzionava), ma in luogo di un rapimento estatico Don Tinto era crollato schiacciando il naso sul salterio, sbavando sul versetto 31 del Salmo 119; e quando si era svegliato tre ore dopo non ricordava più dove aveva messo la sua fede, in che cassetto si trovasse. Poco male, pensò, mica l’ho buttata via. Salterà fuori prima o poi.

Lo si dice di tante cose che ci sembrano importanti, ma che alla fine non usiamo quasi mai. Un sacerdote più zelante di Don Tinto avrebbe stravolto i cassetti, gli scaffali, le mensole, la cassaforte della Canonica, l’archivio parrocchiale; avrebbe buttato tutto all’aria finché non avesse trovato l’unica cosa fondamentale, la fede! Don Tinto invece aveva una parrocchia da mandare avanti e per prima cosa pensò che il mattino dopo doveva svegliarsi presto, c’era da salire al campeggio per celebrare una messa oppure fare il tour settimanale delle estreme unzioni, tutte cose importanti e tranquillamente fattibili anche senza la fede personale, che comunque sarebbe saltata fuori prima o poi, insomma, mica l’aveva buttata via.

Invece non saltò fuori più, e, quel che è peggio, Don Tinto non riuscì mai a trovare il tempo per svuotare i cassetti, dare aria agli armadi e tutto il resto. Non che non gli dispiacesse non avere la sua fede a disposizione, caso mai ci fossero montagne da spostare: ma bisogna dire che nessuno gli chiese mai gesti così spettacolari. Bisognava invece preparare l’ora di religione alla scuola media, i ragazzini diventavano sempre più insidiosi con le loro domande; ordinare paramenti nuovi, non troppo vistosi ma neanche troppo moderni perché tanto la gente mormora comunque; portare la panda dal meccanico; lunedì sera c’era la riunione con gli altri parroci della zona nord della diocesi; martedì un’ecografia all’addome, mercoledì il corso prematrimoniale. E poi bisognava confessare, comunicare, pregare, senza più fede ma comunque con professionalità, ché l’ultima cosa che serve ai parrocchiani è un prete con le turbe di coscienza.

Provò i ritiri spirituali, le scalate in solitaria, le vacanze al mare, ma non serviva a niente: Dio era senza dubbio ovunque e quindi anche in vetta ai monti e sotto agli ombrelloni, ma la fede di Don Tinto rimaneva incastrata in qualche intercapedine del suo studio, era lì che bisognava mettersi a cercarla. Il punto è che ogni volta che tornava in quella stanza maledetta c’era una telefonata da fare o ricevere, un peccatore da confessare, un malato da consolare, un affamato a cui non poteva mica dire: “Torna tra un po’, prima di sfamarti occorre ch’io ritrovi la mia fede”. In mezzo a tutte queste piccole preoccupazioni, era Don Tinto a sentirsi sempre più simile a una montagna che nessuno si sarebbe azzardato a spostare.

Alla fine gli unici momenti in cui Don Tinto riusciva a pensarci era quando gli capitava di fare due chiacchiere con uno scettico. Ne incontrava un po’ a tutti i livelli, nel confessionale o dal dottore e ai dopocena tra colleghi. Più o meno continuavano a dire le stesse cose, sempre con l’aria di riferire chissà quale enorme novità scientifica: perché Dio consente il male? E l’evoluzione? Il Big Bang? Benché avesse imparato a dribblare tutte queste obiezioni già in seminario, Don Tinto si sentiva onorato che qualcuno continuasse a proporle proprio a lui: evidentemente visto da fuori doveva sembrare una di quelle travi solide che non oscillano, ma possono solo spezzarsi una volta accettata l’inconsistenza dei propri fondamenti.

E invece la trave era marcia dentro. Gli scettici lo blandivano, credevano che Don Tinto avesse ancora una fede da potersi perdere davanti a un ragionamento astratto, o all’osservazione del dolore. Ma se perse la fede, Don Tinto la perse tra un modulo di rimborso e un estratto conto; la smarrì nella polvere che si posava sul raccoglitore della corrispondenza e la perpetua non osava spolverare. Non la perse di fronte allo spettacolo osceno di un bambino che muore, ma nel fastidio cronico delle coliche renali. Che il mondo di Dio fosse pieno di sofferenza, lo aveva accettato sin dal seminario; quello che allora non aveva previsto, è che fosse pieno di moduli e di piccoli appunti, di bici sgonfie quando occorre fare un giro rapido, e chitarre scordate, il telefono che resta senza credito quando devi fare una chiamata importante, il call center che ti prende in giro, la comitiva di pellegrini che al ritorno si lamentano dell’albergo che gli hai consigliato tu (è cambiata gestione), i reumatismi, il cigolio degli scuri della canonica che lo sveglia nel cuore della notte perché i fermi si sono smurati, bisogna chiamare un artigiano e non ce n’è uno solo onesto, e insomma tutti questi piccoli fastidi e preoccupazioni corpuscolari, nessuna delle quale era degna di una lamentela ad alta voce, ma che tutte insieme costituivano l’inferno in terra.

Quando fu il suo giorno di morire, nel suo letto, adeguatamente drogato affinché il dolore non gli togliesse la lucidità, pensò che forse finalmente aveva un po’ di tempo per riflettere, e raccomandarsi a Dio; così chiuse gli occhi e lo chiamò. Ma se ne pentì immediatamente, come chi in un pomeriggio d’estate chiama una vecchia fiamma e mette giù prima che suoni libero. Con che faccia poteva disturbarlo, dopo che per tanti anni non era riuscito a trovare una mezza giornata per cercarlo in mezzo alle fatture, i telegrammi, il calendario con le messe prenotate, la classifica dei chierichetti, l’ordine del giorno del consiglio pastorale, il pin del bancomat. Sperò che nella sua infinita misericordia Dio, oltre alla fede, desse un’occhiata anche al mestiere. Poi si ricordò che non era neanche sicuro di essere stato un buon prete: non riusciva mai a finire il giro delle benedizioni entro il venerdì Santo e malgrado tutti gli sponsor e le pesche benefiche il bilancio della scuola materna era sempre più rosso, rosso inferno (fu il suo ultimo pensiero).

La parrocchia rimase vacante per un paio d’anni, finché non arrivò un pretino curioso, slavo o baltico, con un alito che sapeva sempre un po’ d’acqua di colonia, orfano di madre e ammaccato dal padre, cresciuto in seminario ed espulso dalla sua qualsiasi nazione in circostanze non chiarissime. Quando entrò nella canonica la prima cosa che notò fu la confusione dell’ufficio al piano terra, un bugigattolo che avrebbe funzionato meglio da tavernetta, uno spazio per i più giovani con le playstation i divanetti le riviste eccetera, un luogo dove interagire senza troppi freni. Tanto più che, a parte una consolle di mogano massello, era tutto impiallacciato senza qualità, roba da regalare immediatamente al primo ente benefico che si assumesse la spesa del trasporto.

Fu appunto mentre guardava i volontari caricare che Don Pavel notò una busta gonfia caduta in fondo nel cavo di un comò a cui avevano estratto i cassetti. La fece rapidamente sparire nelle maniche della tonaca, pregando silenziosamente che non fosse una mazzetta di vecchie lire fuori corso. Ma quando fu solo e l’aprì, ci trovò soltanto la fede di Don Tinto. A lui non serviva più, così Don Pavel se la tenne, per tutti i quarant’anni in cui rimase arciprete di quella parrocchia, stimato e rispettato da tutta la comunità, e persino dai non credenti, per gli esempi di generosità e rettitudine che seppe offrire e persino per le guarigioni e i miracoli che gli furono attribuiti: tanto che a Roma si pensa già di farlo Beato.

FINE

*******

“Quindi, Don Tinto, tu sei morto”, replicò ammirata Verola, “non lo sapevo, avresti potuto avvertirmene quando ti ho invitato. O devo dedurre che siamo tutti morti qui, e aspettiamo le bare che ci portino via?”
A quel punto un brivido gelido percorse le schiene dei quattro candidati.
“Mia signora”, rispose l’ex parroco, “anche il mio racconto è la storia di una vita che non ho vissuto; o perlomeno non interamente”.
“Quello che più mi stupisce del tuo potente racconto – potente come sonnifero, intendo – è il fatto che tu abbia potuto pensare a raccontare la vita di un depresso prete di provincia, dopo che avevo trovato noiosa quella di una prostituta transessuale”.
“Mia Signora, stasera ho messo il mio cuore a nudo, davanti a lei: se il racconto non le è piaciuto, non le piaccio io, ed eliminarmi immediatamente sarà cosa buona e giusta”.
“Hai sbagliato gioco, Padre, se pensi di essere tu qui per mettere alla prova me. Eppure ammetto che c’è qualcosa nel tuo racconto, che ti salverà anche a questo turno. Prof. Esso, Mària, fate un passo avanti…

[Continuawwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww]
crisi? che crisi?, le 21 notti, racconti, repliche, sogni

È un mercato pazzerello

(2008)

“Non stai dormendo, vero?”
“Mmmno”.
“Che faccia che hai. Si può sapere cosa ti preoccupa? Non è mica la tua crisi questa. Sei uno statale”.
“Ma come ci arrivo in pensione a ottant’anni”.
“Ti ammalerai e ci andrai prima”.
“E se mi ammalo dove li trovo i soldi”.
“Per allora avremo messo qualcosa da parte, un’assicurazione, la casa…”
“A proposito, e l’immobiliare?”
“Ci risentiamo domani. Comunque i prezzi sono quelli lì”.
“Ma sono matti. Sono tutti matti. Non dovrebbero calare?”
“Come no”.
“Calano, calano”.
“Dovevano calare già l’anno scorso, no?”
“Tra un po’ va giù tutto, vedrai”.
“Quando va giù tutto la gente si aggrappa alle case, quindi…”
“Dici?”
“Il prezzo potrebbe perfino andare su”.
“Non ci avevo mai pensato”
“Certo che uno come te, che capisce tante cose… è un peccato”
“Cos’è peccato?”
“No, dico, peccato che l’unica cosa che tu non riesca a capire siano i soldi”
“Ma non è che non li capisco, li capisco benissimo, è solo che…”
“Come no. Un rockfeller. Ti chiamerò Rockfeller, come il merlo”.
“Il corvo. Era un corvo”.
“Non aveva il becco giallo?”
“Ti confondi con Portobello. Buonanotte”.
“Buonanotteamore”.

Ha ragione.
Sto a preoccuparmi dei massimi sistemi e intanto ci piove in casa. Bisogna farsi furbi, monetizzare.
Potrei cominciare a dare lezioni. Si arrotonda abbastanza bene, dicono. Tutti i liceali col panico dell’esame a settembre… vedi che la Gelmini una cosa giusta l’ha fatta. Certo, equivale a tradire le cose in cui credevo. “Signora, suo figlio ha bisogno di un intervento didattico personalizzato, me lo mandi domani pomeriggio con una banconota da cinquanta”. Niente fattura naturalmente. Io che ho sempre odiato i medici pubblici assenteisti al mattino che si rifanno nelle cliniche al pomeriggio. E adesso eccomi qui. A quel punto tanto vale rubare, no?

Alla fine è solo una pezza. A scuola quanto potrò andare avanti? Può solo peggiorare, e si fa già fatica adesso. Nelle classi a 29 non si respira, letteralmente, e poi basta che ce ne sia uno un po’ schizzato e tutti lo seguono a ruota.
E tutte queste storie sul bullismo, sugli insegnanti fumati o maniaci sessuali… lo sai dove vogliono arrivare, no? Vogliono convincere i genitori middle-class a staccare i buoni scuola e mandare i figli al SacroCuore. Così ci resteranno solo terroni, tunisini e albanesi. C’è da dire che a volte sono più educati. Soprattutto i sargasci, che però hanno un odore che non sopporto. È la loro cucina maledetta. Che razza di spezie usano? Mi si fermenta il caffelatte nello stomaco – l’altro giorno stavo per vomitare davanti a una bambina. Tutta una vita così? Ma forse ci farò l’abitudine. Forse.
È chiaro che quando sei giovane, hai tanto entusiasmo, credi di poter risolvere tutto, ma siamo seri: quanto credi di poter durare? Io volevo insegnare la storia e la geografia, se devo mettermi lì a spiegare l’alfabeto ai sargasci mi annoio. Cioè, dai, non è più il mio mestiere.
Però è l’unico mestiere che so. Forse.

“Spengo la luce”.
“Ok, buonanotte”.

E intanto il conto cala. E se mi capita qualcosa? Imprevisti, probabilità – poi un giorno ti segnano la fiancata e finisci in rosso. Succederà. È già successo ad altri. E io non sono più furbo di loro. Diciamo la verità. Capisco tante cose, ma non sono più furbo di loro.
L’università è esclusa, c’è una fila di ex ricercatori questuanti che parte dagli anni Novanta, e sono tutti più giovani e svegli di me. E quindi? Questi son problemi, altro che Berlusconi. Certo, può sempre darsi che crolli il petrolio e il dollaro, si sciolgano i ghiacciai e collassi tutto l’occidente. Questo nel migliore dei casi. Ma metti che non succeda. Cosa faccio?
In politica non mi posso buttare, ho parlato male praticamente di tutti – e poi c’è la fila anche lì. Con Beppe Grillo? Per carità, inaffidabili. Andrà a finire come al g8, qualcuno si farà male e poi tutti a casa. Ma io comincio ad avere un’età. E se mi capita qualcosa? Del tipo, metti che mi debba far operare.

Già solo di denti mi stanno andando via stipendi interi, e fanno male lo stesso. E poi i dottori non me la contano giusta. L’altro giorno: cento euro per cinque minuti e un dito in culo! A proposito, cos’è questa nuova tendenza? Il proctologo lo posso ancora capire. Il dermatologo m’insospettisce già un po’. Ma l’otorino? Possibile che non possa sfilarmi due biglietti da cinquanta senza appoggiarmelo lì? Ehi! Se proprio ho un bel culo dovreste pagarmi voi. E non è detto che non vada a finir così. Ma sto davvero pensando a questo?

E ‘sta pioggia maledetta, com’è che fa tanto rumore, stanotte? Di solito non picchia forte così. Del resto è aprile, ogni giorno un barile. Potrei mandare il curriculum in banca. Ma a chi la racconto? Io di soldi non capisco niente.
La verità è che in banca ci dovrei entrare con una pistola giocattolo. Una volta sola. In una banca sola. Funziona, una gran scarica di adrenalina e vai, la prima volta non ti beccano. Quelli che si fanno beccare, è sempre perché ci riprovano. Ma una rapina in banca non si nega a nessuno, è quasi un tuo diritto, del resto se le banche cominciano a fotterti a dodici anni…
Sì, ma un colpo solo mica basta. Nella cassaforte di una filiale, quanto ci sarà? Centomila? Va bene, si tira un po’ il fiato, e poi? Ci vuole un reddito. Potrei fare il corriere.
In effetti sarei un buon corriere. Le autostrade le so tutte e mi piace girarle, fermarmi agli autogrill e non pensare a niente. Non mi hanno mai fermato a un blocco, mai, nemmeno con la barba sfatta. Ispiro confidenza. Potrei girare l’Europa in lungo e in largo trasportando chili di qualsiasi cosa. Tra l’altro non consumo, per cui come corriere sarei molto affidabile.

Mi terrei un mestiere di copertura – non so, potrei fare il rappresentante di enciclopedie. La faccia ce l’ho. E nella ruota di scorta potrei portare in giro di tutto. Ma che ruota di scorta, ormai ti fanno ingurgitare – se va bene. Sennò supposta. E torniamo sempre lì. Ma almeno si guadagna. Non posso credere che sto pensando a questo. Io corriere, sì, di cosa? E per chi? Non conosco nessuno. Cioè, nessuno, aspetta. Toni di IIIC.

Lui riga abbastanza dritto, ma suo zio venne qui in soggiorno coatto, due anni prima che cominciassero gli incendi dei capannoni. Quando viene al ricevimento generale gliela butto lì: “devo arrotondare, faccio già dei piccoli trasporti, lei non conosce mica qualcuno che ha bisogno di…”. Si capisce che non si fiderà subito. Magari mi chiederà di accendergli un capannone, prima. E vabbe’, dopotutto a me che frega dei capannoni? Tutti di gente che vota lega, se ne vadano affanculo, ve li brucio con soddisfazione. Ha anche smesso di piovere.

Tre o quattro anni così, senza dare nell’occhio. E se mi mandano all’est, c’è anche la possibilità di arrotondare. Se vado via vuoto e imbarco un paio di badanti a viaggio metto insieme una somma discreta senza spesa aggiuntiva. Se guidassi un camioncino, ma in macchina chi vuoi che mi fermi? Ho la faccia da tratta delle bianche? Tutto tranquillo, basso profilo. E se il padre di Toni vuole farmi la cresta? Tra l’altro suo figlio sa benissimo dove parcheggio. Lo vedi che mi serve un garage?
E va bene, avrà la sua percentuale. Però bisogna starci attenti, perché è un mestiere in cui si brucia molta benzina, e la benzina sarà sempre più cara… potrei mettere la bombola a metano… ma c’è il metano in Ucraina? Devo guardare su internet. Anche se poi… con la bombola… nel traforo del Gottardo… ma è già esploso una volta, quel tunnel… quindi le probabilità che esploda ancora…

E poi non devo mica passare la vita così. Quattro-cinque anni e poi mi metto in proprio. Una cosa piccola e pulita, senza dare fastidio a nessuno. Un bar con due camere sopra. Ci metto due bielorusse regolarizzate, e gli chiedo il venti per cento. Mi sembra onesto. O non lo è? Devo guardare su internet, ma sono convinto che c’è gente che prende anche il quaranta. Naturalmente se viene il padre di Toni offre la casa. Ma se viene il resto della famiglia? È numerosa. Gente che non paga volentieri. Hanno buttato giù un ristorante nella bassa, una volta, per via di un conto. Bisognerà abbozzare. Che mi metto a litigare coi camorristi, coi tempi che corrono?

E se le bielorusse si rifiutano di lavorare gratis e amore dei? Che poi i bar mica te li regalano, ci sarà un mutuo da pagare. Va a finire che mi toccherà chiedere soldi. Alla famiglia di Toni, naturalmente. E poi mi strozzeranno, va da sé. Un bel giorno mi alzo e mi trovo il bar bruciato… ma chi me l’ha fatto fare…
“Abbia pazienza, prof, ordini superiori. Dovevamo verificare che non ci fossero perdite dal tetto, ci capisce…”.
“Ma stavo giusto arrivando con la rata…”
“Prof, lei è un bravo guaglione, ma con rispetto parlando, se avesse mai studiato economia. Gli interessi passivi, ha presente gli interessi passivi? Comunque un modo di recuperare c’è. Si ricorda il vecchio mestiere? Ci sarebbe una missione a Chişinău”
“Ma Toni…”
“Una cosa rapida e indolore. Sei capsule. Ai vecchi tempi ne teneva pure otto”.
“Ma sono vecchio, Toni. Va a finire che esplodo”.
“E c’è pure un pappagallo con il becco giallo”.
“Con la bombola. Di metano. Nel traforo. Lungo chilometri sei”.
“Un tantino picchiatello… non sa dire: portobello”.
“Ma stavo così bene da statale”.

***

“Ma stai bene?”
“Eeeeh?”
“Stai scalciando!”
“Macché”.
“Ti dico che scalciavi. Dormivi? Hai fatto un brutto sogno?”
“Ma no, ero qui che pensavo tra me e me”.
“Che pensavi?”
“Pensavo… pensavo che dovrei cominciare a dar lezioni… c’è molta richiesta”.
“Mi sembra una buona idea”.
“Sai, hanno tutti paura dell’esame di settembre, adesso”.
“Ottimo”.
“Ti voglio bene, sai”.
“Lo so, anch’io ti voglio bene. Buonanotte”.
Buonanotte.

FINE

*******

“Finale quanto mai appropriato”, osservò l’esigente Verola, “per questo concentrato di pura noia. Ma quand’è esattamente che ti abbiamo fatto credere che le tue preoccupazioni quotidiane fossero abbastanza interessanti da costruirci un racconto?”
“Mia signora”, obiettò, tremante, il prof. Esso, “Non è un racconto sulla mia vita, quanto piuttosto su una vita che non ho vissuto”.
“E la rimpiangi?”
“Non saprei come rispondere”.
“Quanto sei noioso stasera professore. Voglio sperare che Mària abbia esperienze professionali più varie e interessanti delle tue. E ora buonanotte, ci vediamo domattina alle cinque in tenuta da yoga”.

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Razza di parassita

(1998)

Sono fermamente convinto che di esemplari come Mimmo ce ne siano ancora, da qualche parte. Certo, gli spazi disponibili per quelli come lui si devono essere ristretti, con la precarietà e tutto quanto. Quando lo incontrai – ehi, parliamo di quasi vent’anni fa – i contratti a progetto erano quasi fantascienza, il posto fisso una cosa data per scontata, e quelli come Mimmo erano in qualche misura tollerati. Finché non davano fastidio a nessuno. Anzi, probabilmente la presenza di Mimmo a qualcuno conveniva. Sì, ne sono convinto, non avrebbe potuto prosperare per tanto tempo senza la complicità di un dirigente. Un parassita più grosso di lui?

Io ero giovane, ero lì per uno stage. Da solo non avrei mai saputo distinguere Mimmo dagli altri. Dalla cravatta, sempre dello stesso colore? Non badavo alle cravatte (ero giovane). Mi pare che d’estate anche lui di adeguasse al clima, che portasse qualcosa di più leggero o colorato. Ma nelle altre stagioni la sua uniforme era la giacca e la cravatta, rigorosamente blu. Oggi forse il venerdì casual gli darebbe qualche difficoltà. Ma probabilmente sarebbe in grado di adattarsi.

Di carattere? Un tipo piuttosto taciturno. Certo, se lo salutavi ricambiava il tuo saluto. A voce? No, solo con un cenno del capo: non lo avevo mai sentito parlare. E dove lavorava? Aveva un cubicolo al sesto piano, come tutti gli impiegati di terzo livello: però non stava alle Politiche Giovanili, come me e Arci. Noi, vedendolo spesso passare per il nostro corridoio (curioso, però, non averlo mai incontrato in ascensore), davamo per scontato che fosse uno dei ‘ragazzi’ dell’ufficio Relazioni col Pubblico: uno dei tanti imboscati storici in quel favoloso reparto di cui si raccontava che si lavorasse al dieci per cento, e che fosse pieno di nipoti e di amanti di Assessori. Finché durante un rinfresco, un compleanno o una laurea o non so, Arci non si portò nello sgabuzzino una dell’URP, con la quale poi ebbe una storia importante, per una settimana. Da lei apprese, primo, che alle Relazioni pensavano la stessa cosa di noi delle Politiche Giovanili; secondo, che Mimmo non era loro collega, non sapevano nemmeno bene chi fosse. Il suo ufficio era relativamente più piccolo degli altri: schiacciato in un angolo cieco del sesto piano, fuori dalle abituali rotte di transito, dove il neon, difettoso, sfrigolava bagliori a intermittenza. Per arrivare fin lì bisognava avere qualcosa da dire proprio a Mimmo: una pratica da affidargli, un parere da chiedergli, ma appunto, nessuno aveva nulla da dire o da chiedere a Mimmo; nessuno lavorava con lui, e questo significava che Mimmo non aveva nessun vero lavoro, nessuna vera mansione.

“Chissà come è riuscito a ficcarsi laggiù” si domandava il mio collega. “Magari era lì anche prima dell’ultima razionalizzazione. C’era un archivio là in fondo. Va’ a sapere, quando si sono spostati a pian terreno lui ha fatto finta di niente, e nessuno si è ricordato di lui. E da allora è laggiù che non fa un accidenti dalla mattina alla sera, ti rendi conto?
“Almeno lui non disturba, Arci”.

Mi davo parecchio da fare in quel periodo (ero giovane). Credevo in tante cose: nella pubblica amministrazione, nel mondo del lavoro in generale, persino negli stage gratuiti, e non mi costava nessuna fatica, perché credevo in me stesso. Ad Arci invece sembrava già non interessasse nulla, né l’opportunità di svolgere al meglio un lavoro di responsabilità, né la necessità di progettare una carriera. Vivacchiava. La settimana precedente l’aveva riempita romanzandomi la sua tresca con la tizia delle Relazioni Pubbliche: poi la storia aveva annoiato persino lui, e ora non trovava più niente di meglio di Mimmo per seccarmi.

“Alla fine lui è l’unico vero professionista qui dentro, pensaci. Se ne sta lì da anni e nessuno lo nota, nessuno lo disturba. Stamattina ho chiesto a un tizio giù in archivio, e all’inizio non si ricordava di nessun Mimmo. Poi gli ho spiegato la posizione dell’ufficio, e alla fine, salta fuori che uno simile c’era qui già a quei tempi, e ti parlo di dieci-dodici anni fa…”
“Simile in che senso?”
Già, che voleva dire? Erano tutti simili a lui. Giacca, cravatta e poche chiacchiere. Tranne Arci, che proprio per questo secondo me non sarebbe durato. Questione di mesi, pensavo, forse di settimane…al primo scossone, alla prima muta stagionale…
Mi sbagliavo, Mimmo se ne andò per primo.

Andò così: un lunedì mattina il neon malfunzionante dell’angolo cieco rifiutò di accendersi. Fu chiamato l’addetto manutenzione, il quale, mentre montava il pezzo nuovo, rimase colpito dall’odore che proveniva dal cubicolo dietro lo sgabuzzino delle scope. Senza motivo si era spaventato, e aveva cercato nel corridoio qualcuno che andasse a mettere il naso in quella cella al posto suo. E chi aveva trovato? Arci naturalmente, in pausa sigaretta già alle nove del mattino. Davanti alla possibilità di mettere finalmente il naso nei misteriosi affari di Mimmo non aveva esitato un attimo ed era corso a forzare la porta del suo ufficio…

Cinque minuti più tardi era passato da me. Sorrideva con la sua smorfia solita, ma era piuttosto pallido. “Se hai un attimo, vorrei che tu vedessi una cosa”.
“Avrei da fare…sicuro che è importante?”
“Sicuro? Non lo so. Può anche darsi che non sia nulla, in effetti. Anzi, se ora vieni anche tu, e mi dici che non vedi nulla, tanto meglio. Vorrebbe dire che sono impazzito, eh eh. Ma preferirei”.
“C’è qualcosa che non va?”
“Mimmo”.
“Cos’ha Mimmo?”.
“Ha fatto le uova”.

Nella sua cella non c’era più – non c’era mai stato. C’eravamo aspettati l’ufficio di un imboscato, poster sconci e riviste nel cassetto della scrivania? Non c’era nemmeno la scrivania. Sul pavimento, accatastati in maniera balorda, pezzi di cartone e vecchie scartoffie rosicchiate: se avessimo cercato lì dentro avremmo senz’altro trovato vecchie pratiche nostre, ormai date per disperse. Ma avevamo orrore anche solo a toccare. Ancora più della paura, era quell’odore a paralizzarci.

Non era un odore disgustoso, ma troppo pungente e alieno. Gli odori che noi mammiferi non sopportiamo sono per lo più quelli di escrementi e carne putrida; ma quell’odore non aveva nulla a che fare con la carne: era qualcosa di dolciastro. Proveniva da quell’ammasso nero che ingombrava il pavimento: qualcosa di simile a un enorme scarafaggio con una specie di proboscide, e dalla corazza nera, con riflessi bluastri, che marciva in mezzo alla stanza. Era grande all’incirca come Arci… o come me. E un po’ mi assomigliava.

“E dire che me l’avevano detto giù all’archivio, che anche loro una volta avevano trovato un affare così: ma io credevo che mi prendessero in giro. Guarda qui”. Vincendo la repulsione, col coraggio sbruffone di un bambino che ispeziona un topo morto, il mio collega spostò la proboscide piatta e sottile che per giorni innumerevoli, mentre strisciava lungo i corridoi, avevamo scambiato per una cravatta. Sopra c’era una cartilagine dalla tinta rosastra, la cosa più orribile che ho mai visto in vita mia: una perfetta imitazione della faccia di un uomo.

“Secondo me si nutre rosicchiando le pratiche. E l’inchiostro della stampante: vedi?” intorno alla proboscide c’era una spessa farina nera. “E anche il gas del neon, per questo funzionava sempre male”.

In seguito ho letto dei libri, mi sono fatto una cultura. Ho imparato che nella jungla indonesiana, dove abitano le specie di formiche più organizzate e devastanti, vive anche un ragno che ha la forma di due piccole formiche, una che trascina l’altra. Forse, su miliardi e miliardi di casi, accade anche che qualche formica operaia degni la sua apparente collega di una seconda occhiata. Come reagirà, questa formica su un miliardo, scoprendo d’un tratto di vivere circondata da mostri suoi simili? Io e il mio collega passammo il resto della mattinata a cacciare le piccole larve che avevamo scoperto a formicolare in un angolo della stanza. Da lontano sembravano mosconi senz’ali: ma osservandoli da vicino potevi accorgerti che portavano la giacca e la cravatta, e avevano un volto inespressivo e un po’ pallido. Schiacciarli ci avrebbe fatto troppa impressione, così di solito li caricavamo sul lembo di una pratica e li andavamo a buttare nel gabinetto. E per tutto il tempo mi toccò sentire i balbettii di Arci che continuava a ripetere, tra l’estasi e l’orrore: “Che razza di parassiti. Professionisti. Che razza di parassiti professionisti…”

FINE

*******
“Beh, Taddei, che dire. Vedo che anche tu saccheggi i classici. Ma almeno D.A. Wollheim non è più tra i viventi. O pensavi non lo conoscessi?”
“Mia signora, ho avuto così poco tempo…”
“Bla bla bla, chissà che lagna devi essere sul luogo del lavoro. Qualcun altro ha qualcosa da dire?”
Prese allora la parola il Prof. Esso. 
“Mia signora”, disse, “più che un plagio credo che un racconto del genere possa essere considerato un omaggio…”
“Cos’è, vuoi cercare di farti perdonare la sua quasi eliminazione? Non è un buon segno, sai Taddei? Il professore di solito se la prende coi più forti. Se mostra di apprezzarti, evidentemente non ti considera un avversario all’altezza. Del resto, lo vedremo domani sera. E ora via, che domani alle sette comincia il corso prematrimoniale intensivo. Sì, sono una ragazza all’antica”…