auto, coccodrilli, come diventare leghisti

Come ci si ammazza in Padania

All’onorevole Buonanno, leghista, è capitata la sorte che non augurerei al peggior nemico, che in effetti potrebbe essere lui. Sparato ad alta velocità, cuore fragile di una pallottola di lamiera, Buonanno è morto tamponando un compagno di strada sulla corsia di sicurezza, come potrebbe capitare al miglior guidatore in un momento di stanchezza o distrazione. Perché è così che vanno le cose: a diciott’anni superi un test, ritiri una patente e da quel momento puoi girare armato, anzi sei tu stesso l’arma. Non con quelle cose ridicole che tengono gli americani nel cassetto, e i politici sventolano in tv per speculare sull’ansia di chi è stato svaligiato. Parliamo di ordigni enormi, quintali di ferro o alluminio che possono passare da zero a 150 km/h con la lieve pressione di un piede. Possono ucciderti in ancora meno tempo e non è lo scenario peggiore. Possono fare di te un assassino. Succede tutti i giorni.

L’onorevole Buonanno, leghista, si mostrava preoccupato per la criminalità e non aveva nemmeno tutti i torti – probabilmente sta aumentando, com’è logico in tempo di recessione. I furti in casa soprattutto, e non c’è bisogno di sottolineare come questa categoria di reati influisca più d’altre sulla percezione della sicurezza del ceto medio proprietario. D’altro canto, gli omicidi consumati a scopo di furto o rapina, nel 2014, sono stati 27. Nello stesso anno le vittime di incidenti stradali sono state 3381. Nel Duemila erano ancora più del doppio. Una cosa giusta e di sinistra che ha fatto Berlusconi: mettere il tutor in autostrada (o se l’ha fatta Prodi, almeno Berlusconi non l’ha tolto). Una cosa scema e di destra che ha fatto Matteo Renzi: il reato di omicidio stradale.

Non si muore più in strada come una volta, ma si muore ancora tanto e lo sappiamo. È l’unica vera guerra della mia generazione: abbiamo tutti uno o due amici al camposanto a cui non portiamo più i fiori. Buonanno non era un mio amico, ma era come minimo un compagno di autostrada, due o tre volte statisticamente potremmo esserci sorpassati. Sono vicino al dolore dei suoi cari: non mi costa fatica, è lo stesso dolore che mi accompagna tutti i giorni. Là fuori ci si ammazza, ed è successo anche a gente a cui volevo bene, un po’ più spesso di quanto pensavo di poter tollerare. È un problema molto più grosso di tanti altri problemi che ci fanno discutere, che ci spingono a prendercela contro una minoranza o contro un ceto politico e votare un onorevole piuttosto di un altro.

Beppe Grillo, cattiva politica, come diventare leghisti, fascismo

I due populismi complementari

È un po’ tardi, ma volevo condividere l’intuizione di mezzanotte: se il populismo di destra si caratterizza per la retorica del Nemico, ne consegue che in Italia di populismi attualmente ne abbiamo due, complementari. Questo in parte spiega la momentanea eclissi del M5S, che dopo gli attentati di Parigi non ha ritenuto necessario definire con maggior chiarezza la sua posizione in politica estera; in sostanza non ne ha una. Il fatto è che il populismo di Grillo e del suo comitato centrale è uno dei più curiosi al mondo, concentrato com’è sul Nemico Interno: il Politico. Viceversa il populismo di Salvini e della Meloni, che in mancanza di niente stanno opzionando quel che resta del centrodestra berlusconiano, si concentra sul Nemico Esterno: l’immigrato quasi sempre islamico e potenzialmente terrorista (Berlusconi non ci sta mettendo la faccia, ma il suo Giornale e i suoi tg sono già piuttosto allineati sull’argomento).

Messi assieme, Grillo e Salvini produrrebbero il populista perfetto; purtroppo, o per fortuna, sono inconciliabili. Al punto che nel momento più propizio per dare addosso agli immigrati, gli uomini di Grillo si sottraggono e mostrano il lato più umano (dopotutto anche loro hanno votato per depenalizzare la clandestinità); specularmente, quando passerà l’eccitazione collettiva per il terrorismo e scopriremo qualche altra Mafia Capitale, i grillini tireranno fuori gli artigli, ma Salvini si mostrerà molto più equilibrato, se non proprio garantista alla Berlusconi.

A un certo punto poi si voterà, e uno dei due populismi probabilmente arriverà al ballottaggio (sempre ammesso che ci si arrivi). Forse è inutile analizzare i trend elettorali, forse tutto dipenderà dall’ultimo fatto di cronaca importante: se sarà un attentato, Salvini; se sarà uno scandalo, Grillo. I due personaggi sono incompatibili, ma i loro elettori non lo sono affatto: anzi appartengono a un unico bacino che è in comunicazione anche coi serbatoi inesplorati dell’astensione. Poi c’è lo scenario hard – un ballottaggio tra Salvini e un grillino – e non mi sento di escluderlo a priori. Ah, nel caso voterò M5S: “Onestà” mi sembra meno pericoloso di “Stop Invasione”. E poi in generale mi danno meno affidamento: al primo casino si rivota.

Berlusconi, come diventare leghisti, Renzi

Di Calderoli non si butta via niente

Quando quattro anni fa l’allora presidente del consiglio Berlusconi si trovò nei guai per una questione di minorenni; quando fu accusato di aver fatto pressioni sui funzionari della questura di Milano perché rilasciassero Karima El Mahroug detta Ruby, la Camera dei Deputati si trovò in una situazione molto imbarazzante. Berlusconi non negava di aver telefonato in questura, ma sosteneva di averlo fatto nell’esercizio delle sue funzioni di premier, in quanto convinto, arcisicuro, che Ruby fosse la nipote del dittatore-presidente egiziano Mubarak.  Su questo singolo punto la Camera fu chiamata a votare il 5 aprile del 2011; su questo singolo punto si pronunciò. La maggioranza dei deputati votò a favore. 318 deputati – per la maggior parte iscritti ai gruppi del Popolo della Libertà e della Lega Nord – affermarono con quel voto che sì, Berlusconi aveva davvero creduto che Ruby fosse la nipote di Mubarak. I loro nomi furono pubblicati, per esempio, dall’Unità, senza altro commento – tanto inappellabile era l’infamia. Molti di quei trecento siedono ancora in parlamento, eppure tante cose sono cambiate.

Due giorni fa il Senato della Repubblica si è trovato in una situazione imbarazzante. Il senatore Roberto Calderoli, che aveva depositato un mezzo milione di emendamenti alla riforma costituzionale, ha insistito perché non si posticipasse un voto su di lui, che nel 2012 in un comizio a Treviglio aveva paragonato l’allora ministra Kyenge a un orango. Un pubblico ministero aveva ravvisato in un simile paragone un’aggravante razziale. Il senato doveva scegliere se autorizzare o no un processo. 196 senatori – 81 dello stesso partito della Kyenge – hanno votato no: per loro non c’è nessuna aggravante razziale nel paragone tra un ministro di origine africana e un orango. Pare che siano cose che capitano nei comizi, un senatore del PD ha dichiarato proprio così:

“le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell’ambito di un particolare contesto di critica politica” e “spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose”.

Devo ammettere di avere io stesso più volte paragonato Calderoli a un suino, a causa di certi suoi deprecabili costumi. In coscienza, nemmeno io credo di aver dato luogo a fattispecie criminose. Ho ricordi più o meno vaghi di cavalli di razza, topi e rospi, e poi a un certo punto il bestiario ci sembrò inadeguato e arrivammo alle mortadelle. Però, insomma, non ravvedere il razzismo in un paragone tra una donna di origine africana e un orango è un po’ grossa. Potrei quasi capirla se dietro ci fosse il nobile intento di salvaguardare la libertà di espressione degli eletti dal popolo: peccato che tra quei 196 senatori ce ne siano parecchi del tutto favorevoli a processare Calderoli per quel che ha detto. Ma solo per diffamazione, senza aggravanti razziste. Insomma, paragonando la Kyenge a un orango, Calderoli l’ha offesa. Però la ha offesa senza razzismo. Senza sobillare il razzismo della platea a cui si rivolgeva. I 196 senatori la pensano così.

Allora mi chiedo: che strada abbiamo fatto dal 2011 a oggi? È peggio una Camera che prende per buona qualsiasi cazzata si inventa l’avvocato di Berlusconi, o un Senato che per mandare avanti un’orrenda riforma costituzionale si tappa le orecchie, gli occhi, il naso per non sentire la puzza di un porco razzista – animale peraltro dal fiuto notevole, tant’è che dopo il voto che l’ha graziato ha prontamente ritirato gran parte degli emendamenti?

Ecco chi ha salvato Roberto Calderoli dall’accusa di razzismo.

1500 caratteri, come diventare leghisti, feste dell'unità, Pd

"Datti una risposta da solo"

Presidente Bonaccini, so quanto i giornalisti sappiano essere fastidiosi, a volte. Fanno domande insensate, non cercano risposte, ma reazioni scomposte. E se taci, che davvero sarebbe l’unica cosa saggia, t’inseguono, poi montano tre minuti di inseguimento e si credon cronisti d’assalto. Altro che Woodward e Bernstein, loro puntano più su, verso il Gabibbo. A scuola han letto che la stampa deve dar fastidio al potere e han frainteso; invece di dare un’occhiata agli situazione degli appalti in Regione, vanno a punzecchiarti ai comizi. Perché fare i cani da guardia della democrazia, quando puoi esserne la zanzara. Non sono tutti così, ma fin troppi.

Presidente, so che lei è un po’ meglio di come appare in un video di due minuti dove non sa più rispondere a una cronista che non sa cosa domandare. Quanto le debba suonare paradossale l’accusa di militare in un partito dittatoriale – quando per candidarsi in regione ha dovuto battagliare anche coi renziani compagni di corrente. Però doveva proprio darle un buffetto sulla guancia? E poi. Chiuda gli occhi e si riascolti. So quanto può essere fastidioso riascoltare la propria cadenza modenese, ma ci provi. Si domandi cosa le ricorda. E si dia una risposta.

Presidente, non sarà dittatoriale il suo partito, ma non lo riconosco. M’avessero impacchettato vent’anni fa, e risvegliato oggi, ascoltandola io dedurrei che i leghisti si sono presi pure l’Emilia. Mi sbaglierei? Me lo sono chiesto. E un po’ mi sono già risposto.

1500 caratteri, come diventare leghisti, migranti

Mentre Salvini rifà l’Impero, ti offro un caffè

Certo, si potrebbe risolvere il problema come dice Salvini: cioè in pratica… sbarcare in Libia, Tunisia, Egitto, e occuparne tutta la regione costiera. L’ultima volta che ci siamo riusciti ci chiamavamo ancora Impero Romano, ma se vi sembra un’alternativa praticabile, perché no.

Oppure potremmo limitarci alla proposta più terra-terra della Santanchè, che in sostanza propone di monitorare la costa africana 24 ore su 24 con aeroplani pronti ad affondare qualsiasi barcone prima che lasci il porto. Toccherà immagino acquistare qualche f35 in più, ma se dite che conviene avrete senz’altro fatto i vostri conti.

http://www.ansa.it

Se invece non ne potete più di ascoltare proposte del genere dal collega, o dall’amico, o dal conoscente al bar o su facebook, c’è una cosa molto semplice e tranquilla che potete fare: lasciatelo parlare e offritegli un caffè. Va bene anche quello alla macchinetta.

Quello a un certo punto dovrà pur smettere di parlare di barconi e invasioni ed Eurabia per accostare al labbro la tazzina: ecco, profittate di quel breve momento per spiegargli quanto gli costava l’operazione Mare Nostrum (quella che ha salvato 160.000 migranti in un anno). Un caffè al mese. Quel caffè.

Che moltiplicato per 38 milioni di contribuenti italiani, per 12 mesi, ha evitato per un anno disgrazie come quella di ieri. Bastava un caffè.

Ma forse conviene mandare gli f35 in rotazione. O rifare l’impero Romano. Lo saprà bene Salvini, avrà fatto i suoi conti.

come diventare leghisti

Temo i leghisti (anche quelli in felpa)

– Quelli che prendono in giro Salvini perché a Roma è arrivato con quattro gatti (compresi quelli neri reclutati in loco):

… si ricordano di tutte le volte che abbiamo irriso Berlusconi perché le sue piazze restavano semivuote – e poi le elezioni le vinceva lo stesso?
– Quelli che festeggiano per le lotte intestine in Veneto tra Salvini e Tosi:
… si ricordano di tutte le volte che Bossi cacciò a pedate qualche oppositore interno che in teoria valeva decine di migliaia di voti? Di Miglio, Pagliarini, Gnutti, e tanti altri? Di quante volte dagli anni Novanta in poi abbiamo letto di una Lega divisa per poi scoprire alle urne che la base seguiva Bossi comunque e dovunque? 
– Quelli che parlano di una mutazione profonda della Lega, che avrebbe rinnegato il suo passato regionalista e federalista e blablabla:
…che film si stanno guardando da vent’anni? La Lega di Bossi era razzista e populista come la Lega di Salvini. Il federalismo serviva per darsi un tono, ma a guardarlo da vicino era di gommapiuma come le corna sugli elmi di Pontida. 12 anni fa Bossi già diceva che bisognava salutare i barconi a cannonate. Non è che la xenofobia leghista se la sia inventata Salvini. Non è che prima i Rom fossero i beniamini delle feste della Padania.
– Quelli che credono che Salvini – coi limiti strutturali del suo movimento – sia l’avversario più comodo per il PD:
…no, niente, spero tanto che abbiate ragione. Ma io temo i leghisti anche quando metton via gli elmi e indossano le felpe. 
come diventare leghisti, Renzi

O con Matteo, o con Matteo

E così, insomma, io che considero il referendum abrogativo di Landini un’opzione suicida, non ho niente di meglio da suggerire che attendere un altro referendum (quello confermativo sulle riforme costituzionali) e in quel momento ammucchiarmi con Berlusconi, Grillo e chiunque altro nell’occasione darà una mano ad affondare la nave di Renzi. A medio termine, cosa avrò ottenuto?

Andrà del tutto sprecato il tempo trascorso a discutere e votare le riforme (d’altro canto non sono davvero un granché, queste riforme: per evitare pasticci ci sarebbe bisogno di correggerle subito con ulteriori riforme, tanto vale ripartire da capo). Avrò umiliato Renzi, senza che sia ancora comparsa all’orizzonte un’alternativa credibile. Probabilmente la legislatura finirà subito dopo, e Renzi sarà ancora il candidato del PD. Tutto quello che spero di ottenere è lo spostamento del baricentro del PD più a sinistra. Non è un po’ poco? Ma soprattutto:

Non è la stessa cosa che propongo da dieci, vent’anni?

Sempre con questo baricentro da spostare, possibile che non mi venga mai in mente altro? La cosa angustia anche me, anche se qualcuno la chiamerebbe coerenza e magari ne andrebbe fiero: probabilmente sono un riformista, uno che ha come obiettivo la realizzazione di un grande partito socialdemocratico all’europea che punti all’egemonia nel Paese, e dunque da quando c’è il PD (ma anche prima) non faccio altro che spingere il PD come una formichina spinge un pachiderma. Nel frattempo i grandi partiti socialdemocratici europei non se la stanno passando un granché bene: forse siamo alla fine di una certa dialettica novecentesca tra socialdemocrazia e conservatorismo liberale, ma io continuo a spingere imperterrito. Le altre opzioni le trovo ancora meno ragionevoli.

O meglio: le altre opzioni secondo me si riducono a una sola. Siamo a un bivio, come sempre. Non si tratta di scegliere tra sinistra e destra, né tra Renzi e anti-Renzi. Credo che alla prossima consultazione la scelta sarà tra Euro e non Euro: e che tutto il resto, Renzi incluso, sarà subordinato a questo: vogliamo l’Euro? Dovremo tenerci Renzi, ancora per un po’. Non vogliamo più l’Euro? È una prospettiva meno folle di quanto non fosse uno o due anni fa.

Due anni fa la vittoria di Hollande ci aveva fatto sperare nell’inizio di una nuova fase. La Francia socialista avrebbe potuto coalizzarsi con gli Stati indebitati del sud e rimettere in discussione la politica tedesca e nordica del rigore. Avrebbe potuto andare così, ma non è successo.

Persino Renzi prometteva che ne avrebbe discusso con la Merkel. È andata com’è andata. A chi avesse ancora dei dubbi, l’esito della trattativa Tsipras-UE dovrebbe esaurirli. Il rigore non si discute. A questo punto l’uscita dall’Euro diventa un’opzione. Dolorosa quanto si vuole, autolesionistica indubbiamente: ma è l’autolesionismo della disperazione. L’ultimo spazio a disposizione del condannato per negare agli altri il diritto di disporre di lui. Oggi, alla luce di quel che è successo negli ultimi anni, è giusto ricordare che l’uscita dall’euro sarebbe un’opzione catastrofica, ma non necessariamente la più catastrofica. È lecito discuterne, non solo tra i fulminati dei blog di pseudoeconomia: vogliamo andarcene o restare?

Io ovviamente voglio restare, però gli antieuristi li capisco molto più oggi che in passato. Soprattutto non credo che nei tempi brevi la situazione politica ci concederà il lusso di una terza posizione: o saremo con l’euro (e con Renzi) o saremo contro. E con Salvini.

Mi dispiace metterla giù così brutale, ma in coscienza non credo che sia molto più complicata. Se si vuole perseguire una politica economica davvero alternativa a quella imposta da Berlino e Francoforte, occorre uscire. Purtroppo non esistono uscite a sinistra e uscite a destra: ce n’è una sola. Ritenete di meritare un partito più a sinistra del PD, un partito non compromesso col renzismo? Pensate che l’unità monetaria, così com’è stata realizzata, sia stata una cessione imperdonabile di sovranità? Salvini e Grillo saranno i vostri alleati naturali. Ma anche la Meloni, e molti berlusconiani tra i quali magari Berlusconi stesso.

Un’alleanza trasversale anti-euro al momento è l’unica che può mettere Renzi in difficoltà. È uno dei motivi per cui il ballottaggio è pericoloso: mentre è al momento impensabile una coalizione Grillo-Berlusconi-Salvini (anche se la pensano allo stesso modo quasi su tutto), al secondo turno sarebbero gli elettori dei rispettivi partiti a superare le diffidenze dei vertici e concentrarsi sull’unico candidato anti-euro rimasto in lizza. Grillo non voterebbe mai per Salvini, ma l’elettore di Grillo non avrà le stesse pregiudiziali. E anche l’elettore di sinistra anti-euro non dovrebbe averne. A nessun eventuale partito di sinistra – ammesso che si riesca a riorganizzarne uno – sarà concessa l’ambiguità con cui Syriza vinse le elezioni: dentro l’euro ma contro l’austerità. Dentro l’euro ma forse fuori. Tsipras bluffava anche per noi: Bruxelles ha visto le carte, fine dei giochi. Ora siete liberi di pensare che l’Italia possa risolvere i suoi problemi rimettendosi a coniare moneta. Ma non siete più liberi di cercarvi un candidato: quel posto se l’è preso il ragazzone arrogante con le felpe.

Mi dispiace, forse non doveva finire così, ma qui le nostre strade si separano. Ci vediamo dall’altra parte.

Berlusconi, come diventare leghisti, Renzi

Del ridursi a sperare in Silvio; nella sua ragionevolezza

Con quella sua faccia sempre più di cera, tesa dietro gli occhialini da pokerista non vedente; con le sue condanne in via definitiva e la fidanzatina col guinzaglio; col suo partito sempre più leggero, tanto simile a una squadra che dopo aver vinto tutto si è stancato di pagare; col suo impero di antenne sempre fragile, sempre a un passo dall’invasione dei barbari, eppure dopo quarant’anni è ancora lì; ma come si deve sentire Silvio Berlusconi al pensiero che se volesse, se solo volesse, potrebbe davvero riprendersi l’Italia in un paio di mosse – neanche particolarmente astute. E come dobbiamo sentirci noi, a dover dipendere dalla sua ragionevolezza, dal senso di responsabilità di un tizio che racconta scemenze allarmiste sull’Ebola in diretta.

E vorrei tanto sbagliarmi, ma davvero, è così fragile il filo che tiene Matteo Renzi appeso alla sua macchina teatrale di leader della nazione; così debole il suo consenso, fatto ormai più di gente che si astiene che di gente disposta a votare per lui. Basterebbe un nonnulla, un piccolo colpetto, un ago di bilancia, per disarcionarlo e riportare una destra di popolo al potere; e Berlusconi è molto più di un ago. Non è più Van Basten, siamo tutti d’accordo; forse non avrebbe neanche più i soldi per comprarselo; ma oggi il campionato in Italia si vince con molto meno. Se Renzi non è il fenomeno carismatico e politico che a un certo punto abbiamo tutti sperato che fosse (anche i suoi oppositori, per avere almeno qualcosa di interessante a cui opporsi), Salvini è, con tutta la più buona volontà, un calzino rattoppato che può credersi qualcuno soltanto nel Paese delle mezze calze. I media credono in lui come si crede al campioncino del momento, quello che ha infilato tre gol in tre partite e in primavera starà già annaspando. Bossi ha deluso, Grillo ha deluso, Renzi è quel che è, buttiamoci su Salvini. È una bolla come un’altra, potrebbe scoppiare da un momento all’altro; ma se invece Berlusconi volesse investirci davvero? Non avrà i soldi del ’94, ma – no, aspetta, nel ’94 aveva forse più debiti che adesso. L’asta poi rischia di andar deserta, l’Italia oggi vien via per molto meno.

Attenzione, non basta misurare la popolarità attuale di Salvini e moltiplicarla per i ripetitori di Silvio Berlusconi. Bisogna anche calcolare cosa succederebbe dal momento in cui Renzi smettesse di essere, per la stampa e per le tv mediaset, quel simpatico bischero con tanta genuina voglia di fare che può andare da Barbara D’Urso a vendersi gratis. Dopo che Corriere, Repubblica e a momenti anche la Stampa hanno voltato le spalle, nel momento in cui metà dell’etere nazionale cominciasse a pompare un Salvini cacciazingari ma dal cuore d’oro, anti-euro ma con giudizio, e Renzi si ritrovasse davvero solo col suo twitter. Tutto questo magari all’indomani del varo di una legge elettorale concepita per regalare legislativo, esecutivo e quirinale a chiunque arrivi primo, e il secondo a casa. Quanto spero di sbagliarmi quando penso che da uno scenario del genere, in sostanza un sogno bagnato di Borghezio, mi separa soltanto la coscienza di un uomo.

Un uomo con quella faccia di cera e gli occhialini da pokerista cieco, e la ragazza trofeo col cagnetto; un tizio che non è detto che abbia una coscienza – non quella che io chiamo coscienza – ma posso soltanto sperare abbia ancora quel tanto di raziocinio da capire che appaltare la baracca a Casa Pound e avviare procedure per l’uscita dell’euro (anche solo per finta) non conviene, per primo, neanche a lui e alle sue aziende. Non mi aspetto che abbia a cuore il destino dell’Italia e dell’Europa; ma almeno delle sue aziende.

Poi penso a come ha lasciato ridurre il Milan, e davvero, mi preoccupo.

Perché dietro a quegli occhialini e quella faccia di cera potrebbe pure esserci qualcuno che a questo punto ci odia – non gli mancherebbero i motivi; qualcuno ben disposto a lasciarci distruggere, anche solo per dimostrare ai suoi figli che lui, solo lui era il migliore, e senza di lui nessuno sarà mai più buono a combinare qualcosa.

(PS: anche per questo motivo, io ritenevo e ritengo che Cologno dovrebbe essere distrutta).

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Salvini, il razzista utile

Ho questo puerile motivo d’orgoglio, per cui spero mi scuserete: qualche anno fa, nel momento più buio della storia della Lega Nord, quando molti la davano spacciata, io scrissi che secondo me avrebbe retto la botta degli scandali del clan Bossi. E mi ritrovai sul sito dell’Unità a sciogliere un elogio a Matteo Salvini, che non era ancora segretario né in pectore né in felpa, ma già stava dimostrando quella dose di bronzo facciale necessario per traghettare un movimento di secessionisti immaginari nel nuovo mondo postberlusconi. Era la primavera del 2012, un’altra era geologica: né Renzi né Grillo erano ancora scesi in campo. Salvini era già più o meno lì: il fatto che oggi riesca a proporsi come l’uomo nuovo ci dice molto sia sulle sue capacità, sia sulla cronica smemoratezza di chi è già disponibile a cascarci un’altra volta.

Magari i numeri, quando usciranno davvero, ci sorprenderanno come al solito: ma per ora Salvini è il miglior avversario che Renzi si possa augurare. Le sue sparate anti-euro sono ideali per parassitare l’elettorato grillino e cannibalizzare quello berlusconiano, indebolendo i due partiti concorrenti senza riuscire a risucchiarli completamente: le sbandate razziste lo rendono allo stesso tempo popolare e impresentabile. Salvini non può diventare l’uomo della provvidenza del centrodestra; il movimento che lo sostiene ha limiti strutturali enormi (da Bologna in giù). Allo stesso tempo finché c’è lui in scena è difficile che l’attenzione dell’elettorato di destra-centrodestra si coaguli intorno a qualche altro candidato più credibile, che finora non è saltato fuori. Molti voteranno Salvini in mancanza di meglio; ma molti altri, piuttosto votare un tizio del genere, sosterranno Renzi. Che ha tanti difetti, ed enormi; ma insomma, vuoi mettere?

Prendi me. Tra due settimane in Emilia-Romagna si vota e, salvo ripensamenti, mi concederò il lusso di non votare PD. Non si tratta, almeno nelle intenzioni, di un voto di protesta contro il governo Renzi: peraltro è difficile immaginare che il partito riesca a perdere le elezioni qui da noi: non dico che non ci si stia provando in tutti i modi, ma sarebbe un’impresa storica, la prima sconfitta dal dopoguerra. Questa continuità estenuante, che ha ragioni storiche ma che alla lunga sta causando una degenerazione della classe dirigente, mi ha spinto più volte a votare altrove: quasi sempre un po’ più a sinistra. Farò così anche stavolta e probabilmente il mio voto andrà disperso. Almeno non voterò Renzi, visto che non mi sta piacendo. Ma tra due anni?

Tra due anni – uno più uno meno – si andrà a votare per la Camera con un sistema che non è ancora definito, ma che sicuramente polarizzerà le opzioni. Da una parte dunque Renzi, e dell’altra magari un Salvini o comunque un salvinoide anti-euro, anti-immigrazione, anti-zingari, ecc. A quel punto il voto a Renzi rischia di diventare un voto contro il razzismo, il fascismo, i pogrom, eccetera. Salvini potrebbe essere quello che Jean-Marie Le Pen fu nel 2002: il candidato impresentabile che al ballottaggio costrinse i socialisti francesi a ingoiare antiemetici e votare Chirac. Un razzista sciovinista ributtante ma – dal punto di vista di Renzi, e di chi lo sostiene – decisamente utile.

come diventare leghisti, ho una teoria, Pd

Di Calderoli (non si butta via niente)

Speravo non arrivasse mai quel giorno, e invece eccomi qui a cantare le lodi dello statista più abile e improbabile d’Italia, Roberto Calderoli. Cosa mi sta succedendo? E siamo sicuri che sia un problema solo mio?

Nei mesi scorsi mi è capitato più volte di criticare, dal mio trascurabile punto di vista, le bozze di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione portate avanti dal governo e dalla ministra Boschi. Sia nella loro versione marzolina – quando il Senato per un po’ fu ribattezzato Assemblea delle Autonomie, senza che si capisse bene su cosa avrebbe legiferato e perché – sia quella bozza successiva in cui, siccome la sproporzione tra regioni più o meno popolate non sembrava sufficiente, qualche buontempone aveva deciso di nominare senatori i sindaci dei capoluoghi di regione. Un nonsense completo che sembrava aggiunto apposta per essere cassato in un secondo momento, e infatti è andata così. Il testo che oggi fa ancora discutere, principalmente per la questione dell’immunità, è comunque molto migliorato. Non è il mio testo ideale, ma mi riconcilia col partito che ho votato alle europee. Non fosse che molti di questi miglioramenti si devono al fatto che ci abbia messo le mani Roberto Calderoli.

Proprio lui, il leghista col maialino al guinzaglio. L’unico ministro al mondo a essersi dovuto dimettere per aver causato una sommossa popolare mostrando una maglietta in tv. Pare che sappia scrivere le leggi meglio dei ministri PD. Questa per la verità non è del tutto una sorpresa… (continua sull’Unità, H1t#236).

Chi segue più da vicino la cronaca parlamentare ci raccontava già da anni di un Calderoli paziente diplomatico, assai diverso da quello che poi alle feste leghiste chiamava la Kyenge “orango tango“. Da cui l’orribile dubbio: è migliorato Roberto Calderoli, o siamo peggiorati tutti, al punto che persino il vecchio suino ormai ci fa la figura di statista? Nel nuovo testo non esiste più quel bizzarro club dei ventuno amici del Quirinale, nominati dal presidente della Repubblica, che avrebbero potuto fare da ago della bilancia in situazioni molto delicate (per esempio la rielezione del Presidente stesso). Ora sono soltanto cinque, una quota molto più accettabile. Ma ce lo doveva spiegare Roberto Calderoli che ventuno erano un po’ troppi?
Nel nuovo Senato non entreranno più i sindaci dei capoluoghi di regione, grandi o piccoli che siano. Si reintroduce finalmente il concetto di proporzionalità: le ragioni più popolate avranno più rappresentanti di quelle meno popolate. Sembra una banalità, ma c’è voluto un emendamento di Calderoli. E della Finocchiaro, certo. Ma fa più effetto pensare che a sventare ogni sospetto di incostituzionalità sia intervenuto proprio Roberto Calderoli.
Persino il suo punto di vista sull’immunità è tutto sommato condivisibile: se i deputati, in quanto eletti dal popolo, godono di un trattamento speciale, non si capisce perché non dovrebbero goderne anche i senatori. Avrebbe davvero più senso eliminare l’immunità per gli uni e per gli altri. Nel frattempo la reazione populista è già scattata, ma era inevitabile: i sindaci-senatori restano una pessima idea. Renzi ci tiene tanto, un po’ perché non ha mai smesso di sentirsi sindaco, e un po’ perché vuole risparmiare sugli stipendi. Il senato che ne risulterà però sarà formato da politici eletti da altri politici: l’obiettivo ideale di tutti i savonarola anti-casta.
Queste e altre obiezioni, fin qui, non avevano smosso il governo. Renzi aveva un progetto preciso – di questa riforma si parlava già ai tempi della prima Leopolda – e, soprattutto, ci aveva “messo la faccia”. La proposta alternativa di Chiti è stata liquidata quasi come un atto di sabotaggio. Non restava che sperare in Calderoli – e Calderoli non ci ha deluso. Ora la legge proseguirà il suo percorso. Se un Berlusconi incattivito dai suoi incidenti giudiziari facesse mancare la maggioranza la legge potrebbe passare comunque con un referendum confermativo. E io mi troverei nella situazione di votare una riforma del Senato e del Titolo V non perfetta ma accettabile – salvo che non lo era, finché non ci ha messo le mani Roberto Lanciafiamme Calderoli.
Sono davvero a questo punto? Ed è un problema solo mio? http://leonardo.blogspot.com
Beppe Grillo, Berlusconi, come diventare leghisti, elezioni 2014, Renzi

#HaVintoLui

In base a un sondaggio che non si può pubblicare, anche perché nessuno lo ha fatto, io credo di potervi comunque annunciare che Beppe Grillo ha vinto – no, il M5S no, non necessariamente. Ma Grillo sì, anche se non si è candidato. Ha vinto lo stesso, nell’unico modo in cui poteva vincere, che è anche il peggiore. Domenica sera chiuderanno i seggi e spoglieranno le schede, tireranno le somme e ci diranno che Renzi è andato bene, anzi benissimo, o che Berlusconi tutto sommato tiene, e la Lega, eccetera eccetera, ma l’unica vittoria se l’è già presa Beppe Grillo.

200 poliziotti in più! che inseguiranno i ladri a piedi.

Se l’è presa nel momento in cui Silvio Berlusconi ha cominciato ad annunciare nei suoi comizi tv che vuole abolire Equitalia: le stesse esatte parole del programmino che Grillo aveva steso nella fase finale della campagna 2013. “Abolire”, “equitalia”. Se l’è presa nel momento in cui Renzi ci ha informato che a mò di copertura avrebbe abolito le province, o messo le auto blu su ebay, e poi l’ha fatto davvero. O quando ha cominciato a chiamare i suoi critici #gufi e #rosiconi. Se l’è presa quando Matteo Salvini, prima di cedere la sua piccola attività politica a un curatore fallimentare, si è messo a googlare “euro” “COMPLOTTO” “banche” “svegliaaaa!” e ha trasformato la Lega nel partito antieuro. Se l’è presa in quel momento qualsiasi a cavallo tra ’13 e ’14 in cui tutti i suoi avversari hanno cominciato ad andare a lezione da lui.

Più fiorini per tutti.

Chiunque avrà vinto lunedì, festeggerà con le parole di Beppe. Magari con gli hashtag di Beppe. Vincerà per aver copiato qualche promessa di Beppe, nel tentativo di strappare a Beppe qualche elettore. In base a un sondaggio che non ha nemmeno più importanza fare, Beppe Grillo ha già vinto.

Berlusconi giustizialista, rifletteteci.
A 77 anni quest’uomo riesce ancora a stupire

E non è tutto sommato la cosa peggiore che poteva capitarci: coraggio, se vince Grillo almeno l’Italicum non si farà. Giustamente: una legge così brutta nemmeno Grillo poteva scriverla. Non è uno scherzo: la proposta di legge elettorale del M5S è comunque bruttina, e a tratti assolutamente balorda. Ma decisamente migliore di quell’offesa al senso comune e alla democrazia buttata già da Berlusconi su cui Renzi doveva assolutamente mettere la sua bella faccia. Grillo non vince soltanto perché le parole d’ordine ormai le detta lui; vince anche perché, di fronte a contendenti costretti a scimmiottarlo, finisce per sembrare quasi il più lucido.

alta Italia, come diventare leghisti

L’artigianissima indipendenza veneta

Ritorno a Capannonia. 

Tutto può darsi. Compreso che un giorno risorga davvero una Serenissima Repubblica Veneta libera e indipendente, da Belluno a Dubrovnik (ma perché non Nicosia). Che nei futuri libri di Storia, nelle wikipedia future dettate nella nobile lingua di Goldoni e Zanzotto, i secoli oscuri tra Campoformio e la prossima secessione siano definiti come un insulso interregno, un periodo in cui i veneti furono soggiogati da francesi, austriaci e – somma ingiuria – italiani, persino italiani. Può darsi che un giorno lo stendardo di San Marco sventoli di nuovo sui municipi dalla Val Trompia alla Dalmazia, e che alla loro ombra si scoprano monumenti agli indipendentisti di Brescia Patria e Veneto Stato, che oggi ridicolizziamo e che quel giorno saranno onorati come patrioti ed eroi. Tutto può darsi, compreso che le cose vadano davvero così.

Consentitemi però di dubitarne.

www.linkiesta.it

Se non altro perché – che io sappia – fin qui non è esistito un solo movimento rivoluzionario o indipendentista al mondo che abbia previsto come prima fase di lotta la trasformazione artigianale di un trattore in un carro armato. È ben strano, no? che un’idea tanto buona non sia venuta in mente per prima a Michael Collins, o Mao Tse-Tung, o Che Guevara. E non una volta sola, ma due volte in vent’anni, malgrado tutte le considerazioni di natura anche semplicemente tattico-logistica, determinate peraltro dall’esclusiva natura che fa della capitale dei veneti una città unica al mondo: una città dove sono bandite le automobili, figurarsi i cingolati. Capirei ancora un motoscafo; ma l’idea che tutto sia possibile, l’insurrezione di popolo e di piazza, purché si riesca a piazzare almeno un paio di cingoli in Piazza San Marco, è qualcosa che sfida la nostra capacità di restare seri.

Possibile che una nazione millenaria, che sfidò imperi cristiani e islamici e seppe tener loro testa per tutto il medioevo e l’età moderna, possibile che debba necessariamente risorgere in un capannone, fissando mitragliette a una ruspa. Questi artigiani che nelle loro officine truccano e saldano, come possono realmente pensarsi gli eredi di una nazione di mercanti cosmopoliti? Sembra quasi il contrario, una rivincita dell’entroterra operoso sulla laguna: Venezia come frontiera di qualcosa che resta saldamente ancorato a terra, alle province per secoli contadine e poi, per un tempo breve, troppo breve, motore ausiliario dell’Italia industriale. L’ultimo ad andare in rodaggio veramente – nel dopoguerra era ancora zona depressa – e di conseguenza il più deluso per la fine di un benessere che ha fiutato per poco, una generazione appena: e tirando un po’ troppo su col naso, se mi è concesso.

Mi è concesso. Mi separano dal Veneto terragno settanta chilometri, un’inflessione più celtica, e nient’altro. La rabbia e la frustrazione che si vedono in giro sono le stesse, e fondate sulle stesse basi malferme: l’idea che ci sia stato tolto qualcosa che doveva essere nostro per diritto, benché lo avessimo appena afferrato. I cinesi non si dovevano permettere di uscire dal sottosviluppo e farci concorrenza abbattendo i costi della manodopera. I turchi non dovevano attentarsi a comprare a prezzi di rottami i telai industriali che smantellavamo. Noi eravamo i leader del settore, i più bravi, ce lo dicevano tutti, lo saremmo ancora, è colpa dell’euro. Della Cina. Del comunismo. Del partito democratico. Degli extracomunitari. Dei politici ladroni.

Il tanko nel ’97: a chi appartiene?
Chi ha deciso di esporlo alle fiere?

Al bar con un po’ d’impegno puoi riuscire a dar la colpa a tutti in una frase sola: sarà colpa dei comunisti del partito democratico in combutta coi cinesi e gli extracomunitari in genere che hanno governato per sessant’anni regalandoci l’euro. Chi dice queste cose non ha dedicato molti anni del proprio percorso all’istruzione, né era previsto che lo facesse: fino a qualche anno fa chi si laureava, in zona, guadagnava a trent’anni la metà di chi aveva iniziato a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata – e anche oggi, che una laurea fa comodo pure per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura ti offra le soluzioni: ti fa solo vedere meglio i problemi. Se hai studiato economia sai che la piccola impresa è spacciata, con o senza euro: conviene scappare. Se hai studiato idraulica sai che il momento in cui i vasi comunicanti della forza lavoro mondiale ritroveranno un equilibrio è ancora lontano. Se ti sei laureato in filosofia puoi prenderla con filosofia. Chi ha iniziato a lavorare a sedici anni può trovarsi con le mani che lavorano da sole, in officine che lasciar vuote è un peccato; qualche pezzo di ricambio ormai era stato ordinato, e in breve il tanko è come se si costruisse da sé: sta al piccolo artigiano come il bozzo al baco di seta, una fiaba a Carlo Gozzi.

Ma metti la comodità,
vai all’estero e a sera sei a casa.

Nel frattempo il cervello si dà da fare per trovare una giustificazione, l’autonomismo, certo, l’indipendentismo, certo, certo, la Serenissima. Ma il Veneto dei dogi, la crudele multinazionale che si vendette persino i resti di mamma Bisanzio, e bombardò il Partenone; la Venezia che trionfò a Lepanto e resistette altri due secoli inventando il turismo di lusso, non c’entra davvero molto. La patria che hanno in mente gli hobbisti che saldano mitragliette ai motocingolati è l’eroica Capannonia, quel nano-paese tutto villaggi industriali, tutto fabbrichette, il residuo emotivo di un sogno durato una generazione e mezza: la Piccola Impresa. Si stava così bene quando abitavamo tutti sopra l’officina del papà. Tutti proprietari, tutti padroncini, tutti con una mercedes o una porsche in leasing, perché è finito tutto questo, perché? Maledetto euro.

Non è nemmeno una coincidenza che, con tante cause perse in cui buttar via i soldi, i parlamentari cinquestelle abbiano deciso di devolverli a un fondo per la Piccola-Media Impresa: un sogno così italiano, forse iscritto nel nostro destino territoriale: in fondo siamo davvero piccoli, e a parte qualche parentesi incresciosa non abbiamo mai molto sgomitato per conquistarci altro spazio vitale. Chi ha studiato Storia sa, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com’era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco De Gama vide le coste indiane: questo non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo il diritto. Forse l’Unesco dovrebbe fare qualcosa per i nostri Capannoni, dichiarare il nostro cemento unico al mondo. Capannonia sorgerà come una piccola patria di officine – costruiremo tutto un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti e le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo le antiche ricette. Verranno i turisti non solo a carnevale, saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova, il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c’è bisogno di dirlo, abolita. Insomma Capannonia un senso ce l’avrebbe, una storia potrebbe avercela, io che ho studiato storie forse mi ci dovrei applicare, mi domando se in fin dei conti non sia mio preciso dovere di padano.

Invece ripasso geografia, di solito a questo punto dell’anno siamo nei pressi del Canada e io richiamo l’attenzione su alcuni dati: è il secondo Paese del mondo per estensione, più grande degli USA, ma ha un decimo dei suoi abitanti. Un sacco di spazio, insomma. Certo non è coltivabile, per adesso; bisogna vedere come si scioglierà il permafrost. Nel frattempo si è aperto anche il passaggio a nordovest, pensate. Insomma è là in alto a sinistra sul planisfero, lo avete visto? Si parlano inglese e francese, un motivo in più per studiarle bene.

cinema, come diventare leghisti, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo

La Brianza è un groppo in gola (che non va né su né giù)


Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014)

Quanto costa una vita intera? Nulla: un’imprudenza, un sentiero di notte, una jeep che sbanda, un cellulare spento. Oppure cinquecentomila, ma facciamo anche settecento, novecento; un lotto in centro, un teatro, tutti i tuoi sogni di essere una persona migliore, la faccia che guarderai allo specchio da quel giorno; e un bacio. Per chi li pagheresti. Per la persona che ami o per quella che ti fa sentire più in colpa? C’è qualche differenza? A diciott’anni, forse c’è. A quaranta, a quaranta magari mi capirai. Ma non te lo auguro.

Del film ormai avete letto tutto. Avete fatto male, scordatevi tutto: le polemiche preconfezionate sulla Brianza, le tirate sulla crisi-dei-valori, sulla civiltà-del-denaro eccetera. Ognuno poi ha il diritto di vendere il proprio prodotto come può, ma Il capitale umano è un film più intelligente di quello che vi stanno presentando in tv e sui giornali. Che poi leghisti cari è troppo facile prendersela con Virzì: chi ha le palle per denunciare i pregiudizi coi quali William Shakespeare sfigurò i sani e operosi cittadini della Verona medievale? Il Capitale umano non parla di Brianza più di quanto parli di Connecticut o di qualsiasi altro distretto imborghesito del mondo; non demolisce la nostra generazione (senz’altro povera di valori e assetata di denaro) più di quanto non demolisca qualsiasi altra; a Romeo e Giulietta in fin dei conti è andata bene. Fossero invecchiati, avrebbero senz’altro costretto i figli a un matrimonio d’interesse. Se pensate di trovarvi davanti all’ennesimo romanzo di una grande famiglia spietata e decadente, potreste uscire delusi: non so se quanto Virzì Piccolo e Bruni ne siano consapevoli, ma il pescecane della finanza esce dal film meglio di quasi tutti i comprimari. Forse erano così convinti che bastasse metterlo a capotavola di consiglio d’amministrazione per renderlo il Cattivo; non hanno spinto il pedale del grottesco, e il risultato è un Gifuni mediamente stronzo, ma assolutamente umano.


Quel che è riuscito a fare Bentivoglio col suo bauscia, invece, ha del miracoloso. Sul suo personaggio il film rischiava tutto. Sappiamo che Virzì arriva al drammatico dalla commedia all’italiana – sappiamo anche che non è stato un movimento così brusco; che il dramma se lo portava dentro sin dal primo film. Ma da quel tipo di commedia Virzì portava un gusto grottesco dei personaggi, soprattutto secondari, che la sensibilità per le stratificazioni sociali e culturali rendeva spesso dei bozzetti: il professore de sinistra, il figlio di papà, il pancabbestia, eccetera. Potevamo pensare che passando al thriller Virzì avrebbe rinunciato ai bozzetti (già negli ultimi due film erano più rari, benché indimenticabili). Ci sembrava giusto. Anche se ci sarebbe dispiaciuto, perché diciamo la verità: a noi i bozzetti grotteschi di Virzì sono sempre piaciuti; sono uno dei motivi per cui Virzì ci piace più di tutti i suoi compatrioti, ormai, e forse questo non fa di noi dei veri cinefili ma non ce ne frega niente, noi daremmo dieci Jep Gambardella o come cavolo si chiama per un altro prof Iacovoni. Anche se all’estero nessuno se li filerà mai, i tuoi leghisti in cravatta verde e il Va’ Pensiero che gli suona in tasca, i tuoi critici teatrali sudici o sociopatici. C’è un personaggio che sta in scena tre secondi tre – la sorella dello speculatore – ed è perfetta, noi amiamo Virzì per queste cose. Detto questo, non puoi pensare che uno stereotipo di bauscia possa reggere la prima mezz’ora di un thriller. In teoria, perlomeno. Poi ti ritrovi davanti a Bentivoglio, conciato com’è conciato. Ha a disposizione una paletta ristrettissima, deve parlare come Faso di Elio e le Storie Tese attraverso un ghigno congelato da caratterista di commediaccia sexy. Non puoi provare angoscia per un tizio così.

Non puoi? (continua su +eventi!)

come diventare leghisti, governo Letta, razzismi

Si scherza, maiale

Suona il telefono, tu stai sicuramente facendo qualcosa di più interessante. Però chi lo sa, magari è una chiamata importante; così rispondi. È Calderoli.

Calderoli che balbetta e che t’informa che nelle prossime ore, su internet e sui giornali, compariranno notizie su di te, su di lui, che sono tutte una montatura, insomma lui non voleva dire quello che è stato detto da lui, un casino, un gran casino. Sarebbe probabilmente un casino anche se non provasse a spiegartelo Calderoli. Ma, insomma, per farla breve: orango tango.

A capo di cinque minuti, cinque minuti della tua vita che sarebbero preziosi anche se non fossi un ministro della repubblica, hai capito più o meno questo: Calderoli durante un comizio ti ha dato dell’orango tango. Però la cosa è arrivata ai giornali e quindi Calderoli adesso si sta scusando con te. Calderoli infatti non intendeva davvero paragonarti a un orango tango. Cioè, insomma, Calderoli a un comizio ha evocato un orango tango, ma si sa cosa succede ai comizi, no? Ai comizi leghisti, insomma. Si beve, si canta, se ne dicono tante, e insomma… orango tango. Ma non voleva veramente dire orango tango. Se non fosse stato un comizio, se non fosse stato Calderoli, non avrebbe mai detto orango tango. Purtroppo è capitato di essere a un comizio, ed essere Calderoli. Ma poteva capitare a chiunque, no? Di nascere Calderoli. Non lo si può veramente incolpare di questo, e così in un qualche modo bisogna pure perdonarlo, congedarlo, metter giù il telefono, ché i minuti sarebbero preziosi anche se non fossero i tuoi.

Solidarietà al ministro Kyenge, che ha ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe ricevere, e pare sia riuscita a metter giù senza mandarlo a cagare. Io non sono ministro della repubblica e quindi posso: Calderoli, da bravo, a cagare. E attenzione: quella cosa che ai maiali piace razzolare nelle loro feci… è una leggenda. Lo fanno solo se sono costretti, in cattività. Sono animali relativamente puliti. Anche tu hai ancora tanto spazio a disposizione, pulisciti almeno la bocca.

come diventare leghisti, ho una teoria, italianistica

Di libri basta uno per volta

La mia solidarietà al sindaco di Verona Flavio Tosi, che ieri, nel tentativo di difendere il buon nome di Alessandro Manzoni dalle sparate stagionali del suo ex boss, Umberto Bossi, ha commesso una gaffe tutto sommato comprensibile. Bossi, lo avrete sentito, aveva definito Manzoni “un grande traditore, una canaglia“, per via di quel famoso risciacquo dei panni in Arno, grazie al quale gli italiani dell’Ottocento ebbero una lingua letteraria moderna molto prima che una nazione. Per l’ex leader della Lega si trattò di un tradimento, ordito da un “re”; non è ben chiaro quale, visto che nel 1827, mentre Manzoni si stabiliva a Firenze col proposito di migliorare il suo italiano, sul trono sabaudo sedeva ancora l’arcigno Carlo Felice.

A Bossi, comunque, Tosi ha replicato che “Manzoni ha scritto dei romanzi meravigliosi, veramente avvincenti: è un grande della letteratura italiana”. Sono parole commoventi, anche se non venissero da un esponente della Lega Nord, anche se le avesse proferite un italiano qualunque: è sempre commovente vedere che malgrado tutti gli sforzi della scuola per farcelo odiare, Manzoni continua ad avere degli ammiratori genuini, anche ingenui, come ad esempio il sindaco Tosi.

L’ingenuità di Tosi è tutta qui… (continua sull’Unita.it, H1t#139).

L’ingenuità di Tosi è tutta quiper quanto Manzoni sia un grande autore, un classico della nostra letteratura, non si può proprio affermare che abbia scritto “dei romanzi meravigliosi”, per il semplice e tristissimo motivo che ne ha scritto uno solo: i Promessi Sposi. Certo, lo ha scritto almeno tre volte. La prima stesura era così diversa che per molti studiosi si tratta di un romanzo a parte; gli hanno anche trovato un nome, il Fermo e Lucia. Però alla fine si tratta di uno scartafaccio che Manzoni non volle mai pubblicare; e la storia è più o meno la stessa che leggiamo nell’unico romanzo pubblicato.
Tosi è stato veramente sfortunato. Con qualsiasi altro romanziere, quel plurale (“romanzi meravigliosi”) sarebbe andato benissimo. Di solito di romanzi uno scrittore ne scrive più di uno, se non muore veramente giovane. Manzoni è l’eccezione. Un’eccezione veramente straordinaria: cominciò a scrivere di Fermo e Lucia nel 1823 (aveva trentasei anni); terminò di pubblicare l’ultima versione nel 1842, quasi vent’anni dopo. Nel frattempo scrisse tantissime altre cose: due tragedie, e tanti saggi, tra i quali uno a proposito “Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione“, in cui si conclude che questi romanzi misti di storia e invenzione (reality e fiction, si direbbe oggi) sarebbe meglio non scriverne più. E infatti non ne scrisse più, costringendoci a concentrarci su quel suo unico meraviglioso e tormentato tentativo. Se ne avesse scritto anche solo un altro, magari i Promessi sposi non sarebbero diventati quell’orribile feticcio scolastico che a tutti ricorda almeno un’interrogazione finita male.
Tosi non si è fermato lì, ma è riuscito persino a indicare il nome di un altro romanzo di Manzoni: la Storia della colonna infame, che un romanzo effettivamente non è, anche se è difficile indicare che cosa sia. All’inizio era un blocco di pagine all’interno del Fermo e Lucia, che poi prese un’altra strada. Sicuramente è una cosa “meravigliosa” e “avvincente”: su questo il sindaco di Verona ci ha azzeccato. È anche un’opera straordinariamente moderna, in cui si narra senza concessioni alla fiction un orribile fatto di cronaca del Seicento, un processo-farsa intentato a due untori, e si riflette sulla credulità umana, sulla macchina giudiziaria, sulle dinamiche dell’infamia, eccetera – forse è il libro di Manzoni che è più attuale oggi. Purtroppo no, non è un romanzo, ma è davvero più interessante di tanta roba esposta nelle vetrine quest’estate; forse varrebbe la pena di chiamarlo “romanzo”, giusto per farlo leggere a chi dai saggi si tiene rispettosamente lontano. Non sarebbe certo la prima volta che si fa passare per romanzo una cosa che non lo è, e in fondo che c’è di male? Vuoi vedere che in fin dei conti Tosi non ha tutti i torti?http://leonardo.blogspot.com
Bossi, cattiva politica, come diventare leghisti, ho una teoria, Pd

Il leghista di bronzo più perenne

Lo so che probabilmente non è né il luogo né il momento, ma in fondo all’Unità mi hanno sempre lasciato scrivere tutto quello che volevo, e stamattina voglio scrivere qualcosa che mai avrei immaginato: un elogio a Matteo Salvini, leghista infaticabile.

E dire che di tutti i leghisti era quello che a pelle sopportavo di meno. Forse perché suo coetaneo, ero portato a sottostimarne la consistenza. Mi indisponeva soprattutto quel suo eterno corruccio da malmaturo, provato e riprovato allo specchio: quella smorfia da camionista incazzato al bar, lui che in realtà veniva da un liceo classico e che probabilmente capiva più il greco antico che certi dialetti bergamaschi. Quando era europarlamentare davo per scontato che non riuscisse a capire dove si trovava e perché: amavo immaginare lui e il suo collaboratore Franco-fratello-di-Umberto Bossi che vagavano per Bruxelles senza riuscire a decifrare la mappa bilingue della metro, con grande scorno dell’Europa delle Regioni. Tutti pregiudizi, i miei, tutti parti dell’invidia. C’è voluta una congiuntura mondiale, il crollo del berlusconismo e l’esaurimento del bossismo, perché me ne accorgessi. Del resto è nella tempesta che si vedono i veri capitani, e Matteo Salvini questo è, un capitano coraggioso che non lascerà la Lega finché non sarà salva l’ultima donna, l’ultimo bambino, e poi calerà a picco con lei – ma non è detto.

Non è affatto detto. Gli ultimi sondaggi, vatti a fidare, dicono che regge sul sette per cento. Davvero niente male per un partito terremotato. Le ragioni della tenuta le hanno messe per iscritto in tanti: la Lega ha uno zoccolo duro, la Lega ha sempre un piede nell’antipolitica, la Lega non si è sporcata col governo Monti eccetera. La Lega, aggiungo io, può contare su cavalli di razza come Salvini, che in questi giorni in tv ci sta mettendo la faccia senza mollare, non indietreggiando davanti al ridicolo, regalando al suo partito performance assolute come quella di ieri da Giletti… (continua sull’Unità, H1t#123, speriam bene).

Gothenburg_Wreck

Elogio del leghista Salvini

Di fronte al tiro incrociato di qualunquisti e governativi, Salvini si è messo in faccia la solita smorfia e ha tirato dritto coi suoi soliti slogan, ormai dei mantra, ma perdio, funzionano. I-Leghisti-Che-Sbagliano-Pagano-Due-Volte. Cosa significhi non si sa, per ora non ha pagato niente nessuno, ma ormai quando lo dice ci credo anch’io. Congeliamo-La-Rata-Dei-Finanziamenti, una cosa tecnicamente impossibile, ma nessuno in sala osa farlo presente. La grande sceneggiata di Bergamo, nel suo racconto, è già Storia, è già Mito: una sala della Pallacorda, un soviet supremo, una cerimonia di purificazione, solo i leghisti sono capaci di spazzare via lo sporco dai loro vertici; forse perché solo i leghisti sanno dove si comprano ancora le vecchie scope di saggina (geniali! Per favore, politici italiani, licenziate tutti i comunicatori che vi tengono aggiornati gli inutili profili twitter, e assumete il leghista che ha avuto l’idea di sprayare la Ruota delle Alpi sulla scopa di saggina).
Mentre capitan Salvini lotta con tutte le sue forze sul ponte mediatico, in cabina di comando regna il caos. Il padre annebbiato del Trota blatera di complotti e minaccia di portarsi via il simbolo (sai che perdita: i leghisti un simbolo se lo reinventano in tre settimane, non sarebbe la prima volta). Maroni gongola troppo per tenere in mano il timone, Tosi sta già calando le scialuppe ché non si sa mai. In futuro sapremo se liquidare come unico capro espiatorio una signora che è al fianco di Bossi da sempre, e che sa tutto di tutti, sarà stata la manovra geniale che a prima vista non sembra. Forse alla fine la Lega colerà a picco, perché in realtà di manovratori capaci non ne ha molti. Ma sul piano della comunicazione, giù il cappello: c’è tantissimo da imparare.
Ieri da Giletti c’era anche un’esponente del PD a fare da sfondo all’eroico Salvini. Non importa quale; non ha fatto una figura altrettanto memorabile e non era nemmeno previsto che la facesse. Nemmeno il Veltroni dei giorni migliori, nemmeno un redivivo Berlinguer riuscirebbero ad apparire convincenti in questo momento, se l’ordine di scuderia è difendere i rimborsi elettorali a pioggia e la riformina proposta di concerto con UDC e PDL. Onore a chi ci prova, ma davvero l’impresa è impossibile. Tanto che ci si domanda se ne valga la pena.
Va bene, non facciamo i qualunquisti. La storia la sappiamo. Il PD non è un partito azienda, né un movimento d’opinione; è un partito di quadri, che non vivono solo della parola di Dio o di Bersani. La contrapposizione ventennale con Berlusconi non consentiva di andare per il sottile in materia di finanziamenti: il nemico era un tycoon, bisognava arrangiarsi. Ma c’era modo e modo, e Lusi probabilmente non è stato l’unico ad approfittarne. È andata così: però è inconcepibile che quella faccia di bronzo di Matteo Salvini dia lezioni al PD. È imbarazzante che Renzo Bossi, dimettendosi, mostri la via a Filippo Penati. Non è una questione di correttezza, non è una questione morale: è una pura e semplice questione di comunicazione. Quelli hanno scialato molto più di noi, ma ne stanno uscendo a testa alta, o perlomeno ci provano. Il PD è l’unico partito che si faceva controllare i bilanci, e in questi giorni si sta presentando come il difensore dei privilegi della casta partitocratica. C’è qualcosa che non va. Forse ci manca qualche faccia tosta, ma tosta veramente. Come quella di un Salvini. http://leonardo.blogspot.com
alta Italia, Bossi, come diventare leghisti

Scopa ciula scopa

La scopa di Damocle

A questo punto della settimana magari vi siete un po’ rotti di ascoltare discorsi sui malvagi leader leghisti disonesti che hanno deluso i militanti innocenti, i fieri attivisti che ce l’hanno ancora duro e puro. Vi va di sentire un’altra campana, magari un po’ stonata come certe squille lombarde dal battacchio fesso? Ecco, secondo me la questione morale leghista non esiste. Secondo me ai militanti leghisti non gliene è mai fregato niente che un Bossi o una Mauro o un eventuale Calderoli s’intascassero qualche rimborso o qualche mazzetta qua e là. Niente. Meno che zero. Io la penso così, anche perché l’alternativa è ritenerli tutti imbecilli, gli Elmi, dal primo all’ultimo: non dico che non ce ne siano in discreta percentuale, in fondo in molti distretti dell’Alta Italia è un prodotto tipico; ma tutti ciula, tutti mona, i leghisti, no.

Eppure è un po’ quello che in questi giorni si lascia intendere: vuoi per semplificazione giornalistica, vuoi per razzismo, vuoi perché talvolta agli stessi leghisti conviene recitare la parte dei tramortiti (guarda per esempio Bossi che alibi perfetto si è trovato). E così è da due settimane che ci raccontiamo che all’improvviso si è scoperto che la Lega ruba, ooooh! Siamo nati ieri, ci siamo dimenticati della CrediEuroNord, dell’Enimont, di qualsiasi pendenza giudiziaria di Bossi & co. Siamo nel 1992, stiamo tutti risparmiando le monetine per poi tirarle a Bettino Craxi. E facciamo finta di non ricordare che anche con Craxi andò così: tutti sapevano, tutti lasciavano fare, finché ad un tratto tutti si stancarono, tutti cascarono dal pero. Ma Craxi non cadde perché rubava. Aveva rubato per tanti anni e la gente ci scherzava su: alcuni persino orgogliosi dello stile che ci metteva, del decisionismo sbarazzino con cui ci sifonava. Craxi cadde perché a un certo punto gli italiani si resero conto che come ladro aveva fatto il suo tempo, che non era più un fattore di rinnovamento; il muro di Berlino era caduto e si voleva provare l’alternanza tra ladri di schieramenti diversi; magari controllandosi a vicenda avrebbero rubato meno, chi lo sa! Proviamo! E Craxi non voleva, Craxi diceva agli italiani non votate il referendum, andate al mare, Craxi da ladro internazionale e innovativo era all’improvviso diventato un reazionario brigante borbonico, e a questo Ghino di Tacco retrivo gli italiani dissero no! Al mare vacci tu. E non tornare più. Certo, la magistratura diede una mano, ma a volte, senza offendere, la magistratura italiana assume le movenze di quel tipo di bestia che prima di attaccare controlla che la preda sia già moribonda. Con Craxi andò così. Con Forlani andò così. Con Berlusconi no, Berlusconi moribondo non lo è nemmeno adesso. Con Bossi e il cerchio magico, invece…

La notizia non è che siano ladri. O pensate che il leghista fino a due settimane fa considerasse Renzo Bossi un infaticabile lavoratore e un brillante studente, fiore della meritocrazia insubre? Il leghista non è un abitante della luna, il leghista in fin dei conti è un italiano. Un arci-italiano, che in quanto tale tende a fottere lo Stato nella misura delle sue possibilità: se ha una fabbrica evade, se ha un’attività non fattura, se non ha niente si arrangia a non pagare le multe, l’importante è fottere qualcosa alla collettività. Uno così fino a sei mesi fa secondo voi si poneva il problema della dichiarazione dei redditi della famiglia Bossi? Che i Bossi suggessero risorse dello Stato era quasi doveroso, un ossequio allo spirito antistatalista e anarcoide del movimento. E se il senatur cominciava a essere troppo suonato per fregare, che almeno fregasse il figlio! E la moglie! E la badante! Quello che è successo negli ultimi sei mesi non è un’improvvisa riscoperta dell’insussistente etica leghista. Semplicemente, dall’ultimo raduno di Pontida in poi, i militanti si sono resi conto che Bossi è alla frutta. Fisicamente, non moralmente. Le avvisaglie si erano avute con la surreale avventura dei ministeri a Monza – intendiamoci, all’inizio la storia poteva avere un senso: nel momento in cui si scopriva il bluff del federalismo fiscale, bisognava trovare un diversivo, alzare l’asticciola delle rivendicazioni localiste, e quindi perché non spostare qualche ministero. Il problema è che invece di trasformare la richiesta in un semplice slogan, magari da portare in campagna elettorale, i leghisti quelle sedi le hanno volute aprire davvero: si sono visti un bluff da soli, indizio lampante di scarsa lucidità. Poi Pontida, il leader che raglia cose incomprensibili, un supplizio. Infine, lo scorso inverno, la figuraccia con Maroni, prima dichiarato indesiderato e poi frettolosamente recuperato. A questo punto la base aveva tutti gli elementi per formulare un giudizio preciso: mancava una scusa per liquidare il cerchio magico, e questo tipo di scuse in Italia la magistratura te le trova sempre, con un tempismo che a volta fa paura. Perché alla fine rubano tutti: però, in un qualche modo, quelli che rubano di più o più sfacciatamente, e che finiscono nei guai, sono quasi sempre i politici decotti.

Viene il sospetto che questa assurda legge, i rimborsi elettorali forfettari a fondo perduto, ce la siamo scritta così proprio per questo. Così siamo sicuri che rubano tutti: così, quando ci stanchiamo di uno o di un altro, la scusa per liquidarlo la troviamo in mezza giornata. Di sicuro è uno che ruba: se non ruba lui, ruba la sua compagna; o il figlio, o il tesoriere, qualcuno nei pressi che ruba c’è sempre: come potrebbe essere altrimenti, abbiamo innaffiato soldi dappertutto. I nostri rappresentanti hanno carta bianca: se non vogliono rendicontare le spese, pazienza: in compenso sanno di avere tutti una spada di Damocle placcata 24k sulle loro teste. Appena ci annoiano, appena ci infastidiscono, appena ci convincono di non essere più interessanti nemmeno per un siparietto a Ballarò, zac, sei un ladro, fuori dai piedi. E per una mezza giornata ci sentiamo anche dei severi censori, con la nostra brava ramazza in mano. Mandrie di ciula, questo siamo. Leghisti o no – non è un prerequisito necessario, no.

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I Bossi e gli allori

Sono i giorni della passione di Umberto Bossi: storia straziante, che nasce già intrecciata ad aneddoti leggendari. Si racconta per esempio che a far crollare il Capo non sia stata la confessione di questa o quella ruberia, ma la scoperta che il figlio non si stava laureando, come pure aveva solennemente promesso al patriarca. L’episodio sembra scritto da uno sceneggiatore geniale, che la politica italiana non si è mai meritata: se le cose fossero davvero andate così, Renzo Bossi avrebbe deluso Umberto Bossi proprio mostrando di essere degno figlio di suo padre, che i libretti universitari li truccava 40 anni fa, millantando coi famigliari lauree in medicina e inesistenti impieghi all’ospedale.

Bossi era quel personaggio lì, il boccalone pieno di inventiva che nei bar della Valpadana conosciamo bene; in seguito ha fondato una lega che è diventata un movimento che è diventata un partito che ha cambiato la Storia d’Italia e gli ha fruttato anche qualche soldino, ma non ha mai smesso di essere quello lì: uno che non ha bisogno di titoli per fiutare dove va il vento, uno che non lo freghi. E invece l’han fregato i figli, che Bossi in un qualche modo avrebbe voluto diversi da lui: lui ci ha provato a farli studiare, ma niente da fare. È il problema della seconda generazione, anche questo in Valpadana lo conosciamo bene: il padre ignorante ma di cervello fino fonda un’azienda, in questo caso un partito: i figli crescono svogliati, il padre li manda all’università e loro si comprano la laurea: se nostro padre non ne ha avuto bisogno per fare fortuna, perché dobbiamo perdere tempo noi? La crisi dell’imprenditoria italiana si può anche raccontare così: giovani virgulti che non hanno studiato ereditano aziende a conduzione famigliare che erano innovative e concorrenziali vent’anni prima. Non resta che piangere miseria, dare la colpa ai cinesi e abolire l’articolo Diciotto. Nel frattempo si vota Lega, il partito che non ti fa sentire ignorante. Ma forse c’è un equivoco. (Continua e si commenta sull’Unita.it, H1t#121)

Il nord operoso ha un problema con la scuola, e con l’università in particolare. Per molto tempo non ci ha creduto; tuttora in molti distretti industriali la scuola dell’obbligo viene scambiata per un comodo parcheggio sulla via del laboratorio dei genitori, e l’estensione dell’obbligo alla prima superiore per un’odiosa imposizione statale, paragonabile alla leva militare: che senso ha passare un altro inutile anno sui banchi quando chi si mette a lavorare a 16 anni a 20 guadagna già il doppio di un laureato? Chi la pensa così non ha tutti i torti, anche se spesso vota Lega.
Però Bossi non la pensava proprio così. Lui davvero ci teneva che Renzo e Riccardo studiassero. Anche a lui sarebbe piaciuto avere un titolo di studio serio, se è vero come si racconta in giro che organizzò ben tre feste di laurea (senza laurearsi mai). Tutta la sua parabola famigliare e familista mostra una vera ossessione ben poco settentrionale per il ‘pezzo di carta’: lo stesso Belsito, ex buttafuori e poi tesoriere che nelle intercettazioni parla di tre lauree pagate alla “famiglia”, aveva ritenuto necessario procurarsi una maturità privata (in un istituto di Frattamaggiore, provincia di Napoli!) e due lauree tra Londra e Malta. Tutto questo magari non ha nessun senso. Ma potrebbe anche dirci qualcosa sul gruppo dirigente della Lega, che anche se era votata da operai e piccoli imprenditori, non era stata fondata da un operaio, né da un piccolo imprenditore: bensì da un boccalone con un libretto finto e un diploma preso per corrispondenza, sposato in seconde nozze con una maestra elementare di origini siciliane. Uno che quando il Nord tirava davvero, e portava l’intera Italia fuori dalla povertà, stava al bar, suonava la chitarra, e in casa raccontava di avere un posto in ospedale. Di uno così, nordisti laboriosi, vi siete fidati per vent’anni, perché? Forse perché non avete studiato abbastanza. http://leonardo.blogspot.com
come diventare leghisti

Ma Frattamaggiore, Na!

Ma io, se mi devo calare in un’ottica padana – e io se voglio posso calarmi in un’ottica padana, vogliamo parlare di fenotipi? Di DNA? Ce l’ho senz’altro più padano di tanti che fanno i celti alle sagre di Pontida, per esempio, Renzo Bossi: vogliamo controllare il genoma di Renzo Bossi? il mio è più padano sicuramente.

Ma dicevamo. Se mi devo proprio calare in un’ottica padana, ecco, in quest’ottica quel che mi offende di Belsito non è certo la faccia tosta. Ché noi padani siam fatti così, pane al pane, vino al vino, krafen alle teste di krafen. Non è certo l’intraprendenza avventuriera di chi i soldi li fa prillare dalla Norvegia alla Tanzania, perché noi padani possiamo anche sembrare un po’ rinchiusi su noi stessi, ma quando si tratta di sghèi, di baiocchi, di grano, noi non guardiamo più in faccia a nessuno, non c’è Blut e non c’è Boden, noi le svanziche le andremmo a tirar su anche nel condotto rettale del topiragno che ha fatto il nido nell’intestino del boscimano nella pancia del coccodrillo che si è inculato l’elefante. Né da padano mi offende la celtica irruenza con cui Belsito parcheggiava la porsc’caièn sulle strisce gialle, ché son gialle proprio per mostrare chi ci ha le palle per parcheggiarci sopra, e le palle con la porsc’caièn te le danno di serie. Volete sapere, da padano, cosa mi offende del caso del caso Belsito? Il diploma di maturità preso a Frattamaggiore (NA). Ecco. Questo è offensivo.

Voglio dire. Con tutti i diplomifici che ci abbiamo al nord. O non ne abbiamo abbastanza? Fior di scuole private che ti fanno diplomi bellissimi, su misura, e istituti parificati e radio scuole elettre e sacri cuori e figli dell’immacolata, Belsito, ci avevi qualcosa contro i figli dell’immacolata? Questa idea che i meridionali, posso chiamarli così?, questa idea che i nativi della provincia anticamente chiamata Terra di Lavoro, insomma, i terroni, ecco, questa idea che i magna-pastasciutta-a-sbafo sappiano taroccare un diploma meglio di un umile, onesto, intraprendente taroccatore del nord, ecco questo mi offende; e ribolle il sangue nelle padanissime vene. Vien quasi da rivalutare il Trota che avrà fatto un po’ fatica, ma il diploma se lo è preso davanti a una commissione statale. Sta’ a vedere che di tutto il mazzo è l’intellettuale.

Sorga dal sacro suolo un nuovo movimento veramente padano, incarnato da uomini puri, dai fenotipi acclarati, che non si vergognino di comprarsi i diplomi dagli onesti preti del nord. Augh.

catastrofi, coccodrilli, come diventare leghisti, giornalisti

Un giornalista indica un vulcano

Bocca insostenibile

Credo che i meridionali abbiano effettivamente qualche diritto di sentirsi offesi da Giorgio Bocca, che davvero scrisse su di loro cose affrettate e imprecise. Il suo disprezzo, davvero malcelato, non era occasionale: ha ragione Zambardino, esso rappresenta bene l’atteggiamento di una cultura tutt’altro che minoritaria e provinciale, tant’è che Bocca continuò a mostrarlo anche quando terminò la breve infatuazione per la Lega. Bocca è anche in questo caso un’epitome della storia italiana: un piemontese laico e democratico che sbarca nel sud ma non lo capisce, o meglio non capisce cosa ci sia di salvabile, e alla fine – complice la vecchiaia, che sgrava il fardello di speranze a lungo termine – si ritrova a dire Forza Vesuvio.

Di questo fanno bene i napoletani a indignarsi, mentre concludono le loro celebrazioni natalizie – magari quest’anno un po’ più sobrie e austere – e si accingono a testare una volta in più i rodatissimi piani di evacuazione che dovrebbero mettere in sicurezza mezzo milione di abitanti nel caso il Vesuvio esploda davvero, visto che è tutt’altro che spento, anzi: la quarantennale eruzione è in ritardo di parecchio, e a questo punto qualsiasi cosa succeda potrebbe succedere piuttosto alla svelta e fare davvero molti danni. È curioso che nessuno ne parli mai. Di Bocca e dei suoi peggiori discepoli del nord sappiamo cosa pensare: è ingiusto aspettarsi informazione su un vulcano da chi per il vulcano fa il tifo. È più strano che ne parlino poco i meridionali, visto che il rischio di nubi ardenti e lapilli sulla superficie di popolosi centri abitati collegati da strade occluse dallo sverso abusivo di rifiuti…

…Voi, per esempio, che vi state toccando in questo momento, ecco, sì: Bocca non perdeva tempo a cercare di capirvi. Vi disprezzava. Buon anno, se non vi è di malaugurio.

come diventare leghisti, ho una teoria

La dipendenza della Padania

Allora se volete un parere (interessato), per me la Padania non sarà mai indipendente.

Finché la rappresentano dei buffoni, almeno. E questo ci lascia almeno dieci, quindici anni di tempo per organizzarci. La Lega per la dipendenza della Padania (H1t#92) si legge sull’Unita.it, e si commenta laggiù.

Ma perché i leghisti parlano di “secessione”? La risposta sembra scontata: ne parlano perché intuiscono che l’esperienza di governo è ormai finita, come nel 1994: e oggi come allora un bel battesimo nell’acqua del Padre Po può lavare via la puzza di compromessi e fallimenti romani che ha impregnato il partito negli ultimi anni. Il secessionismo può riportare molti delusi alle urne, rinsaldando lo zoccolo duro che nel 1996 regalò ai leghisti il risultato nazionale migliore di sempre: quel 10% che determinò la sconfitta di Berlusconi e l’arrivo di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Può anche darsi che stavolta la base leghista non ci caschi: d’altro canto Bossi e compagni non hanno molte alternative. Probabilmente il secessionismo per ora è un’opzione, un piano B, in attesa che a qualcuno venga in mente un piano A per il dopo-Berlusconi. Nel frattempo gridare la parola ai comizi fa notizia e non impegna.

Ma perché la parola è proprio “secessione”? Perché non il più nobile “indipendenza”? In fondo “secessione” è una parola che contiene già in sé una segreta consapevolezza della sconfitta. Un lapsus pesante, perché parlare di “secessione” significa ammettere che una nazione da cui secedere, l’Italia, esiste. Di solito, quando i secessionisti vincono, ottengono il diritto di scrivere la Storia, e nei libri si fanno chiamare indipendentisti. Se invece perdono, chi li ha sconfitti continuerà a chiamarli secessionisti: un nome che quasi sottointende il fallimento. Tanto più che nell’inconscio collettivo della generazione di Bossi e Maroni la parola “secessione” è indissolubilmente legata ai film western con le battaglie tra casacche grigie e blu (e i grigi le prendono quasi sempre). Non è l’unico caso in cui l’immaginario leghista si lega, consapevolmente o meno, a un precedente storico ‘perdente’: un altro esempio, anche questo derivato dai western, è quel famoso manifesto che istituiva un parallelo tra leghisti e pellerossa americani, condannati a vivere nelle riserve per non aver varato anche loro una legge Bossi-Fini. Questa predilezione per i perdenti può sembrare curiosa, specie se confrontata con l’immaginario berlusconiano, ossessionato da modelli di successo e autorealizzazione. In realtà, oltre a essere in un qualche modo complementare al berlusconesimo, il culto leghista per la sconfitta nobile ha precedenti illustri in altri movimenti nazionalisti: si pensi all’importanza che riveste per i serbi la battaglia – persa – di Kosovo Polje. La sindrome dell’accerchiamento, la percezione della sconfitta inevitabile che genera l’impulso al revanscismo, sono elementi costitutivi dei piccoli nazionalismi europei: quello che il leghismo è stato per una breve stagione (1996-2000) e che potrebbe ridiventare in tempi brevi. Ma funzionerà?
Potrebbe anche funzionare. Abbiamo un bel da ripetere che la Padania non esiste: certamente fino al 1996 non esisteva il concetto di nazione padana. Ma non è necessario guardare al passato, alla ricerca di chissà quale sostrato celtico, per vedere qualche crepa nell’unità nazionale. Concentriamoci sul futuro prossimo: le tensioni a cui la crisi economica sottoporrà l’Italia nei prossimi mesi e anni accentueranno ancora di più il dislivello già grave tra Nord e Sud. Se la situazione dovesse degenerare (default, uscita dall’Euro, eccetera), molti abitanti del nord potrebbero essere tentati da un partito indipendentista o secessionista che dir si voglia. Così, dopo aver perso vent’anni a dividerci tra filo e antiberlusconiani, potremmo buttarne altri venti dividendoci tra secessionisti e unionisti.

Insomma, nella situazione difficile che abbiamo davanti, lo spazio per un partito indipendentista della Val Padana c’è. Il problema (per i secessionisti autentici) è che questo spazio è occupato dalla Lega. E la Lega non è nata indipendentista, ma autonomista; ha scoperto l’indipendentismo abbastanza tardi, al termine di una prima burrascosa esperienza di governo. Persino negli anni ruggenti dell’invenzione della Padania, quando le camicie verdi si davano aria di milizia popolare e marciavano sul Po, mentre a Mantova apriva una specie di parlamento e il leader lanciava accorati inviti a uno sciopero fiscale che molti elettori leghisti praticavano già nel segreto dei loro reparti commerciali…  anche allora tutte queste iniziative somigliavano più a una messa in scena per spaventare Roma che ai prodromi di una vera lotta di liberazione. 

Tutto questo non poteva che deludere gli indipendentisti veri, che in effetti nei loro manifesti e blog parlano sempre piuttosto male della Lega. Ma in breve tempo il secessionismo di Bossi deluse anche il grosso degli elettori, che alle europee del 1999 – appena tre anni dopo il successo del ’96 – punirono il partito con uno dei risultati peggiori, un misero 4,5 per cento che mise temporaneamente fine alla parabola secessionista. Bossi tornò nella tana del “mafioso massone” Berlusconi (parole sue), ottenendo un’alleanza che forse gli permise anche di risistemare le casse del partito. Da allora gli esponenti della Lega sembrarono dimenticarsi che il partito si chiamava, e si chiama ancora “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” (un nome approvato da Luciano Violante, allora presidente della Camera, che lo trovava più costituzionale di Padania Indipendente). Ma domani?
Domani è un altro giorno. Ribadisco: un po’ di spazio per un movimento indipendentista c’è. La teoria è che non ci sarà mai un indipendentismo vero, qui, finché quello spazio sarà occupato da un partito come la Lega, e da leader come Bossi e Maroni, che all’indipendenza e alla Padania non hanno probabilmente mai realmente creduto, nemmeno per un istante. E questa forse è una buona notizia. http://leonardo.blogspot.com  
alta Italia, ciclismo, come diventare leghisti, ho una teoria

Mo an’s’pol gnanc piò fér an gir, adésa?

Oddio, mi piace pure il logo

Io Ferrero lo stimavo anche un po’, quando faceva politica; poi è diventato il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e l’ho perso di vista. Ecco, l’altro giorno ha scritto a Napolitano per denunciare l’incostituzionalità del Giro di Padania. Cioè, seriamente: nella Costituzione secondo Ferrero ci dev’essere un codicillo da qualche parte che proibisce alcune competizioni ciclistiche associate ad alcune espressioni geografiche. E’ anche vero che è un periodaccio da un punto di vista mediatico: non sta succedendo niente, i mercati vanno bene, la gente è soddisfatta del governo, e così un segretario di Rifondazione per farsi un po’ di visibilità è costretto a crearsi dei casi un po’ così. D’altro canto dove la trovi, un’altra manifestazione sportiva che riesci a disturbare anche con squadracce, pardon, con collettivi di poche decine di persone? Basta che ti piazzi in mezzo a una strada e qualcuno prima o poi casca e si fa male! E in tv ci vai garantito! Ci va anche Renzo Bossi, contestualmente, a lamentarsi dei cattivoni, ma probabilmente è un effetto collaterale sopportabile, se sei il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e vedi vulnus costituzionali nelle gare in bici.
Allora io ho scritto che il Giro di Padania non è affatto incostituzionale, che la Padania esiste e che disturbare i ciclisti mentre fanno il loro lavoro non è bello, e l’ho scritto sull’Unità (H1t#90). Si commenta di là.

Io – sia chiaro – i leghisti non li sopporto. Non li sopporto quando promettono mari e monti e federalismi, e non ottengono niente, e fanno finta di niente. Non li sopporto quando si inventano lì per lì obiettivi di scorta, contentini da mostrare agli elettori che evidentemente prendono per fessi: i ministeri a Monza, ma per favore. Non li sopporto se fanno i barricaderi, quando la verità è che non sono mai riusciti nemmeno a organizzare una marcia sul Po come si deve. Non li sopporto quando minacciano di tirar fuori i fucili: ma ce li mostrassero davvero ‘sti fucili un giorno o l’altro, poi ridiamo. Non li sopporto quando cercano di cavalcare l’ondata antislamica facendo i cattolici, e dieci anni fa si sposavano col rito celtico. Non li sopporto quando promettono di risolvere il problema dei barconi prendendoli a cannonate, e questa promessa criminale è forse l’unica che hanno mantenuto. Non sopporto un ministro che lascia un paio di motovedette a pattugliare un braccio di mare che pullula di profughi: si chiama concorso in strage. Non li sopporto quando succhiano soldi dallo Stato per riempire edifici pubblici di Soli delle Alpi, o per piantare quei ridicoli cartelli coi nomi dei comuni in dialetto, e io pago. Non li sopporto per centinaia di altri motivi che in questo pezzo non ci stanno. 

Ma se decidono di organizzare una gara ciclistica, e se la pagano loro, con gli sponsor e tutto quanto, beh, io non capisco cosa ci sia da eccepire. Anzi. Se da qui in poi Renzo Bossi e famiglia si limitassero a organizzare soltanto gare ciclistiche, tornei di calcio tra nazioni inesistenti, paraolimpiadi, concorsi di bellezza, sabba nei boschi, io francamente sarei molto contento e sollevato, magari andrei anche a sentirmi qualche concerto di cornamuse al festival di cultura celtica. Purché non succhino altri soldi al pubblico erario, come quando presero i miei soldi per pagare i figuranti rumeni di quel Barbarossa che persino la Rai di Mazza ha pena a programmare. 

Siamo in un periodo difficile, e lo sappiamo. Crisi economica, governo delegittimato eccetera. In mezzo a tutto questo è successo che Ferrero, segretario di ciò che resta del Partito della Rifondazione Comunista, abbia sentito l’urgenza di denunciare a Napolitano l’incostituzionalità del Giro di Padania. Come se i padri costituzionali avessero perso tempo a inserire nella Carta una tabella con le manifestazioni sportive ammissibili e quelle che invece proprio no. Secondo Ferrero il Giro sarebbe incostituzionale perché costituirebbe un atto di propaganda politica, e nella Costituzione di Ferrero (che deve avere parecchie pagine in più della mia) fare propaganda politica organizzando una gara in bicicletta è pro-i-bi-to. Invece mandare i propri attivisti a disturbare le gare altrui è ok. 

Del resto è così facile. Il ciclismo è sempre stato lo sport con meno barriere tra concorrenti e pubblico. Bastano poche squadre di disturbatori per mandare all’ospedale un ciclista, o un tifoso o un carabiniere, e far parlare di sé i telegiornali. Minima spesa, massima resa. Certo, con la stessa logica bisognerebbe denunciare anche l’incostituzionalità del Giro delle Fiandre, o della Freccia Vallone, o del Giro dei Paesi Baschi, e chissà di quante altre competizioni associate a entità geografiche non nazionali. Tempo al tempo, per adesso è fondamentale che Ferrero possa ribadire che “la Padania non esiste”. Buffo, l’anno scorso in questi giorni lo diceva Gianfranco Fini. E nella sua bocca suonava lievemente autoritario, il classico tic dell’uomo d’ordine che nega l’evidenza quando non si adatta al suo sistema. È davvero triste che Ferrero ripeta la stessa cosa. 

Che senso ha dire che la Padania “non esiste”? Le nazioni sono concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po’ di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che qualche leader afferma che “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi. Proprio perché è una parola potenzialmente pericolosa, bisogna guardarsi dal farne un tabù. L’ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. La Padania esiste, è sempre esistita: è un comodo sinonimo del più tradizionale Val Padana. La usava Gianni Brera quarant’anni fa, senza nessuna velleità separatista; la usò nel 1975 Guido Fanti, presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, per proporre un coordinamento tra le regioni intorno al Po. Hanno cominciato a usarla i leghisti, relativamente tardi, e probabilmente si deve a loro lo slittamento dell’accento (prima si pronunciava Padanìa, ma forse non era gradita la rima con Albanìa o Romanìa). 

La Padanìa è un’espressione geografica: è una valle sconsolatamente piatta, circondata da due catene montuose tra le più alte d’Europa. Se si eccettua la brevissima parentesi napoleonica, non è mai stata una nazione unitaria. È una delle macroregioni di cui è composta l’Italia: esiste tanto quanto il Mezzogiorno. Vi si può senz’altro disputare un giro in bicicletta, così come si corre ogni anno il giro di Lombardia o il Giro di Sicilia senza che la Corte Costituzionale abbia nulla da eccepire. Con buona pace di Ferrero e compagni, a cui in questi giorni argomenti più seri non dovrebbero mancare. Grazie comunque, perché spaccandogli il giochino (uno dei pochi innocui che avevano a portata di mano), mi avete ricordato un’altra cosa che non sopporto dei leghisti: il vittimismo. http://leonardo.blogspot.com

apocalittici e integrati, come diventare leghisti, migranti

Uomini e talpe

Gli ultimi giorni dell’umanità 

– Io credo che chiunque abbia gli occhi per vedere, e non per piagnucolare, possa valutare da solo che uomini sono questi Bossi, questi Maroni, che di fronte a un’emergenza umanitaria gridano foera di ball, fanno portare cucine da campo a Lampedusa ma non le montano, aspettano che una folla affamata distrugga tutto e poi portano spazzini e telecamere per mostrare al loro elettorato che siamo alle invasioni barbariche; lasciano una ventina di marinai a pattugliare un enorme braccio di mare e poi stringono le spalle di fronte a una tragedia evitabile; tanto in mezzo c’è sempre una Malta o una Francia su cui puntare il dito, come lo punta sul compagno il bambino sorpreso dalla maestra. Non sono criminali, questi bambini che sventolando fazzoletti verdi sono arrivati a responsabilità di governo e ora giocano con la vita dei loro simili? Fino a che punto il proprio tornaconto elettorale li giustifica di fronte all’orrore, quanto costa esattamente in vite umane vincere le elezioni in Brianza? Chiunque ha occhi per vedere e non per piagnucolare può vedere quanto siano criminali, e quanto assassina sia la loro negligenza.

Eppure odiarli è difficile. Sono un po’ troppo banali, questi amministratori locali del male; non fanno che incarnare i nostri difetti, trarli alle estreme conseguenze. La paura per lo straniero non l’hanno inventata loro; loro non hanno fatto che aprirci la loro piccola impresa, la loro fabbrichetta, trent’anni fa. Col senno del poi fu un ottimo investimento: da allora il sud del mondo ha quasi raddoppiato le bocche da sfamare, mentre il nord alzava le barricate; il nodo prima o poi doveva venire al pettine. Chiunque può calcolare quanto abbiamo perso in umanità, negli ultimi vent’anni di sbarchi: quanto rapidamente si è spenta quella solidarietà genuina che mostravamo per i primi albanesi e i cossovari, appena abbiamo capito che non erano piccoli fuochi, ma le prime scintille di un incendio mondiale. I nostri governanti non fanno che interpretare al meglio quello che siamo diventati: animali tutto sommato mansueti che quando li si preme ai confini hanno ancora qualche energia per mostrare i denti.

Ma gli intellettuali? Non devono mica farsi eleggere. Nessuno pretende che si facciano interpreti dei nostri istinti più bassi. Anzi, dovrebbero mirare un po’ più in alto per definizione; nell’eclissi della nostra coscienza, conservare per noi il ricordo della luce, e ricordarci sommessamente che potremmo essere migliori di così, potremmo essere uomini e non bestie. E invece guarda che bel servizio ci rende Ceronetti, col suo temino xenofobo che nessuno gli aveva chiesto, ma che molte bestie apprezzeranno. “Non ho prove provabili”, scrive, “ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali”. Ed è tutto quello che gli serve per tenere la sua concione: l’istinto animale del pericolo. La sua “pulce nell’orecchio” non è un dato preciso, né un’informazione verificabile, nulla. Ceronetti ha il senso di ragno di Peter Parker, sente un complotto islamico dietro le spalle e ci vuole tenere informati, grazie Ceronetti, ma avrebbe potuto dircelo qualsiasi boccalone al bar. Sì, però vuoi mettere con uno che al bar ti cita Kafka e il cavallo di Troia? Ed eccolo qui, il più bell’argomento contro la cultura: se dai da leggere Kafka a una capra, ne brucherà le pagine e resterà capra; se lo dai a un scimpanzè rischi che te lo tiri in testa: lo hai dato a Ceronetti, guarda cosa ne fa.

La questione israeliana. Ma io qui credo che ci sia un refuso. Avranno tutti copiato e incollato male, andiamo, non è possibile che un pregiato scrittore lasci sulle colonne di un quotidiano questa frase, nel 2011: “Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro”. Si possono dire cose molto brutte su Israele, ma ci vive già più di un milione di arabi con diritto di cittadinanza. Voglio dire che lo sanno anche le talpe. O non lo sanno? E di cosa hanno discusso, per tutti questi anni, le talpe, sul giornale?

“In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco”. 

Il Novecento è davvero la nuova Bibbia. Messo di fronte a un fatto nuovo, l’intellettuale cosa fa? Va a controllare se rientra nella casistica dei Sacri testi. C’è una folla di profughi? Andiamo a sfogliare il Libro dei Profughi del Novecento, dunque… ecco, ci sono soprattutto donne, bambini, vecchi che si trascinano. Invece nelle foto a colori del giornale, qui, sono baldi giovanotti, e allora fermi tutti: l’intellettuale ha scoperto un’impostura, un complotto. “ Il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato sul suo senso di ragno, che gli anni hanno reso acutissimo.

Per fortuna che noi animali europei abbiamo ancora un forte istinto, lo si vede dalle bandiere ai balconi. “Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?” Meno male che Ceronetti comprende. Lui è collegato con l’anima profonda, ne sa interpretare i gridi silenziosi, per esempio quell’arcano, intraducibile “Foera di ball”, finalmente trova in lui il fine esegeta, il traduttore. Abbiamo bisogno di più gente come lui, che metta in belle parole i nostri istinti, che suoni il suo tamburino istoriato con fregi Novecento mentre noi scaviamo i fossati e alziamo i recinti.

“Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.”

Parole desuete, parole buffe, il consueto bric-à-brac letterario che ha sempre il suo mercato, per dire cosa? Niente, è destino di ogni temino poco ispirato risolversi in tautologia. Ceronetti aveva rivendicato nella prima riga il suo istinto del pericolo, “comune agli animali”; nell’ultima riga si lascia sfuggire che soluzioni umane al problema non ce ne sono. Insomma l’umanità è un lusso, grazie Ceronetti, ma a quel punto perché Kafka, perché Omero, perché le canzoni di gesta, perché pagarti un vitalizio? Non sarebbero soldi meglio spesi in barricate, filo spinato, alta tensione?

Ma forse no. Anche quando saremo lupi – e il giorno non è così lontano – avremo sempre bisogno di un lupo anziano e un po’ più ispirato che ululi alla luna. Com’è da millenni, e la luna resta luna. E i cani restano cani. I più bravi, i più brillanti, se gli tiri Kafka te lo riportano.

come diventare leghisti, fascismo, migranti

Mors vestra

Col volto umano

“Signore, quelli bussano”.
“E che vogliono?”
“Le solite cose, ma stavolta…”
“Stavolta?”
“C’è un’aria diversa in giro, insomma, io non vorrei che succedesse un disastro…”
“È già successo”.
“Sì, ma dal punto di vista umanitario, insomma…”
“No”.
“Come dice, signore?”
“Sto rispondendo alla domanda che non hai il coraggio di farmi”.
“Prego?”
“Tu dovresti chiedermi: Signore, li aiutiamo? Apriamo i cancelli? Stanziamo quel che c’è da stanziare? Ma non hai il coraggio, perché conosci benissimo la risposta, e sai che è una risposta criminale, e hai paura che anche solo pormi la domanda ti renda in qualche modo complice. Ma io non ho bisogno di complici e non ho vergogna a risponderti: mi prendo tutta la responsabilità e ti dico: no. Non li aiutiamo. Non stavolta”.
“Con tutto il rispetto… questo non sarà il solito naufragio di gommoni”.
“No, probabilmente no”.
“Parliamo di una carestia. Forse milioni di morti. In generale la Storia non è generosa con chi lascia morire milioni di persone”.
“Fammi pensare. Cina 1960, Grande Balzo in avanti, carestia, dai venti ai quaranta milioni. Hanno tolto i quadri di Mao alle pareti?”
“Non ancora, no”.
“Del resto non è che mi interessi più di tanto del parere dei posteri, eh. Mi biasimeranno, diranno cose terribili su di me, con la loro ciotola piena. Hai mai letto Malthus, tu?”
“No, confesso di no”.
“È passato di moda un po’ troppo presto. Insomma, questi hanno fame e vorrebbero entrare. Non gli basta mandare a casa qualche governante corrotto? Eppure sono belle le rivoluzioni, no?”
“Non danno il pane”
“Al massimo i rincari ti spingono a eliminare qualche sacca di corruzione. Ma non basta, la fame è più potente. La fame ti compra il biglietto per il gommone. Comunque stavolta no. Sparino pure ai gommoni, me ne prendo la responsabilità”.
“…”
“E non guardarmi con quegli occhi, son cose che capitano. Un giorno faranno un film su gente come me e come te. Te ti faranno dimesso e lagnoso, consapevole dei crimini che commetti, ma incapace di disobbedire gli ordini. A me invece regaleranno una faccia da matto fanatico. Ti sembro un matto fanatico?”
“No, signore, assolutamente”.
“Probabilmente ti sbagli, la storia la fanno i vincitori quando cominciano a sentirsi in colpa. Io sono il matto che preferisce salvare una sola scialuppa invece di aiutarne un’altra col rischio che affondino entrambe. Mi daranno del razzista. Pensi che io sia razzista? Che se fossero biondi e pallidi magari li aiuterei?”
“Se posso permettermi…”
“Certo che puoi”.
“Se le politiche si giudicano dai risultati, quello che stiamo per fare sarà interpretato da molti come razzismo”.
“Senz’altro, ed è il motivo per cui negli ultimi quarant’anni ne abbiamo fatti entrare un po’ di tutti i colori, e adesso abbiamo elettori che si chiamano Mohammed e Chen, e saranno loro, capisci, saranno loro a votare per noi quando gli diremo che non possiamo aprire i cancelli a tutti i meridionali del mondo. Perché loro lo hanno sempre saputo: Malthus ce l’hanno nel sangue, loro. Sono quelli che si sono messi in moto per primi. Selezione naturale. E nessuno potrà darci del razzista, se applichiamo un banale principio di sopravvivenza. Tutte le specie viventi, i branchi e le comunità cercano di sopravvivere difendendo il loro territorio, e noi possiamo fingere di non essere un branco, possiamo affettare una cosiddetta ‘cultura’, ma quando i prezzi dei cereali salgono mostriamo i denti, come qualsiasi altro mammifero stanziale. Non c’è posto per tutti qui da noi. Semplicemente non c’è. Ce n’era un po’, e chi è arrivato prima se l’è preso. E ora non ce n’è più”.
“Signore, posso essere franco?”
“Spara”.
“Questo è semplicemente fascismo. Fascismo dal volto umano, ma…”
“Preferiresti il volto disumano? Perché a questo punto il problema si pone in questi termini. Non credete a noi, che vi sbarriamo le porte con gentilezza? Aspettate qualche anno, e poi al nostro posto ci sarà un matto vero, un visionario che ha letto il mein kampf o altre stronzate, uno di quelli che con la scusa del revisionismo ogni tanto va a Bergen Belsen a controllare le cubature perché, dopotutto, il Novecento ci ha mostrato che qualche sistema rapido per far spazio, con un po’ di impegno e fantasia…”
“Quindi, insomma, alla delegazione che gli dico?”
“Me lo hai già chiesto. Ti ho già risposto. No. Stavolta Non ci muoveremo. Diglielo. Conoscono il latino?”
“Dovrebbero”.
“Allora digli così: Mors vestra, vita nostra. Niente di personale”.
“E se si mettono a piangere?”
“Piangere? una delegazione diplomatica?”
“Signore, lo sa… in fin dei conti sono italiani”.
“E tu lasciali piangere, ne hanno il diritto”.

Secondo Roberto Maroni è “impensabile” che, di fronte a quella che definisce “emergenza umanitaria” di Lampedusa, “le istituzioni europee stiano solo a guardare”.

cinema, come diventare leghisti, ho una teoria, leggere

Il Nordest in mano ai maestrini

Ti dicono quali film non andare a vedere al cinema;
(tanto tu comunque non ci vai)
quali libri non puoi prendere in prestito in una biblioteca
(non li conoscevi, ma adesso li cercherai in libreria);
quali non puoi leggere a scuola…
(vorrà dire che li leggerai a casa, con più calma).
Sono i nuovi censori, sono tra noi. 
E sono anche più fessi del solito. Sull’Unita.it si parla degli occhialuti maestrini di Lega e PdL. Il pezzo si commenta qui.

Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio), ti scrivo perché vorrei che mi togliessi una curiosità. Ma tu il nuovo film di Placido sul bandito Vallanzasca, ecco, se il tuo partito non avesseproposto di boicottarlo, lo saresti andato a vedere?

Secondo me no. Non lo dico per snobismo, guarda –  si può dire di tutto di Michele Placido, tranne che faccia film per snob. Il fatto è che non mi pare che i leghisti vadano molto al cinema in generale. Almeno è l’unica spiegazione per il colossale flop di Barbarossa, ti ricordi? Sì, quel film in costume per il quale Bossi si fece dare da Roma un milione e seicentomila euro, che il regista Martinelli spese più che altro in Romania perché maestranze e figuranti rom costano meno (è la globalizzazione, Elmo, che ci vuoi fare, anche i portachiavi della Padania sono made in China). A quel film Bossi ci teneva tantissimo, è lo stesso Berlusconi a confessarlo in una celebre telefonata ad Angelo Saccà: “c’è Bossi che mi sta facendo una testa tanto con questo cavolo… di fiction di Barbarossa”. Ai tempi del lancio Martinelli si diceva sicuro di riempire le sale. Bossi (che fa una comparsata) vi ordinò: “andatelo a vederlo come se andaste a votare”, ma tu e i tuoi compari non è che siate accorsi in massa, eh? Magari state solo aspettando che arrivi in tv, e francamente non vi biasimo.
Quello che non capisco è il tuo deputato, quel Davide Cavallotto, che pretende di farvi stare fuori dai cinema quando neanche Bossi è riuscito a farvici entrare. Lasciamo stare il senso dell’operazione, questo rigurgito moralista per cui i film sui banditi offenderebbero le vittime (per fortuna che queste idee non vengono agli americani, altrimenti non avremmo avuto il Padrino, Scarface, Goodfellas, Casino, Donnie Brasco…) Lasciamo anche stare che se ne parli proprio nella settimana in cui i tuoi rappresentanti si mostrano impermeabili ad altri moralismi (hai sentito che una delle bionde ospiti di Berlusconi era accreditata come “fidanzata con Renzo Bossi”?) Ma che senso ha proporre il boicottaggio delle sale a elettori e simpatizzanti che comunque di solito nelle sale non ci vanno?
È un po’ come quando a Roma scioperano i tassisti, che a momenti nessuno se ne accorge, se mi passi il paragone. Anzi, forse è peggio. Perché lo sai come funziona coi film: l’importante è che se ne parli, anche male. Michele Placido questo meccanismo lo conosce bene, e di solito appena c’è la possibilità di fare un po’ di polemica sui giornali non si tira indietro. Basta poco, sai: un’intervista in più agli attori, che invece di restare relegata alla pagina degli spettacoli si ritrova un titolo in prima: ed ecco che l’annunciato boicottaggio diventa un trucco per staccare qualche migliaio di biglietti in più al botteghino. Insomma, caro Elmo, secondo me un boicottaggio del genere è un autogol. Un po’ come la storia dei libri proibiti nelle biblioteche veneziane. Ma è vero che li tolgono?
Lascia che ti racconti anche questa storia. Dunque, ti ricordi di Battisti, il terrorista? Qualche settimana fa non si parlava d’altro, il governo italiano fece fuoco e fiamme, sembrava che dovessimo interrompere i rapporti commerciali col Brasile. Poi, come succede in questi casi, non c’è più stato nulla di cui parlare: bisognava inventarsi qualcosa di nuovo. A questo punto un assessore veneziano del PdL, l’ex missino Speranzon, ha chiesto ufficialmente alle biblioteche comunali di ritirare dagli scaffali le opere degli scrittori che nel 2004 firmarono un appello per la scarcerazione di Battisti (che a quel tempo era stato arrestato in Francia). Non tutti questi scrittori escludono che Battisti possa aver commesso dei crimini, ma hanno forti dubbi sulla regolarità dei processi a cui non partecipò (l’Italia è uno dei pochi Paesi in cui si può processare qualcuno in contumacia). Che ci vuoi fare, Elmo, non c’è solo Berlusconi a nutrire dubbi sulla giustizia italiana. Ma lasciamo stare. Certo, è ben triste che proprio a Venezia qualcuno proponga una specie di Indice dei Libri Proibiti. Persino ai tempi della Controriforma, quando a Roma aprire il libro sbagliato poteva portarti al rogo, gli intellettuali più scomodi cercavano riparo dall’Inquisizione presso la Serenissima.
Ma lasciamo perdere anche il passato. Il punto è: anche se i bibliotecari toglieranno dagli scaffali i libri incriminati (tra cui quelli di Roberto Saviano), che risultato si otterrà? Certo nessun danno agli scrittori, che sui libri prestati in biblioteca non guadagnano più un centesimo. Anzi, il boicottaggio  costringerà qualche lettore in più a comprarseli in libreria. Senza tener conto, anche in questo caso, dell’effetto boomerang: gli scrittori, come puoi immaginare, sono tipi sensibili, che non vedono l’ora di sentirsi un po’ perseguitati da qualcuno per scrivere ai giornali, organizzarsi, trasformare una polemica in un’altra occasione per farsi leggere – a pagamento, visto che i volumi in biblioteca non si troveranno più.  È quello che stanno facendo in questi giorni, appunto. Massimo Carlotto, uno degli scrittori incriminati (il solo aggettivo “incriminati” secondo me vale qualche centinaio di copie in più), ha replicato a Speranzon facendo notare che nel bel mezzo di tutte queste polemiche il Veneto è diventato la regione italiana con i maggiori interessi economici in Brasile. Carissimo Elmo, non so se tu Carlotto l’abbia mai letto. È un ottimo giallista, nato a Padova, che racconta il Nordest di oggi come pochi sanno fare. Se non ne avevi mai sentito parlare, adesso lo hai sentito: se avevi letto già qualche suo libro, sono abbastanza convinto che nessun assessore del tuo partito ti convincerà a smettere con questo o altri sgangherati boicottaggi.

Nel frattempo, l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan (PdL anche lei, con un debole per i caduti di Salò) si è fatta viva. Non la sentivamo più da quando pensò di regalare a tutti gli studenti veneti una Bibbia a spese dei contribuenti. Adesso invece ha chiesto ai presidi di rimuovere dalle biblioteche scolastiche i libri degli autori maledetti – sì, sempre quelli dell’appello pro-Battisti. Così magari rimarrà più spazio per i libri che fa stampare lei, pieni di strafalcioni e scopiazzati da wikipedia. O i cd “europeisti” distribuiti a spese della Regione e contenenti inni neofascisti.

Insomma, caro Elmo, cosa stanno diventando i tuoi dirigenti? Da quand’è che hanno cominciato a pretendere di spiegarti quale film puoi vedere e quali no, quali libri puoi leggere e quali no? Una volta non era così, una volta i leghisti erano i ribelli, i berlusconiani si riempivano la bocca della parola libertà. Ma quella era la prima generazione. Adesso tocca alla generazione dei maestrini, dei censori occhialuti, e non si può dire che siano altrettanto simpatici. E la prossima? I bambini che nascono oggi, e magari cresceranno in una Padania federale con le bandiere verdi, e i libri giusti sugli scaffali e i film giusti in tv, non sentiranno anche loro il bisogno di ribellarsi un po’? Pensa ai bambini di Adro, col Sole delle Alpi griffato su tutti i banchi: non toglierà ai monelli la voglia di inciderla col temperino? Non c’è il rischio che poi crescendo venga loro a noia? Che vadano a sporcarsi i piedi nelle aiuole per il gusto di infangare il vessillo che quel furbacchione del sindaco ha voluto disegnare anche nello zerbino? E se scoprono che c’è una lista di libri proibiti, non faranno la corsa per procurarseli? Faccio per dire, è solo una mia teoria. http://leonardo.blogspot.com
Bossi, come diventare leghisti, ho una teoria, terrorismo

Elmo 2 la Vendetta

Stavo cercando di capire che differenza c’è tra Bossi e Sarah Palin, a parte il fatto che lui non tira agli alci (ma perché non ci ha ancora pensato) (sssst che se gli viene in mente poi addio stambecchi dello Stelvio). Per il resto, a furia di parlare di fucili di qua e di pallottole di là, siamo fortunati che qui da noi finora nessuno lo ha preso davvero sul serio, no?

Speriamo bene. Grazie leghista per non tirare al cachemire è sull’Unita.it e si commenta qui. (Oppure qui).

Alla fine di tante discussioni su Cesare Battisti resta un dubbio: ma se non avesse la faccia che ha, con quel ghigno da furfante che ha mostrato ai fotografi due o tre volte di troppo, ne staremmo ancora parlando? In fondo un motivo ci deve pur essere, se a distanza di tanti anni il suo volto è ancora sui titoli dei tg, mentre di tanti altri latitanti non si parla semplicemente più. Non si parla più di Giorgio Pietrostefani, che per i giudici italiani è colpevole dell’omicidio di Luigi Calabresi. Nessun La Russa si permette di minacciare fuoco e fiamme contro la Svizzera che non intende estradare Alvaro Lojacono, complice dell’assassinio di Moro, divenuto cittadino elvetico; nessuno propone sanzioni contro il Nicaragua se il brigatista Casimirri gestisce suo ristorante in riva all’oceano. E la lista di gente che l’ha fatta franca potrebbe continuare ancora a lungo: cos’ha dunque Battisti che tutti questi assassini non hanno? Io una teoria ce l’avrei. 
 
Battisti è il latitante più fotogenico che abbiamo. Per quante volte possa avere rinnegato la lotta armata, il suo volto è diventato l’icona con cui i cronisti scelgono di rappresentarla. Bastano pochi secondi di filmati di repertorio, lui che ghigna in un parcheggio, e i Due Minuti d’Odio quotidiani sono serviti. Sarà per questo che di lui si parla tanto, e invece non si parla mai, per esempio, di Cacciola?
 
Salvatore Alberto Cacciola non è un terrorista, ma la sua storia è ugualmente interessante. È un banchiere fraudolento. Nato in Italia, cresciuto in Brasile, fuggito in Italia nel 2000, quando l’aria per lui cominciava a farsi pesante. Non lascia orfani e vedove, come ne lasciarono i Proletari Armati di Battisti, ma famiglie sul lastrico ne ha messe parecchie, e in questi dieci anni i brasiliani non si sono mai veramente scordati di lui. Questo è un dettaglio importante, che spesso si omette quando si parla di Battisti in Brasile. Perché prima che il nostro Proletario Armato fuggisse laggiù, era l’Italia che avrebbe dovuto estradare Cacciola in Brasile, e non lo fece. Fino al 2007, condannato in patria a tredici anni, Cacciola rimase a spassarsela dentro i confini della nostra rispettabile Repubblica, più o meno ignorato dai nostri organi di stampa. Che i brasiliani non se lo fossero affatto dimenticato lo dimostra la velocità con cui fu acciuffato appena osò mettere appena il naso oltre Ventimiglia, per un weekend a Montecarlo con una nuova fidanzata. Fu il ministro della giustizia Genro a ricordarlo allo stesso presidente Napolitano, un anno fa: gli italiani che ci chiedono Battisti non ci hanno mai dato Cacciola, un criminale comune. È superfluo notare chi aveva avuto, per gran parte di quei sette anni, la responsabilità di governo.
 
D’altro canto Berlusconi ci teneva tantissimo, a Battisti. A parole. Nei fatti, è lecito dubitare che si sia mai realmente speso per l’estradizione. Non risulta che ne abbia parlato con Lula nell’ultimo incontro, il vertice italo-brasiliano di fine giugno. Non in pubblico, “magari in ascensore”, dice l’ex sottosegretario Adolfo Urso, oggi in Futuro e Libertà. Il fatto è che Battisti diventa un argomento interessante soltanto davanti ai microfoni italiani. Ai brasiliani magari fece più effetto il party privato con sei ballerine che Berlusconi si concesse per l’occasione. 
 
Il caso Battisti è un esempio classico dell’approccio berlusconiano ai problemi: perché risolverli, quando li si può trasformare in spettacolo? Vedi l’emergenza rifiuti: dopo le elezioni Berlusconi aveva gli strumenti e il consenso per risolverla in modo strutturale, anche con misure impopolari; ma gli conveniva davvero? Che altro avrebbe promesso alle elezioni successive? Lo stesso con Battisti. Forse, con un’azione diplomatica più ponderata, Berlusconi avrebbe potuto averlo indietro. Ma ne valeva davvero la pena? Non era meglio mandare in vacanza il solito ministro Frattini, rilasciare una dichiarazione insolente nei confronti di Lula, e liberare il ministro delle chiacchiere moleste, on. Ignazio La Russa? Si sventola il ghigno del mostro al tg delle venti, si mobilitano i parenti delle vittime (che hanno tutte le ragioni per sentirsi presi in giro), e se non si ottengono risultati, si può sempre lamentare l’esistenza di un complotto radical chic contro l’Italia. Probabilmente orchestrato da Carla Bruni – che con Battisti ha smentito di aver mai avuto a che fare, ma non ha importanza: tutto fa brodo. Compresi i dubbi di chi in Italia osa mettere in discussione le sentenze: non per una questione ideologica, ma perché tutto lascia intendere che su Battisti, una volta fuggito, qualche ex complice abbia scaricato tutto quello che poteva in cambio di sostanziosi sconti di pena.
 
Questa è stata la giustizia italiana che ci ha fatto uscire dagli anni di piombo. Possiamo anche decidere che certe pagine è meglio non riaprirle, ma dobbiamo accettare che i brasiliani, a distanza, maturino un giudizio diverso. Anche alla luce di un altro dato oggettivo di cui si parla poco: le nostre carceri fanno schifo. In un anno abbiamo perso 170 detenuti: l’ultimo, morto il 28 dicembre, era un invalido al 100%. Di questi, 65 sono suicidi. Sono conteggi che difficilmente sentiremo al tg: il ghigno del perfido Battisti è senz’altro più sexy. Eppure l’Unione delle Camere Penali parla senza mezzi termini di strage, e lamenta che le carceri italiane siano diventate una “discarica sociale dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell’umanità”: di fronte a tutto questo desta stupore che una richiesta di estradizione venga rifiutata per ragioni umanitarie?
 
E adesso che si fa? Si potrebbero ammettere i propri errori sul caso Cacciola, chiedere scusa per le dichiarazioni che hanno fatto infuriare Lula, pensare magari a un possibile percorso di revisione dei processi, non solo nel caso di Battisti. Ma tutto questo sarebbe faticoso e complicato, e avrebbe come unico risultato il ritorno in patria di personaggi che fanno molta più audience finché recitano, loro malgrado, la parte di cospiratori all’estero. Molto meglio continuare a far baccano, blaterando di sanzioni e altre misure minacciose che danno un tono molto virile ai nostri governanti. Paolo Granzotto, sul Giornale, ha scritto che “un tempo, in simili casi, una nazione con gli attributi e che non voleva esser trattata a pesci in faccia mandava le cannoniere”: insomma siamo già alla battaglia navale. Discorsi da pranzo di capodanno, chiacchiere ideali per assopire i cummenda in poltrona: quando poi lunedì si torna al lavoro, di blocchi alle esportazioni e accordi commerciali congelati nessuno vorrà più sentir parlare, i cummenda per primi.

E quindi? Ricominceremo da capo. Quello che non abbiamo saputo chiedere a Lula, lo richiederemo a Dilma Roussef, probabilmente con la stessa boria. E davvero non ha nessuna importanza che le possibilità di ottenere un verdetto diverso dalla nuova Presidente siano praticamente nulle. In fondo è proprio quello che Berlusconi e i suoi uomini perseguono sempre, consapevolmente o no: un gran baccano intorno al nulla. Battisti continuerà a scappare di nazione in nazione, coi suoi rimorsi (se ne ha); la sua foto, l’unica cosa che realmente interessa ai nostri governanti, continuerà a sogghignare in tv, alla faccia nostra.http://leonardo.blogspot.com

autocritiche, catastrofi, come diventare leghisti, ho una teoria

I was wr wr wr wr wr

“Il fatto è che a volte anche tu ti sbagli, come tutti gli esseri umani”.
“Non è vero”.
“Massì, ogni tanto scrivi delle gran cazzate”
“Non è vero”.
“Ti si vuol bene lo stesso…”.
“No”.
“Ma le scrivi”.
“Non le scrivo”.
“Succede a tutti”.
“Invece no”.
“Il fatto è che proprio non vuoi ammetterlo”.
“Non è vero”.
“Ma sì, non lo ammetti mai”.
“Non è vero, io lo ammetto sempre”.
“Non ci credo che lo ammetti”.
“E invece guardami, eh, adesso lo ammetto. Pronta?”

Veneto, scusami, ho scritto una stronzata (Teoria  #49) è sull’Unita.it, e si commenta là. Un piccolo passo per l’umanità, un enorme passo per un blogger cispadano.

Cosa succede quando un blog scrive una stronzata? Una, per intenderci, come quella che ho scritto la settimana scorsa? Cosa bisogna fare? Cancellare tutto? Modificare? Far finta di niente, cambiare argomento? Dopo dieci anni che scrivo in rete (dieci anni in cui di stronzate devo averne scritte davvero tante) sono giunto a una conclusione: la cosa migliore è lasciare tutto com’è e chiedere scusa. E fare in modo che le scuse abbiano lo stesso risalto delle stronzate che le hanno causate. Eccomi qui, dunque. Siccome questo è un blog delle teorie, oggi ci porremo il seguente problema: perché ogni tanto su un blog capita di scrivere stronzate anche enormi? Avete teorie da suggerire? Io ne ho una.

Facciamo un passo indietro. Dieci giorni fa, come tutti i venerdì, ero disperatamente in cerca di uno spunto interessante per il pezzo. A un certo punto mi trovo davanti l’editoriale di un giornalista veneto, Alessandro Zuin, che domandandosi come mai gli invasi anti-piena non siano stati costruiti “neppure negli anni grassi, quando i finanziamenti correvano in scioltezza”, si risponde che certi lavori pubblici “costano molto ma non danno un corrispondente ritorno in termini di popolarità al personale politico che li realizza. Al contrario, procurano fastidi e complicazioni”. Per contro “al politico di turno assicurano un riscontro migliore gli interventi fatti eseguire a riparazione dei danni, dopo il solito disastro ambientale”. Insomma, il fatto che i politici preferiscano intervenire sulle emergenze piuttosto che fare prevenzione sarebbe la conseguenza della democrazia come la intendiamo negli ultimi anni (una campagna elettorale permanente).


Si trattava davvero di un’idea interessante, e inquietante, anche: peccato che l’avesse già ben scritta Zuin. Io invece dovevo produrre un contenuto originale. Così mi venne in mente di scrivere una favoletta alla rovescia, dove la saggia formichina che in estate ha alzato gli argini perde le elezioni, mentre la pigra cicala lascia che l’acqua scorra, poi si lamenta e ottiene 300 milioni da Roma. Visto che si parlava di alluvioni, mi è sembrato appropriato far passare un fiume in mezzo. Dopo i primi tentativi trovai che la storiella avrebbe preso tutto un altro tono se fosse stata narrata dal fiume stesso. Et voilàil pezzo era pronto. E non mi sembrava nemmeno una stronzata. Mi sbagliavo, mi dispiace, chiedo scusa.

Eppure lo spunto era buono. In che modo sono riuscito a trasformarlo in una stronzata? Beh, è molto semplice. Ho raccontato di un fiume che divide due regioni. Se quella delle cicale astute e piagnone è il Veneto, l’altra non può essere che l’Emilia-Romagna – che è poi quella in cui vivo io, che tra l’altro negli stessi giorni aveva i fiumi gonfi a causa di precipitazioni pure assai inferiori. In realtà la rete idrogeologica emiliana versa in condizioni altrettanto, se non più critiche di quella del Veneto; se i nostri argini hanno tenuto è forse semplicemente perché abbiamo avuto fortuna. Altrimenti in mezzo al fango ci sarei finito io, mentre magari un blogger veneto avrebbe scritto una sapida favoletta sulle mie disgrazie. Il fatto è che tra queste due regioni, più che un fiume, corre un confine ideologico – sempre più sfumato a dire il vero, ma ancora vivissimo nella fantasia di tanti lettori che continuano a pensare a un Emilia “rossa” e a un Veneto prima bianco e adesso “verde”.

La favoletta arriva sull’homepage dell’Unità lunedì scorso, in un momento particolare. Le dimensioni del disastro ormai sono chiare, eppure molti lettori hanno la sensazione che l’alluvione non riesca a ‘forare’. Ed è vero che Tv e giornali ne parlano poco. Altri argomenti (il caso Ruby, la crisi di governo, Benigni e Saviano in tv) tengono banco. E anche su internet, uno dei pochi articoli che parli dell’alluvione… è una stronzata. E l’ho scritta io. Di solito sarebbe passata inosservata, sommersa da centinaia di articoli in cui si esprimeva la solidarietà con la popolazione colpita… ma stavolta no. Devo dire che chi si lamenta della scarsa solidarietà ricevuta la settimana scorsa non ha tutti i torti. Di solito non sono io a scrivere cose del genere; di solito quando arrivo io la solidarietà ha già riempito lenzuolate di quotidiani, in mezzo alle quali (di solito) un po’ di cinismo non guasta. Stavolta invece intorno al mio cinismo non c’era quasi niente. Non me lo aspettavo. Ma è successo.

A questo punto è scattato un fenomeno curioso. Alcuni blog invece di produrre o segnalare contenuti di qualità sull’argomento; invece di individuare i responsabili dell’incuria, se c’è stata, o dimostrare che non c’è stata… hanno iniziato a prendermi di mira come esempio di giornalista anti-veneto, che fa propaganda anti-lega, anti-nord, anti-gente-che-si-rimbocca-le-maniche. Nei commenti al mio articolo è cominciata una furibonda polemica contro l’Unità e il PD che ce l’ha coi veneti. Sì, perché di colpo un autore di blog semisconosciuto (io) è diventato addirittura, nei deliri di alcuni, la voce del PD, o di un’intera civiltà di giornalisti radical-chic che scrivono empie favolette da saputelli mentre là fuori c’è chi rimedia ai disastri con pale e carriole.

In realtà chi scriveva roba del genere, più che la pala e la carriola, stava usando una tastiera esattamente come me. Se io non avevo saputo produrre niente di più interessante di una cinica favoletta, loro stavano semplicemente cambiando argomento: invece di parlare di gestione del territorio, di prevenzione contro emergenza, prendiamocela contro i soliti radicalchic. Ma non sono i radicalchic a dirottare i fondi per la prevenzione delle alluvioni… Il problema è che, per quanto deliranti, molti avevano ragione. Avevo davvero scritto una stronzata. Forse non volevo davvero scrivere una favoletta sulle formichine emiliane e sulle cicale venete, però il pezzo si poteva benissimo leggere in quel senso. Era suscettibile di un’interpretazione del genere. Poi, certo, io parlo a mio nome: non si può prendere una mia stronzata e fingere che rappresenti “la sinistra” o addirittura il PD (partito che a volte ho votato e a volte no). Però scrivere su un giornale come l’Unità comporta delle responsabilità. Anche se non diventerò mai portavoce del PD, devo essere più attento a quel che scrivo qui. Proprio perché c’è gente che travisa volentieri.

E anche perché in fondo me lo aspettavo. Rileggendomi, prima di pubblicare, mi ero perfettamente reso conto che il pezzo poteva essere letto come uno sfogo da campanile: però l’ho pubblicato lo stesso. Perché? Devo aver pensato (ed è qui che ho commesso l’autentica, grande stronzata) che un po’ di polemica non avrebbe guastato. Avrebbe aggiunto un po’ di pepe al dibattito, come si dice. Sapevo benissimo che il Veneto non è solo Lega (è la regione del volontariato, ad esempio). Sapevo anche che di cicale sprovvedute l’Emilia è piena. Ma ho pubblicato lo stesso. Se dà fastidio a qualcuno tanto meglio, ho pensato.

Il guaio è che non mi sbagliavo. Il pezzo è stato letto da molte più persone. Il mio blog ha raggiunto lettori che prima non lo conoscevano, e che adesso magari lo maledicono, però chissà, ora sanno che c’è e prima o poi ci torneranno. Ed eccoci arrivati alla teoria: perché sui blog si scrivono stronzate? Perché funzionano. Alla gente piace leggerle. Voi lo avevate notato il pezzo di Zuin? Era breve, pacato, condivisibile, quasi nessuno se l’è filato. La favoletta invece ve la siete letta. Per forza, era una stronzata. Dovrei smettere di scriverne, lo so. Ma non è facile. 

ambiente, come diventare leghisti, ho una teoria

Io Fiume

Oggi la rubrica l’ha scritta il Grande Padre. Ciao papà, sorridi!
No, eh?
Vabbe’. Il fiume dei Fessi e dei Furbi si legge sull’Unita.it, ed è possibile commentarlo qui.
(Ndb: nel pezzo si parla di due regioni. Mentre una è facilmente riconoscibile nel Veneto di Zaia, l’altra vorrebbe essere l’Emilia, ma appunto, vorrebbe: ce ne passa ancora di acqua, sotto e sopra i ponti).

Buongiorno, io sono un Fiume. Sono al mondo da molto prima di voi umani, e ci sarò quando ve ne sarete andati. Questo non significa che vi disprezzi. Anzi devo dire che gli ultimi millenni sono stati molto eccitanti, grazie a voi. Prima la mia vita scorreva piuttosto placida: giusto ogni tanto un terremoto, una glaciazione o un disgelo, ma per spostare il mio letto anche solo di pochi metri potevo metterci un’era geologica. Poi all’improvviso siete spuntati voi, così veloci che non ho nemmeno capito da dove siete scesi (dagli alberi?) Mi avete imbrigliato, canalizzato, deviato di qua, interrato di là, come degli ossessi. È stato divertente (ma un bel gioco dura poco).
Col tempo forse ho capito il vostro problema. La mia teoria è questa: voi non riuscite quasi mai a guardare più in là della vostra vita, che è molto breve. Questa pianura, dove stagnavo tranquillo, non era stata creata per voi. Dove io avevo messo paludi e lagune, voi avete voluto mettere campi, pascoli, città. Per farvi spazio mi avete combattuto per generazioni. Mi sta bene. Purché capiate che non potrete mai vincere. Io sono il Fiume, ci sarò sempre, e voi dovrete sempre lottare contro di me. Il giorno che non avrete più le forze, ve ne andrete, e tornerò alle mie paludi. Già adesso, basta che piova due o tre giorni, e cosa vi trovate in cantina? Sono io. Sto tornando.
Vorrei raccontarvi la storia di due regioni. Perché abbiate deciso di chiamarle con due nomi diversi non lo so, sono le vostre manie: nomi, confini, bandiere… Io Fiume le solco entrambe, e faccio fatica a distinguerle, da tante cose hanno in comune. I loro abitanti si somigliano, si sono arricchiti tardi e in fretta. Hanno gettato per terra tanto asfalto, tanto cemento, probabilmente troppo. Doveva lastricare la via verso il successo, ma ha reso di fatto più complicato l’assorbimento delle acque, e adesso bastano tre giorni di pioggia perché io rigurgiti fuori dai tombini.
Quello che distingue davvero le due regioni è, come dite voi, la “politica”. In una delle due governano i… non so come si chiamino, sono un Fiume e non leggo molti giornali, li chiamerò i Fessi. A un certo punto persino i Fessi hanno capito che le inondazioni in autunno e in primavera non erano più emergenze, ma un problema cronico. E hanno pensato di risolverlo alzando gli argini, scavando nuovi canali, costruendo casse di espansione e allargando quelle esistenti. Per fare tutto questo servivano molti soldi: li hanno raccolti, economizzando su altre voci di bilancio; domandando di accedere a fondi nazionali o europei per la conservazione del territorio; indebitandosi. Magari hanno addirittura alzato le aliquote delle imposte regionali. Lo hanno deciso in un giorno di sole; non una nuvola si affacciava alle finestre della giunta regionale. Non è stata una scelta popolare. Ma gli amministratori guardavano al medio-lungo termine, pensavano alle inondazioni che avrebbero prevenuto, ai soldi che avrebbero risparmiato. Perché sono Fessi.
Nell’altra regione da qualche anno governano i Furbi. Anche loro hanno capito che l’acqua in cantina non era un ospite occasionale. Non sono mica Furbi per niente. E cosa hanno fatto? Un bel niente. Non hanno alzato un argine, ché son soldi. Non hanno scavato un solo fosso in più di quelli scavati dai loro nonni più previdenti. In estate hanno annunciato che loro le aliquote non le toccavano, tra gli applausi dei loro elettori. Questi son già arrabbiati dei troppi soldi che vanno alla capitale, figurati se potevi chieder loro di pensare alla pioggia nei giorni di sole.
È venuto settembre, e poi ottobre, e con ottobre le prime piogge serie. Dopo qualche giorno, neanche una settimana, io mi sono presentato puntuale nelle cantine, e ho fatto un miliardino di danni. I Furbi hanno approfittato per chiedere soldi alla capitale, e lamentarsi dei centralisti ladroni. Siccome in realtà anche nella capitale governano i Furbi, qualcosina senz’altro arriverà. Poi sì, tanti soldi bisognerà spenderli, e i contribuenti li pagheranno. Nel frattempo i Furbi si faranno fotografare mentre spalano il fango nelle cantine, e ci avranno guadagnato una bella foto per il manifesto elettorale. Già, perché tra un po’ ci saranno le elezioni, e sapete chi le vincerà? I Furbi. Con le loro mani sporche di fango, il simbolo degli Uomini del Fare.
Anche nell’altra regione è piovuto. Ma gli argini erano più alti, le casse di espansione pronte ad accogliermi; così ho esondato appena un po’, e il giorno dopo non ero neanche in prima pagina sui quotidiani locali. Tra un po’ ci saranno le elezioni anche qui. E i Fessi le perderanno. Perché hanno alzato le tasse, e non hanno nemmeno un manifesto in cui spalano fango in una cantina. Insomma perché sono dei Fessi, e meritano di perdere.
Il futuro, infatti, è dei Furbi. Credete a me, che sono un Fiume, ho già visto crepare i dinosauri. I furbi erediteranno il mondo – per i prossimi cinquant’anni, diciamo. Il tempo di estinguervi. Poi torno io. Spazzo via il vostro cemento e non ci penso più. http://leonardo.blogspot.com
come diventare leghisti, contro l'identità, contro la lingua italiana

La Padania è un’espressione geografica

Neologismi da salvare (2): Padania

Suona incredibile, pure è così: sul mio slabbrato Zanichelli “Padania” non c’è, quindi dovrebbe trattarsi di un neologismo. La cosa è abbastanza strana. Io ricordo di averne sentito parlare addirittura a lezione di filologia. Se non mi sbaglio (prestai il manuale e gli appunti a una ragazza, me sciagurato, che non me li ritornò) con “padanìa” si indicava la regione linguistica delimitata a sud dalla linea Rimini-La Spezia. Addirittura negli anni Ottanta è attestato il termine tecnico “padanese”, traduzione di “padanian”. Nel frattempo Gianni Brera scriveva “padania” già da vent’anni. A quel tempo la Gazzetta dello Sport era un laboratorio linguistico: allo stesso Brera dobbiamo “centrocampista”, “contropiede”, “pretattica”, “melina”. Questi termini però ebbero fortuna perché i colleghi di Brera ne avevano effettivo bisogno. “Padania” rimase un brerismo, forse perché non era un termine tecnico.

Insomma, l’idea è che fino a metà Novanta “Padania” (anzi, Padanìa) fosse esclusivo appannaggio di filologi occhialuti e gaddiani della domenica sportiva. Ma ne siamo davvero così sicuri? Su internet la discussione divampa (come qualsiasi discussione). “Padania” è una parola tradizionale o una novità dell’altro ieri, un coccio celtico made in China? Se trovate scritto “padania” su un documento antecedente al 1995, potete segnalarlo ai curatori di questo sito, li farete felici:

In questa pagina saranno segnalati tutti i testi siano essi libri, riviste, quotidiani o qualsiasi altro genere di pubblicazione che riportino in qualche modo il nome Padania . Si vuol così dimostrare che il termine era già in uso e non costituisce quindi un frutto del recente periodo politico, ma al contrario la politica stessa ha ricavato il termine dal territorio che ne porta il nome, dal territorio dove il termine era in uso già da molto, molto tempo.

Mah. In uso o no, senz’altro fino a metà ’90 “Padania” non era un termine del lessico politico. Addirittura i leghisti per più di dieci anni non sapevano di essere gli strenui difensori di una cosa che iniziava con la P. Nei primi tempi Bossi parlava di una “Repubblica del Nord” che faceva un po’ guerra di secessione; nei momenti più lirici (ne ha, ne ha, per quanto di atteggi a scarpe-grosse-cervello-fino ha sempre avuto gli slanci del boccalone da bar) si azzardava a sognare un’“Eridania trapuntata di stelle”. Purtroppo l’Eridano è una delle costellazioni meno interessanti dell’emisfero boreale, e poi c’è il problema del marchio registrato dallo zuccherificio. E così era abbastanza inevitabile che un bel giorno nascesse la Padania. Con l’accento sulla seconda a, non si sa bene perché. Probabilmente per evitare anche solo la rima con Albania e Romania.

Come inventare una nazione con una parola, prendete nota. Semplice e geniale, un uovo di Colombo. Padani lo siamo sempre stati, ma finché abitavamo in Valpadana la cosa era abbastanza irrilevante. Ora invece popoliamo la Padania: vuoi mettere? La parola “Valpadana” evocava un ambiente fisico delimitato e circoscritto. Togli la connotazione fisica, aggiungi un suffisso semplice e maestoso (-ia) e hai qualcosa di più. Niente più prati verdi e montagne, ma una patria. Che non esiste, secondo Gianfranco Fini. E neanche secondo me. Però intanto la parola c’è, e le parole vanno maneggiate con cura.

Lo slogan “La Padania non esiste”, per esempio, mi sembra un caso da manuale di “Non pensate all’elefante”: ti costringe a ragionare su quel che nega. In fondo siamo tutti cresciuti in quel famoso ambiente sessantottardo dove purtroppo tutti questi sei politici non li ha visti nessuno, ma in compenso abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi autorità, qualsiasi imposizione, e soprattutto qualsiasi negazione. Così la mia prima reazione istintiva alla frase “X non esiste” è: come fai a dirlo? Chi sei per dirlo? Se x non esiste, perché ha un nome? Chi glielo ha dato evidentemente pensava che esistesse. Perché devo fidarmi di te e non di lui? E perché tu ci tieni tanto a dire che non esiste? È una rimozione, e se abbiamo leggiucchiato Freud sappiamo cosa c’è dietro le rimozioni. Insomma, Gianfranco, non è per caso che vuoi negare la padanità che è in te? Come Hitler che forse, chissà, aveva zii di quarto grado ebrei? Eccetera eccetera.

La Padania è “un’invenzione”, dite. Un po’ come qualsiasi altra cosa. l’Impero Romano, la Repubblica di San Marino, qualsiasi entità statale ha dovuto essere inventata a un certo punto. Anche la parola “Italia”, ricorderete, è stata confinata un bel po’ di tempo nel limbo delle “espressioni geografiche”: e continuava a suonare stravagante anche negli anni più drammatici del Risorgimento. A credere nella sua consistenza di patria e nazione era una minoranza che non doveva attestarsi molto lontano dal 10% che hanno i leghisti oggi in Parlamento. Le nazioni sono comunque concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po’ di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che dici “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi.

Quelli che dicono “X non esiste”, di solito sono i cattivi. In Turchia sono quelli che negano il Kurdistan. In Palestina, quelli che fingono di non vedere i palestinesi. In fondo se questa è tutta la cattiveria di cui oggi è capace Gianfranco Fini, se è tutto qui il suo residuale nazionalfascismo, verrebbe quasi voglia di abbuonarglielo: ma non si può, non conviene. Padania è una parola potenzialmente pericolosa, e l’ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. Facciamo che esiste: che è un comodo sinonimo del più tradizionale Valpadana; che è la macroregione in cui abitano i padani, che saremmo sempre noi, dotati di un’identità linguistica più che storica, che comunque non cessiamo per questo di essere italiani come lo sono i meridionali, gli isolani, e… e quelli che stanno in mezzo. A proposito, forse occorrerebbe inventare un nome anche per loro. Già, ma non è mica facile. È in questi momenti che gente come Brera ti manca davvero.