Beppe Grillo, coccodrilli, italianistica, snobismi, teatro

Fo era un grande, Fo era un grillino, Fo era brechtiano (e Dylan no)

Possiamo voler bene a Fo anche se negli ultimi anni era grillino? Gli possiamo perdonare questa patetica avventura senile, così come possiamo e dobbiamo perdonargli di essersi arruolato a 17 anni nei repubblichini per evitare l’internamento? A me piacerebbe tanto rispondere di sì, che possiamo. Gli anziani spesso perdono i punti di riferimento, ma non per questo smettono di meritare il rispetto che si sono conquistati con una vita di lavoro. Dario Fo ha lavorato tanto per noi: ci ha reso tutti migliori, anche se non ci fermiamo troppo spesso a rifletterci (certe cose che faccio oggi, e mi divertono immensamente, come la rubrica dei santi del Post: non sono affatto sicuro che avrei mai potuto pensarla o farla senza Dario Fo), e quindi se alla fine è stato raggirato da una banda di cialtroni, pazienza. Potremmo chiuderla così. Invece – indovinate – la questione è più complessa.

Mettiamola così: io non ci sto a invocare qualche forma di infermità senile per l’anziano Dario Fo. Quando decise di seguire Grillo e i suoi, per me era ancora perfettamente in grado di capire e comprendere: era ancora lo stesso Dario Fo di Mistero Buffo. Non vedo contraddizioni, anzi vedo una profonda coerenza di fondo. Fo era grillino molto prima che arrivasse Grillo; possiamo dire che lo era dal medioevo. Per dimostrarlo prendo un libro a caso.

A fine anni ’90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all’improvviso un Venerato Maestro.

APERTA PARENTESI

Contrariamente a quanto molti pensano,
lo strumento che si vede nella foto
non serviva a suonare musica, ma
a scrivere parole su un foglio.

Con tutto il bene che voglio a Bob Dylan, e a tutti i brutti dischi che mi ha fatto ascoltare (nessuno ha mai fatto tanti dischi brutti come Dylan), con tutto il sollievo che provo perché per una volta hanno premiato uno che un po’ conosco, devo dire che per me il Nobel alla letteratura più pazzo di tutti, quello che mi ha dato più soddisfazioni, continua a sembrarmi quello a Fo.

Dylan farà brontolare ancora un po’ i benpensanti di ogni età, quelli con l’estetica a compartimenti stagni (“letteratura”, “musica”) che non si capisce neanche esattamente dove se la siano formata: cioè non puoi neanche dare la colpa al liceo gentiliano, o a un Benedetto Croce; nemmeno loro la mettevano giù tanto scema. Più probabilmente hanno in testa i reparti di una libreria, di un multistore: i testi di Dylan non sarebbero “letteratura” perché non stanno in quello scaffale, più che autonomia/eteronomia dell’arte dev’essere una questione merceologica, di inventario.

Con Fo è diverso. Faceva teatro – che è una branca della letteratura più o meno da Eschilo – e non si può neanche dire che non si affidasse alla parola scritta: cioè è vero che improvvisava, ma i testi teatrali suoi e della Rame sono tutt’altro che canovacci: sono dialoghi assolutamente scritti, di buona qualità – e nessuno aveva protestato per George Bernard Shaw o tanti altri. No, il problema con Fo era un po’ più sottile. C’è qualcosa in lui che non riusciamo a ridurre a “letteratura”, in un senso della parola “letteratura” che non è chiaro nemmeno a noi: e non sono le boccacce o il grammelot. Credo che sia un po’ lo stesso problema di Brecht. Fo è un autore a suo modo brechtiano, e quello che fa Brecht non è più, in senso stretto, “letteratura”. Forse ancora negli anni Cinquanta, ma in seguito il reparto si è ristretto. Abbiamo deciso, per esempio, che la politica non c’entra, sta in altri scaffali. Ma Brecht la politica la voleva fare. Galileo e Madre Coraggio sono testi che non si limitano a descrivere il mondo: lo vogliono cambiare. Non stanno al loro posto, non si accontentano di gareggiare in un’ipotetica serie A del consumo letterario che peraltro è stata formalizzata qualche decennio dopo da una branca commerciale di qualche casa editrice.

Con Fo succede la stessa cosa. Marino libero, Marino è innocente! è un bel monologo? Non lo so. Quel che mi è ben chiaro, dopo averlo visto, non è la qualità letteraria del testo, ma il fatto che Marino sia, perlappunto, innocente. Si può apprezzare un testo del genere se invece sei sicuro che Marino sia colpevole? Un fascista può apprezzare Brecht? Secondo me no. Al limite ci sarà un equivoco, ma Brecht non è un autore che si lasci così liberamente interpretare. Ha lasciato note di scena ben precise, non puoi interpretare il Galileo come una difesa di Galileo o addirittura della Chiesa cattolica: non funziona.

Con altri scrittori non succede questo – non è previsto che succeda. Non devo condividere l’ideologia di Hemingway – ammesso che ne abbia una – per amare Hemingway. Non devo coindividere le idee politiche di Montale, non devo condividere le convinzioni di Rushdie, e nemmeno quelle di Bob Dylan. Ma non potevo uscire da uno spettacolo di Fo dicendo “mi è piaciuto ma non mi ha convinto”. Se non ti ha convinto, non ti è piaciuto. Non è letteratura nel senso che gli abbiamo dato negli ultimi anni: forse è propaganda. In ogni caso la faceva benissimo. Ma a questo punto, di nuovo, si pone il problema: gli possiamo perdonare di essere diventato grillino? Perché non è stato un equivoco, lui nel grillismo ha visto qualcosa che aveva inseguito per tutta la vita. Come stavo perlappunto per mostrare prima di aprire questa parentesi che adesso chiudo.

CHIUSA PARENTESI

A fine anni ’90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all’improvviso un Venerato Maestro. Potrebbe ritirarsi o ripetere i vecchi numeri approfittando del rilassamento della censura, e invece si butta in altri progetti. Lavora molto. Si interessa soprattutto a uno dei periodi meno conosciuti della nostra Storia, la tarda antichità. Il progetto multimediale La vera storia di Ravenna (1999) prelude ad analoghi spettacoli dedicati al duomo di Modena, ad Ambrogio e ad altre cose che sicuramente mi sono sfuggite; però già nel ’99 in quel libro Fo non si limita a raccontare la città che lo ospita: sono due secoli di Storia che riscrive, approfittando del fatto che non li conosce nessuno.

Il libro è completamente disponibile on line: è una lettura facile e godibile (era uno spettacolo per le scuole, questo fanno gli scrittori brechtiani: mentre voi vi affannate a leggere Roth o ascoltare Dylan, occupano le scuole e vi rovinano i fanciulli), ed è assolutamente in linea con quello che Fo aveva fatto prima, ma anche con quello che ahinoi appoggerà dopo. C’è l’amore per il popolo, unico vero motore della Storia: c’è tutta la curiosità del lettore operaio di Brecht, che vuole sapere se Giulio Cesare avesse un cuoco. E poi c’è questa cosa folle che vi vado a mostrare: la scoperta di un eroe proletario nell’Italia disastrata del sesto secolo. Nientemeno che Totila, re dei Goti. Approfittando di due o tre accenni a una riforma fondiaria che Totila aveva avvallato per rifondare il suo esercito, Dario Fo descrive una scena che col senno del poi assume una valenza ben più inquietante di quella che aveva a fine anni ’90 (ai quei tempi al massimo ci si diceva vabbe’, Cristo e morto, Marx è morto, e Fo si mette a cercare un Che Guevara nella Storia dei Goti).

  

La riforma fondiaria di Totila non ebbe un grosso seguito: vuoi per la peste che colpì di lì a poco la penisola, decimandone gli abitanti (e rendendo una riorganizzazione del territorio in qualche modo necessaria); vuoi perché dopo tante brillanti vittorie che Fo racconta con l’entusiasmo del militante, Totila viene sconfitto e i suoi seguaci crocefissi. Però per Fo l’importante è che ci sia stata: che abbia preso l’esempio da una rivolta avvenuta poco prima in Palestina, e che abbia passato il testimone ad altre rivendicazioni, altre lotte avvenute poco dopo nei territori Bizantini. Totila non è morto, Totila lotta insieme a noi – Fo non lo scrive, ma vuole che uscendo di teatro noi un po’ lo pensiamo. In seguito vedrà nel Duomo di Modena l’opera di un popolo che non vuole essere eterodiretto da papi o imperatori, e dipingerà Sant’Ambrogio come l’eroe del popolo di Milano, un non battezzato che diventa vescovo per acclamazione. Si tratta di operazioni propagandistiche molto più spinte di quelle che i Wu Ming stanno facendo nello stesso periodo. Fo riscrive la Storia dal basso – gli storici ovviamente storcono il naso ma non è a loro che evidentemente Fo guarda. Fo sta cercando e proponendo dei modelli, un po’ perché quelli del Novecento ormai sono inutilizzabili, un po’ perché è quel che ha sempre fatto, dai tempi di Lisistrata e Mistero Buffo.

Un passo oltre: in quel re barbaro che convoca i servi della gleba, gli propone di abolire il feudalesimo della Casta e confessa “abbiamo poca esperienza”, non vi sembra di riconoscere qualcuno? Un Fo che era disposto a farsi andar bene personaggi come Totila o lo stesso Ambrogio, perché non avrebbe dovuto salutare con gioia l’avvento di Grillo e dei suoi uomini inespertissimi? Il movimento del Vaffanculo, Fo lo stava aspettando da una vita. Era stata la voce che lo chiamava dal deserto del Novecento. E a questo punto la palla torna a noi. Ci piaceva Fo, ovvero: ci piaceva una persona che il grillismo lo ha immaginato, lo ha cercato qua e là nei secoli più bui della nostra Storia, lo ha finalmente visto in Grillo e nei suoi. Possiamo anche raccontarci che la situazione sia molto più complessa, ma non è così. Possiamo stabilire che che Fo ci piaceva in quanto geniale propagandista di una cosa che in realtà non funziona, ma è un’operazione un po’ fredda. Se davvero ci piace Fo, dobbiamo accettare che c’è qualcosa del grillismo che tutto sommato non ci dispiace: e decidere, di conseguenza, se vogliamo rimuoverla o mantenerla dentro di noi. Almeno per me è così

coccodrilli, Eco, italianistica

Il romanziere più snobbato del Novecento

Umberto Eco ha probabilmente fatto cose più importanti, ma prendiamo anche solo i primi tre romanzi. Eco è il romanziere più snobbato del Novecento: forse aveva venduto troppo per essere preso sul serio dai coetanei, mentre i più giovani avevano pudore di farsi vedere in compagnia di un professore. Resta il fatto che Il nome della rosa è uno dei più penetranti libri sugli anni di piombo, ed è una detective story ambientata in un monastero trecentesco. Il pendolo di Foucault è un libro di fine anni Ottanta che spiega il fenomeno del Codice Da Vinci vent’anni prima che Dan Brown si metta a scriverlo – basterebbe questo. Ma Il pendolo è molto di più: è anche il romanzo definitivo su quel fenomeno che crediamo nato con Internet, il complottismo cosmico. Eco lo aveva scoperto molto prima, bazzicando librerie equivoche ed editori senza scrupoli, e aveva anche capito che non si trattava di un episodio di secondaria importanza: no, i complottisti erano legione, avrebbero forse ereditato il mondo – col consenso magari divertito degli intellettuali.

Poi c’è l’Isola del giorno prima che, letto d’un fiato ancora fresco di stampa, ovviamente mi deluse, e riaperto qualche anno dopo mi convinse di trovarmi davanti al migliore romanzo di Eco e alla migliore istantanea di com’era vivere in Italia a fine Novecento, sulla linea esatta tra un ieri ormai incomprensibile, inereditabile e un domani che non arrivava: salvo che non era ambientato in Italia, ma dall’altra parte del mondo, e non a fine Novecento, ma nel secolo più letterariamente antipatico di tutti, quello della peste e dei lanzichenecchi. Umberto Eco ha fatto cose magari più importanti, ma quei tre libri sono un monumento di cui dobbiamo ancora apprezzare la vera grandezza. Credo.

D’altro canto, sono anche i romanzi con cui sono cresciuto. Il mio Montecristo, se avete presente cos’era Montecristo per Eco. Magari hanno difetti, anzi ne hanno tantissimi, ma quanto mi ci sono divertito. Adso e Guglielmo che mappano il labirinto dall’esterno, Causabon che cerca la password di Abulafia, i collages di citazioni di Belbo, e quel folgorante capitolo sull’Editoria A Proprie Spese che probabilmente mi ha salvato la vita e i risparmi. La lista della spesa dei templari, “ma gavte la nata”, l’assedio di Casale, la digressione sulla longitudine – sono quelle cose che quando sei un ragazzino, in quegli anni in cui hai il cervello che si secca e si imbeve come una spugna, possono fare la differenza. Credo di essere stato davvero fortunato a crescere nel preciso momento in cui i ragazzini in edicola trovavano il tascabile del Nome della Rosa prima del Signore degli Anelli. Insomma per me sono libri bellissimi, formativi e indispensabili, e non ho intenzione di riaprirli per verificarlo. Non li tengo neanche in casa, per sicurezza.

Umberto Eco è stato molto di più di un romanziere divertente, però che romanziere che è stato. Mi è ancora più difficile del solito parlare di lui senza ritrovarmi a parlare di me: di come mi capiti di aprire Apocalittici e Integrati in media una volta ogni due mesi (ormai è un plico di pagine scollate), di perché penso a lui ogni volta che un deficiente su un giornale infila una tautologia crociana o un signora mia dove andremo a finire; di quanto sono debitore del suo stile schietto e affabile e vittima delle sue arguzie d’erudito che altri, comprensibilmente, non sopportavano. Come se davvero potessi fornire me stesso come dimostrazione di quanto bene Eco ha reso al mondo, quando è il contrario: Eco meritava discepoli molto migliori. E li ha avuti.

cinema, italianistica, Pasolini

Litigare con don Pasolini

Una di queste notti mi sarebbe piaciuto riprendere i fili del discorso un po’ confuso che avevo fatto su Pasolini l’altro giorno (visto che ha suscitato un minimo d’interesse) – però tutto sommato è giusto che rimanga confuso. Pasolini è per me, come per molti, un feticcio polemico da una vita. Anch’io posso passare serate intere a litigare idealmente con Pasolini. Se non sto attento mentre do l’aspirapolvere puoi notare che muovo le labbra, sto insultando Pasolini. Quel suo atteggiarsi a profeta, a Geremia di un genocidio immaginario – che nervi l’Abiura a rileggerla.

Alla fine poi che colpa ne ha avuto lui. In qualsiasi altro periodo storico avrebbe trovato la sua nicchia abbastanza presto, e invece a causa di una guerra mondiale e altri equivoci si è ritrovato in una sezione bolognese del PCI invece che in seminario. Che prete ci siamo persi, ma soprattutto che vita da prelato si è perso lui. La sua passione per le dispute dottrinali gli avrebbe ispirato dotte dissertazioni teologiche che lo avrebbero reso uno dei protagonisti del concilio – vuoi mettere anche solo per un attimo, tra litigare coi lefebvriani o col Gruppo ’63? Nel frattempo avrebbe potuto cullare la sua sensibilità decadente coltivando la poesia, la scrittura, l’arte, senza la necessità di impastoiarle con categorie marxiste che non c’entravano poi parecchio. Le periferie sottoproletarie, le avrebbe potute frequentare con molta più libertà, nessuno ci avrebbe avuto niente da ridire – son cose che a Roma si fanno da secoli e chi siamo noi per giudicare un alto prelato, un benefattore. Le sue naturali pulsioni avrebbero trovato molta più tolleranza in Curia che in certe sezioni di partito un po’ retrograde. Le sue inchieste sulla sessualità degli italiani le avrebbe potuto condurre in modo assai più capillare nel confessionale. Nel frattempo avrebbe saputo diluire in comode omelie settimanali il suo presentimento dell’apocalisse, del genocidio culturale, della massificazione indotta dalla tv, dalla legalizzazione dell’aborto, dalle maschere di Halloween, le lucciole! cosa hanno fatto alle lucciole! Persino in Africa avrebbe più convenientemente potuto andarci da missionario; che prete sarebbe stato Pietro Paolo Pasolini, e invece gli è andata così. Eppure chi ancora si inginocchia al suo santino è sempre di un prete che sembra aver bisogno, uno che ti faccia le predica sulle false lusinghe della modernità, sul vuoto dei valori, uno che ti dica “io so”, anche se non è chiaro come faccia a saperlo – ma già, il confessionale – in ogni caso i preti sanno sempre tutto, bisogna stare attenti, perché verrà un giorno… Don Pasolini, così come fra Lindo Ferretti, è uno di quei personaggi che in Italia abbiamo sempre avuto, forse addirittura il frutto dell’evoluzione, dell’adattamento a un certo tipo di ambiente; la novità è che seminari e conventi sono meno diffusi di una volta e così a gente che sembra nata per spiegarti il mondo da un pulpito capita di ritrovarsi scrittore, regista, cantante, comico, e non se la cavano neanche così male in verità. Sempre però un po’ predicatori, se ci fai l’orecchio.

Per dire che Muccino un po’ lo capisco.

Però poi ogni volta che vedo qualcuno cedere al mio stesso impulso, e di attaccare una tirata antipasoliniana, mi rendo conto che è vittima di un equivoco, se non di tanti. Ad esempio vedo in giro roba del genere.

E ci rido pure sopra, però intanto penso: ma uno che ha scritto una battuta del genere, l’avrà mai davvero sentito parlare, avrà letto qualcosa di Pietro Paolo Pasolini? Non solo il fatto che in realtà un film come Ricordati di me gli sarebbe davvero potuto piacere; una volta assorbito lo choc di un ritmo action che ai suoi tempi non esisteva nemmeno nei film di 007, figurati in un prodotto cosiddetto intimista, credo che avrebbe potuto vederci una conferma delle sue tesi sul vuoto della neoborghesia. Ma lasciamo stare: come fai a immaginare Pasolini che risponde “mi pulisco il culo”?

Se hai anche solo aperto a caso le Lettere Luterane, se hai ascoltato distrattamente la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini, come fai? Ma neanche in una vignetta. Te lo immagini, boh, Hitchcock che dice la stessa cosa in una vignetta? Moravia? Viene il sospetto che nel modellare il feticcio PPP le giacche di pelle abbiano avuto più peso delle pagine di Empirismo Eretico dove Pasolini si permetteva eleganti frecciatine sul prognatismo di Sanguineti, ma non avrebbe mai usato il sintagma “pulisco il culo”.

Forse funziona così: oggi la gente in giacca di pelle che va in tv a parlare di qualsiasi cosa è, boh, Scanzi? E così ci immaginiamo che Pasolini sia stato uno Scanzi dei suoi tempi; che di fronte a una provocazione si sarebbe comportato come lui: fanculo, stronzi, ecc. Di solito quando parliamo di lui non abbiamo la minima idea di quello di cui stiamo parlando. Anche quando lo citiamo, lo fraintendiamo; lui poi perlopiù parlava in una lingua che abbiamo messo via, il marxismo; una lingua che maneggiava un po’ disinvolto, se non proprio alla carlona, perché gli era capitato di esser marxista per accidente, era semplicemente il clima culturale in cui era nato e aveva imparato a discutere – e di discutere aveva una gran voglia e un gran bisogno e non solo coi sottoproletari: anche e soprattutto coi suoi pari, intellettuali, artisti. Lui poi era convinto che i sottoproletari stessero per scomparire, parlava di genocidio, non si vergognava di scomodare Hitler per un po’ di speculazione edilizia – ma non aveva previsto che anche il suo milieu culturale si sarebbe prosciugato nel giro di due decenni, al punto che oggi non c’è uno che mentre ti cita Pasolini ti dia la sensazione di aver capito quello che stava dicendo. Equivocano tutti, un po’ perché devono tirare acqua al loro mulino (lui stava dalla parte dei poliziotti! Non è vero stava coi pankabbestia!), un po’ perché davvero, leggerlo è troppo sbattimento.

Poi se la prendono con Muccino. Lui almeno ha una tesi: una volta il cinema italiano era un’industria, poi c’è stata una crisi strutturale, non sarà stato per caso Pasolini? Secondo me no, Pasolini in certi casi faceva un cinema di nicchia, “di poesia”, insomma era un autore nel senso che la parola aveva già in quegli anni; in altri casi stava sperimentando soluzioni che oltre ad avere un successo immediato (il Decameron), aprivano le porte a nuovi linguaggi che sarebbero diventati di massa: in sostanza stava aprendo le porte al porno, col vecchissimo alibi dell’esotismo medioevale o terzomondista (da questo punto di vista certi stilemi amatoriali hanno un senso che Pasolini non vedeva e Muccino non coglie; il motivo per cui a lui piacevano gli attori non professionisti in pose discinte è simile a quello per cui noi digitiamo “amatoriale” in determinati siti). Però sia quando faceva Teorema per il pubblico dei festival, sia quando girava i Racconti di Canterbury – e in giro c’era una tale fame di nudità medievali che in sala era già uscito un seguito apocrifo al Decamerone – Pasolini era perfettamente organico all’industria cinematografica in cui lavorava – molto più di quanto se ne rendesse conto. Quando se n’è reso conto si è molto arrabbiato. Poi quell’industria è crollata per altri motivi – banalmente, la tv – e oggi non riusciamo nemmeno a capire che Teorema era pensato per un certo pubblico e Canterbury per un altro. Sono due film talmente diversi da quelli che vediamo nelle sale, che potrebbero averli girati i Lumière o Giotto di Bondone. È roba strana, da intellettuali. Niente che valga la pena rivedere – finché Muccino non ne parla male, allora guai a chi ce la tocca.

“Ma hai finito con l’aspirapolvere?”
“Perché?”
“È la seconda volta che lo passi in cucina”.
“Scusa, ero sovrappensiero”.
“Con chi stai litigando stavolta?”
“Con nessuno”.

cinema, italianistica

Muccino e la Pasoliniexploitation

L’altra sera, proprio quando i detrattori più moderati di Pasolini sembravano aver conquistato il campo, si è svegliato mano-lieve Muccino e ha dato un ceffone all’arbitro.

Quel che è successo poi potrebbe persino far storia: un’intera nazione di appassionati di cinema si è scossa dal torpore ipnotico dei trailer di Star Wars rallentati alla ricerca di qualche dettaglio rivelatore sul destino di Jar Jar Binks, e si è stretta intorno al suo maestro e ispiratore, il geniale cineasta Pietro Paolo Pasolini. A quarant’anni dalla sua scomparsa (e dalla distribuzione di Salò), l’amore del pubblico per il suo beniamino è tale che l’account facebook di Muccino sembra essere stato sospeso per eccesso di insulti. E io ho scoperto di vivere nell’universo dei miei sogni, dove le piattaforme sociali non servono per litigare sugli spintoni tra Valentino Rossi e Marquez, ma per dibattiti sull’estetica, perdio, sulla tecnica cinematografica! Vi rendete conto, possono bannarci mentre litighiamo sull’uso del carrello o del controcampo.

Ok, proviamoci.

Però facciamo finta di saperne qualcosa per favore – cioè davvero, potete avere mille motivi per odiare Muccino, ma per difendere Pasolini dovreste almeno aver visto un film suo. Sennò come potete essere sicuri che non ci abbia azzeccato? Definire Pasolini amatoriale non è cosa campata così in aria. Il suo primo approccio diretto con la macchina da presa fu abbastanza garibaldino. Era già uno scrittore affermato, aveva collaborato con Fellini, quest’ultimo intuisce del potenziale e gli propone di produrre Accattone – ma quando vede i primi tentativi blocca tutto, erano inguardabili. Pasolini comincia così, saltando a piedi pari tutto l’apprendistato del regista (anche se può contare da subito su un collaboratore preparato come Bernardo Bertolucci). E potendo contare sulla sua reputazione extracinematografica – tanto che quando alla fine Accattone arriva a Venezia, viene contestato da gruppi di estrema destra che gettano inchiostro sullo schermo. È appena il 1961: gli anni di piombo molto in là da venire; Pasolini è già in qualche modo un personaggio che attira l’attenzione qualsiasi cosa dica o faccia.

È interessante che nel suo primo comunicato antipasoliniano (poi prontamente cancellato da facebook), Muccino raccontasse di aver cominciato a detestarlo molto presto – è così che funziona, no? Se ti piace Pasolini (o Kubrick, o i Vanzina) te ne accorgi a 16 anni. Il resto della vita ti serve a trovare i motivi, le giustificazioni, le pezze d’appoggio. Muccino – chi sa un po’ di cinema non ha nessuna difficoltà ad ammetterlo – è uno dei registi italiani più dotati della sua generazione, che è anche il motivo per cui in questo momento twitta dalla California. È facile risolvere la questione tracciando una retta: da una parte l’approccio amatoriale di Pasolini, che con scarsa o nulla conoscenza del mezzo riesce comunque a mettere in scena un’opera prima apprezzata in tutto il mondo; dall’altra la professionalità di Muccino, il campioncino nazionale dei carrelli circolari. Facile, no? Già, troppo facile.

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Pasolini amatoriale                                               Muccino professionale

Perché è vero anche il contrario: Pasolini arriva in regia sapendone poco o nulla, ma è determinato a fare del cinema la sua dimensione – tanto che si mette molto presto a teorizzare di semiotiche e di cinémi – quanto a Muccino, avrà fatto i suoi compiti, ma il modo in cui liquida Pasolini dimostra una scarsa conoscenza della storia del cinema italiano.

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Muccino praticone                                                     Pasolini accademico
L’eredità di Pasolini.

Cosa direbbe Pasolini dell’accusa di essere “sgrammaticato”? Probabilmente la rivendicherebbe (facendo però sfoggio di un’ottima grammatica), così come rivendicava l'”ingenuità” che gli aveva affibbiato Umberto Eco. “Che io sia ingenuo, non c’è dubbio: e anzi, poiché non sono – con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo – un piccolo-borghese – non ho paura dell’ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo” (Il codice dei codici, in Empirismo eretico).

Ricapitolando: da una parte il cinema contemporaneo, professionale ma del tutto inconsapevole della storia che ha alle spalle. Un cinema senza tempo e senza luogo, che potrebbe farsi dovunque e infatti si fa in California. Dall’altra la visceralità di Pasolini, ma anche lo strutturalismo di Pasolini. L’ingenuità, ma anche la Cultura con la C. Il sottoproletariato urbano, ma anche l’intellettuale organico e/o declassato. Tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle nel Novecento, dopo quella famosa frattura antropologica. Ma non è ancora troppo facile, così?

È da ieri che cerco ovunque un’intervista che sono sicuro di aver visto, una mattina, a un “montatore di Pasolini” (Nino Baragli?) Ormai mi sono convinto che sia in questa teca rai che non si riesce ad aprire. Mi ricordo questo signore mentre spiega in romanesco come si montava ai suoi tempi, con lo sputo: cioè prima di incollare i pezzi di pellicola con l’acetone, in un primo momento era sufficiente applicare un po’ di saliva. E poi quando spiega che i raccordi di Pasolini li faceva un po’ diversi da quelli degli altri film, perché sembrassero strani, perché sembrassero ‘artistici’: gli spettatori dovevano avere la sensazione di trovarsi di fronte all’opera sofisticata del poeta Pasolini, mica, chessò, la robaccia di Sergio Leone. L’artigiano della cabina di montaggio aveva perfettamente introiettato gli stilemi di quel Cinema di Poesia che secondo Pasolini stava sorgendo “contemporaneamente in tutte le cinematografie mondiali” (“l’alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc.“) (Il cinema di poesia, in Empirismo eretico).

Quando vidi per la prima volta il Decameron in cineteca a Bologna, approfittando del corso monografico del Dams, mi fu preventivamente spiegato che l’approccio di Pasolini era “poetico” – e già la cosa mi innervosiva, provenendo io da un altro corso di studi: perché mettere la poesia nel Decamerone, che è prosa? E l’approccio poetico, poi, consisterebbe nel fatto che i raccordi sembrano tutti sbagliati, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili, ecc. ecc? E aggiungi gli attori non professionisti sempre sul punto di mettersi a ridere. Cioè, insomma, “poetico” significa “fatto male apposta”? Probabilmente avevo la stessa età in cui Muccino cominciò a detestarlo.

I HAVE NO IDEA WHAT I’M

Però a leggere più attentamente il saggio di cui sopra, non è che Pasolini rivendichi il “cinema di poesia” per sé. Lo isola nei film di un gruppo di cineasti della sua generazione (Antonioni, Bertolucci, Godard), e ne propone immediatamente una spiegazione politica: “la formazione di una traduzione di “lingua della poesia del cinema” si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo“. Pasolini stava assistendo alla nascita del moderno cinema d’autore – e non ne sembrava poi così entusiasta. Lui forse puntava in altre direzioni. E però i film vanno quasi mai nella direzione del proprio regista: specie se i cabina di montaggio c’è un praticone che ha deciso che il ritmo è lento, perché il tuo è un film d’artista e al tuo pubblico piacerà di più così.

Muccino è convinto che Pasolini abbia inferto un colpo mortale alla cultura cinematografica italiana – dopo di lui qualsiasi inetto avrebbe deciso che bastava munirsi di cinepresa e montare spezzoni a caso per fare cinema poetico (“improvvisati registi che non sapevano come comunicare col pubblico“). È andata così? Da qua non sembra. Sotto l’ombra del monumento che gli è cresciuto addosso in questi anni, sfugge forse quanto Pasolini fosse organico all’industria cinematografica che Muccino rimpiange – ricordiamo: comincia a lavorare con Fellini, esordisce con Bertolucci, all’inizio non ha ben chiaro che lenti montare ma si circonda di maestranze di primissimo livello: realizza film non convenzionali ma nemmeno assimilabili a quelli autoriali di Antonioni o Godard; film che fanno discutere, ottengono premi e – particolare cruciale – a volte riempiono le sale.

A Muccino forse manca un dettaglio: la trilogia della vita fu un successo al botteghino. Successo che imbarazzava Pasolini per primo, e che lo portò nel suo ultimo anno di vita a una tragica abiura. Oggi lo ricordiamo come un grande intellettuale fuori dagli schemi e dalle mode, ma l’effetto immediato del successo del Decameron fu precisamente la nascita di un vero e proprio filone, il cosiddetto decamerotico. Sono fenomeni difficili da indovinare oggi. che andiamo al cinema molto meno: nel giro di pochi mesi c’era già un Decameron II apocrifo in circolazione; quando l’anno successivo uscì I racconti di Canterbury, gli artigiani della pasolini-exploitation avevano già provveduto a confezionare Gli altri racconti di Canterbury, che arrivò nelle sale in contemporanea. Secondo Muccino senza Pasolini non avremmo avuto Nanni Moretti; mi sembra molto discutibile, invece è abbastanza pacifico che senza Pasolini non avremmo mai avuto Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda.  Persino l’abiura totale di Salò, così disperata e senza compromessi… Persino Salò diede vita a una rapida vague di film di serie B a base di nazisti sadici.

Tornando al Decameron: è il film di Pasolini con cui ho più familiarità, per via della mia abitudine a proiettare in classe (con un certo sprezzo del pericolo) la novella di Andreuccio di Perugia. Non è che abbia fatto pace con gli attacchi irritanti e le immobilità interminabili, ma per mostrare uno scorcio di medioevo urbano non saprei trovare di meglio. È anche utile per fissare nella memoria le condizioni igieniche nel tempo – Ninetto Davoli che sprofonda nella merda è il miglior antidoto a qualsiasi visione fiabesca del medioevo. Ma soprattutto c’è qualcosa di arcaico, di irriconciliabile con la modernità, che è poi la sensazione che vorrei suscitare quando insegno storia.

Quando la primavera scorsa è uscito Il racconto dei racconti, sono entrato in sala con molte speranze. Basile è un altro autore che bisognerebbe affrontare alle medie – altrimenti quando? Per qualche minuto ci ho creduto davvero. Più o meno finché gli attori hanno aperto la bocca, dichiarandosi per quel che sono: attori di una fiaba in costume. Molto professionali, per carità.

In quel momento mi è venuta nostalgia di Pasolini, e di quei non-attori sempre sul punto di mettersi a ridere.

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Casomai v’avanzasse qualche euro
sulla card

Sono grato a Marco Lodoli, al suo caratteristico candore che lo ha portato ieri ad ammettere che il nome “La Buona Scuola” non è la pensata di un pubblicitario prestato al marketing politico, ma è sua. Come sua è l’idea della card da 500 euro per l’”aggiornamento professionale” – ma Lodoli è più schietto: lui non pensa a corsi di didattica, ma a libri e biglietti di teatro. “Troppi insegnanti perdono contatto con lo spirito del tempo, con quanto di bello viene prodotto. Dicono che la cultura costa troppo…”

Quanto a pedagogia e didattica, son parole complicate e Lodoli è sospettoso davanti a nomi strani; ad esempio “dispersione scolastica” è difficile, la gente nn capisce, bisogna semplificare, e semplificando si arriva a “Buona scuola”, il contrario di scuola-no-buona. La scuola da cui rincasando, in luogo di recitare il trito ruolo di prof disillusi, i colleghi dovrebbero rinfrancarsi andando a teatro, o leggendo libri nuovi. Insomma la proposta dello scrittore italiano contemporaneo è: comprare più romanzi contemporanei. Un collega replica che avrebbe preferito pagare le bollette. Lodoli nn risponde.

Sono grato a Lodoli, perché dimostra che non è una cieca avversione a Renzi a rendermi indigesta la riforma: ricordo infatti di aver sentito parlare di una card del genere tantissimi anni fa, proprio in un’intervista a Lodoli; e ricordo che già allora mi pareva una stronzata, da Marie Antoniette della cultura: non c’è più carta nei bagni? Si arrangino con gli ultimi romanzi.

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, italianistica

Il drago italiano è + buono, + sano

Mangia solo drago italiano.

Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

C’era una volta un regista, seduto su un sofà, che non sapeva più che storia raccontare. Le conosco tutte, ahimè! diceva. Se solo potessi tornare bambino e rivederle con l’occhio di chi è appena venuto al mondo. Io so che c’è ancora quel bambino dentro me, ma non so da che parte tagliare per farlo venir fuori. E piangeva, e strepitava, e prometteva la luna e le stelle al mago che avesse saputo levare quel bambino da lui, scorticandolo se necessario. Finché un giorno non si presentò un signore magro magro, lungo lungo, con un vecchio libro polveroso, e gli disse: sfoglia qui, da qualche parte c’è il rimedio che tu cerchi.

“Ma è napoletano, non si capisce niente”.
“Fatti scrivere un riassunto”

 
Del Racconto dei racconti avevo visto due trailer. Uno prima di Mia madre: sembrava una cosa tra Dune e Alien. Il secondo l’ho visto prima degli Avengers: sembrava Fantaghirò. A quel punto la mia naturale ritrosia per i draghi era stata vinta dalla curiosità: sarebbe riuscito Garrone a camminare su un filo tra due sponde tanto distanti? E da quale parte avrebbe sbandato più spesso? La risposto l’ho avuta dopo un paio di minuti di film: quando al termine di una fuga tra stupendi corridoi, un attore meravigliosamente agghindato da re ha aperto bocca e ha detto una cosa del tipo: “Farei qualsiasi cosa per farti felice“.

Farei qualsiasi cosa per farti felice.

Era na vota no cierto re de Longa Pergola, chiammato Iannone, lo quale, avenno gran desederio de avere figlie, faceva pregare sempre li dei che facessero ‘ntorzare la panza a la mogliere; e, perché se movessero a darele sto contiento, era tanto caritativo de li pellegrine, che le dava pe fi’ a le visole. Ma vedenno all’utemo che le cose ievano a luongo e non c’era termene de ‘ncriare na sporchia, serraie la porta a martiello e tirava de valestra a chi ‘nce accostava.

Però bisogna avere perso il cuore da qualche parte nella foresta, e aver riempito il buco con un riccio di castagna, per parlar male del Racconto dei racconti; e di un regista che invece di oziare a palazzo raccontando per altri dodici film storie di mala e di uomini contemporanei psicotici e infelici, bevendosi la stima di villici e cortigiani, monta a cavallo ed esce nel bosco. È sicuro che si perderà; che non sarà all’altezza dei mostri che evoca; che maghi e criticoni non saranno necessariamente dalla sua parte; ma perdio, è un giovane cavaliere coraggioso, come si fa a volergli male? Ed è un coraggio di cui tutti abbiamo bisogno; non è la sventatezza criminale di chi senza cultura fumettistica decide di punto in bianco di inventarsi un supereroe italiano, una cosa che se non è mai esistita un motivo ci sarà. È l’audacia di chi ha un tesoro da parte, e deve soltanto trovare il modo di metterlo a frutto. Chi ha mai deciso che il cinema italiano debba ridursi a commedie di quarantenni e drammi su sessantenni che imprevedibilmente invecchiano? Mentre i nostri ragazzi, in tv e al cinema, si consegnano senza fiatare ai mostri e alle fate venuti da lontano? Non abbiamo mostri noi, solo nonni e genitori in tinello?


Altroché se li abbiamo. Abbiamo gli orchi DOP e abbiamo le fate originali. Pure Cenerentola è cosa nostra, salvo che la nostra spezzava la noce del collo a una matrigna col coperchio d’una cassapanca, altro che topolini e cinguettii. Sepolto sotto tonnellate di melassa industriale c’è un mondo di mostri e magia e crudeltà che mozzano il fiato, una vena più barocca che gotica, ma è comunque sangue buono. Basta scavare, e non avere paura – non averne troppa. Le stelle sono favorevoli: in tv i draghi vanno forte anche presso il pubblico esigente; al cinema Hollywood propone fate e principesse a spron battente, problematizzate e modernizzate quanto basta per metter d’accordo le sorelle pre e postpuberi. Se a questa gente riuscissimo a confezionare un film di fiabe, attenzione, non un fantasy che non è roba nostra: un vero film di fiabe violente e senza consolazione, forse attireremmo l’attenzione di chi mangia pizze surgelate da una vita e non ha mai annusato l’origano su una focaccia appena levata da un forno a legna. Con l’industria non potremo mai rivaleggiare, ma se riusciamo a raccontare a tutto il mondo che siamo gli Artigiani originali, siamo l’Eccellenza, insomma la vecchia fiaba del Made in Italy, forse, forse (continua su +eventi…)

italianistica, musica, omofobie, sintassi

Perché Aldo Busi scrive così cane?

È appena marzo, ma ho la sensazione di avere scovato il periodo sintattico più lungo del 2015. Lo ha scritto Aldo Busi su Dagospia, un sito che non ho abitudine di linkare, ma lo potrete trovare facilmente. Il pezzo è parte di una polemica con Travaglio cominciata sul Fatto a proposito di Lucio Dalla; in particolare del suo mancato coming out, che per Busi corrisponde a un tradimento della causa gay (causa che Dalla non ha mai dato la sensazione di voler difendere). Busi ne approfitta per spiegare che non trova tutto sommato molta differenza tra Lucio Dalla che convive con un ragazzo molto più giovane e Berlusconi che se la fa con Ruby.

Dice più o meno così.

Ma se la prende un po’ più larga.

Questo diritto alla privacy sessuale però “il Fatto” non l’ha mai rispettato verso la sessualità di Silvio Berlusconi, seppure parimenti devastante su altri piani ma infinitamente meno immorale di quella di Dalla perché manifesta, esibita sia al pubblico ludibrio dei bacchettoni sia alla segreta invidia dei più italioti, e però oziosamente perseguita e perseguitata nei tribunali per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi in meno rispetto a una età del consenso saltata ormai da almeno trent’anni nella vita sociale e civile e sessuale in ogni parte del mondo e che nelle prostitute schiavizzate sotto gli occhi di tutti ai cigli delle strade nostrane arriva a malapena ai sedici senza che nessuno muova istituzionalmente una falange (basti vedere di che cosa sono capaci le baby gang di quattordicenni organizzate probabilmente dai genitori stessi molto più vampiri pedofili sfruttatori dei loro eventuali estimatori da ricattare, anche se a costoro ben gli sta e malgrado dovrebbe essere un reato da depenalizzare almeno oltre i quattordici anni ovvero da aggiornare nei suoi ipocriti, obsoleti e patetici paletti anagrafici portatori di criminalità indotta poi soggetta alla discrezionalità di giudici più o meno ammanicati con la classe sociale o di potere degli accusati, che alla fine della sonata giuridica e mediatica mi sembra la facciano spudoratamente fin troppo franca).

Aldo Busi è un grande scrittore italiano (stavo per scrivere “del secolo scorso”, che orribile gaffe). Quando vuole, i periodi li sa tornire con indiscutibile abilità. Se qui gli capita di scrivere cane, è perché ha deciso di suonare cane. Credo che sia l’equivalente letterario di alzare la voce in un talk show: le virgole sono pause e Busi non se le può permettere. Sarebbe come offrire al regista l’occasione per staccare, e invece lui vuole che la camera continui a girargli attorno. Anche il senso della frase gira su sé stesso: il Fatto non rispettava la sessualità di Berlusconi. Però la sessualità di B. era “parimenti devastante”. Sì, ma “infinitamente meno immorale di quella di Dalla”, per via che non era nascosta a tutti (beh, beh, fino a un certo punto; e anche Dalla non è che si nascondesse così tanto). Cioè ce l’hai con Dalla e lo paragoni a Berlusconi, però si deve capire che ce l’hai anche con Berlusconi, però con Dalla di più, ecc.

Dunque la sessualità di B. è “oziosamente perseguita” “per una faccenda, massimamente, di un paio di mesi”. Busi finge di non sapere che B. non è stato indagato (e assolto) per aver trescato con una minorenne, ma perché sospettato di aver fatto pressioni su pubblici ufficiali per farla liberare; di aver lasciato che la Minetti la consegnasse a una signora che forse si prostituiva; insomma Berlusconi era a processo perché accusato di aver favorito l’eventuale prostituzione di una minorenne; qualcosa di un tantino più grave di aver passato qualche lieta ora con lei. Busi finge di non saperlo ma lo sa benissimo: e allora alza ancora di più la voce, dice che tanto per strada le prostitute sono tutte 16enni (sul serio?) e che comunque ci sono un sacco di baby gang di 14enni che fanno di peggio (quante?) e tenetevi forte: queste baby gang sono organizzate da genitori “vampiri pedofili sfruttatori dei loro estimatori”. Qui Busi forse si accorge di essersi spinto un po’ troppo in là, perché ci sono cose che ancora non passano nemmeno tra i lettori di Dagospia, e tra queste probabilmente la compassione per i poveri estimatori di gangster 14enni che li ricattano. Quindi si corregge immediatamente: “ben gli sta” (a questi estimatori ricattati). Da lì in poi va avanti per inerzia, non si sa nemmeno più cosa stia scrivendo: “dovrebbe essere un reato da depenalizzare”: il ricatto? lo sfruttamento della prostituzione minorile? boh. Tanto poi decidono i giudici ammanicati coi politici è tutto un magnamagna. Aldo Busi, 2015.

Triste però.

C’è una cosa che succede ogni anno ai primi di marzo, di cui non vado tantissimo fiero. Tutti si ricordano Dalla, ascoltano pezzi di Dalla, e si mettono a cercare on line post che parlino di Lucio Dalla. E trovano il mio, che piano piano sta diventando uno dei contenuti più letti di sempre. Non è che sia un post particolarmente ispirato; però funziona, e ogni anno mi porta qualche contatto in più. Non è una questione di soldi. Non mi ci rifaccio nemmeno del caffè alla macchinetta. Però funziona: la gente cerca Dalla e trova qualcosa che ho scritto io.

Quest’anno Busi ha un romanzo da vendere, e così ai primi di marzo si mette a litigare su Dalla. “Uno zero come tanti, non isolato, però di panza, panza molto capiente in fatto di mercato e quindi di ogni specie di santi in paradiso, a destra, a sinistra, dove più fa comodo a entrambe le parti una e trina e, se occorre, doppia, sdoppiata, rasente e anche in absentia per accordi tra collusi al business del consenso”. Potrebbe anche avere qualche argomento, non scrivesse così cane. Lo scandalo di Busi è che Dalla – di cui si dà per scontata l’omosessualità – non abbia mai difeso i diritti dei gay. Gli sarebbe bastato fare un coming out al momento giusto, e se n’è guardato bene. D’altro canto, è giusto pretendere da una persona una condotta pubblica coerente con la propria sessualità privata? Non è l’ultima frontiera del perbenismo? Chi lo sa.

Io so solo che Busi scrive da cane, e lo fa apposta. Come se fosse il primo a crederci poco, e a coprire i dubbi coi guaiti.

Il Dalla, abile facitore e propalatore di marcette populiste, omosessuale rinnegatore di se stesso non certo a letto ma dove conta affermarsi se si ha il talento della libertà da diffondere dando il buon esempio, cioè sulla pubblica piazza, e menefreghista doc, non ha fatto niente per i diritti civili, quindi remandovi scientemente contro, dei più deboli, tra cui quei cittadini cosiddetti gay e lesbiche che tuttora in Italia sono visti come degli appestati dalla clericalissima e corrottissima classe politica dominante che premia i “diversi” se si attengono al ruolo di macchietta o di “discreto” e “insospettabile”, che della macchietta è la ridicola esaltazione piccolo borghese ovunque, televisione, parlamento, spettacolo, Chiesa, imprenditoria, sport e, ovviamente, nel giornalismo anche più impegnato (anche se, per quanto a schiena dritta, si direbbe impegnato a raddrizzare le zampe ai cani tanta è la paura dell’omosessuale occulto di venire azzoppato lui: perché chi parla di politica e di etica civile senza esprimersi sul motore stesso dell’economia, cioè sulla propria inconfessabile sessualità e sui suoi fantasmi desideranti o rimossi o frustrati o vissuti di nascosto anche da se stesso, non ha ancora detto nulla in tema di politica e di riforme e di cambiamento che valga la pena di ascoltare, tesi centrale del mio ultimo e imminente romanzo). […]
Spero almeno che tanta fatica sprecata serva a fare un bel po’ di pubblicità anche al mio romanzo: è proprio bello, divertente, sessuale, logico, compassionevole, avveniristico, anticlericale e di quella sana oscenità pagana di una volta, e non c’è niente di paragonabile in giro in libreria, figuriamoci sui giornali, uno si rifà proprio la bocca e i sensi tutti.  Bella forza, m’ha detto uno che ha avuto il privilegio di leggerlo in anteprima, l’hai scritto tu.

arti contemporanee, drogarsi, italianistica

Soprattutto non leccare la clessidra

Una nuova rubrica: novità in libreria. Perché ho scoperto che sono ancora aperte, cioè, a parte il reparto infanzia ovviamente.

Rewind, di Federica De Paolis

Zeno è un broker divorziato e determinato che si innamora di Talila, un’addetta stampa con un misterioso passato. Talila ha avuto una figlia da Rocco, pittore tormentato e narciso scomparso nel nulla. Se mi avessero detto: scegli tre personaggi apparentemente antipatici, estraili dai contesti professionali più stronzoidi che riesci a immaginare, non sarei riuscito a individuare un terzetto così: uno speculatore rampante, un’accompagnatrice dei divi, un pittore di quelli che azzeccano una personale da giovani e poi campano un po’ di rendita e un po’ di espedienti.

Se non altro con individui del genere il rischio del minimalismo è scongiurato: la De Paolis è turbobalzacchiana, i suoi uomini (sempre un po’ femminili) e le sue donne (un tantino virili) sono continuamente pervasi da desideri che li riempiono e li vuotano come vesciche. La droga, naturalmente, ma è quasi sempre un termine di paragone, perché il sesso è una necessità violenta tanto quanto la droga (Talila va in crisi d’astinenza); ma anche il fitness è una droga, il successo professionale e artistico è una droga, i figli che dovrebbero costringerti a drogarti meno possono diventare, comunque, una droga essi stessi: e comunque anche loro si drogano già, da bravi parassiti appiccicati ai genitori sopravvissuti ne suggono i sensi di colpa e non gliene basta mai, hanno bisogno di dosi sempre più massicce.

La droga è in sostanza il modo in cui scegliamo di vivere, chi centellinando i giorni con metodo, chi sbandando forsennato da un continente all’altro, da un amore all’altro, da una dipendenza all’altra. Non sono considerazioni così originali, ma Rewind riesce lo stesso a disorientare il lettore (che secondo me è sempre un bene), pur svelando il trucco sin dal titolo: la storia va a ritroso, mostrando prima gli effetti e poi le cause. Così la De Paolis celebra l’esorcismo di una delle angosce meno note che la nostra generazione si porta dentro: la vertigine che ci prende ogni volta che conosciamo una persona interessante più o meno della nostra età e ci rendiamo conto che, mioddio, dietro potrà avere come minimo trent’anni di passato da raccontarci. Chissà quante storie ovviamente sempre finite male (ci scopriamo a sperarlo), chissà quali droghe e quando e con chi, chissà quanti romanzi e se li vogliamo leggere tutti veramente. Almeno Rewind va giù rapido, in tre botte secche.

anniversari, futurismi, italianistica, Leonardo sells out

Il grande poeta dimenticato del ‘900

19 agosto 1964 – muore Ardengo Soffici, pittore, scrittore, futurista, fascista, e tante altre persone. 

Soffici ci lasciava 50 anni fa, troppo presto sia per far dimenticare il suo fascismo seminale, sia per cogliere i frutti della rivalutazione del futurismo. Come pittore poi si è difeso bene, i suoi papier collés e le sue angurie sono passaggi obbligati in qualsiasi mostra futurista che si rispetti. Molto meno conosciuto resta il Soffici scrittore, ma se in generale abbiamo smesso di leggere non è proprio colpa sua. Lui in effetti ha precorso i tempi anche in questo, scrivendo testi leggerissimi che sembrano pensati per il lettore svagato e distratto del secolo XXI. Figlio di borghesi rovinati, scappato a Parigi a vent’anni, Soffici si ritrova quasi per caso al centro dell’esplosione artistica che inaugura il secolo. Tra i primi italiani a leggere Rimbaud, a scambiare due chiacchiere con Picasso o Apollinaire, Soffici torna nella casa materna di Poggio a Caiano (FI) nel 1907. L’intuizione è buona: in Francia era un illustratore tra tanti, in Italia è in anticipo di una generazione – al punto che nel 1911 si permette di stroncare la prima esposizione futurista: “sciocche e laide smargiassate di poco scrupolosi messeri”.

Il seguito è noto: Marinetti, Carrà, Russolo e Boccioni prendono un treno per Firenze apposta per andare a picchiarlo. Lo trovano alle Giubbe Rosse (se lo fanno indicare dal subdolo Palazzeschi), e restano piacevolmente sorpresi dal fatto che Soffici risponda a pugni e schiaffi roteando il suo bastone da passeggio. Il giorno dopo addirittura si prende con sé Slataper e Prezzolini e li va ad aspettare in stazione. Nuova scazzottata, e poi tutti assieme in commissariato a firmare il verbale e discutere d’arte d’avanguardia. Sta per nascere il primo futurismo fiorentino, l’unico a non dipendere economicamente dalle ampie tasche del mecenate Marinetti. Il vero battesimo sarà Lacerba, la rivista che Soffici avvia all’inizio del 1913 in collaborazione con l’amico e provocatore Giovanni Papini – in sostanza è uno spin-off della Voce, l’amichevole scissione dei due vociani meno allineati al serioso verbo idealista. Mettendosi d’impegno a stroncare Croce, e con Croce tutti i filosofi, e gli scrittori, e i pittori – Papini e Soffici ottengono perfino un certo successo editoriale, conquistato a base di titoli roboanti (Contro la scuola! Amiamo la guerra!) e oltraggi al pudore e un insistito snobismo. Lacerba è la nonna di tutti i fogli di satira italiani. Gramsci nota che lo sfogliano persino gli operai torinesi, con un interesse non ricambiato.

Nel ’13 Soffici non è uno scrittore esordiente: tra le altre cose ha già dato alle stampe un torvo romanzo incompleto (Lemmonio Boreo) che comincia col racconto autobiografico del ritorno a casa dalla Francia e passa poi a descrivere un’esperienza di Strapaese con vent’anni di anticipo, seminando nel lettore il sospetto che il fascismo nasca proprio così, un virus francese apparentemente innocuo che a contatto col sottosviluppo culturale della provincia italiana si trasforma in qualcosa di micidiale. Ma è sulle colonne di Lacerba che Soffici, liberandosi di ogni preoccupazione sovrastrutturale, si reinventa scrittore en plein air: pubblica i suoi taccuini così come sono, un blogger nel secolo sbagliato. Ci lascia pagine ingiallite e piene di una vita che ci sembra più contemporanea della nostra.

Ormai è diventato famoso – e già lo accusano di far parte di una di quelle cricche o camorre culturali che qualche mese prima combatteva. Cominciano a piovere manoscritti di poeti che si ritengono geniali e si aspettano pronte risposte. Uno di questi lo perde tra altre scartoffie, tanto meglio, anzi no: era il primo manoscritto dei Canti Orfici.

Passa una stagione, passa un anno, ed è il 1914. Quando sparano all’arciduca e Austria e Germania fanno la prima mossa, Soffici non ha la minima esitazione. Il pittore che tutto deve ai francesi non può che schierarsi con la seconda patria attaccata a tradimento. L’artista che disprezza sia i filosofi tedeschi che la vecchia retorica dei socialisti non può che chiedere l’intervento contro gli imperi centrali. Lacerba diventa l’organo dell’interventismo più snob – è anche un modo per prendere le distanze da Marinetti, che vorrebbe usarla per pubblicare tutte quelle tavole parolibere illeggibili che impensieriscono di molto il tipografo Vallecchi. Alla fine Soffici e Papini (e Palazzeschi) si prenderanno il lusso di attaccare il futurismo da sinistra, accusando Marinetti di non essere futurista abbastanza. Nel mentre Soffici si sta improvvisando Apollinaire italiano, con un certo successo. Si permette persino di scippare a Marinetti le parole in libertà, scrivendo alcune delle più belle in assoluto nel leggendario volumetto Bïf§zf+18, (il titolo è affidato al caso: il sorteggio dei caratteri mobili che lo compongono è affidato alla linotype di Vallecchi. In anticipo su Dada, sul surrealismo, sulle poesie scritte al computer, sui generatori automatici e qualsiasi altra cazzata). Soffici è il primo a inserire veri e propri inserti pubblicitari nelle sue poesie – Palazzeschi nella Passeggiata gli aveva mostrato la via, ma Soffici li ritaglia e li appiccica sul foglio. Nemmeno i futuristi sono ancora pronti a tanto. Andy Warhol nascerà 13 anni dopo.

Siamo al ’15, la guerra comincia davvero. Altri ne approfitteranno per mettere in discussione le premesse dei loro entusiasmi giovanili. Soffici no. Per lui, come per il quasi coetaneo Marinetti, trovarsi in trincea a quasi 40 anni è un trucco per darla a bere all’anagrafe, una seconda giovinezza concessa agli audaci. I suoi taccuini al fronte (Kobilek, La ritirata del Friuli) sono pieni di voglia di vivere e vincere. “Se un giorno io dovessi ricevere un premio attestante il mio coraggio, vorrei che nella motivazione non si parlasse né di fatiche, né di pericoli affrontati, ma si scrivesse solo questo: «Fu allegro nella trincea del Kobilek».

A guerra finita – e non bene – Soffici non poteva che diventare fascista. In un certo senso lo era stato ben prima di conoscere Mussolini, col quale peraltro riuscì ad andare sempre d’accordo. In Friuli si era trovato una moglie; fece anche un po’ di carriera nei quotidiani importanti. Verso gli anni Quaranta covava ormai una certa disillusione, non nei confronti dell’ideale fascista, ma di come si stava realizzando nella prosa quotidiana. All’arrivo degli Alleati fu internato, prima di essere riconosciuto come un anziano pittore inoffensivo. Senz’altro ci sono scrittori meno imbarazzanti da ricordare. Ma Soffici, ogni volta che lo riapri, ti dà l’impressione di un parente lontano che al telefono sembra conoscerti in ogni tua cellula. La stessa velleità di mandare al macero l’Italia e rifarla in un fine settimana, di liquidare Croce e sostituirlo con due pensierini scritti in treno tra una galleria e l’altra. L’allegria con cui si va a morire – poi muoiono gli altri e tu torni a casa ti sposi e racconti che dai, poteva andare molto peggio. Soffici ci ha lasciato 50 anni fa. Non si direbbe.

italianistica, lingue morte, sesso

5 pagine di letteratura che il tuo prof non vuole che tu legga

O raga io il titolo l’ho fatto, e spero tiri su tanti clic, ma farci anche un pezzo era troppo sbatti. Ci metto le prime cose che mi vengono in mente, e se qualcuno ha altre cosacce da segnalarmi fatevi sotto (non vi pago).

1. Ve lo ficcherò nel **** e quindi in *****.
Al liceo Catullo rischia di passare per quello sdolcinato, per via di quella specie di rap sui centomila baci che faceva ridere anche i critici suoi contemporanei – ecco, forse sui banchi di scuola passa un po’ inosservata la risposta che Catullo servì a due di questi critici, Aurelio e Furio (in realtà grandi amici del poeta), in un componimento che a mio parere surclassa quello dei bacetti – ma è un confronto impietoso, tipo chiudere Jovannotti in una gabbia di polli con 50cents. Qui la versione originale con una traduzione adeguata.

2. E la violaciocca / fa certi lavoretti con…
Aldo Palazzeschi è un genio assoluto di cui tutti conoscono almeno una poesia; purtroppo nel 90% dei casi (Berlusconi incluso) è Rio Bo. Ma al riparo dagli sguardi degli studenti elementari, Palazzeschi era capace di ben altro. Nei Fiori, mentre riflette sulla sua intermittente sessualità, distrugge l’idillio ottocentesco a base di giardini profumati, giocando assegnando a ogni specie floreale qualche deviazione sessuale. Un esilarante inno contro la natura (molto più leopardiano di qualsiasi epigono di Leopardi), e in un certo senso contro la vita.

I fiori (1913)

Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto…
irrequietezza della primavera…
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore…
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa…
O la sconcezza era in me…
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo…
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
“ah!, ci sei anche te”.

Quando tutti si furono alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri puri della natura.
Oh! com’ è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
– Zz… Zz…
– Che c’è?
– Zz… Zz…
– Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il décolleté.
– Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
– Ma tu chi sei? Che fai?
– Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
– Te?
– Io, sì, che male c’ è?
– Una rosa!
– Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
– Oh!
– Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo…

Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
si fa sì finir tutto
da quel coglione
del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
– Oh! Oh!
– Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
– No! No! Non più! Basta.
– Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
– Anche voi!
– Che maraviglia!
Lesbica è la vainiglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
– Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori…
– E la violacciocca,
fa certi lavoretti con la bocca…
– Nell’ora sì fugace che v’è data…
– E la modestissima violetta,
beghina d’ogni fiore?
Fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi… all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino…
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
– misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
– Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!

(clicca qui per leggere altre pagine esilaranti e un po’ porno che i tuoi prof non vorrebbero mai che leggessi).

italianistica, Leonardo sells out, poesia

Ritornava una rondine al tetto. Cosa le è successo? CLICCA QUI!!!

Giovanni Pascoli (in basso a destra)
col papà e i due fratelli.

10 agosto 1867 – Ruggero Pascoli, amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, viene assassinato mentre ritorna da Cesena in calesse a San Mauro. Suo figlio Giovanni non se ne darà mai pace. A tutt’oggi il caso è insoluto. 

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Quando si legge Pascoli, quando lo si legge davvero – no, aspetta, mettiamo i punti interrogativi: quando si legge Pascoli? Quando lo si legge davvero? Senza incombenze connesse, senza doverlo imparare a memoria per un’interrogazione o per una tesi; quand’è che uno si mette lì a leggere, poniamo, i Poemetti o i Canti di Castelvecchio invece di qualsiasi altro libro? Vi siete mai portati Pascoli in treno? In spiaggia? Pascoli non si legge mai davvero. È uno di quei poeti famosi che tutti conoscono e a cui nessuno vuole più veramente bene. Come le statue in mezzo alle piazze, non danno nemmeno fastidio, stanno lì come un punto di riferimento, un segnale stradale. (“Scusi, sto cercando il Novecento”. “Prosegua dritto finché trova la statua di Giovanni Pascoli”).

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ma quando leggi Pascoli, quando per qualche motivo lo leggi davvero, ti viene il dubbio che se ne rendesse conto lui per primo; che questa fosse l’immortalità che si aspettava. I critici lo deridevano per i suoi bamboleggiamenti, ma lui se ne fregava. Aveva colto molto prima degli altri le implicazioni culturali della legge Casati: milioni di piccoli italiani sarebbero entrati per la prima volta in una scuola elementare, e cosa vi avrebbero trovato? Le pose auliche di Foscolo? Peraltro, non proprio un esempio da imitare per la gioventù. Gli inni sacri che lo stesso Manzoni si annoiava a comporre? Eh no, serviva qualcosa di più laico. La disperazione leopardiana? Nah, al massimo si poteva ritagliare qualche idillio qua e là, ma è comunque roba poco cantabile. Neanche Carducci: troppa politica, troppa – No, agli studenti elementari d’Italia servivano filastrocche. Ma scritte con mirabile perizia prosodica. Con tanta natura e poca politica – parliamo del tempo piuttosto, i temporali, le nubi, i tramonti, questo tipo di cose. Ai fanciulli serviva un fanciullino, e lascia che gli adulti ridano. Tanto gli adulti ormai di poesia non ne compreranno più. Ma i libri di lettura, quelli andranno sempre. E una strofetta di Pascoli su una nube, o su un tramonto, o su un assiolo, non mancherà mai. Al limite andranno bene anche le strofette sul babbo morto.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

Ecco, quando leggi Pascoli per davvero, questa cosa che hai sempre saputo ti si ripropone con violenza: ma sul serio ha potuto rivendersi così il babbo morto, sul serio ha potuto scrivere il X agosto? Cioè, certo che lo ha fatto, lo sai benissimo, però accidenti, riflettici: sparano a suo padre. Una cosa orribile – se lo vedono arrivare in casa con una pallottola in corpo – uno choc che cambierà l’esistenza sua e di tutta la famiglia. Un caso intricato, un’inchiesta infinita, con Pascoli arcisicuro di sapere chi è stato ma incapace di trovare la pistola fumante, eccetera. E su questa cosa, il poeta laureato Giovanni Pascoli, professore cattedratico, personaggio pubblico, scrive una filastrocca (dalla prosodia complicatissima e rivoluzionaria, con l’alternanza oltraggiosa di versi pari e dispari) con la rondine in croce che piigola piiigola sempre più piano, e l’insetto nel becco, e le bambole additate al cielo, e il cielo che piange! Nel 1896. Stavamo cominciando ad avvistare i satelliti di Nettuno, e Pascoli si prende una pagina del libro di lettura per raccontare ai bambini che il 10 agosto il cielo piange perché hanno ucciso suo papà. Una regressione allo stato infantile dell’umanità.

Uno alle elementari non ci riflette, è un bambino. Anche Pascoli finge di essere un bambino, lo sappiamo tutti, abbiamo tutti sostenuto almeno un’interrogazione sul Fanciullino ecc. ecc. E allo stesso tempo se ci rifletti – se rifletti all’idea di tornare alla tua scuola elementare e immaginarti al tuo fianco un professore cattedratico col grembiulino, che finge d’essere un bambino come te – ti rendi conto che Pascoli è il più osceno di tutti.

attivismo, italianistica, manifestaiolismi

Dal G8 a Grillo

Questo anniversario di Genova casca più del solito a sproposito, e mi trova filo-governativo mio malgrado, senza essermi mai iscritto né all’albo né, ahimè, al libro paga. L’altro giorno un tizio è venuto qui sotto nei commenti a postare un intervento di Wu Ming, chiamandomi “servo organico”. Ecco, per esempio, i Wu Ming: loro sono ancora intellettuali non asserviti come dodici anni fa, loro sono ovviamente contro il PD, contro Grillo e tutto il resto: e quindi? Cosa pensano che dovrebbe succedere a questo punto? Voi lo avete capito?

Più in generale lo vorrei chiedere a chi passa di qui e inveisce contro il vergognoso governo di compromesso, e contro il compromesso stesso, chiamandosi fuori: come se ci fosse ancora un fuori. Con tutto il garbo che riesco a simulare: ma insomma, voi cosa proponete esattamente? Elezioni in settembre? Con la stessa legge elettorale? E pensate che ne uscirebbe una situazione molto diversa? Siete sicuri che sarebbe una situazione migliore? Vale la pena di rischiare? Ma insomma che governo vorreste, visto che questo vi fa schifo (e fa schifo anche a me: ma voi ci tenete a comunicare che vi fa schifo di più, vi fa schifo in un modo che non riuscite a tollerare, e questa vostra insofferenza è un valore, mentre la mia sopportazione è evidentemente una colpa). Posso capire i renziani: loro probabilmente credono di poter risolvere la situazione a vantaggio loro e di tutti. Ma non sono tutti renziani, anzi. E quindi: se pensate che il PD si sia definitivamente compromesso, con o senza Renzi, cosa vi aspettate esattamente dalla prossima crisi di governo? L’apocalisse grillina? L’insurrezione delle masse? Volevo chiedervelo perché onestamente non lo so.

E in mezzo a tutto questo casca l’anniversario di Genova, e la sirena suona più lugubre del solito. Ho forse tradito la mia gioventù? Gli ideali per cui bla bla bla? Cambio argomento.

Ai tempi di Genova andavano molto di moda i cosiddetti noir italiani. Anche in ambienti tradizionalmente poco sensibili alla letteratura di genere i polizieschi venivano considerati un modo nuovo e originale di descrivere la realtà italiana. Così fu abbastanza naturale che il G8 di Genova finisse in diversi libri del genere, per lo più nello sfondo: persino Camilleri stava per far dimettere il commissario Montalbano dalla vergogna, eccetera. Ma la scena che più mi è rimasto in mente è in Gorilla blues di Sandrone Dazieri, ambientata durante la manifestazione genovese avvenuta un anno esatto dopo – cioè undici anni fa – e che per me e per molti è un ricordo altrettanto vivido del G8 del 2001.

In quelle pagine, se ricordo bene, il protagonista a un certo punto passa per una stanza dove è riunita una cosa fighissima che si chiama “comitato per l’autodifesa”. Questo comitato è fatto di giovani, probabilmente ancora in braghe a vita bassa e canottiera, e sicuramente qualcuno porta i dreadlocks. Ma sono fighissimi. Sì, è difficile spiegare, ma nel 2002 si poteva ancora portare i dreadlocks ed essere fighissimi protagonisti della controcultura. Sono hacker, sono videoreporter, sono persino blogger, sono il futuro della sinistra e dell’Italia. Purtroppo sono soltanto un’invenzione letteraria dell’autore, che li descrive in due paginette e poi porta il Gorilla in un altro posto. Nella nota finale Dazieri stesso vorrà precisare che “non esiste nessun comitato di autodifesa come quello che ho descritto”. Però, quando uscì Gorilla blues, i lettori di Dazieri in quel comitato ancora ci credevano. Sapevano che da qualche parte nel movimento di Genova c’era gente veramente in gamba (stavo per scrivere “coi controcoglioni”, ma ho un’età), che sapeva maneggiare le nuove tecnologie e capiva molto più in fretta degli altri dove stava andando il mondo. Ci speravano. Ci abbiamo sperato. Proprio come il Gorilla, ogni tanto tra un forum e un corteo transitavamo per ambienti dove c’era gente davanti al monitor o con la videocamera in mano e sembravano veramente cazzuti competenti. E alcuni forse lo erano. Ma se ne sono andati presto. Quel che è rimasto era molto, molto inferiore alle attese. Salvo i Wu Ming.

Loro sono rimasti. Erano bravi, e lo sono ancora. Ma probabilmente non bastavano. Adesso è il 2013 e diventa molto difficile spiegare alla gente che tu per qualche anno hai pensato che Indymedia fosse un progetto interessante, o sei andato dietro a personaggi come Casarini. E in effetti non è così, se ti ricordi bene, se vai a leggere il blog, tu non hai mai espresso sentimenti di cieca fiducia in Casarini: non lo hai mai considerato nel modo in cui i grillini considerano il Beneamato Beppe. A me, e a tanti come me, è capitato di trovarci in coda a un corteo di Casarini perché ritenevamo che in quel corteo ci fosse gente aggiornata, lungimirante, con le informazioni giuste e con le chiavi di lettura giuste. Come i Wu Ming, per dire. Ma forse a parte i Wu Ming non c’era molto, e gli stessi Wu Ming non hanno sempre azzeccato le chiavi di lettura.

Adesso – se ho capito bene – accusano Grillo di avere occupato lo spazio dei “movimenti radicali” (sempre al plurale, come ai vecchi tempi), impadronendosi di alcune parole d’ordine e virando tutto a destra. Hanno l’onestà di riconoscere che non è stato Grillo a uccidere i movimenti (un lento suicidio di massa era già in atto da tempo), ma adesso che c’è lui non si riesce più a trovare lo spazio per ricominciare da capo, che è quello che probabilmente interessa a loro. Ricominciare da capo con altri movimenti radicali. Come negli altri Paesi dove Grillo non c’è, e infatti ci sono i movimenti radicali, e infatti…

…non sta succedendo niente.

Niente o quasi. Magari mi sbaglio, magari mi sembra la bonaccia definitiva e invece è l’occhio del ciclone. Però un paio di anni fa c’erano gli Indignados in Spagna: risultati? Occupy Wall Street: conseguenze? La rivolta turca come va? In Egitto, Piazza Tahrir ha buttato giù il regime, non si può dir di no. Oppure si potrebbe dire che l’esercito ha mollato Mubarak e ha affittato piazza Tahrir. Vedremo. Cosa resta? In Libia e in Siria più che movimenti sembrano bande armate. Forse in Tunisia. Non è un bilancio entusiasmante. Tornando da questa parte del mediterraneo, si fa fatica a immaginare che oggi possa sorgere un movimento di protesta di base non antieuropeo: è un’altra simpatica conseguenza del rigorismo imposto dalla Germania. Ma a un movimento antieuropeo la sinistra starà sempre stretta: è sempre più difficile non lasciar filtrare istanze di destra, tradizionaliste e identitarie. Insomma, è triste dirlo, ma in questa fase i “movimenti” avrebbero virato verso destra anche se non ci fosse stato Grillo. Grillo poi ci ha messo l’organizzazione – quella che i “movimenti” non hanno mai voluto avere, e infatti sono tutti implosi: il M5S ancora no. I Wu Ming “tifano rivolta” nella base del M5S, esprimono l’auspicio che “le contraddizioni si acuiscano ed esplodano”, un sintagma così deliziosamente anni ’70 che mi ricorda l’ultima volta che ebbi a che fare con dei tizi di Indymedia (mi augurarono che il mio blog esplodesse in virtù delle sue contraddizioni). Forse ritengono che “destra” e “sinistra” nel M5S si possano ancora separare, come l’acqua dall’olio, perché sono due cose diverse che Grillo ha messo assieme per accidente: ma è destino che non vadano assieme. E quindi prima o poi si separeranno, le contraddizioni scoppieranno, e a sinistra sorgerà di nuovo un movimento, anzi tanti movimenti, radicali.

Io non la penso così.
Per quel che conta.

Ma probabilmente mi sono sempre aspettato molto meno dai movimenti. Per esempio: mai pensato che si potesse fare la rivoluzione, armata o no. La tentazione palingenetica, direbbe Bersani, ecco: mai avuta. Per me i movimenti avrebbero dovuto attirare tanta gente, spostare il baricentro dell’opinione pubblica verso sinistra, e soprattutto portare alla ribalta una nuova classe dirigente. Quelle famose persone fighissime, ancora giovani, ma aggiornate, in grado di padroneggiare le nuove tecnologie e di capire prima degli altri dove stavamo andando. Per me i movimenti erano anche e soprattutto un’occasione per trovare queste persone, che una scuola di partito non avrebbe selezionato mai. E un grosso problema del PD è senz’altro la scarsa selezione nelle vecchie scuole di partito. Ma se nel 2001 mi capitava di pensare al futuro, non m’immaginavo un eden bucolico coi piadinari al posto dei MacDonald’s. Speravo che nel 2013 in Italia ci sarebbe stato un solido partito di sinistra guidato e sorretto da gente capace e competente che si era fatta le ossa nel Movimento dei Movimenti. Non è andata così.

E in coscienza non credo che sia stata colpa delle vecchie nomenklature dei partiti di sinistra; non credo che sia stato un complotto di D’Alema o Bertinotti per tenere alla larga le menti migliori della mia generazione. Purtroppo temo di non averle mai viste, le menti migliori della mia generazione. Anche quando i partiti imploravano facce nuove, e D’Alema e Bertinotti si stavano pensionando, non si è presentato nessuno. Nel frattempo i movimenti si erano ridotti al lumicino e candidavano alle primarie PD il Candidato Senza Volto. Una pagliacciata che tutto sommato riassume tutta l’inadeguatezza di una generazione, la mia, che non può neanche dire di aver perso come quella di Gaber, perché per perdere bisogna almeno partecipare, metterci la faccia, e noi no.

Abbiamo cominciato a contestare l’idea di leader, non era giusto esprimere un leader (e quindi nessuno sentiva la necessità di sbattersi per conquistarsi una qualche leadership); bastavano i portavoce. Poi anche i portavoce hanno iniziato a mettersi il passamontagna, sia mai che ti scappasse per sbaglio a qualcuno di diventare una faccia nota, magari (brrrr) televisiva. Abbiamo reclamato la disorganizzazione e l’anonimato, e coerentemente siamo scomparsi nel caos. Poi è arrivato Beppe Grillo, e ha rilevato tutto per due lire. Da quel che ho capito i Wu Ming ritengono sia una specie di errore di percorso, nulla che non si possa correggere con molto ottimismo della volontà. Per me no, per me è l’esito naturale di tutto il movimentismo italiano degli anni Zero. I fermenti di destra c’erano già al G8, magari nascosti nell’insalata del banchetto Bio. Matti con i volantini sul signoraggio e le schie chimiche circolavano già La superficialità, la demagogia, la disorganizzazione, erano già presenti e al tempo ci sembravano inevitabili, qualcosa di cui ci saremmo liberati crescendo. Ma non siamo cresciuti, è la nostra tragedia. Io non credo che oggi ci possa essere in Italia un altro movimentismo fuori da quello di Grillo, che riunisce così bene tante cose disparate che erano saltate fuori nel decennio prima. E non è colpa del solo Grillo se il risultato è catastrofico e oggettivamente prolunga la carriera di Berlusconi (e di D’Alema). Il movimentismo era miope e votato all’autolesionismo prima di incontrare Grillo, che non ha fatto che interpretarne le istanze più riconoscibili: morte al compromesso, qualsiasi compromesso. Viva la verità alternativa, qualsiasi sia la fonte, ogni cazzata ha diritto al suo quarto d’ora. Abbasso i complotti, la trilaterale e Bilderberg: quanto se ne parlava su Indymedia ai tempi. Abbasso l’organizzazione, decide tutto un pool di uomini illuminati e fighissimi blogger e videoreporter nel camper di Grillo: e si vota su internet, la prima volta che sentii proporre di votare su internet ero esattamente a Genova, 12 anni fa. Mi dispiace scriverlo, più che a voi dispiaccia leggerlo, ma io da Genova a Grillo vedo una lunga linea abbastanza rettilinea. Poi vabbe’, Casarini mi stava più simpatico di Grillo. Ma non molto di più. Indymedia sembrava più interessante di Beppegrillo.it. Ma non molto di più.

E non vedo perché dovrei tifare rivolta, stavolta. Potete anche darmi del servo del potere: siete ottimisti, se pensate che questo straccio di Potere possa ancora pagarsi la servitù. Non penso di dover difendere il governo Letta; penso sia un accrocchio vergognoso; non capisco quale alternativa abbia in mente chi implora la crisi al più presto. Ho una famiglia, un mutuo, queste triviali cose che m’impediscono di unirmi allo spensierato coro del Tanto Peggio Tanto Meglio, di quelli che non vedono l’ora che scoppino le contraddizioni. Per mia esperienza, in Italia le contraddizioni tendono a non scoppiare: trovano un equilibrio e ti prendono per stanchezza. Ovviamente spero di sbagliarmi.

autoreferenziali, blog, italianistica, repliche

12 anni

(È un pezzo vecchio, sì, ma a partire da un certo punto in poi i compleanni si assomigliano tutti)

Il pregevole blog lo Zibaldone

“Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo.  Lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.

Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?

Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, balbettava… aveva crisi di panico nei luoghi affollati… al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica… Io quelli che fanno così… non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…

No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.

Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…

Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque? Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro.

Ma ve l’ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava… Entro in un’osteria e…”

futurismi, italianistica, racconti, realtà alternative

Il pianeta al bubblegum

Oggi sarebbe il compleanno di Carlo Fruttero: per festeggiarlo, Barabba ha messo insieme un’opera megagalattica, l’Ennesimo libro della fantascienza, che si scarica a partire da oggi e si può leggere un racconto alla volta anche qui. La copertina, che a certe persone dà i brividi e io sono tra loro, è di Isola Virtuale. Questo è il mio contributo:

(Pandora 5.0, 16.27 GMT)
La notte era uno sfondo indaco che si screziava, all’orizzonte, nei toni di porpora del crepuscolo. Phil prese conoscenza acquattato sotto un cespuglio di fiorifunghi. Percepì una sensazione tattile estremamente precisa, il fresco solletico di una lucertola di palude che gli camminava sul lungo avambraccio. Non la disturbò, il panico l’avrebbe resa fosforescente. Voleva guardarsi attorno senza fare troppo scompiglio, visualizzare l’ambiente senza esserne il protagonista, ma era possibile? Tra i fiorifunghi qualcosa si mise a vibrare; era un messaggio pubblicitario. Lo escluse con un movimento di palpebra istintivo. Era sovrappensiero. Aveva sognato a lungo di essere lì, e ora che era arrivato si sentiva a disagio. Tutto come previsto, tutto simile ai sogni e alle proiezioni, ma qualcosa non quadrava. Si rese conto che non stava respirando, come le prede quando si nascondono. Ed era sbagliato, profondamente sbagliato, quello era il posto nell’universo più sicuro per lui. Fece un grosso respiro, inalò l’aria tersa di un’alba su Pandora, corretta dall’umidità dei fiorifunghi…
Sapeva di bubblegum alla fragola.
***
(Matrixhan, 18.11 GMT)
“Fragola?”
“No Arthur, non ho detto fragola. Bubblegum alla fragola. È diverso”.
“Diverso quanto?”
Nascosto dietro ampi occhiali neri, Phil si permise di alzare gli occhi al soffitto. La trama dei finti pannelli antirumore mostrava pattern regolari. Era evidentemente un solo pannello copincollato miliardi di volte, un’ingenuità che nessun progettista virtuale si permetteva più da decenni. Ma erano appunto questi piccoli difetti a rendere delizioso quel bar, quel grattacielo, quella città. “Hai mai assaggiato una fragola?”
“Penso di sì. È una specie di grappolo d’uva in miniatura, se non sbaglio…”
“Quello è il lampone”.
“Il lampone, giusto”.

Phil si aggiustò gli occhiali, e per un attimo fece filtrare uno sguardo di disapprovazione, più netto di quanto avrebbe desiderato – del resto portava la fisiognomica di Keanu Reeves che indossava non gli lasciava molto margine per le sfumature. Ursula approfittò di quel secondo di silenzio per mettersi in mezzo.

“Ne abbiamo discusso centinaia di volte. Un conto è l’effettivo sapore originale di un frutto, un conto è l’informazione condivisa, socializzata, sul sapore del frutto stesso, che si basa molto più spesso sugli estratti chimici che venivano utilizzati nel secolo scorso. La fragola è un classico esempio: la maggior parte di noi conosce il gusto del gelato, ma non saprebbe ricollegarlo al sapore del frutto originale”.
“Ok, ok. Continuo a non capire qual è il problema. Se nessuno sa di cosa sanno veramente le fragole, per quale motivo ci intestardiamo a voler riprodurre un sapore che…”
Phil sbuffò. “Non stiamo parlando di questo. Non ha nessuna importanza di che sapore sappiano le fragole vere. Non ci sono fragole su Pandora, e se decidiamo di metterle comunque saranno diverse da quelle sul piano Zero. Le faremo a forma di lampone, o grosse tre quintali, o volanti, o sessuate, decideremo. Non ha la minima importanza. Il problema…”
“Stai sudando, Phil”.
“Non sto sudando”.
Ursula aveva ovviamente ragione, benché il sudore non esistesse, a Matrixhan – come tutti ormai chiamavano la realtà virtuale Matrix 2.0. Il prodotto, ispirato come tutti da una saga cinematografica del secolo precedente, non era mai andata oltre la seconda release, un epico flop commerciale, che aveva conosciuto un bizzarro successo postumo una dozzina d’anni più tardi. Gli utenti non ci andavano per parare le pallottole col kung fu, e si disinteressavano totalmente all’Eletto e a Mr Smith che ogni tanto saltabeccavano tra un grattacielo e l’altro, dandosele di santa ragione – a parte quei due fanatici, Matrixhan era un posto comodo e pulito, facile da raggiungere, fuori dalle mappe dei ragazzini e dei tamarri di ogni età: divenne un ritrovo fuori orario per ingegneri e programmatori. L’atmosfera raggelante era in qualche modo congeniale – di Realtà ce n’erano tante, ma questa era l’unica dove tutti potevano indossare la stessa faccia senza stonare in nessun modo con l’ambiente. Perfetto per quel tipo di professionista che non vuole perder tempo nelle library a cercare l’avatar più originale, meglio intonato con l’umore, con il meme del giorno, con l’oroscopo – fanculo, ti metti il tuo Keanu Reeves di ordinanza e in cinque secondi sei già in un attico affacciato sul vuoto, a bere ipoalcolici insapori. Col tempo la gente cominciò a fissarci colazioni di lavoro. Phil sapeva che qualche start-up stava ragionando sull’idea di piazzare gli uffici direttamente lì – un’idea ridicola, veramente da startupper, però riusciva a capirla. Anche lui raramente si sentiva così a suo agio come in un bar qualunque di quella città di grattacieli, così dichiaratamente finta. Nessuno lo aveva capito ai suoi tempi, ma Matrix 2.0 era un capolavoro. Non per la storia, non per il realismo dei dettagli (già scadente all’epoca, ma 25 anni dopo era semplicemente retrò). Era semplicemente un posto comodo. Ortogonale, liscio, modulare, rassicurante. Il contrario di Pandora.
(Vi ho fregato, per sapere come va a finire dovete scaricarvi il libro)  



come diventare leghisti, ho una teoria, italianistica

Di libri basta uno per volta

La mia solidarietà al sindaco di Verona Flavio Tosi, che ieri, nel tentativo di difendere il buon nome di Alessandro Manzoni dalle sparate stagionali del suo ex boss, Umberto Bossi, ha commesso una gaffe tutto sommato comprensibile. Bossi, lo avrete sentito, aveva definito Manzoni “un grande traditore, una canaglia“, per via di quel famoso risciacquo dei panni in Arno, grazie al quale gli italiani dell’Ottocento ebbero una lingua letteraria moderna molto prima che una nazione. Per l’ex leader della Lega si trattò di un tradimento, ordito da un “re”; non è ben chiaro quale, visto che nel 1827, mentre Manzoni si stabiliva a Firenze col proposito di migliorare il suo italiano, sul trono sabaudo sedeva ancora l’arcigno Carlo Felice.

A Bossi, comunque, Tosi ha replicato che “Manzoni ha scritto dei romanzi meravigliosi, veramente avvincenti: è un grande della letteratura italiana”. Sono parole commoventi, anche se non venissero da un esponente della Lega Nord, anche se le avesse proferite un italiano qualunque: è sempre commovente vedere che malgrado tutti gli sforzi della scuola per farcelo odiare, Manzoni continua ad avere degli ammiratori genuini, anche ingenui, come ad esempio il sindaco Tosi.

L’ingenuità di Tosi è tutta qui… (continua sull’Unita.it, H1t#139).

L’ingenuità di Tosi è tutta quiper quanto Manzoni sia un grande autore, un classico della nostra letteratura, non si può proprio affermare che abbia scritto “dei romanzi meravigliosi”, per il semplice e tristissimo motivo che ne ha scritto uno solo: i Promessi Sposi. Certo, lo ha scritto almeno tre volte. La prima stesura era così diversa che per molti studiosi si tratta di un romanzo a parte; gli hanno anche trovato un nome, il Fermo e Lucia. Però alla fine si tratta di uno scartafaccio che Manzoni non volle mai pubblicare; e la storia è più o meno la stessa che leggiamo nell’unico romanzo pubblicato.
Tosi è stato veramente sfortunato. Con qualsiasi altro romanziere, quel plurale (“romanzi meravigliosi”) sarebbe andato benissimo. Di solito di romanzi uno scrittore ne scrive più di uno, se non muore veramente giovane. Manzoni è l’eccezione. Un’eccezione veramente straordinaria: cominciò a scrivere di Fermo e Lucia nel 1823 (aveva trentasei anni); terminò di pubblicare l’ultima versione nel 1842, quasi vent’anni dopo. Nel frattempo scrisse tantissime altre cose: due tragedie, e tanti saggi, tra i quali uno a proposito “Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione“, in cui si conclude che questi romanzi misti di storia e invenzione (reality e fiction, si direbbe oggi) sarebbe meglio non scriverne più. E infatti non ne scrisse più, costringendoci a concentrarci su quel suo unico meraviglioso e tormentato tentativo. Se ne avesse scritto anche solo un altro, magari i Promessi sposi non sarebbero diventati quell’orribile feticcio scolastico che a tutti ricorda almeno un’interrogazione finita male.
Tosi non si è fermato lì, ma è riuscito persino a indicare il nome di un altro romanzo di Manzoni: la Storia della colonna infame, che un romanzo effettivamente non è, anche se è difficile indicare che cosa sia. All’inizio era un blocco di pagine all’interno del Fermo e Lucia, che poi prese un’altra strada. Sicuramente è una cosa “meravigliosa” e “avvincente”: su questo il sindaco di Verona ci ha azzeccato. È anche un’opera straordinariamente moderna, in cui si narra senza concessioni alla fiction un orribile fatto di cronaca del Seicento, un processo-farsa intentato a due untori, e si riflette sulla credulità umana, sulla macchina giudiziaria, sulle dinamiche dell’infamia, eccetera – forse è il libro di Manzoni che è più attuale oggi. Purtroppo no, non è un romanzo, ma è davvero più interessante di tanta roba esposta nelle vetrine quest’estate; forse varrebbe la pena di chiamarlo “romanzo”, giusto per farlo leggere a chi dai saggi si tiene rispettosamente lontano. Non sarebbe certo la prima volta che si fa passare per romanzo una cosa che non lo è, e in fondo che c’è di male? Vuoi vedere che in fin dei conti Tosi non ha tutti i torti?http://leonardo.blogspot.com
contro la lingua italiana, italianistica, scuola

Abbasso Lapo, strofo

Via albertocane.blogspot.com

In margine a un errore (il solito)
Nella prova Invalsi somministrata giovedì nelle classi prime secondarie di primo grado (=medie), tra i quesiti grammaticali ce n’era uno che chiedeva di correggere il famigerato apostrofo di “qual”. In effetti è una delle competenze grammaticali solitamente richieste al primo anno, e sono abbastanza contento di come sono andati i miei alunni (anche se forse non dovrei saperlo? Ops). E però mi chiedo: ma ne vale la pena?

Seriamente: vale la pena insegnare che “qual” si scrive senza apostrofo; correggere infinite volte l’uso errato di “qual”, mentre nel frattempo magari Roberto Saviano proclama a gran voce che lui l’apostrofo lì ce lo mette e continuerà a mettercelo? Non uno scrittore qualsiasi, l’unico scrittore italiano della mia generazione che i ragazzini probabilmente conoscono – l’unico anche che possa funzionare un po’ come un modello, non il solito squatter di torri eburnee sfitte, uno scrittore che si misura con i problemi reali della società e cerca di cambiarla, in più con quel piglio sbruffoncello che funziona, che in generale ai preadolescenti garba. Che faccio, gli dico che Saviano può e loro no? Che se hai fegato per sfidare la mafia puoi sfidare anche la potentissima Crusca? Come se poi Saviano fosse il solo, mentre lui ci tiene a far sapere che ha ripreso l’uso ortodattilografico di Pirandello.

Il quale Pirandello ci pone un serio problema, perché certo, possiamo raccontarcela finché vogliamo che non è un gran prosatore, Pirandello – vuoi mettere, chessò, con Landolfi (ahimè, anche Landolfi apostrofava “qual”) – però oltre ad avere un orecchio, un senso incredibili per lo stile colloquiale medio, che gli ha consentito di scrivere commedie applaudite da Torino ad Agrigento; oltre a quel premio Nobel che sì, non è una trecentesca corona d’alloro, ma butta via; oltre a tutto il resto, non era mica un autodidatta Luigi Pirandello: si era laureato a Bonn in Filologia Romanza, ne sapeva di fenomeni linguistici più di me e di molti redattori delle prove Invalsi; e apostrofava “qual”. Non solo, ma alla Mondadori non glielo correggevano, il che fa riflettere. Come se l’apostrofo mezzo secolo fa non fosse questo orrore che è diventato al tempo dei blog: probabilmente passava inosservato, abbiamo letto per anni i romanzi di Pirandello editi da Mondadori e mai avevamo fatto caso all’apostrofo. E poi all’improvviso che è successo?

Una rivoluzione copernicana, che diamo ormai per scontata, ma pensiamoci. Dieci anni fa non facevamo così tanto caso agli apostrofi, se correggere le bozze non era il nostro mestiere. Dieci anni fa cos’eravamo?Lettori. E oggi siamo diventati scrittori. Scriviamo continuamente. Mail, sms, post, cinguettii, ognuno di noi scrive in un mese quanto un accademico di Arcadia poteva buttar giù in un anno. Scriviamo così tanto che spesso abbiamo smesso di leggere, il che parzialmente può spiegare perché in generale la qualità della scrittura non è migliorata (e la capacità di comprensione sembra crollata, ma forse è un’impressione mia). È in un momento del genere che certe regolette scolastiche come l’apostrofo su “qual” sono diventate una specie di bandiera, o meglio una livrea da sfoggiare in società: la differenza tra chi ha avuto buone elementari e chi no. Io continuo a chiedermi se ne valga la pena. I racconti di Landolfi sarebbero più o meno belli senza apostrofo? Le requisitorie di Saviano più o meno leggibili?

Io insegno nella scuola dell’obbligo, dove le cose devono essere chiare: i ragazzi hanno bisogno di certezze, se scrivi in un modo è giusto e se scrivi in un altro modo è sbagliato. E tuttavia poi quando cresci e scopri che in un modo scriveva Manzoni e in un modo Pirandello, non ti senti preso in giro? Non rischi di perdere la fiducia un po’ nella scolarizzazione tutta? Chiedo. Anch’io avrei bisogno di certezze, se mi dite che con l’apostrofo è meglio per me è ok. Preferirei impiegare il mio tempo in cose altrettanto noiose, non crediate, ma più utili: la benedetta punteggiatura. Le benedette maiuscole (impiccate i grafici). Tutte cose banali che rendono una frase più comprensibile e più leggibile – un apostrofo non rende nulla più leggibile. Preferirei avere più tempo per la noiosissima ma fondamentale analisi logica, che non è “logica” per modo di dire: sui tweet ve ne accorgete, c’è gente che non si riesce semplicemente a spiegare, è un handicap, un grammatical divide – e non è mai un problema di apostrofi. Preferirei valutare la comprensione, visto che per ora la produzione scritta invece che diminuire aumenta; c’è sempre più roba da leggere e c’è sempre più gente che non ne è in grado, prima o poi l’elastico si spezzerà e mi chiedo come.

cantautori, cinema, Cristo, italianistica, musica, Pasque, Petrarca

Innamorarsi di venerdì (santo)

Poterti smembrare coi denti e le mani
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav’uomo di nome Pilato…

6 aprile 2012 – Venerdì Santo. Passione e morte di Nostro Signore

E per quattro secoli abbiamo preso lezioni
d’amore da questo tizio

Il sei aprile 1327 era un venerdì santo, come oggi. Non è una coincidenza rara, ma nemmeno così frequente. Il sei aprile 1327 non fu un venerdì santo come tutti gli altri, in cui muore Gesù, si legano le campane, e buona notte. Il 6/4/1327 potrebbe essere “il giorno ch’al sol si scoloraro / per la pietà del suo factore i rai, / quando i’ fui preso, et non me ne guardai, / ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro“, insomma il giorno in cui Cecco di ser Petracco, meglio conosciuto col nom de plume di Francesco Petrarca, in una chiesa di Avignone incrocia gli occhi di Madonna Laura e si innamora per tutta la vita. Ma ci dobbiamo credere? Petrarca è un poeta tra medioevo e umanesimo, ragiona in termini di microcosmo e macrocosmo, inoltre ha la segreta ma ferma sensazione di essere il più grande poeta del secolo e ah, che ironia, in qualsiasi altro secolo avrebbe avuto ragione: dunque la sua storia d’amore non è una storiella qualsiasi, ma deve ottemperare a precise caratteristiche cosmiche, deve inchiavardarsi anche lei tra la terra e il cielo delle stelle fisse, tutto deve procedere come una complicata orologeria e se uno ci pensa bene, Francesco Petrarca non poteva che innamorarsi di venerdì santo, mentre Cristo muore e non può dargli un’occhiata “onde i miei guai / nel commune dolor s’incominciaro”. Petrarca è uno di quei poeti che sembrano non tornare mai di moda. Ogni tanto qualcuno ci prova – c’è stato un centenario di recente – ma niente da fare, il petrarchismo non tira. Troppo levigato, troppo asessuato, chi lo sa. Però, se posso spezzare la lancia, sul venerdì santo Petrarca aveva avuto una bella intuizione. È il giorno perfetto per innamorarsi: c’è la primavera che spunta dappertutto, i pollini che pizzicano gli occhi (“che di lagrime son fatti uscio et varco”), ma c’è anche la morte, spesso annunciata da rovesci temporaleschi che bagnano le prime magliette a maniche corte, e certi colpi di fulmine a metà pomeriggio. Comunque non è una morte seria, non è come il mercoledì delle ceneri che porta con sé quaranta giorni di astinenze e fioretti; il venerdì santo è una morte per scherzo, l’uovo di Pasqua è già sull’alzata a centrotavola. Per chi è curioso, Francesco e Laura non ebbero nessuna storia. Lei andò forse sposa a un marchese di Sade, non quello famoso, un suo antenato; lui tre anni dopo si fece prete, una cosa che nessuno dice mai, eppure sta su tutti i libri: Petrarca era un prete. Lo sapevate? Ebbe due figli da due donne diverse, scrisse per tutta la vita caste poesie d’amore a questa Madonna Laura, fu poeta laureato e girava l’Italia in missione di pace, ma per lo più campava di benefici ecclesiastici (oggi si chiama otto per mille). (No, perché poi ci si domanda come campavano gli artisti prima della SIAE: per esempio, facevano i preti).

Ben più della morte che oggi ti vuole,
ti uccide il veleno di queste parole
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi:
trent’anni hanno atteso col fegato in mano,
i rantoli d’un ciarlatano.

Il venerdì santo è uno di quei giorni che fa veramente la differenza tra chi è cristiano praticante e chi no. Il Natale lo festeggiano anche in Cina, ormai. Santi e profeti e parole di vita eterna ce li hanno un po’ tutti, ma un Dio che muore in croce per i loro peccati ce l’hanno solo i cristiani, e ci tengono. Il palinsesto televisivo si adatta come può: un Jesus Christ Superstar qua, una Passion là – a proposito, quale dei due trovate più blasfemo? Io non ho dubbi, il super-dio di Mel Gibson che sopravvive a mazzate che stenderebbero un elefante mi sembra da scomunica. E invece ai tempi l’ufficio stampa lavorò molto bene, riuscirono in qualche modo a scrivere che il Papa lo aveva visto e gli era piaciuto. Wojtyla nel 2004 aveva un anno scarso da vivere ed è triste pensare che davvero abbia buttato via due ore per sorbirsi un film horror in latino ecclesiastico.

Si muovono, curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore,
ma filtra dai veli il dolore.
Fedeli umiliate da un credo inumano,
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò a Maddalena;
di chi con un gesto, soltanto fraterno,
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitte dal sole,
gli spasimi d’un redentore.

A proposito del latino, fu una trovata geniale: (continua sul Post…)

antisemitismo, Dante, ho una teoria, Islam, italianistica, scuola

e lascia pur grattar dov’è la rogna

“Vengono insegnati testi antisemiti, sia nella forma che nel contenuto, sia nel lessico che nella sostanza, senza che vi sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo. Un esempio emblematico è la Divina Commedia, caposaldo della letteratura italiana”. (Dal documento “Via la Divina Commedia dalle scuole” del comitato per i diritti umani Gherush 92).

Li hanno criticati in tanti, ma in realtà quelli di Gherush92 hanno capito tutto: in effetti io quando spiego l’Inferno di Dante in classe gliela metto giù proprio così. “È tutto vero”, dico ai miei pupilli, “lui c’è stato e la sua è una testimonianza oculare: se vi comportate male ci andrete, se fate la spia finirete conficcati per l’eternità in una calotta glaciale sotterranea al centro dell’universo (perché la Terra, vi rammento, è al centro dell’Universo, circondata da nove cieli di cristallo concentrici, e da Dio primo motore immobile); se nell’intervallo seminate la zizzania andrete nello stesso girone di Maometto e vi fate sbudellare tutti i giorni da un demonio preposto”. O pensavate che la spiegassi diversamente?

“Ma prof mi scusi, come fa la terra a essere al centro dell’universo se deve girare intorno al sole che è nella zona periferica di una galassia tra tante?”
“Chi è che ti ha raccontato queste cose?”
“La prof di scienze”.
“La prof di scienze sta seminando zizzania” (continua sull’Unità, H1t#117)

Sto scherzando, meglio dirlo subito. La questione è seria, invece. È vero, quell’atto di denuncia sembra provenire da un altro pianeta: un mondo in cui gli abitanti a furia di prendersela col relativismo etico devono aver rinunciato a qualsiasi forma di relativismo. Il passo successivo sarà smettere di leggere l’Iliade: per apprezzarla davvero bisogna convertirsi agli Dei dell’Olimpo e forse non vale la pena. Ma è proprio perché Gherush sembra venire da un pianeta diverso, che il suo sguardo sulla Commedia è interessante. La illumina da un lato diverso dal solito, un lato che a scuola e nelle università spesso non guardiamo, o fingiamo di non vedere. La Divina Commedia, e l’Inferno in particolare, è un edificio immaginario di inestimabile valore letterario, ma è un edificio costruito sull’odio.
Poco importa che gran parte dei destinatari di questo odio, più che le comparse ebraiche e musulmane, siano i compatrioti di Dante, e i toscani più di tutti; poco importa che la vera città diabolica, quella che sembra aver letteralmente colonizzato l’inferno, sia Firenze stessa; rimane il fatto che Dante abbia scritto cento canti, ripartiti in tre cantiche, tutti fondati sull’incredibile, sfacciata presunzione di conoscere la lista celestiale dei Buoni e dei Cattivi; quella che a norma di Vangelo solo Gesù stilerà a tempo debito. Nessun scrittore si era mai spinto così in là, nessuno aveva raggiunto simili livelli di autostima (lo stesso Dante sapeva che sarebbe restato a lungo nel girone dei superbi). Il titanismo di un poeta che si sostituisce al Cristo del giudizio e descrive in dettaglio regno dei morti e regno dei cieli: ce n’era abbastanza per scomunicarlo – tanto più che, com’è noto, nemmeno per i papi del suo tempo Dante aveva molta simpatia. Invece tutto sommato se la cavò: a differenza di altre opere dantesche la Commedia non finì nemmeno nell’Indice dei Libri Proibiti. E tutto questo per un motivo semplice, sul quale secondo me a scuola non si riflette mai abbastanza: Dante si salvò perché non fu mai veramente preso sul serio.
Lui voleva fare il profeta, voleva che nel suo Inferno ci credessimo veramente; con le sue cantiche intendeva dare il suo contributo a un progetto di restaurazione dell’Impero; noi abbiamo messo in secondo piano il messaggio di fondo e ci siamo concentrati sui dettagli, sulla sapienza narrativa, sull’abilità linguistica, sui versi memorabili, sulle sue doti visionarie… insomma abbiamo fatto finta che fosse semplicemente un poeta. Lo era, ma intingeva il pennino nel sangue delle battaglie del suo secolo: è il figlio di un mondo violento, superstizioso, intollerante. Questo Gherush92 lo ha capito, ben più di Benedetto Croce che trattava la Commedia come una vecchio mobile incrostato di gemme di poesia pura: se la struttura del mobile medievale era ormai inservibile, le gemme si potevano ancora estrapolare dal contesto e apprezzare oggi come nel Trecento, perché la poesia quando è pura è fuori dal tempo. Questo almeno pensava Benedetto Croce; ma mi chiedo se in fondo non lo pensiamo ancora noi, quando pretendiamo di leggere la paginetta di Paolo e Francesca come “poesia”, magari poesia amorosa, ignorando che Dante non voleva semplicemente commuoverci al pensiero di un amore tragico; Dante voleva spaventarci, Dante ci descriveva l’inferno in cui potevamo cadere se avessimo letto o scritto poemi galeotti, Dante voleva che nessuno li scrivesse più e che nessuno s’innamorasse più.
“L’arte forse è il più raffinato e subdolo strumento di comunicazione, il più potente veicolo di diffusione e il mezzo più suadente per l’incitamento all’odio” scrive Gherush92 nella sua controreplica; e io sono d’accordo. Se poi coi secoli ci ricordiamo solo dell’arte, e ci dimentichiamo dell’odio che l’aveva ispirata, non siamo veramente buoni lettori, e dobbiamo essere grati a Gherush e al suo sguardo così alieno dal nostro. Non si può capire Dante se non si capisce la rabbia che c’è dietro: una rabbia con coordinate precise, storiche geografiche e sociali, che a scuola dovremmo fornire ma non sempre riusciamo a farlo. Una rabbia magari più anti-guelfa e anti-fiorentina che anti-islamica o antisemita. Ma pur sempre rabbia.
Resta a questo punto da spiegare “perché i ragazzi delle scuole dovrebbero studiare un’opera che offende e denigra popoli, gruppi e categorie di persone”. Ebbene, proprio per questo motivo: per lo stesso motivo per cui a scuola studiamo la Shoah, nel suo contesto storico, proiettando immagini di nazisti sterminatori senza essere nazisti, di solito, né sterminatori. Perché odio e intolleranza sono una componente importante di quella cosa che si chiama umanità e che noi umanisti riteniamo di poter studiare (quando ancora non andiamo in cerca di gemme fuori del tempo, come Croce e i crociani pretendevano di fare). Perché se togliessimo la violenza e l’intolleranza dai programmi scolastici, alle medie non ci resterebbe che studiare la Melevisione (con la strega censurata) e al liceo, con calma, Moccia. Perché non crediamo più, non abbiamo creduto mai che l’Inferno e il Purgatorio e il Paradiso danteschi fossero resoconti di viaggi veri: ma ancora oggi crediamo che siano notevolissimi viaggi nel mondo interiore di un uomo che è straordinariamente rappresentativo della sua epoca e civiltà. Perché è fondamentale non solo spiegare che la terra è all’insignificante periferia di una galassia tra tante, ma anche che per millenni abbiamo pensato che fosse una Casa del Grande Fratello al centro dell’universo e che Dio spiasse ogni nostra mossa per giudicare se valesse la pena o no di torturarci per l’eternità. Se la insegniamo così – e in Italia dovremmo insegnarla così – allora sì, ne vale la pena, più di tante poesiole e prose edificanti. Sennò forse davvero sarebbe meglio studiare qualcos’altro. http://leonardo.blogspot.com
coccodrilli, italianistica, poesia

Alla maniera del vecchio ES

questo è il decreto intercettazioni, questa è la tregua di Madrid
fra Moratti e Mourinho, è la Red Bull di Webber, è il pesco
fiorito, è ‘o puorpo gigante: ma se volti il foglio, Leonardo
ci vedi il denaro:
                          questi sono i pianeti extrasolari, questa è la New Town
dell’Aquila
, è la lavagna interattiva, è il primo volume dei Poetae
Novissimi, sono le scarpe, sono le bugie, è il CdR del Sole24Ore, è Noemi,
è una mail che mi è arrivata oggi dalla Thailandia, è il botox,
è la gravidanza assistita: ma se volti il foglio, Leonardo, ci vedi
il denaro:
               questa invece è la buonuscita di Santoro, è il Presidente
che prende google per un cappotto, è il petrolio nel Golfo del Messico,
è il federalismo, l’otto per mille, il cinque in condotta,
i boia delle Diaz: ma se volti il foglio, Leonardo, ci vedi
il denaro:
               e questo è il denaro,

e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:

ma se volti il foglio, Leonardo, non ci vedi niente:

(L’originale , assai diversa, era Purgatorio de L’Inferno 10)

Postilla: qualche giorno fa a Filippo Facci e Antonio Socci è scappato di scrivere che “Regalare alla sinistra Roberto Saviano sarebbe una delle sciocchezze più tragicomiche che il centrodestra potrebbe fare”, e che “Saviano, oltretutto, ha una formazione culturale fin troppo di destra”. Anche se mi scappa da ridere, non ho nessuna intenzione di disputare Saviano a cotanti avversari, manco fosse il pupazzetto appeso a un canto del calcinculo: se a destra c’è gente che prova ad acchiapparlo, tanto meglio per loro (e forse anche per lui, coi tempi che corrono). Vorrei solo spiegare perché, malgrado l’autorevole opinione di Facci e Socci, continuo a considerare Roberto Saviano dalla mia parte.

Si tratta di una cosa banalissima: per me Saviano è di sinistra perché dietro a ogni pagina si ostina a vedere il denaro. Le sue indagini non sono sempre rigorose, il quadro è spesso incerto, e in agguato c’è sempre la tentazione di buttarla in epica: però Saviano è uno dei pochi in questi anni che volta il foglio, o almeno ci prova. Romanzo, non romanzo, è un dibattito che non m’ha mai appassionato. Io sto con Saviano perché dove gli altri vedevano sangue e piombo, lui vede economia. L’Istituto Bruno Leoni non approva, è un buon segno. Io credo che Saviano abbia trovato la chiave giusta, così come credo a cose un po’ scipite e fuori del tempo come la lotta di classe (e mentre lo dico immagino Facci che mi dà del matto e Socci che si tappa le orecchie e invoca la Madonna). Se pensate che sia roba vecchia, anacronistica, che la sinistra debba trovare altre posizioni, non c’è problema. Andate, fate, e prendetevi pure la parola “sinistra”, non ci sono affezionato. Non ci tengo particolarmente a passare per uno “di sinistra”. Come te (come tanti, spero) io spero di essere “lo stupido antifascista”, non altro: un insegnante, uno scribacchino, un vetero-:

coccodrilli, italianistica, poesia

Postkarten 49

(Il blogger è morto):

per preparare un post, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente
fresco di giornata): c’è una ricetta simile in Stendhal, lo so, ma infine
ha un suo sapore assai diverso: (e dovrei perderci un’ora almeno, adesso,
qui, a cercare le opportune citazioni: e francamente non ne ho voglia); conviene curare
spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito, sono gli ingredienti
più desiderabili, nel caso: (item per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe:
da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili): ho fatto il nome
di Stendhal: ma, per lo stile, niente codice civile, oggi (e niente Napoleone, dunque,
naturalmente): (si può pensare, piuttosto, al Gramsci dei Quaderni, delle Lettere, ma
condito in una salsa un po’ piccante: di quelle che si trovano, volendo, là in cucina,
presso il giovane Marx): e avremo una pietanza gustosamente commestibile, una specialità
verificabile: (verificabile, dico, nel senso che la parola può avere in Brecht, mi pare,
in certi appunti dell’Arbeitsjournal): (e quanto all’effetto V, che ci vuole, lo si ottiene
con mezzi modestissimi): (come qui, appunto, con un pizzico di Artusi e Carnacina): e
concludo che il blog consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole come
in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute
e brevi: (che si stampano in testa, cosi, con un qualche contorno di adeguati segnali
socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore):
(che vengono a significare, poi, nell’insieme: attento, o tu che leggi, e manda a mente):

Dell'Utri, fascismo, italianistica, Pasolini

Il senso di Marcello per la sòla

Insomma, questo capitolo inedito di Pasolini, Dell’Utri ce l’ha oppure no? Prima diceva di sì, che l’avrebbe mostrato alla tal fiera del libro antico. Adesso sostiene di no: l’ha solo visto, ma non ha fatto in tempo a comprarlo. I critici fanno appelli. Veltroni porta il caso in Parlamento. E dopotutto perché no, è giusto indagare, è giusto volerci veder chiaro. Però non si può fare a meno di riflettere sull’uomo che ha aperto il caso. L’uomo che ha annunciato alla stampa di possedere un inedito di Pasolini prima ancora di averlo acquistato. Marcello Dell’Utri. Si possono dire molte cose di lui, nessuna bella. Concentriamoci però su una delle meno brutte: è un bibliofilo. Laddove uomini del suo medesimo rango spendono e spandono per le femmine, Dell’Utri spende e spande per rettangoli di carta rilegati su un lato. Un vizio più di nicchia, ma comunque non sconosciuto presso i notabili di destra (ricordo anni fa la tragedia di un intellettuale postfascista che durante una causa di separazione aveva lasciato in ostaggio alla moglie una biblioteca personale con qualcosa come quindicimila tomi; e la tipa glieli buttava via. Vanitas vanitatum e tutto il resto).

I bibliofili non sono tutti uguali, proprio come gli altri puttanieri. Ci sono quelli che apprezzano le cose antiche, quelli che vorrebbero mettere le mani su qualcosa che nessuno ha mai toccato (sì, è paradossale, ma è così), quelli che cercano l’insolito, quelli che hanno fiuto per i pezzi autentici… Dell’Utri non è tra questi. Ci sono anche quelli che sembrano pronti a farsi rifilare qualsiasi sòla, e poi non vedono l’ora di vantarsene in giro. Dell’Utri è più probabilmente tra questi, come l’episodio dei diari di Mussolini dovrebbe aver abbondantemente dimostrato. O no?

In breve: c’erano in giro alcune agendine attribuite a Benito Mussolini, in cui il dittatore tanto amato dagli italiani svelava un lato più umano (e figurati), oltre a lamentarsi delle bieche leggi razziali che aveva appena fatto emanare. Queste agendine avevano provato a rifilarle un po’ a tutti: Feltrinelli, Panorama, L’Espresso, e chissà quanti altri. Sapevano di sòla da molto lontano. Perché, rifletteteci, chiunque sarebbe felice di trovare diari inediti di Mussolini (finalmente materiale nuovo per le dispense in edicola); però quando il grafologo ti dice no, lo storico ti dice no, il linguista ti dice no, insomma, alla fine è no. Puoi credere a tutto, ma devi per forza credere a un Mussolini che fa errori di quinta elementare? Ehi, non stiamo mica parlando di un pittorucolo, di un bohemien alla Hitler, o di un seminarista alla Stalin: Benito aveva fatto l’insegnante, prima di diventare un instancabile giornalista. Uno che con la sua firma ti fa vendere il giornale: quando durante la Grande Guerra non aveva più potuto mandare corsivi al Popolo d’Italia, le vendite erano crollate di botto. Un polemista non raffinato ma efficace: uno scrittore prima di tutto; divenuto poi – gli scherzi del destino! – dittatore di un popolo analfabeta. Uno così, con le manie di grandezza del caso, non indulge a errori di ortografia nella scrittura privata. Un ex socialista che di Marx non si era mai fidato troppo, ma era cresciuto a pane e Nietzsche: uno così non sbaglia a scrivere il nome di Nietzsche sui suoi diari. Se poi sbaglia anche a scrivere la data di nascita di sé stesso, insomma, no. Non è il vero Mussolini. E poi è plausibile scrivere tutte quelle pagine di diario senza introdurre un solo dato che gli storici non conoscessero già, neanche il cognome di un’amante inedita di Ciano, niente di niente, solo che gli dispiace tanto per i poveri Ebrei che sta facendo interdire dai pubblici uffici? Insomma, nessuno si sentiva di comprarle, ‘ste agendine.

Poi un giorno arriva Marcello Dell’Utri, con una specie di scritta in sovraimpressione COMPRO QVALSIASI SOLA A QVALSIASI PREZZO, e fa lo scoop.

La cosa fantastica è che ci crede ancora: ogni tanto qualche cronista cattivello ritira fuori la storia e lui conferma: li sto rileggendo, penso proprio che siano autentici, ne esce fuori un Mussolini molto umano, ha perso la guerra perché era troppo buono. Va bene.

A questo punto mettetevi nella testa di un falsario d’Italia: uno che piazzando una sòla del genere ci campa per degli anni. E volete che non ci provi? Non bisogna nemmeno sforzarsi. Qual è lo scrittore più chiacchierato del Novecento? Ha scritto incompiuti? C’è da qualche parte un riferimento a un capitolo mancante? Benissimo. Che macchina da scrivere usava? Con un po’ di fortuna è ancora in commercio. La carta si trova. Addirittura si sa già cosa doveva contenere il capitolo: scottanti retroscena su Mattei. Si conosce addirittura il libro che Pasolini stava saccheggiando usando come fonte. Capite: Mattei morto ammazzato in circostanze misteriose, Pasolini pure, prime pagine assicurate, Dell’Utri compra sicuro. Ti piace vincere facile? Vendi un falso Pasolini a Marcello Dell’Utri.

In realtà non si può escludere che da qualche parte quel capitolo ci sia – i parenti e i curatori dicono di no, Carla Benedetti sembra più per il sì, io non me ne intendo e proprio non lo so. Ma che a Dell’Utri possano avere mostrato l’originale… a Dell’Utri si rifilano le sòle, per definizione. Perché lui, anche se non lo ammetterà, cerca proprio quelle: cerca il Mussolini più umano, il Pasolini che non è mai esistito. L’equivalente bibliofilo di andare a donne e ritrovarsi a trans. Senza riuscire ad ammettere che ti ci ritrovi perché è esattamente quello che cercavi, ti piace più il finto del vero, hai il gusto della sòla, e che male c’è? Piace a tutti. Si chiama fiction. (Massimo rispetto allo scrittore che ha buttato giù un capitolo finto di Petrolio, non vedo l’ora di leggerlo; spero che oltre Dell’Utri prenda in giro anche Pasolini, che la prima lettera di ogni paragrafo componga la scritta F O R Z A C A L V I N O, cose del genere).

anniversari, autoreferenziali, blog, italianistica

È sempre più tardi

Com’è tradizione, l’antichissimo blog Leonardo in occasione del suo 279° compleanno chiede ai lettori di votare il post più bello del 2009. Segue lungo discorso che si può agevolmente  saltare.

(La mia scelta:
Cugghiuni + Business
Seminator di scandalo
Il segreto dell’altalena
Croce e delizia
Il Silvio parallelo
Mamma! Mamma!
Di ronda in ronda
Dagli abbastanza corda
Ogni riferimento è puramente
Voi potete sceglierne anche altri)

“Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo … lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.

Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?

Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati… al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica… Io quelli che fanno così, come Facci, o TheWineGuy, non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…

No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.

Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…

Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque?

Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro. Ditemi però cosa ne pensate di quest’anno, perché lo sapete che io tengo soprattutto a una cosa. No, non è la classifica, no. Non sono neanche gli accessi. A me interessa che i miei pezzi siano belli, siano validi, si leggano volentieri. Perciò vi chiedo, come da duecentoepassa anni, di scrivermi nei commenti qual è il pezzo che vi è piaciuto di più. Per favore. Non fate come tutti gli anni che di solito siete un migliaio ma quando c’è da farmi questo favore restate in venti. Cos’è, avete paura a scegliere un pezzo invece di un altro? Tirate la monetina, mica me ne accorgo. Potete anche scrivere il pezzo che vi è piaciuto meno, magari quello vi viene più facile. Coraggio, su, e poi per un altro anno non vi disturbo più. Adesso se vi dispiace devo andare a pisc… no, niente, ormai è tardi. Tanti auguri.

Ma ve l’ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava… Entro in un’osteria e…”

dialoghi, fioretti dell'anno nuovo, italianistica

Plagio

Dialogo

“Ehi, signore”.
“Che vuoi? L’euro te l’ho già dato, quindi…”
“Sì, signore, ma il calendario non lo vuole?”
“Aaah, perché tu non sei un mendicante, tu”
“No signore”.
“…invece sei un venditore di calendari”.
“Se vuole ho anche quello con l’oroscopo”.
“L’oroscopo”.
“Personalizzato. Lei di che segno è?”
“Cancro”.
“Cancro, allora, vediamo… il cancro…”
“Non che cambi molto”.
“Perché, non ci crede all’oroscopo?”
“Non molto, no”.
“E fa male, guardi qui: Cancro: il 2010 sarà il vostro anno”.
“E tu invece ci credi”.
“Ma sì, signore, perché no”.
“Cioè, credi che questo sarà il mio anno”.
“E anche il mio, perché sono Cancro anch’io”.
“Fantastico. Sarà un grande anno”.
“Certo”.
“Come il 2009”.
“Meglio, signore, meglio!”
“Perché diciamolo, il 2009…”
“Lasciamo perdere”.
“Eh, infatti. Piuttosto magari come il 2008…”
“Peeer carità”
“Già, già, anche il 2008… ma allora che anno ti piacerebbe rivivere?”
“In che senso?”
“Di questi ultimi anni, scegline uno”.
“Ah, no, degli ultimi anni no, nessuno”.
“Da quant’è che vendi questi oroscopi, sentiamo”.
“Mah, saran dieci anni ormai”.
“E di questi dieci non ce n’è uno che ti rivivresti volentieri…”
“Mmmmmno”.
“Neanche uno! Uno in particolare, un po’ più felice degli altri!”
“Così su due piedi… no”.
“Però la vita è bella”.
“Certo che è bella, lo sanno tutti”.
“Per dire, se tu questi anni potessi viverli da capo… non ti piacerebbe?”
“Altroché!”
“Ma se dovessi riviverli esattamente come li hai vissuti la prima volta… con le stesse gioie e gli stessi dispiaceri…”
“Ah, no, così no”.
“E allora, scusa, che vita vorresti rifare? La mia? Quella di Berlusconi, o di chi altri? E credi che io, o Berlusconi, o chiunque altro, non risponderemmo proprio come te? Credi che a qualcuno piacerebbe tornare indietro per rivivere esattamente la stessa vita?”
“No, non credo”.
“Quindi se ti regalassero dieci anni di vita… ma solo a patto di riviverli esattamente come gli ultimi dieci… tu rifiuteresti”.
“Rifiuterei”.
“E che vita vorresti, allora?”
“Mah, una vita così… come mi viene, senza saperne niente prima”.
“Come non si sa niente dell’anno nuovo”.
“Esattamente”.
“Sai cosa ti dico? Anch’io. E chiunque altro. Ma questo vuol dire che il caso ci ha trattato tutti male, almeno fino al 2009: o che perlomeno ci ha dato più dispiaceri che gioie”.
“Ma…”
“Altrimenti come si spiega il fatto che nessuno accetterebbe di rinascere, per vivere la stessa identica vita che ha fatto fin qui? Però la vita è bella, dicevi”.
“Certo”.
“Ma è bella solo la vita che ancora non si conosce. Quella che abbiamo conosciuto fin qui, no, quella non ci è piaciuta così tanto. In futuro invece andrà meglio”.
“Eh, speriamo”.
“Con l’anno nuovo il caso comincerà a trattarci tutti bene, e finalmente avremo una vita felice. Meno male. Hai detto che hai un calendario personalizzato?”
“Certo, eccolo qui”.
“Ed eccoti un altro euro, toh”.
“Oh, grazie, grazie signore. Arrivederci. Calendari! Calendari con l’oroscopo! Calendari del Duemilaedieci!”

(Giacomo Leopardi – segno zodiacale Cancro – vi augura un felicissimo 2010).

italianistica, leggere

Io sono Artigiano

Non avrai altro Autore al di fuori di me

Quello che mi ha spinto a farlo, come ho detto all’inizio, è che da questa risibile querelle estiva e premestruale si sia arrivati come sempre a ipotizzare un fantomatico scrittore fantasma che è il vero autore dei libri che pubblico a mio nome. (Giorgio Faletti)

A parte che vorrei esserci – non dico sia uno dei motivi che mi tiene in vita, ma vorrei esserci – il giorno in cui finalmente uno scrittore famoso, accusato di avere dei negri, o degli editor un po’ intrusivi, farà il primo vero coming out: ebbene sì, il mio romanzo non l’ho scritto da solo, eravamo in cinque: uno ha lavorato ai dialoghi, uno ai monologhi, uno si è girato l’Oklahoma per sei mesi per fare le ricerche, uno rileggeva e l’ultimo passava col carrello del caffè, e allora? V’è piaciuto? Quello è l’importante, no? Mica ve l’abbiamo fatto pagare cinque volte tanto. Oh, che ci posso fare se sono scarso coi dialoghi? Mi pago uno che me li scrive e uno che se li rilegge, e se il risultato è buono dovreste ringraziarmi, altro che far le pulci.

Perché è ben strana in fondo questa cosa: quando andate al cinema non vi preoccupate che lo sceneggiatore e il regista siano persone diverse. Mai sentito qualcuno lamentarsi che Kubrick usasse soggetti non originali, che i vostri film preferiti siano li risultato dello sforzo di migliaia di persone.Vi siete bevuti decenni di serie televisive – orologio alla mano, è senz’altro la forma d’arte che vi ha ‘intrattenuto’ di più – e non vi siete mai posti il problema di chi le abbia scritte: coglioni qualsiasi intorno a un lungo tavolo in qualche grattacielo condizionato, ma chi se frega? tanto è un prodotto industriale. Al diavolo la nozione ottocentesca di “Autore”.

Finché non arrivate in libreria, e la musica cambia di colpo. Lì è puro Ottocento, si direbbe che fuori vi stia aspettando il maggiordomo in livrea con la carrozza: tutti Autori con la A maiuscola, e anche tutte le lettere del nome e del cognome, tutte in maiuscolo, sbalzate in oro e in lapislazzuli, più evidenti del titolo; uno non compra Io sono Dio di Faletti, uno compra GIORGIO FALETTI Io sono Dio: e guai, maledizioni, anatemi, a chi solo insinua che dietro GIORGIO FALETTI possa esserci un po’ di lavoro di gruppo. È vietato anche solo pensarlo: GIORGIO FALETTI deve essere un artigiano che si scrive tutto da solo, dal titolo fino al più umile apostrofo. Esatto, sì, li mette tutti a mano, gli apostrofi, uno a uno. Altrimenti, boh, non c’è più gusto a leggerlo. Così a conti fatti GIORGIO FALETTI è l’artigiano più pagato d’Italia. Fattura milioni ed evidentemente non ha nemmeno un ufficio stampa, un pr, un amico che gli dica ehi, Giorgio, va bene fare il duro, ma non si trattano così le signore. Puoi avere tutti i buoni motivi del mondo, ma la sindrome premestruale no, non si tira fuori in una polemica la sindrome premestruale. Voglio dire, i duri non lo fanno. Rileggiti i classici: te l’immagini Marlowe, te lo immagini Mike Hammer coinvolti in una polemica letteraria con una biondona fatale? Uno schiaffone può anche scapparci, se la fata fa l’isterica, ma un accenno al mestruo no, è un tabù, una cosa definitivamente non anglosassone, di una mediterraneità inemendabile, come faccio a spiegartelo meglio… è una cosa che… non ti aggiunge centimetri al pisello, capisci?

italianistica, scuola

Italo rulez

Quest’anno alla maturità è uscito James Dean. Sono usciti i Nirvana (chiedi chi erano i Nirvana) È uscito Alberoni, con il suo controverso Innamoramento e Amore, tre centimetri sopra Moccia. Sono usciti Dante Alighieri, Giacomo Leopardi e i paninari (ma li hanno visti allontanarsi in direzioni diverse). È uscito Jim Morrison, perlomeno c’era una sua foto tra le tracce. È uscito il ’68, esce sempre, per favore non fatelo rientrare mai più. È uscita la Beat Generation, ma anche Catullo non scherzava, coi suoi pedicabo et irrumabo. E se per questo anche Cardarelli, se ne dicono certe su Cardarelli, sapeste. Sono uscite le nuove tecnologie, e la Repubblica italiana. È uscito Hobsbawm, per prender 7 credo basti scriverlo correttamente (Hobsbawm). È uscita la Vespa, e il muro di Berlino, che per i ragazzi del ’90 è storia ancestrale. Sono usciti i Beatles, io alla maturità avrei potuto buttar giù dieci cartelle sui Beatles, invece ne stesi sei su Gozzano, ah, ma volendo è uscito anche Gozzano. Sono usciti i rave party, magari qualcuno in questa classe è stato concepito in un rave party in onore della caduta del muro (alla faccia di Alberoni). È uscito facebook, capite, facebook. Insomma, è uscito tutto. Ma io non ci trovo niente di male. Anzi sono contento.

Sono contento, perché il 18% dei maturandi non ha scelto di fare il tema sul Punk (è uscito anche il punk). Né su Elvis (pure lui), né sui Beatles, né sul Muro, né sull’Innamoramento e sull’Amore ai tempi di Msn. No, il 18% dei maturandi ha scelto un tema di letteratura su La coscienza di Zeno di Italo Svevo. E la cosa mi fa venir voglia di scendere in piazza e fare un carosello, forza Italo. Potrei andare con le bandiere e le trombette davanti a casa di Citati, che qualche tempo fa riteneva Zeno “incomprensibile” per un quindicenne. Proprio così. Uno dei libri più letti e più amati del Novecento italiano: incomprensibile.

Ora mi sono accorto di non averlo in casa. Invecchiando, infighettandomi, devo avere avuto pudore del vecchio Newton Compton verde pisello (col prezzo vergognoso, “2900 lire!” sbalzato in similoro). Invece ho ancora in quinto volume del Guglielmino/Grossier che usavamo al liceo. Se adesso lo apro, se vado a cercare il finale della Coscienza, ci trovo scritto sopra, a penna, Sacrosanto. È stato Gigi. Fino a qualche anno prima aveva usato i miei libri per disegnarci i cazzi e forza Juve. Poi un mattino prese una penna e scrisse sopra il finale della coscienza di Svevo (Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie) “SACROSANTO”.

Sacrosanto è Svevo, altro che incomprensibile. Assai più praticabile, già oggi, di Kurt Cobain, Elvis Presley, Jim Morrison. Quelli si allontanano a vista d’occhio, e Svevo rimane lì, col suo italiano incespicante che sentiamo subito nostro: il grande romanziere più sgrammaticato del Novecento (a parte Palazzeschi, certo). Il fumo è quasi scelta obbligata nelle antologie di terza media. Ed è giusto così: una pagina così divertente e micidiale sulle dipendenze non si trova facilmente. Le paginette memoriali degli sfattoni degli anni Ottanta sgualciscono, e Zeno resta lì, nostro contemporaneo.

Svevo è stato il primo scrittore in Italia ad accorgersi della psicanalisi: che era la novità del momento, come oggi facebook. Ma non gli sarebbe bastato trasformare i concetti freudiani in gustosa letteratura (traumi, negazioni, pulsioni, lapsus, sublimazioni: c’è tutto in tempo reale). No, Svevo voleva anche prendersene gioco. Subito, senza neanche dare agli operatori del settore il tempo di prendersi sul serio. Il primo analista della letteratura italiana, il dottor S., fa il suo debutto nelle prime righe e si svela immediatamente come un rancoroso incapace. Un professionista che pubblica le memorie del suo cliente “per vendetta, e spero che gli dispiaccia”!

In parte grazie alle sue frequentazioni, Svevo è l’unico italiano a comparire nell’album di famiglia dei Grandi Autori del Novecento: Joyce, Beckett, Proust, Musil, Kafka… anche se in un’istantanea del genere risulterebbe sfocato in seconda fila, semicoperto dalla spalla di qualche Immortale, mentre si guarda intorno scettico: che ci faccio qui? Io sono del ramo assicurazioni. Eppure con gli anni qualche sospetto viene: e se fosse il più grande? Alla fine è la memoria che decide, con criteri tutti suoi: 2000 pagine di Uomo senza qualità (decadenze, incesti) sbiadiscono nel nulla, e Zeno Cosini resta il nitido seduttore della sorella della sorella della ragazza che gli piaceva. Si spegne lentamente il Doktor Faustus con le sue raffinate dodecafonie, e ti restano in mente le sviolinate di Guido e le canzonette di Carla. Persino a Joyce non pensi più per mesi interi; ma c’è sempre una data sul calendario, un formicolìo al petto, un funerale in ritardo, un affare stranamente riuscito, che ti rimandano a Zeno. Che libro. Sperimentale e borghesissimo, profondo in punta di piedi, comico e apocalittico, tanto che a volte uno si meraviglia: possibile che sia stato scritto proprio in italiano? Roba nostra, siamo sicuri? E com’è che non se ne fa più?

internet, italianistica, wikipedia

Wikimonia

Le mie parole libere nel mondo

Se volete un grande esempio dell’egemonia di Wikipedia, eccovelo pronto: Microsoft sta chiudendo la sua enciclopedia, Encarta. Nessuno la usa: Wiki funziona meglio e non costa nulla. Pensate se succedesse lo stesso coi sistemi operativi: se dovessero chiudere Windows perché tanto ormai sono tutti passati a Linux. Questo se volete un grande esempio.

Se ne volete uno piccolo piccolo, a misura di chi scrive in questo blog, ecco qua. Tre anni fa passai una mezza estate in una delle più belle biblioteche del mondo (questa). Cercavo una pista per scrivere una tesi di dottorato sul mio incubo storico, tal F. T. Marinetti fondatore del futurismo. Vi risparmio la tiritera su quant’è bella l’America loro sì che rispettano gli studiosi a Bologna sei poco più di un pancabbestia invece laggiù ti chiamano Mister ecc. ecc. ecc. blablabl.

A un certo punto incocciai in un libro abbastanza raro, di cui avevo già fiutato la presenza in qualche biblioteca italiana: si chiamava Patriottismo insetticida ed era un romanzo del 1939. Non solo non l’avevo mai letto, ma secondo me nessun altro al mondo ci aveva mai provato. 

Marinetti era già poco leggibile nei suoi anni ruggenti, i Dieci; nel 1939 era un monumento che sopravviveva a sé stesso. Mussolini lo aveva voluto all’Accademia d’Italia perché non si dimenticava di chi gli aveva voluto bene nei giorni difficili (vent’anni prima erano stati in galera assieme, compagni di lista a Milano nei trombatissimi Fasci di Combattimento del ’19). Così il vecchio futurista vivacchiava, aveva un contratto di ferro con la Mondadori che gli pubblicava qualsiasi cosa, ma persino i gerarchi lo disprezzavano pubblicamente, e i vecchi colleghi, diventati famosi anche grazie a lui, fingevano di non averlo mai conosciuto. La riscoperta sarebbe arrivata molto dopo.

Bene, in questa situazione Marinetti scrive un nuovo manifesto sul romanzo futurista, in cui in sostanza accusa Joyce e Proust di avere copiato da lui, e poi un romanzo, Patriottismo insetticida, la storia di… non si sa, perché nessuno lo ha mai letto. Così un pomeriggio decisi di farlo io, nella speranza di trovare qualcosa di utile alla mia infernale ricerca.

Di solito in questi casi si sottolineano i passi che ci potrebbero interessare, ma io non potevo: primo perché era un reato federale, secondo perché il libro sarebbe comunque rimasto a New Haven, Connecticut. L’alternativa è scriversi una scheda in un taccuino, o sul computer. Ma a questo punto, se si è connessi, tanto vale fare direttamente una scheda su Wikipedia. I miei appunti infatti si perdono spesso, e quando li ritrovo (possono passare mesi, anni) non sempre riesco a capirli. Invece Wiki è sempre lì, cioè dovunque, e la necessità di scrivere qualcosa intelleggibile a tutti e con un formato standard mi avrebbe costretto a essere chiaro.

Non solo, ma in questo modo le mie eventuali scoperte le avrei immediatamente condivise con l’umanità… sì, vabbè, capirai le scoperte, un romanzo sconosciuto di Marinetti, chi se lo fila? Già non si leggono le sue opere in commercio. 

Del resto, se mi fossi mai preoccupato della reale utilità dei miei studi, non avrei mai preso la laurea che ho preso. Questo per dire che la profonda consapevolezza dell’infinita vanità del tutto mi attanaglia continuamente, compreso quando mi trovo nelle più belle biblioteche del mondo a scrivere riassuntini di romanzi che nessuno ha mai letto e leggerà mai.

Per la cronaca, pure questo non era un granché. Simpatico nel suo tentativo di essere divertente, ma raramente gli anziani tromboni ci riescono. Traccio un riassunto dell’assurda trama, isolo alcune citazioni che mi sarebbero potute servire, e mi appunto un’idea: forse in questo romanzo balordo in cui si parla con toni lusinghieri di avvelenatori, omosessuali e cannibali, Marinetti voleva teorizzare quello che oggi chiamiamo relativismo culturale: ogni popolo ha la sua morale, e quindi i cannibali delle isole Figi fanno bene a mangiare gli esploratori, e i fascisti fanno bene ad amare il duce e a eliminare le parole straniere dal paesaggio (era il periodo in cui i “bar” dovevano diventare “quisibeve”).

Il tutto finisce su Wiki, senza destare particolari emozioni: qualche brava persona corregge gli errori, qualcuno trova il titolo buffo e lo linca nella pagina Voci insolite, fine della storia. No, niente di utile per la mia tesi.

Passano tre anni e arriviamo al 2009, centenario della rivoluzione futurista, quando improvvisamente (ma prevedibilmente) F. T. Marinetti torna sotto i riflettori: chi non può pubblicare una biografia, si getta sul suo catalogo, che è sterminato e tutto da scoprire. Così alla fine persino Patriottismo insetticida trova un editore disposto a ristamparlo. Me ne accorgo mentre sto preparando una relazione per un convegno: volevo spiegare che il nazionalismo di FTM era un po’ più complesso di quanto lo si pensasse, e che passava anche per concetti che oggi non siamo abituati a considerare ‘di destra’, come il relativismo culturale… ehi, come si chiamava quel romanzo in cui FTM faceva il relativista culturale? Patriottismo inset… ma toh, lo hanno ristampato. Bene. C’è persino una recensione su Panorama. Ottimo. Andiamo a leggere.
Oh, curioso.
Sembra che l’abbia scritta io.

Del resto, giudicate voi: non c’è una citazione dal libro che non possa essere stata presa anche da Wiki. Senz’altro il recensore di Panorama aveva avuto una copia omaggio del testo: però poi avrebbe dovuto aprirla, leggerla… è una fatica, no? Invece wiki è così comoda.
E allora ho ripensato a quel pomeriggio in cui avevo scritto la voce su Wiki. Mi sembravo così inutile, quel giorno. Mai avrei pensato che un giorno la mia scheda avrebbe aiutato un recensore di Panorama a risparmiare tempo: tempo, che ne so? per fare la spesa, o andare in palestra, o giocare coi figli, o chissà, scrivere un pezzo per difendere i poveri cantanti che si fanno rubare le canzoni su internet. Ragazzi, non rubate le canzoni su internet: quelle hanno un prezzo. Invece le schede sui romanzi sono di tutti.

Del resto come biasimarlo? Persino la scheda dell’editore l’ho fatta io. E la scheda della Feltrinelli. Ovunque andiate adesso per la rete, se cercate informazioni su quel romanzo google vi restituirà parole tratte dal mio riassuntino. Inclusa la mia ipotesi sul relativismo culturale, sensata o meno che sia: non importa, tanto ormai è su Wiki, e Wiki è l’Oggettività.

Conclusioni.
1. Niente di quello che fai per Wiki è inutile. Tutto prima o poi servirà a qualcuno. Sì, perfino il Patriottismo Insetticida.
2. Tutto quello che fai per Wiki è gratis, ma non vuol dire che qualcuno non ci guadagnerà. Non sarai tu, purtroppo.
3. Non fidatevi dei giornalisti che fanno finta di non sapere niente di Internet. Ormai è tutta posa. Appena ti volti stanno già copincollando pagine intere di Wiki, che neanche i laureandi.
4. Una piccola idea su una piccola pagina di Wiki può fare il giro del mondo (per questo in teoria è vietato mettere idee originali su Wiki).
5. Scrivere su Internet significa mandare le proprie parole libere per il mondo (chissà in quante tesi di laurea sono già finito senza saperlo). Finché un giorno qualcuno non le prende e le rivende come sue, certo, succede anche questo.
6. Se voi rivendete i miei riassuntini, perché io dovrei comprare i vostri libri o film o canzoni? Rubare a voi è davvero questo gran furto?

11/9, giornalisti, italianistica, Oriana Fallaci

Riposa in prrrrr

Quel figlio mai nato

Oriana lavora da anni a un’ opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. (Ferruccio de Bortoli, corruttore di vecchiette, Corsera, 29/9/2001)

Sul romanzo postumo di Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege (ciliege senza la “i”, tarate il vostro correttore automatico), io ho un forte pregiudizio, che nemmeno ho intenzione di verificare.

Perché parliamoci chiaro: se alla mia età non ho ancora letto le Upanishad e i Miserabili, non credo che troverò il tempo per il cappello pieno di ciliege. No, quello che farò qui è incartarvi il pregiudizio fatto e finito. Una cosa discutibile e persino un po’ vigliacca, la pisciatina sull’inedito illustre; ma su un blog si può fare.

Dicevamo, il cappello pieno di ciliege. Una gran palla, secondo me. Per i lettori non lo so, ma per lei di certo. Perché scusate, mica stiamo parlando di uno di quegli stitici letterati del Novecento, perennemente in preda a crampi e blocchi, quelli da cento paginette a decade; questa è Oriana Fallaci, una che quando trovava la storia giusta (e la trovava spesso), ti buttava giù un paginone centrale prima di colazione, una che la sua Olivetti Lettera 32 la pestava con undici dita alla volta, la faceva cantare come un Kalashnikov, tatatatatà ding! Tatatatà ding! Ding! Ding! Ding!

Almeno fino al 1991.
Era appena uscito Insciallah, un poema epico lungimirante (NIE quando ancora Genna guardava i cartoni), che mentre tutti fissavano con aria attonita le rovine del Muro, indicava nel Medio Oriente il nuovo sanguinoso fronte tra mondo libero e barbarie. Passa qualche mese e un certo Saddam Hussein le dà clamorosamente ragione invadendo il Kuwait, in quello che agli osservatori internazionali appariva ancora un inspiegabile capriccio. La guerra è imminente e la prima reporter d’Italia (e del mondo) non si fa aspettare… ma poi nelle retrovie succede qualcosa.
Questa guerra non si vede. La Fallaci ha passato una vita a guardare e a raccontare, ma stavolta no. Stavolta non si vede e non si capisce niente. Luci verdi su sfondo scuro, ed è tutto. La prima guerra del Golfo fu uno choc per molti vecchi reporter, ma per la decana Oriana dev’essere stata la percezione della fine. Analogica in un mondo digitale. Improvvisamente sei un vecchio disco polveroso e comunque il giradischi lo abbiamo lasciato in casa dei nonni.

Ma credete che abbia strepitato, sputato fuoco contro i nuovi media e i giornalisti embedded? No, quella volta reagì in un modo curiosamente freddo. Si ritirò a New York a scrivere un romanzone storico. Lo chiamava “il-mio-bambino”, sì, vabbè – un bambino, per quanto piantagrane, massimo in nove mesi si scodella. Questo in dieci anni non ha voluto venir fuori. Oh, ma stiamo parlando di Oriana Fallaci, settanta battute al minuto! Voi come ve lo spiegate? Per me, semplicemente, si annoiava. Il Settecento, l’Ottocento, le guerre in costume, le ciliegie… una palla. Il suo bambino. Quante volte avrà voluto raschiarlo via, quel bambino mai nato e già promesso agli editori. “Oriana, come va?” Eh, come va, mica posso dirti che non sto combinando un cazzo. “Sto lavorando a quel romanzo, sai… ma è una cosa lunga”. “Ah, sarà sicuramente un capolavoro”. Certo, certo, come no.

In mezzo a tutto questo, ti diagnosticano pure il cancro… l’“alieno”, come amavi chiamarlo. Sicché tra un bambino che non vuole saperne di nascere, e un alieno che ti vuole morta, non devi aver passato degli anni molto belli, a New York. Fino a quel mattino di settembre in cui, come tutti sanno, il Medio Oriente si rifece vivo alla finestra.
E tu c’eri. Di nuovo in mezzo alla notizia. In mezzo alla realtà. Altro che Sette e Ottocento. 11 settembre 2001, e la prima reporter del mondo c’è. Come devi esserti sentita? Piena di rabbia e di orgoglio, lo sappiamo; ma in mezzo a tutta questa rabbia e orgoglio, come ti devi essere sentita, Ms Fallaci?
Secondo me ti sentivi bene. Come dopo un’operazione alle cataratte, ti sbendano e rivedi il mondo con occhi nuovi, con gli occhi vecchi, con gli occhi tuoi. Che emozione, rinascere a settant’anni. Fissi la finestra per un’ora, telefoni a qualcuno, qualcuno ti telefona, e fumi come una ciminiera; ma prima o poi ti volti verso l’olivetti lettera 32. E lo vedi. Il tuo bambino mai nato, deforme e rompipalle. Ma che se ne vada a fottere nel cestino! Foglio nuovo, vita nuova.

“Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’ altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini”.

Decisamente i palestinesi di Gaza non avevano molti motivi per gridar vittoria, col senno del poi lo sappiamo. Ma tu, invece. Che gran momento è stato per te. Da eremita volontaria, scrittrice quasi fuori catalogo, a salvatrice dell’Occidente. Hai venduto odio cartonato ai cinque continenti, ma più che per soldi credo che tu l’abbia fatto per dimostrare che eri viva, come l’occidente quando non sa che problema risolvere e bombarda a casaccio. L’hai fatto perché non volevi finire come una vecchia scrittrice coi crampi, e soprattutto non volevi morire di cancro, come una fumatrice qualsiasi: tu volevi la fatwa, l’hai chiesta in tutti i modi, hai fatto in modo di meritartela… e se quei barbogi dei mullah non te l’hanno concessa è solo perché sono veramente stronzi. Ma nessuno la meritava più di te, insomma, chi è questo Rushdie al tuo confronto?

Poi un giorno sei morta, e adesso eccolo qui, il tuo bambino mai nato. Bello, brutto, chi lo sa. Io credo che non ti piacesse, e che piuttosto di finirlo avresti fatto scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Riposa in pace. Un giorno voglio andare a sussurrarlo sulla tua tomba. Solo per tendere l’orecchio e sentire che dallo sdegno ti rivolti. Vecchia stronza, beh, sì – un po’ mi manchi.

italianistica, mafie o camorre, segnalazioni

– leggete Gomorra

Gomorra, Italia

Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l’aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c’è di così pericoloso proprio in questo libro?

Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all’assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. “Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell’imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L’istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione”.

Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.

In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.

– Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.

– Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.

(Ti fa schifo questo mestiere? Robbe’, ma lo sai che gli stakehoder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo le loro aziende?)

La monnezza ci ha portato in Europa (del resto, avverte Saviano, i padri della nazione sono i palazzinari, altro che Parri ed Einaudi). La città del sole e del mare si è riciclata in pattumiera del mondo, per creare ricchezza che andrà a fruttare altrove: nel nord operoso, o nella Scozia del clan La Torre o sulla costa spagnola, ovunque i boss decideranno di reinvestire e riciclare in imprese, spesso alla luce del sole.

– Infine: l’omertà. Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.

Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.

italianistica

– bar bar 1

L’Invasione Baricco

Premessa: non sono venuto a criticare lo scrittore Baricco. In parte è troppo facile; in parte, nemmeno giusto. Peraltro io non lo conosco nemmeno bene. Il mio ambito di studi – l’ambiente in cui sono cresciuto “culturalmente”, “professionalmente” – mi impone di liquidare l’argomento Baricco con sprezzante ironia, e nel corso degli anni mi sono adeguato, chi sono io per non adeguarmi. Lungo la strada mi sono anche fatto degli aneddoti, che in società funzionano abbastanza bene. Per esempio: “Baricco? Sì, beh, ho letto Seta. L’ho letto una mattina mentre aspettavo che il PC installasse la stampante”.

Buffo, no? A me sembra abbastanza buffo. È anche abbastanza vero. C’è ironia, ma è ben distribuita: è il mio PC troppo lento, o sono io troppo veloce, o è Baricco un po’ troppo lineare? Potrei trovare un aneddoto migliore? Non lo so, non ho mai trovato un aneddoto migliore. (Baricco potrebbe, è molto bravo in queste cose).

Baricco sta scrivendo qualcosa sulla Repubblica che lui chiama “libro”, ma è paurosamente simile a un blog, di quelli prolissi. E per carità, può chiamarlo come gli pare, tanto i nomi non significano mai nulla di stabile: “blog” deriva da “log”, che all’inizio in inglese significava “fare tacche sulla corteccia dei tronchi”; mentre “libro”, migliaia di anni fa, significava, guarda un po’, “corteccia”: probabilmente tra qualche secolo libro e blog saranno sinonimi, e a nessuno interesserà conoscere la differenza (perché, adesso interessa a qualcuno?)

Baricco sta scrivendo un libro, dunque, sui barbari. Se ho ben capito l’idea è descrivere la contemporaneità come una fase di transizione, di decadenza, in cui si attendono questi barbari, che possono arrivare da qualunque parte, e avere qualsiasi forma. In questa puntata, i barbari sono gli americani, e i loro gusti in fatto di vino.

Parlare di decadenza è sempre molto delicato. Le decadenze sono un po’ angosciose (in realtà sono gli unici periodi in cui valga la pena vivere). Molto spesso la decadenza è solo uno stato della mente – da che mondo e mondo c’è sempre stato un intellettuale vivente convinto di trovarsi in una fase di decadenza. Di solito, quando cominci a vedere le cose in questo modo, sei pronto per la svolta riformista moderata. Non c’è più religione, si stava meglio quando si stava peggio, eccetera eccetera. Io ho imparato che una persona di questo tipo si chiama laudator temporis acti. In tutti noi c’è un laudator temporis acti.

La cosa fantastica è che c’è anche nei barbari. Cosa c’è di più tradizionalista di un vecchio barbaro. Stilicone, Ricimero, Teodorico: ci credevano più loro, nell’Impero Romano, che i mediocri latinissimi senatori del tempo. Se l’arrivo dei barbari è la fine di un’era, di una tradizione, di una memoria, barbaro è, appunto, chi non ha memoria, e quindi non sa nemmeno di essere un barbaro – se l’è scordato. Nell’ambiente in cui sono cresciuto (senza divertirmi molto) Baricco è proprio questo tipo di barbaro. Si fa avanti a colpi d’ascia, dove passa lui non cresce più l’erba, ma non se ne accorge. È convinto che il vero barbaro è quello che arriverà dopo di lui (c’è sempre qualcuno più barbaro che incalza). Sentite come parla del vino americano:

non ha un nome, così, per capirsi, gliene do uno io. Vino hollywoodiano. Ecco alcune sue caratteristiche: colore bellissimo, gradazione abbastanza spinta (…), gusto rotondo, molto semplice, senza spigoli (senza tannini fastidiosi né acidità difficili da domare); al primo sorso c’è già tutto: dà una sensazione di ricchezza immediata, di pienezza di gusto e profumo; quando l’hai bevuto, la scia dura poco, gli effetti si spengono; interferisce poco con il cibo, ed è pienamente apprezzabile anche solo risvegliando le papille gustative con qualche stupido snack da bar; è fatto per lo più con uve che si possono coltivare quasi ovunque: Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon. Dato che è manipolato senza troppi timori reverenziali, ha una personalità piuttosto costante, rispetto alla quale la differenza delle annate diventa quasi trascurabile. Voilà.


Secondo voi se ne rende conto, Baricco, che parlando di mosto fermentato in realtà è di sé stesso che parla? Del suo stile rotondo, molto semplice, senza spigoli? Oppure qui, nel finale:

Se poi tornate al vino hollywoodiano, ne scegliete uno (magari esagero, ma sono talmente simili che potete scegliere quasi a caso) e tranquilli ve ne sorseggiate un bicchiere, seduti davanti a un’enoteca piacevole, capirete molte cose. Vi piacerà, sarete felici di stare lì, e, se non siete raffinati e colti bevitori, avrete perfino l’impressione di aver trovato il vino che avevate sempre cercato. Ma è indubbio che è un’altra cosa. […]
Vino senz’anima. Nel suo piccolo, il microcosmo del vino descrive l’avvento, a livello planetario, di una prassi che, salvando il gesto, sembra (ho detto sembra) disperderne il senso, la profondità, la complessità, l’originaria ricchezza, la nobiltà, perfino la storia. Una mutazione molto simile a quelle che cercavamo.


L’articolo (se vi va chiamatelo post, non cambia nulla) è interessante, vivace, si legge d’un fiato, e per cinque minuti risulta convincente. Poi ci ripensi, e ti rendi conto che tutta l’analisi socio-enologica di Baricco non sta in piedi. Ora però mi sembra di aver scritto abbastanza, se ne riparla domani. Con un’avvertenza: io non ero venuto a criticare Baricco, e cercherò anzi di parlarne bene, perché in fin dei conti è un modello per me, o almeno dovrebbe esserlo. Prendo tempo soltanto perché faccio fatica a spiegarmi (lui non farebbe tutta questa fatica).

generazione di fenomeni, italianistica

– big jim bites the dust

Mi chiamo Leonardo, ho 32 anni, e non vi odio più

La prima cosa che mi viene in mente, davanti al nuovo libro di Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) è: che titolo triiiste, non lo venderanno mai.
Si tratta naturalmente di un’impressione sbagliata. All’Einaudi-Stile-Libero sanno il fatto loro.

E poi andiamo, non si è ancora capito? La lagna tira. Non facciamo che lamentarci di quanto poco guadagniamo. I nostri padri esploravano i mondi artificiali, e noi sappiamo solo prendercela perché ci aumentano l’affitto e la benzina, e ci rinnovano il contratto (forse) ogni due mesi. Non sappiamo vedere più in là. Generazione gretta e venale.

Del resto io, se non si è ancora capito, la mia generazione l’ho odiata, sin dalle elementari, sin dalle prime pubblicità Mattel che interrompevano i cartoni animati su Telesanterno. Odiavo la bimbetta bionda che si circondava di miniaccessori di plastica rosa fluorescente. Odiavo anche la sua versione con autopista e big jim. Con l’autopista ci ho giocato e credo persino col big jim, ma i ragazzini viziati e leccati delle pubblicità li ho odiati di un odio viscerale, etnico. Il consumismo mi stava sulle palle molto prima di aver mai sentito la parola “consumismo”, e forse anche la parola “palle”. Non so il perché. Forse è semplicemente genetico: c’è una percentuale di persone che nasce refrattaria allo shopping. Non vi resta che sterminarci – o smettere di riprodurvi con noi – ma non è facile, perché siamo rudi e tenebrosi.

Un altro picco di odio l’ho avuto da matricola universitaria. Credo che avesse a che fare con le tare congenite dell’università di massa – lezioni oceaniche e vacue, sedersi sui gradini, le orazioni dei ciellini e i bonghi dei pancabbestia, vaffanculo, morite tutti, e dire che ho fatto pure due occupazioni. La cosa incredibile è che nello stesso periodo c’erano scrittori – più o meno della stessa mia età o anche più giovani – che scrivevano di questa università di massa oceanica e vacua e andavano forte, erano la nuvelvàg della letteratura italiana, e io li odiavo; senz’altro c’era invidia perché da un mondo così grigio sapevano tirarci fuori storie vendibili, e uscivano con ragazze più carine delle mie, ma c’era anche quel problema genetico di cui sopra.
In realtà non è così vero che li odiassi, suvvia. Erano ragazzi come me, evidentemente più bravi di me, che non se la tiravano nemmeno tanto. Quello che non sopportavo ero i loro lettori. Sia quelli più giovani, che vedevano mondi meravigliosi e cannibalismo selvaggio dove c’era soltanto un po’ di sfiga medioborghese; sia i più vecchi. I vecchi. I vecchi che leggono gli scrittori giovani e s’informano. Sugli usi e sui costumi. I vecchi che vogliono sapere la musica che ascoltiamo, le sostanza che assumiamo, e soprattutto se scopiamo. Io ho odiato la mia generazione, soprattutto quando pubblicava i suoi diari e ammiccava lubrica alle altre generazioni bavose. Sì, era pieno di p e d e r a s t i in giro, ma se andate in giro conciati in quel modo ve la state cercando.

Dieci anni fa apriva Einaudi-Stile-Libero, con un libro che ho odiato intensamente, ai tempi suoi. Era un reportage sulle camerette dei ragazzini. Le camerette. Dei ragazzini. Che invece di uscire di casa restano in famiglia e si fanno la cameretta. E si sa che gli adulti ne vanno matti, per queste cose. Gli adulti vogliono sapere come si chiama il cantante del poster. Vogliono eccitarsi davanti alla tua originalissima collezione di CD. Non vedono l’ora di sfogliarti la smemoranda e andare in deliquio davanti alle foto dell’interrail dell’estate scorsa – quando dovevate girarvi tutta la Francia la Germania e invece vi siete piantati quindici giorni in un campeggio ad Amsterdam. (io comunque amavo immaginare che sull’armadio ci fosse ancora il vecchio big jim, o qualche accessorio in plastica rosa, perché non vedevo nessuna vera soluzione di continuità tra la vostra infanzia di plastica e la vostra adolescenza: la cameretta era la stessa, e voi eravate gli stessi, solo con qualche smorfia in più). Il ggiovanilismo, il lolitismo, l’ipocrisia melliflua di chiamare Fuori tutti un libro che invece invitava tutti dentro la propria vita privata… vi ho odiato, maledetti, non ve l’ho detto perché nelle camerette delle vostre sorelle cercavo spesso di entrarci, ma vi disprezzavo. No, non avevo nessun piedistallo da cui disprezzarvi, lo facevo e basta. Ero giovane anch’io, va bene?

Ci pensavo l’altro giorno e mi chiedevo: chissà che fine hanno fatto, quei ragazzini. Se in media avevano sedici anni, quando posavano aprivano il loro sancta sanctorum giovanile ai vecchi curiosi, adesso in media ne hanno ventisei; in qualsiasi altra nazione occidentale avrebbero finalmente lasciato la loro cameretta, ma sarebbero ancora i protagonisti assoluti dello spettacolo del consumo, il target più ambito perché è quello che compra di più.
In qualsiasi altra nazione occidentale, ma in Italia no. Da noi la generazione più consumista è quella over 35. Sono loro che si divertono a comprare l’Ipod nuovo ogni volta che ne lanciano uno. Sono loro a spassarsela con l’high tech e la parabola. Invece il ventiseienne-tipo, oggi, è il più delle volte un neolaureato nel panico, che scopre con angoscia di essere stato sovraqualificato: vale a dire che il mondo del lavoro aveva bisogno di persone meno laureate di lui, da pagare meno e da mandare a casa ogni due mesi.

Il mondo cambia. E Stile-Libero si adegua. Dieci anni fa s’invitava nella vostra cameretta, adesso viene a misurarvi il monolocale. Dieci anni fa vi chiedeva la boy band preferita. Adesso s’informa su quanto prendete in busta. Certo, se ha 40 anni, Roberta non può aver posato per Fuori tutti. Ma mi piace pensare che tra le persone intervistate da Aldo Nove ci sia anche qualche reduce del libro di dieci anni fa. E mentre lo penso, dovrei provare un gusto sadico. Perché continuate a sembrarmi di plastica come i vostri giocattoli – vent’anni fa vi vendevano bambole, dieci anni fa scrittori giovanilisti e cannibali, poi c’è stato il revival della plastica anni Ottanta (vi hanno rivenduto gli stessi giocattoli usati, a prezzo maggiorato) e adesso siete pronti per l’industria culturale della lagna. E quindi io dovrei detestarvi, sono nato per farlo. Programmato per farlo.

Ma qualcosa non va – ieri sera per esempio in tv ho visto Aldo Nove, con quelle borse sotto gli occhi, così terribilmente adulto – e pensate un po? mi stava simpatico. E pure voi, con le vostre lagne, e il parlar sempre di affitti e banche che non ti fanno il mutuo – non vi ho mai voluto tanto bene come adesso. Vorrei venirvi a trovare in tutti i vostri monolocali, fare la pipì in tutti i servizi delle vostre mansarde-con-servizi.
Non vi odio più, questa è la verità. Sì, c’è stato un tempo in cui vi ho odiato, vi ho amato; ma adesso stiamo semplicemente invecchiando assieme.