dialoghi, Renzi

La sinistra che odia Recalcati

“Dottore, la prego, mi aiuti…”
“Ma certo, si accomodi. Mi sembra un po’ scosso”.
“È a causa dell’odio”.
“Dell’odio?”
“L’odio della sinistra”.
“Mi faccia capire. C’è qualcuno che la sta odiando?”
“Non me, dottore, non me! Sta odiando Matteo Renzi!”
“Matteo Renzi?”
Quale è il peccato commesso da Matteo Renzi per aver attirato su di sé un odio così intenso?
“Ma un odio da parte di chi, mi perdoni?”
“Gliel’ho detto, dottore! Da parte della sinistra!”
“La sinistra in che s-“.
“La sinistra che odia”.
“E perché odia?”
“È nel suo DNA”.
“Prego?”
Fa parte del suo Dna e della sua storia, anche di quella più recente, scatenare l’odio nei confronti di coloro che, dichiarandosi militanti di sinistra, osano introdurre dei cambiamenti che rischiano di minare alla base la sua identità ideologica…
“Cioè mi sta dicendo che c’è gente che passa il tempo a scatenare l’odio nei confronti di chi mina la sua identità?”
“La sinistra! La sinistra fa sempre così”.
“Io non so esattamente cosa lei intende per sinistra, ma ammettiamo per un attimo che sia così: avrebbe un senso evolutivo. Se qualcuno ti mina alla base, tu cerchi di isolarlo e sconfiggerlo, no? Voglio dire, l’alternativa sarebbe farsi minare alla base, e se ti minano alla base poi…”
“Ma Renzi non è così!”
“Non vuole minare alla base?”
“No! Vuole solo mettere la sinistra di fronte al suo cadavere!
“Matteo Renzi è un cadavere?”
“No! La sinistra è un cadavere!”
“Beh, in tal caso sarebbe comprensibile un minimo di ritrosia da parte del… del cadavere che non sa di essere tale, voglio dire…”
La vera ragione di tutto questo odio è la difficoltà della vecchia sinistra di fare il lutto della sua fine storica“.
“…s’immagini che qualcuno all’improvviso le dica che è morto: lei magari non la prenderebbe bene”.

“Se fossi morto non mi si porrebbe più il problema!”
“Ha ragione anche lei”.
“E invece la sinistra insiste a odiare Renzi!”
“Si vede che… non è così morta. Ma mi farebbe un esempio?”
L’accusa di essere un rinnegato o un traditore in questi casi scatta come la salivazione condizionata nel cane di Pavlov“.
“Ma veramente il cane di Pavlov non sbavava subito, aveva prima bisogno di una fase di condizionamento in cui… ma sta paragonando la sinistra a un cane?”
“Un cane fanatico!”
“Però non è morto. Perché prima ha detto che era morta, adesso dice che è un cane – un cane stupido, va bene – ma comunque un cane vivo”.
“Un cane ringhioso che odia a comando!”
“Ma mi fa un esempio?”
“Un esempio? Vuole un esempio?”
“Ma sì, perché io tutto questo odio per Renzi, francamente…”
“Ma ne ho finché vuole, di esempi”.
“Bene, quindi me ne faccia uno”.
La storia ci offre una miriade di esempi, antichi e più recenti“.
“Sentiamo”.
La dichiarazione di voto favorevole al Referendum del 4 dicembre è assimilabile, per chi sente di appartenere al mondo della sinistra, a un vero e proprio outing con tutti i fatali effetti di discriminazione che esso comporta“.
“Prego? Non si capisce”.
“Mi ha sentito? Nel mondo della sinistra, se uno diceva di voler votare favorevole al Referendum…”
Votare favorevole significa votare Sì, immagino”.
“…era come se facesse outing”.
“Forse lei intendeva un coming out”.
“…con tutti i fatali effetti di discriminazione!”
“E cioè?”
“Cioè cosa?”
“Guardi, lei mi sembra un po’ scosso e non si sta spiegando molto bene, ma mi pare di capire che abbia paragonato i disagi di un renziano durante la campagna referendaria a quelli di un gay che fa coming out”.
“Esattamente”.
“Ora lei magari fa un altro mestiere e le sfuggono quelli che possono essere i disagi di un gay che si dichiari tale di fronte alla sua famiglia, o nell’ambiente di lavoro: a volte si corre il rischio di rompere i contatti coi genitori, o perdere il lavoro, o patire forme di bullismo o di mobbing… c’è persino gente che si suicida”.
“Ma infatti”.
“Ma lei conosce casi del genere? Qualcuno è stato mobbizzato o bullizzato per aver dichiarato il suo sostegno a Renzi? Ci sono stati tentativi di suicidio?”
Ma possibile che ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato?
“No, aspetti, non cambi argomento. Si rende conto che ha paragonato i renziani ai gay che fanno coming out?”
“È una metafora”.
“È molto forte. Ma ha degli argomenti su cui sostenerla? Episodi specifici, non so, discriminazioni sul luogo di lavoro, colluttazioni… qualcosa di reale, insomma”.
Matteo Renzi viene identificato non come la cura, ma come la malattia della sinistra. Una infezione, un batterio, una anomalia genetica“.
“Ma da chi?”
“Gliel’ho detto! Dalla sinistra!”
“Ma mi saprebbe citare una sola persona che ha paragonato Matteo Renzi a un batterio?”
“Insomma lei vuole delle citazioni”.
“Delle prove, sa com’è. Perché finora l’ho sentita paragonare la sinistra a un morto e a un cane di Pavlov, mentre non ho ancora sentito nessuna persona di sinistra paragonare Renzi a un batterio… ma forse me lo sono perso, sa, ognuno vive nella sua bolla e quindi…”
“Va bene, le farò un esempio”.
“Oh, ecco”.
“Così si capirà che non mi sto inventando tutto”.
“Bene”.
Un intellettuale lucido verso il quale provo solo stima come Tomaso Montanari esigeva eloquentemente che Pisapia facesse autocritica per aver votato Sì al fine di risultare credibile nel suo sforzo di rifondazione di un nuovo campo della sinistra“.
“…e quindi?”
“Ma non capisce? Vogliono l’autocritica! Per aver votato Sì!”
“Beh, dal loro punto di vista, mi scusi, se loro erano per il No e Pisapia ha votato Sì… la loro ritrosia a farsi guidare da qualcuno che la pensava in modo diverso da loro mi pare in qualche modo comprensibile…”
L’odio investe l’altro in quanto eterogeneo e inassimilabile. Renzi per la “sinistra sinistra” è l’incarnazione maligna di una eterogeneità che resiste ad ogni assimilazione“.
“Senta, non starà un filo esagerando? Renzi ha proposto una riforma, molte persone a sinistra di Renzi non la gradivano e hanno votato contro. È quel che succede in democraz…”
È un fenomeno che ricorda il rito tribale di alcune popolazioni dell’Africa nera riportato da Franco Fornari nel suo celebre Psicoanalisi della guerra
“Addirittura”.
“Di fronte alla morte insensata di un bambino, la tribù afflitta anziché incamminarsi verso la via dolorosa dell’elaborazione del lutto preferisce attribuirne la responsabilità alla popolazione confinante e ai malefici del suo sciamano dichiarandole guerra“.

“E insomma prima erano morti, poi erano cani, adesso sono tribù primitive, mi sembra che stiamo facendo progressi”.
L’odio che lo investe vorrebbe coprire la fine di una concezione del mondo che ha nutrito l’interpretazione della storia per tutto il Novecento“.
“Va bene, va bene, ho capito”.
La lotta di classe, una concezione etica dello Stato, l’identificazione del liberalismo e dei sui principi come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, una differenziazione paranoide del mondo in forze del Bene e in forze del Male“.
“Una differenziazione paranoide, già…”
“L’ho convinta, dottore?”
“Beh, diciamo che mi ha fornito alcuni spunti interessanti… ma non vorrei saltare a delle conclusioni. Credo che lei abbia bisogno di uno specialista”.
“Uno… specialista?”
“Quel che mi è sembrato di capire è che lei è reduce da un investimento emotivo molto… molto pesante. Probabilmente ha trasferito su Matteo Renzi un grosso carico di fiducia, e ha vissuto la sua sconfitta al referendum come un trauma. Piuttosto di riconoscere gli oggettivi errori del suo eroe, si è costruito un nemico implacabile a cui addossare tutte le colpe… attingendo dalla retorica anticomunista di qualche anno fa, mi pare: la sinistra-sinistra che fa i processi ai traditori, roba da fine anni Settanta, forse l’imprinting dei primi anni di università…”
“Ma dottore…”
“Credo che un po’ di analisi le farebbe bene, e forse so anche chi consigliarle: in città abbiamo uno dei migliori d’Italia, scrive libri bellissimi”.
“Dottore, guardi che…”
“Non deve avere paura; l’analisi è solo uno strumento. Lei è venuto qui perché mi voleva parlare: perfetto, le sto soltanto proponendo di parlare con qualcuno molto più bravo di me. Non è una fortuna che esistano specialisti che ci possono aiutare in casi come questi?”
“Ma dottore…”
“Si chiama Massimo Recalcati, davvero, ci vada, lui può fare veramente molto per lei”.
“Dottore, sono io”.
“Cosa?”
“Massimo Recalcati sono io”.

(I brani in corsivo sono tratti da questo editoriale di Massimo Recalcati).

internet, migranti, razzismi, Renzi

Il business degli immigrati, il business Mondadori, l’egemonia a Cologno

A questo punto credo che sia stato appurato che c’è almeno un’organizzazione, molto potente, che lucra sul traffico di migranti. Si chiama Mondadori, vende i libri di Mario Giordano e li promuove mediante video virali su youtube – come quello famoso di Luca Donadel che ha suggestionato un po’ tutti. Forse anche quel giudice di Catania che qualche settimana fa ha iniziato a parlare di un complotto di Ong per traghettare i migranti in Sicilia: non aveva prove, nemmeno le aveva chieste all’intelligence perché “non le avrebbe sapute usare”, ma “gli risultava da internet”, “perché in rete ci sono i dati della posizione delle ong”. 

Ma perché “Quelli”?
Io nella foto ne vedo uno solo.

Ora potrei sbagliare, ma questa famosa “internet” in cui ci sarebbero “i dati della posizione delle ong” credo consista soprattutto in quel video del “ragazzo che smentisce le balle dei media”, ovvero Luca Donadel. È lui, nel suo video ‘autoprodotto’, a mostrare i tracciati delle navi di alcune ONG; è lui a far notare che esse interpretano la loro missione di salvataggio giungendo a volte a poche miglia nautiche dalla costa libica: è lui a intonare, per primo, il tema del sospetto: a chi giova (non far annegare migliaia di profughi nel mediterraneo)? Chi ci campa con quei famosi 35€ al giorno? Eccetera eccetera. Tutto quello che afferma Donadel si può naturalmente discutere – rimando a un pezzo di Leonardo Bianchi di un mese e mezzo fa, segno che il video è virale già da parecchio. Aggiungo soltanto un dettaglio: il “chi giova” si può naturalmente riflettere su Donadel stesso, che candidamente afferma di aver speso 400€ per accedere a un’applicazione che traccia il traffico navale: sono parecchi soldi per uno youtuber che si filma ancora nella sua cameretta. Chi glieli avrà anticipati?

Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.

Il fatto che nel video Donadel affermi: “Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all’anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere“, ce ne offre un altro.

(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).

Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come “ragazzo” o “studente”, afferma di lavorare nella “comunicazione”. Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po’ di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent’anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?

In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.

Nel frattempo un giudice ha aperto un’inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento – è da un po’ che non si parla più di Renzi, come se non fosse l’unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l’odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.

L’altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po’ eccitato per il buon risultato delle primarie, l’ha definito il definitivo consolidamento di “quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana“.

Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell’egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.

400€ e ti porti a casa il pacchetto,
egemonia inclusa.

Per esempio: Renzi potrebbe anche tornare a palazzo Chigi, ma se le sue idee sono rottamare il centrosinistra (vecchio cavallo di battaglia berlusconiano) e tagliare i seggi in parlamento e vendere le auto blu su ebay (nuove idee grilline), direi che l’egemonia è ancora lontana. Suggerirei di guardare un po’ più su, nella periferia nordorientale di Milano, dove ha ancora sede un gruppo editoriale che, se vuole, può pompare xenofobia tutta le sere alle otto e mezzo, senza che nessuno possa farci niente (legge sul conflitto d’interessi? nella cultura di Renzi non c’è mai stata). Un gruppo editoriale che può inventarsi l’emergenza profughi, scriverci dei libri, promuoverli sulle sue riviste – e su youtube, ovviamente: qualcuno se la prenderà con youtube. Vi diranno che ormai la società è liquida, e la gente è così, si fida delle peggio stronzate su internet, non c’è più niente da fare, pare che l’egemonia l’abbia un ragazzino che nella sua cameretta mostra le rotte delle navi e cambia le idee a un magistrato e a un vicepresidente della camera. Che possono fare i poveri Riformisti, a parte rincorrere gli xenofobi su questi argomenti? riaprire i centri di detenzione, i campi profughi in Libia e così via, e sperare che alle prossime elezioni votino per gli xenofobi riformisti, gli xenofobi dal volto umano?

No, sul serio, cosa potete fare?

BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!

Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.

Francia, Renzi

Questa non è la Francia, Matteo Renzi

Matteo Renzi ha ottimi motivi per essere entusiasta del successo di Emmanuel Macron in Francia: è stato uno dei primi a scommettere su di lui, quando era una scelta non solo azzardata, ma politicamente scorretta. Era ancora il segretario del PD, Renzi, quando all’indomani della sconfitta referendaria adottò l’hashtag #InCammino, evidentemente ricalcato sul nome del neonato movimento di Macron, En marche.

Un sostegno così smaccato a un candidato che non solo non rappresentava la componente francese del Partito Socialista Europeo (di cui il PD è orgoglioso membro), ma che si proponeva di cannibalizzarla, avrebbe dovuto forse destare qualche perplessità in più – acqua passata, Renzi non è più il segretario, è un battitore libero. InCammino è diventato un sito 100% renziano, con un claim vagamente minaccioso (“il futuro, prima o poi, torna“) e senza un solo riferimento uno al suo partito; c’è anche l’app e un servizio che mi invita alle riunioni via sms.

(Colgo l’occasione per un appello – visto che a quei sms non si può rispondere – potreste togliermi dalla lista? Non so chi vi ha dato il numero – cioè lo so benissimo, ma non solo state usando la lista di chi ha votato alle primarie PD per promuovere un tizio che non mette neanche più la scritta PD nel suo sito… ma è anche uno spreco per voi, cioè, è chiaro che io non sono il vostro target, dai).

Non è la prima volta e non sarà l’ultima che un politico un po’ appannato in patria cerca di aggrapparsi ai fenomeni che vincono all’estero: vedi l’euforia veltroniana per Obama. Macron poi ha davvero qualche tratto in comune con Renzi – forse più col Renzi invitto di qualche anno fa: è addirittura più giovane di lui, ha fatto un’OPA sul partito di centrosinistra e ha vinto. Nel dicembre del 2012, durante la campagna delle primarie, Renzi arrivò a minacciare di uscire dal partito: disse che c’erano sondaggi che lo davano al 25%. Quella che in bocca di Renzi era solo una smargiassata (in quel novembre prese 300 000 voti meno di Bersani, in dicembre 600 000), Macron l’ha realizzata. È rimasto fuori dal PSF, ne ha quasi svuotato il bacino liberal-moderato, ha attirato qualche voto dagli altri poli – ma anche così non supererebbe quel 25% che è la soglia del PD italiano.

Invece – e qui si capisce l’invidia di Renzi – a Macron un 23% basta e avanza per aggiudicarsi l’Eliseo al secondo turno: grazie al semipresidenzialismo della Quinta Repubblica, al doppio turno e alla conventio ad excludendum, la clausola anti-LePen che sin dai tempi del padre fa sì che la maggior parte dei francesi concentri il voto sul suo avversario, chiunque sia. Non è difficile capire che il sogno che ha animato l’avventura politica di Renzi sembra modellato più sul sistema francese che su quello italiano: la cosiddetta “vocazione maggioritaria” di Renzi non prevede un sfondamento del suo partito a destra o a sinistra (anzi il partito R. lo vorrebbe leggero, senza opposizioni), ma un bel doppio turno in cui mettere spalla al muro ogni italiano con una coscienza: o me o qualche personaggio impresentabile, un Grillo, un Salvini, un portavoce di Berlusconi o la sua mummia. Era il sogno dell’italicum: gli è andato male e non ha ancora capito perché. O almeno non mi pare che si sia reso conto che l’italicum non è stato bocciato dagli italiani cattivi, ma dalla Corte Costituzionale che non poteva che ribadire l’ovvio: i ballottaggi nazionali per eleggere un premier si fanno nelle repubbliche presidenziali (come la Francia); la nostra non lo è, e non lo può diventare con una legge elettorale. Non mi pare che si sia dato per vinto, perlomeno la retorica che lo anima è sempre la stessa: O me O la barbarie. E la risposta è sempre la stessa: in questo modo ci condanni alla barbarie, Matteo Renzi.

Perché in Italia non solo non c’è il semipresidenzialismo, non solo non c’è il doppio turno: soprattutto non c’è (né può essere introdotta per legge) la cosa più importante: la clausola anti-LePen, che da noi sarebbe… fino a qualche anno fa la chiamavamo clausola antifascista, ma adesso? Antigrillo, antisalvini, antigeloni? Non che abbia molta importanza. Non solo l’Italia ha, rispetto alla Francia, un passato fascista importante; ma anche nel passato più recente abbiamo avuto una coalizione berlusconiana che vinse placidamente le elezioni associandosi persino a Forza Nuova. È successo una decina d’anni fa, perché non potrebbe succedere domani?

Renzi sembra vivere la sua avventura politica come un romanzo di formazione: anche i suoi discorsi della sconfitta sembrano pervasi dalla fiducia che nell’ultima pagina del romanzo l’eroe trionferà; è una fede inossidabile che senz’altro lo ha aiutato ad arrivare dov’è, ma che purtroppo non posso condividere. Nel romanzo che ho studiato io, che non smetto di ripassare, i fascisti ogni tanto vincono. Il doppio turno, che in Francia li ha bloccati fin qui così efficacemente che Houellebecq addirittura se ne preoccupava (quanto è democratico un sistema che concede appena due o tre seggi a un partito che ha quasi un quinto dei suffragi?) in Italia potrebbe avere l’effetto opposto, e tenere per lungo tempo fuori dai giochi la parte politica che mi rappresenta. In futuro, se riuscirà a mettermi davvero con le spalle al muro, forse non avrò altra scelta che lui, ma finché posso evitarlo non vedo davvero perché dividere anche solo un tratto di strada con Matteo Renzi. Non è solo una questione di interessi diversi, è che secondo me va a sbattere. In Francia la pista è diversa, sì. In Francia avevano Gainsbourg, a noi è toccato Boncompagni, siamo diversi. È il bello dell’Europa (e la sua croce).

Pd, Renzi

Sarebbe molto meglio dirsi addio

Stavo pensando che al giorno d’oggi la vera qualità di una coppia si vede dai modi in cui divorzia. C’è gente che sa farlo senza perdere la stima di sé e dell’altro. C’è gente che nella vita non sa fare solo due più due, ma anche tre diviso due: e una volta calcolati resti e quoziente ti stringe la mano, ti chiede di restare in contatto e si fa venire anche una lacrima: non serve a niente ma è un bel gesto. E poi c’è gente che continua a urlarsi in faccia davanti ai bambini. Gente che aveva problemi a gestire l’amore e quindi adesso ha problemi a gestire l’odio, per loro la separazione è un prosieguo dell’innamoramento: ci mettono la stessa morbosa energia.

Stavo pensando a quanto preferirei che i miei politici di riferimento convocassero una conferenza stampa, una sola, in cui spiegano che si sono voluti tanto bene ma si è capito che hanno idee diverse, e soprattutto elettori diversi, e che col proporzionale non c’è proprio nessuna convenienza a restare sotto lo stesso tetto. Anche se fosse un tetto nobile (ma non lo è: son tegole di dieci anni fa appoggiate un po’ alla bell’e meglio). E quindi, per quanto doloroso possa sembrare e anche un po’ egoista, si è capito che è meglio che ognuno vada per la sua strada. Continueremo a rispettarci, a vedere i bambini secondo i turni che stabiliremo, e ad abbracciarci ogni volta che ci incontriamo, perché ok, ci abbiamo provato, ma siamo persone adulte e sappiamo fare due conti: e i motivi per cui ci siamo piaciuti quindici anni fa sono gli stessi per cui non perderemo la stima reciproca.

Invece di questa infinita manfrina, congresso sì, congresso no, hai detto che lo volevi e adesso non lo vuoi più, lo vedi che sei tu lo stronzo? E tu che avevi promesso che lasciavi la segreteria se perdevi al referendum? Ah ma è stata colpa tua, che non mi hai appoggiato al referendum! Ma perché dovevo appoggiarti se si era capito che andavi a sbattere? Sono andato a sbattere anche per colpa tua! Ma io te lo avevo detto da mesi che sbattevi! Il tutto davanti ai bambini, in streaming, o sulle prime pagine dei giornali che per fortuna nessuno legge perché davvero, se siete convinti che lo scontro D’Alema / Renzi attiri l’attenzione del grande pubblico, non vivete in castelli molto meno fatati di quelli gestiti da Casaleggio Jr.

Quando in realtà è tutto così semplice. Matteo Renzi è una persona con le sue qualità, ma dopo una sconfitta così netta (così tenacemente perseguita) non può più rappresentare una larga fetta dell’elettorato di centrosinistra. Tanta gente che se lo faceva piacere perché vabbè, un po’ arrogante, ma almeno vince le elezioni, adesso che ha smesso di vincere non lo sosterrà più. Se i tuoi sgherri tirano fango sulla Cgil un giorno sì e l’altro pure, prima o poi i tesserati voteranno qualcun altro, è un calcolo fin banale: per Berlusconi non era un problema, ma se abiti nel centrosinistra magari sì. E non puoi neanche cambiare atteggiamento all’improvviso: primo perché nessuno ci casca, la fiducia si riconquista in anni e non in mesi; secondo perché non ne sei capace. Ma il bello è che tutto questo Matteo Renzi lo sa: e se vuole ugualmente tenersi il marchio PD, è perché desidera che se ne vadano gli altri. E col proporzionale è meglio così, quindi perché litigare? Che senso ha inacidirsi tutti quanti, col rischio che poi non si riesca nemmeno a lavorare assieme nella prossima legislatura? Che senso continuare a dar benzina sui giornali ai polemisti peggiori, quelli che vivono di litigi e di ripicche come le zecche di sangue? Siamo grandi, sappiamo quanti motivi avevamo per stare assieme, e sappiamo perché adesso non ci conviene più. Abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità per quel che è successo, ma non esiste nessuna bilancia per pesarle, nessun giudice che stabilirà chi aveva ragione chi torto. Men che meno i nostri elettori. Andranno con chi credono meglio, e comportarsi da imbecilli davanti a loro non è una buona idea.

cattiva politica, Renzi

Il conte Gentiloni e gli eterni ritorni

Magari sarà un ottimo capo del governo: glielo auguro e ce lo auguro. Però davvero: quant’è buffo, dopo tanta retorica sulla rottamazione, ritrovarsi a Palazzo Chigi un conte Gentiloni Silverj? Un discendente di quel Vincenzo Ottorino Gentiloni che nel ’12 firmò il patto dei cattolici con Giolitti (noi ti votiamo e tu blocchi il divorzio e dai il via libera al finanziamento delle scuole cattoliche)? E dire che Paolo ce l’ha messa tutta per lottare contro il determinismo sociale. Ci informano i biografi che nel 1970 scappò di casa “per partecipare alle occupazioni studentesche a Milano” (non aveva 18 anni). Si ritrovò nel Movimento Studentesco di Mario Capanna. Nella sinistra extraparlamentare incontrò personaggi estremi come Ermete Realacci, Chicco Testa. E adesso eccolo a Palazzo Chigi. Da cui il legittimo sospetto: ma se invece se ne fosse rimasto a Roma a studiare e a militare in qualche prudentissima formazione centrista, oggi non si ritroverebbe, non ci ritroveremmo esattamente nella stessa situazione?

Magari Gentiloni non ce la farà: chissà se è un bene o un male. Però quanto è curioso che Renzi, così convinto di rappresentare una novità, si stia comportando più o meno come D’Alema nel 2000? E a D’Alema non andò molto bene, ricordiamolo. Si ritrovò a Palazzo Chigi nel ’98 a sostituire Prodi. Aveva le idee abbastanza chiare, puntava a riformare il Paese ma anche a trovare un’investitura popolare perché già allora l’idea che si potesse diventare capo del governo senza vincere esattamente le elezioni dava fastidio ai più. Non c’erano i grillini, non c’era la retorica del presidente non eletto, ma c’era già un sistema bipolare e la sensazione che Prodi nel ’96 avesse ricevuto un mandato dagli elettori, e D’Alema no. Per ovviare a questo problema, più psicologico che istituzionale, D’Alema ebbe una trovata molto discutibile, che i suoi cicisbei non esitarono a trovare geniale: non aveva vinto le elezioni del ’96? Pazienza, avrebbe vinto le successive. Trasformò ogni consultazione in un referendum sul suo governo. Alle europee non andò molto bene: fece un rimpasto. Alle regionali andò pure peggio e diede le dimissioni. I cicisbei ne lodarono la coerenza – sorprendentemente, alcuni di loro oggi lavorano e tifano per Renzi, l’uomo nuovo che avrebbe voluto ottenere da un referendum confermativo l’investitura che non aveva ottenuto con le elezioni. Stesse scelte, stessi errori, stessi rimedi, stesse sconfitte.

Magari un giorno, riguardando a tutto questo, ci accorgeremo di avere vissuto giorni straordinari, di avere assistito svogliati a una rivoluzione in diretta. In questo momento sembra l’esatto contrario: un eterno ritorno di situazioni già viste. I cattolici tengono alla famiglia e alla scuola e non la mollano, dal 1912 al 2016. Democristiani, diessini, democratici vanno avanti a tastoni e a ogni consultazione rimpastano un po’: se le cose vanno male lasciano il posto a un notabile innocuo e dicono in giro di essersi ritirati in campagna. In un suo accorato messaggio ai fan, dopo aver rimboccato le coperte dei figli, il dimissionario Renzi spiega di aver fatto una cosa incredibile, mai vista: si è dimesso senza un voto di sfiducia. (“Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no“). Chissà se ne è davvero convinto. Chissà se ignora che in tutta la storia della Repubblica dev’esser successo una volta sola a un governo di perdere la fiducia in Parlamento (e fu Prodi, ahinoi). Perché poi con Renzi il dubbio è sempre lo stesso. Davvero è convinto di essere qualcosa di inedito e di mai visto, anche se alla fine si ritrova a giocare lo stesso gioco di un D’Alema o di un Fanfani, e a rifare le identiche mosse?

Beppe Grillo, Renzi

Se Grillo fosse, semplicemente, il migliore?

Quello che sta succedendo sarebbe divertente, non stesse capitando a noi. Per sommi capi: il movimento che ha sempre osteggiato la legge elettorale di Renzi, ora vuole andare a votare al più presto proprio con quella legge; il partito che trovava la stessa legge bellissima, democraticissima, un esempio per tutta l’Europa… ora la vorrebbe cambiare. Nel frattempo si rinfacciano la scarsa coerenza, che pare sia una virtù imprescindibile se fai politica. Entrambe le fazioni sono guidate da personaggi che in passato avevano promesso di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta: Beppe Grillo prima delle catastrofiche europee del 2014; Matteo Renzi prima di questo referendum che evidentemente si illudeva di vincere, o almeno di perdere di misura. Probabilmente continueranno a sfidarsi anche nel ’17.

Da questa distanza l’italicum è sempre sembrata una legge pessima, e più adatta a Grillo che a Renzi. Lo scrivevo all’indomani del vertice del Nazareno, non ho avuto in seguito motivo per cambiare idea; (l’ho scritto anche sul quotidiano di riferimento del Pd, finché ho potuto). Non solo era una legge che faceva confusione tra presidenzialismo e parlamentarismo e attribuiva un premio abnorme; ma col ballottaggio avrebbe naturalmente premiato il voto contro, ovvero il M5S. Credo che Grillo oggi sia d’accordo, se ora propone di estendere la stessa legge al Senato (anche se non si può). Credo che anche al Pd condividano la stessa opinione, se smaniano di cambiar legge. Ma ci vuole una maggioranza e non è detto che ci sia.

C’è poi il solito problema del Senato: con una delle sue tipiche mosse impazienti, Renzi fece approvare una nuova legge elettorale che cambiava soltanto il meccanismo della Camera, confidando sul fatto che il referendum confermativo avrebbe eliminato le elezioni del Senato. Era una fiducia, col senno del poi, veramente mal riposta. Confesso: credevo che dietro ci fosse una qualche machiavellica astuzia; anche se fosse stato sconfitto al referendum, Renzi sarebbe rimasto a Palazzo Chigi con la scusa che a quel punto bisognava rimetter mano alla legge elettorale. Il fatto che giusto un mese fa la direzione del Pd avesse dichiarato ufficialmente di volerla modificare era un indizio ulteriore in tal senso. Mi sbagliavo: una volta sconfitto, Renzi non ha voluto restare a Palazzo Chigi un attimo in più del necessario, con tanti saluti al dibattito sulla legge elettorale. Se poi non si riuscisse a formare un altro governo, e si andasse davvero a votare in questa situazione con l’italicum alla Camera e il mattarellum emendato dalla Consulta al Senato, sarebbe davvero reponsabilità di Grillo?

Più in generale: chi dei due ci sta facendo una figura migliore? Non è solo una questione di successo elettorale: oggi Renzi è nella polvere e Grillo è sugli altari, due anni fa era il contrario, chissà che succederà da qui in poi. Ma chi dei due sta mostrando di avere più il polso dei suoi elettori e in generale degli italiani? Chi dei due sta approfittando meglio della situazione – e la politica è anche l’arte di approfittarne? Chi dei due si sta rivelando il migliore politico?

Su un’altra cosa sbagliavo: non credevo che i grillini avrebbero fatto una campagna referendaria così intensa. Ero convinto che questa volta avrebbero lasciato alla propaganda renziana campo libero perché, tutto sommato, una vittoria del Sì non li avrebbe affatto danneggiati. E dopo Roma non mi sembravano così ansiosi di prendere il potere. Mi stavo sbagliando. Il M5S rischia seriamente di vincere un’elezione nel 2017. Se succedesse, attenzione, non sarà una vittoria dell’antipolitica. Se Grillo vincerà, sarà grazie alla sua astuzia e alla sua capacità di cogliere le opportunità e metterle a frutto. Vincerà perché sarà stato più bravo, o gli altri molto più scarsi. In ogni caso se la sarà meritata.

campagna elettorale (permanente), Renzi

Renzi avrebbe vinto, se non fosse Renzi

Il ragazzo è un missile. 

Qualche mese fa, in un momento di apparente lucidità, Matteo Renzi ammise che la personalizzazione della campagna referendaria era stata un errore. Già al tempo si sapeva come sarebbe andata a finire; già al tempo qualcuno apprezzò quello che sembrava un tentativo di correggere il tiro. Già allora qualcun altro scuoteva la testa – insomma: è Matteo Renzi. Per forza personalizza. Se l’acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, se Matto Renzi non personalizzasse. Cresciuto politicamente tra provincia e comune di Firenze, in una fase in cui partiti e corpi intermedi si ritiravano lasciando spazio a personaggi e personaggetti, Renzi è progettato per vivere ogni battaglia politica nel modo più plebiscitario possibile. O con lui o contro di lui. Del resto è così che si diventa sindaci, che si diventa personaggi mediatici, e forse funziona così anche con le primarie del Pd, ormai. Con palazzo Chigi le regole (per ora) sono un po’ diverse, ma forse era un po’ tardi per impararle. Prima o poi doveva metterseli tutti contro e andare a sbattere. È anche difficile prendersela con lui, insomma: è fatto così. Lo avevate pur capito che era progettato così. Un missile innescato dai tempi delle prime Leopolde. Non è che possa cambiare traiettoria in corsa, non è che possa imparare un gioco diverso. I missili solo una cosa sanno fare.

A mezzanotte e un quarto, quando ancora il conteggio delle schede era una stima, Matteo Renzi ha voluto salutarci e mostrarci quanta importanza stesse dando davvero al testo costituzionale – perché a quel punto c’era ancora qualcuno che pensava che il referendum fosse sulla Costituzione, sapete. Ha spiegato che è stata colpa sua, tutta sua. Che i suoi elettori non c’entrano. Che ha fatto tante belle cose ma adesso lascia, perché evidentemente qualcuno non lo vuole. Ha fatto il suo concession speech, tanto simile a quello delle primarie di quattro anni fa, perché alla fine nella sua testa il politico è quella figura americana che ammette le sconfitte a conteggi in corso. Tra qualche tempo forse riuscirà più evidente l’assurdità della cosa: sulla scheda non c’era scritto Renzi, non c’era scritto PD, non c’era scritto Cambia Verso Rottamiamo i Professoroni. C’era un quesito costituzionale. Ma per Renzi le croci sul No erano contro di lui e queste è l’unica cosa che importi: lui. Se l’acqua non bagnasse, se il vento non soffiasse, forse sarebbe andata in un modo diverso.

È la fine della sua carriera? A occhio non sembra, anzi. Non fosse Renzi, avrebbe di che festeggiare, e non è escluso che in privato non lo abbia fatto. Alle europee di due anni fa il PD di Renzi valeva 11 milioni: il 40%. Dopo due anni di governo, con un logoramento inevitabile, senza una parte importante del PD, è riuscito a ottenere il Sì di tredici milioni di italiani. Insomma si tratterebbe di una vittoria, da spartire con alleati evanescenti (Alfano? Verdini?) che difficilmente avranno portato al mulino un milione di elettori in tutto. I sostenitori del Sì e i renziani più o meno entusiasti avrebbero di che festeggiare per un risultato che attesta la popolarità del loro leader, collocandolo al centro dell’arco costituzionale con un pacchetto di consensi che non si sta consumando col tempo. Avrebbero avuto più di un motivo di reclamare un risultato che dice, semplicemente, che qualsiasi futura maggioranza di governo dovrà fare i conti con loro.

Ma non sarebbero stati renziani. Non starebbero vivendo questi anni di governo come il talent show del giovane primo ministro contro tutti. Sir Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo, proponeva di lasciare il mondo migliore di come lo avessimo trovato. Renzi lascia il PD devastato, il principale movimento di opposizione più compatto che mai, la scuola disorientata, il mondo del lavoro in stagnazione e un sistema bancario sull’orlo del baratro. Qualcun altro si sarebbe sentito responsabile per tutto questo. Qualcun altro avrebbe cercato di evitare una consultazione referendaria, magari cercando di far passare qualche riforma attraverso la maggioranza qualificata del parlamento. Se non avesse funzionato, qualcun altro avrebbe potuto almeno recepire le critiche che arrivavano da costituzionalisti insigni e da membri del suo stesso partito. Infine, qualcun altro avrebbe potuto sganciarsi davvero dalla campagna, magari scaricandola sulle spalle della sua ministra delle Riforme, che nessuno considera una bella statuina; qualcuno potrebbe aver mantenuto un profilo super partes, dopotutto è già successo che una maggioranza perdesse un referendum e non è stata la fine di quella maggioranza. Qualcuno avrebbe potuto non essere Matteo Renzi, ma è andata così.

E adesso che succede? Forse niente. Le borse che dovevano crollare sono state calme, confermando che il dramma è tutto televisivo. Matteo Renzi ha finito la sua campagna, Matteo Renzi ha promesso soldi a tutti, cartelle di Equitalia condonate e ponti sugli stretti di Messina, ora l’intervallo è finito. C’è per l’ennesima volta da trovare la quadra a un bilancio difficile, c’è da affidare l’incarico all’ennesimo tizio grigio che alzerà le tasse e si farà odiare da tutti. Renzi se ne torna a casa a contare il suo gruzzolo di Sì, ad aspettare il momento in cui tutti lo rimpiangeremo. Non è escluso che non succeda molto presto, persino a me.

Vorrà dire che tra qualche mese o anno, complice il susseguirsi degli eventi o il rincoglionimento, mi sarò dimenticato quel piccolo dettaglio: il ragazzo è un missile. Forse non sarà per sempre un ragazzo. Forse un giorno imparerà a non andare dritto come un missile. Forse. Ma a quel punto forse è meglio provare qualcos’altro. E la vecchia domanda: ma come andò quella volta, ma chi si mise in testa per primo che quel missile sarebbe stato un ottimo segretario del Pd, un ottimo presidente del Consiglio? Non si vedeva che era un missile? E i missili solo una cosa sanno fare. Magari anche bene, eh. Ma solo una.

generazione di fenomeni, Renzi

Tra due dinosauri, scegli quello in via d’estinzione: vota NO.

21) Poi c’è chi voterà Sì ben sapendo che si tratta di una riforma brutta, scritta male, che probabilmente complicherà le cose, rendendo il clima politico ancora meno respirabile, ma l’alternativa è peggio, perché l’alternativa sarebbe… D’Alema. O Berlusconi. Insomma i vecchi.

Che è un po’ la storia che il Sì ha cercato in tutti i modi di raccontare nelle ultime settimane, quelle in cui Renzi, potendo scegliersi un avversario da talk show, ha optato per Ciriaco De Mita. Contro di noi c’è l’accozzaglia, contro di noi i pensionati, contro di noi i dinosauri. Restando nel campo della buona fede, prendiamo Francesco Costa:

Cos’altro succederebbe con una vittoria del No? Un’intera anziana e vastissima generazione politica si guadagnerebbe il diritto a un ultimo giro di giostra: da Brunetta a D’Alema, da Bersani a Berlusconi, da Maroni a Monti, da Gasparri a Fassina, persone che hanno fatto in modi diversi la storia della Seconda Repubblica e ora sono sul punto di uscirne, come fisiologicamente accade in ogni democrazia, conquisterebbero nuova centralità e vitalità nei loro partiti e quindi nel paese. Lo dico a prescindere dal giudizio nei loro confronti: è un fatto che alle successive elezioni bisognerebbe ancora, di nuovo, fare i conti con loro.

22) Il momento in cui i renziani hanno sorpassato
a destra la Casaleggio, occupando pagine di facebook
con meme beceri creati per l’occasione
(vedi Leonardo Bianchi su Vice).  Che a pensarci
è già un altro ottimo motivo per votare No. 

Questo argomento immagino abbia sicura presa coi trentenni, specie se cognitari: gente che tutti i giorni si misura nel luogo di lavoro con capi incompetenti che hanno il doppio della loro età (ehm no, non è il caso di Costa, ma per capirci). Cosa potrei obiettare? Secondo me non è vero: non vedremo D’Alema, Monti o Bersani in primo piano alle prossime elezioni. Non funzionerebbero – non credo stiano funzionando nemmeno adesso, non sono loro a spingere il No: al massimo sono un bersaglio comodo per la propaganda del Sì. Berlusconi è un discorso a parte, per gli interessi dell’azienda che rappresenta (e che gli sopravviverà). Ma alla fine non è tanto questo il problema.

Fingiamo che davvero ci sia una lotta generazionale, dinosauri contro rottamatori; fingiamo che tutto si decida conquistando i ventenni e i trentenni, ebbene: cari ventenni, cari trentenni, pensateci bene. Tra il dinosauro in via d’estinzione e quello che ha la vostra stessa età, con chi scegliete di combattere?

Sul serio: da una parte gente che ormai ha dato tutto quello che doveva dare. Bersani non dirigerà più il Pd, Monti non è più un nome spendibile per Palazzo Chigi. Berlusconi al limite può fare ancora il kingmaker, con esiti per ora mediocri. Ma Renzi, se lo votate, non ve lo levate più dal groppone. Fin qui l’anagrafe giocava dalla vostra parte, ma (cari trentenni) non sarà sempre così.

Ok, siete abituati a misurarvi nel luogo di lavoro, tutti i giorni, con colleghi e superiori incompetenti più vecchi di voi. Ma fateci caso: cominciano a farvi posto. Cominciano a chiedervi come funziona la tal procedura, perché ormai è innegabile che siate più svelti. Cominciano ad andarsene in pensione. E tra un po’ se ne saranno andati tutti. Ma siate sinceri: il clima sta migliorando? Guardatevi attorno: non li vedete i trenta-quarantenni arroganti, quelli convinti di aver capito le cose meglio di voi, quelli che combinano casini pasticciando con le procedure e poi cercano di addossare la colpa a qualcun altro – magari a voi? Quelli che si credono d’aver capito qualcosa, quelli che pensano di poterla spiegare a tutti, quelli in pensione non ci andranno per un pezzo? Capace che vi ci mandino voi. Quelli, se non vi date da fare, ve li tenete finché campate.

Lo so che è uno choc. Fin qui qualsiasi persona odiosa, qualsiasi coglione, per quanto insopportabile, aveva pure una data di scadenza. C’era qualcosa di irresistibilmente comico nella deriva senile di Berlusconi: da una parte le faceva enormi, dall’altra si capiva che non sarebbe durato. Ma avete dato un’occhiata a Renzi, alla Boschi? Quelli non scadranno ancora per tanto, tanto tempo. E vi dicono che dovete scegliere: o loro o quelli vecchi. Io non avrei dubbi, davvero. Di motivi per votare No ne ho tanti altri, e un po’ più seri: ma se è una questione generazionale, si risolve alla svelta. Tra due prede da inseguire, sempre scegliere quella stanca e ferita. Tra due nemici, sempre guardarsi dal più giovane e in forze. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e votate No.

Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po’ ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché “NO” almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini.
21. Perché tra due generazioni di dirigenti poco capaci, la più pericolosa è quella giovane e ancora in sella.
22. Perché la propaganda renziana è scesa a livelli intollerabili.

referendum, Renzi

Un quinto degli italiani ha il diritto di cambiare la Costituzione di tutti?

20) Ok, domani si vota. So che non vedete l’ora. E mettiamo che il Sì vinca, ma di misura. Sarà tutto regolare?

No, non sto parlando di brogli. C’è un problema un po’ più grosso, ovvero: quanto sarà credibile una vittoria del Sì, se al referendum non votassero in tanti?

Immaginatevi la situazione. Mettiamo che vada a votare meno del 50% degli aventi diritto – una stima anche ottimista, considerando gli ultimi referendum: diciamo venti milioni di italiani. Mettiamo che il Sì prevalga di poco, come suggeriscono alcuni sondaggi (che sbagliano sempre). Diciamo 11 milioni, in linea con le europee del 2014 (due anni dopo Renzi non sembra altrettanto popolare, ma ultimamente s’è speso molto, anche in tv – anche se forse la tv non serve, e tuttavia). Cosa succederà?

Tecnicamente sarà tutto regolare: undici milioni di italiani avranno ratificato la riforma Renzi-Boschi. Fine della storia.

Politicamente, sarà lo strappo definitivo. Milioni di italiani non accetteranno il risultato. Vuoi per tigna, vuoi per livore antipolitico. Ma anche per una questione di buonsenso.

Vi ricordo che la consultazione referendaria è necessaria perché la riforma, in Parlamento, non è passata con la maggioranza qualificata richiesta (2/3 dei votanti). Aggiungiamo che l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale. Questo non significa che sia illegittimo: nella stessa sentenza la Corte lo ha escluso, in virtù del “principio fondamentale della continuità dello Stato”: nell’attesa di una legge elettorale finalmente costituzionale (attesa che si sta rivelando un po’ faticosa), un parlamento deve pur esistere, e quindi ci teniamo quello eletto incostituzionalmente. Forse non era il parlamento più adatto per modificare così profondamente la Costituzione, ma Napolitano ci teneva tanto, Renzi pensava di potercela fare, e così eccoci qui.

Ricordiamo en passant che lo stesso Renzi governa con una maggioranza che al momento delle elezioni non esisteva, dato che non esistevano i partiti che la compongono; quello di Alfano, quello di Verdini (che adesso non so più come si chiamino) e il PD di Renzi – quest’ultimo, sì, esisteva, ed aveva pure vinto il super-premio di maggioranza alla Camera, ma presenandosi alle elezioni del ’13 con un programma diverso, e un altro leader (Bersani): Renzi era stato sconfitto alle primarie e non s’era nemmeno candidato alle politiche.

Ricapitolando: c’è un parlamento eletto con una legge incostituzionale, che può legiferare soltanto perché finché non scrive una legge costituzionale non ci può essere un altro parlamento più legittimo. C’è un governo che è espressione di una maggioranza composta da partiti che alle elezioni non si sono nemmeno presentati. Il suo leader può contare su una maggioranza, alla Camera, grazie a un premio elettorale (incostituzionale) conquistato dal suo predecessore, che non ne condivideva le idee e i progetti di riforma costituzionale. Questo nuovo giovane leader, invece di limitarsi a far riscrivere una legge il più costituzionale possibile e rassegnare le dimissioni, auspicando lo scioglimento del parlamento… decide di presentare allo stesso parlamento la riforma costituzionale più radicale dal 1946. Servono però i due terzi dei parlamentari: ce li ha? No. Malgrado il super-premio (incostituzionale), malgrado le alleanze (strette dopo le elezioni con partiti che non si erano nemmeno presentati), Renzi quei due terzi non ce li ha. E allora chiede di indire un referendum propositivo.

Il referendum lava più bianco: non importa quanto sia raffazzonata e trasformista la compagine che sostiene Renzi: non importa che provenga da un parlamento eletto incostituzionalmente, perché a questo punto la palla passa ai cittadini. Se più della maggioranza degli elettori troverà buona la riforma Renzi-Boschi, il fatto che sia stata scritta da gente arrivata al governo un po’ per caso non avrà più importanza. Più che la Renzi-Boschi, sarà la riforma del popolo italiano. Tutto bene? Insomma.

C’è un piccolo intoppo. Il referendum propositivo non ha il quorum. 11 milioni di italiani potrebbero reclamare il diritto di cambiare la Costituzione per gli altri 50 (per altri 40 di aventi diritto). Vi sembra giusto? A milioni di italiani non sembrerà giusto. Non lo accetteranno. Potrete sempre inveire contro di loro sui social: trattarli da ignoranti che non capiscono la democrazia.

Dove la democrazia è quella cosa che secondo voi funzionerebbe così: un parlamento eletto con una legge incostituzionale, invece di scriverne un’altra costituzionale e sciogliersi, vota la fiducia al governo diretto da un tizio che non ha vinto le elezioni – era opposizione interna nel partito che le ha pareggiate, non si è neanche candidato – e approva (ma senza maggioranza qualificata) una riforma costituzionale voluta da costui: la stessa riforma viene poi confermata mediante referendum da… un cittadino su quattro. Ma siete proprio sicuri che la democrazia sia ancora questa cosa qui? Siete sicuri che i grillini, oltre a essere beceri, ignoranti, livorosi, non abbiano semplicemente ragione?

Nel dubbio, fossi in voi, voterei No. Magari la prossima volta si fa una riforma più condivisa.

(Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po’ ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché “NO” almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini).

Renzi

Se vuoi davvero risparmiare, taglia le poltrone, Matteo Renzi

19) Ma è il modo di risparmiare?

La riforma in sé ormai non la difende nessuno. Nessuno riesce a parlarne bene restando serio. Romano Prodi ha deciso che vota sì “anche se le riforme proposte non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie“, che è un modo neanche troppo garbato per dire che le riforme proposte sono troppo superficiali e per niente chiare. Epperò tanta gente le voterà, perché… così si risparmia.

Adesso, onestamente: se il boss di un’azienda con  milioni di
dipendenti vi dicesse che la sua ricetta salvacrisi è un taglio
di 215 posti, non gli ridereste in faccia?

E a questo punto dovrei mettere anch’io mano alla calcolatrice e mostrare che no, non si risparmia così tanto, e che molti numeri messi in giro da Renzi sono falsi e dettati da un’ansia che assomiglia molto alla disperazione. Che è il problema di chi si gioca sempre tutto: a un certo punto vorrà fregarti. Non è colpa sua, ma ha moglie, figli, un Paese intero sul groppone, te la puoi prendere se alla voce “abolizione del Cnel” conteggia anche i costi di gestione dell’edificio? Un bel palazzo liberty, secondo voi dal giorno dopo lo chiudono e non mandano neanche un inserviente a pulire ogni tanto? Luce, riscaldamento, ci stai dicendo che tagli le utenze? Ma per chi ci hai preso? Eh, ma qui o si fa l’Italia o si muore, per cui sorbitevi questa e altre puttanate. Vabbe’.

I conti qualcuno li ha fatti davvero, e con un po’ di fatica potete trovarli anche voi. Con questa riforma si risparmierà, ma non tanto quanto sta promettendo Renzi. Piuttosto di buttar giù una tabella, preferirei aggiungere una riflessione: c’è modo e modo di risparmiare. Pensi che il parlamento costi troppo? Taglia i seggi. Dimezzali. Metà parlamentari, metà gettoni, metà rimborsi-indennità-eccetera. Chiudi il senato e trasforma Palazzo Madama in un museo della politica italiana. Metti il biglietto a cinque euro e a fine anno forse hai anche coperto il riscaldamento. Facile.

Ma a Renzi non piacciono le cose facili. Piacciono queste cose un po’ lambiccate da manager del consiglio parrocchiale. Invece di tagliare i senatori, offre lo stesso incarico a chi ne ha giù uno. Da qui in poi saranno tutti consiglieri e sindaci, e quindi un mensile l’avranno già. Che gran pensata.

Mi ricorda certi ambienti in cui ho lavorato. C’è bisogno di una figura professionale nuova? Dovremmo assumerlo. Non si può. Diamo lo stesso lavoro a uno che sta già facendo un’altra cosa. Ah, e non lo paghiamo – al massimo rimborsi, bonus, aiutini, ci mettiamo d’accordo in corridoio, mi raccomando non dirlo ai colleghi. Naturalmente il tizio lavorerà poco e male, del resto come fai a prendertela con lui? Ha già un altro lavoro da fare. E poi neanche lo pagano. E avanti così.

In controluce, un’idea della politica (e del lavoro) avvilente: roba che si fa nei ritagli di tempo. Nessuno si aspetta che tu la faccia bene. C’è una sedia da riempire e per risparmiare ci mandiamo te che hai già altre cose da fare, ma che ti costa? Sei mesi dopo succede un casino e magari è colpa tua, però alla fine mica se la possono prendere con te, tu avevi altro da fare, mica puoi accorgerti di tutto, e poi per quel che ti pagano.

Volete pagare meno i politici? Pagate meno i politici. Riducetegli il mensile, o riducete le poltrone. Ma lasciare quasi invariato il numero delle poltrone e tentare di spalmarci un numero inferiore di natiche di politici è un’idea semplicemente scema. Se l’ha capito anche la Meloni, son contento che persino la Meloni abbia capito qualcosa. Se Renzi e la Boschi non ci arrivano, sono mortificato: siamo al punto in cui persino la Meloni potrebbe dar loro una lezione di management e, beh, di democrazia.

Però se votiamo no e facciamo finta di niente magari tra un po’ ci dimenticheremo del momento in cui un ex sindaco proponeva per “risparmiare” di far fare ai sindaci e consiglieri il mestiere dei senatori a tempo perso. Ditemi un solo altro Paese al mondo dove qualcuno ha proposto seriamente una cosa del genere.

(Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po’ ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché “NO” almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse).

Renzi

Se non cambiamo la Costituzione questa volta… la cambiamo la prossima volta (anche domani)

La Stampa, ottobre 2001.

A questo punto di motivi per votare No ne ho già messi più di quindici, di cui una buona diecina nel puro merito della riforma. Qualche cosa da dire ancora mi verrebbe, per esempio sul nuovo articolo 117 che dovrebbe fare tabula rasa di un’era di sconsiderata devolution, rimediando al dilagare di contenziosi tra Stato e Regioni. Ai miei occhi inesperti sembra un po’ pasticciato; c’è una lunga lista di competenze che tornano allo Stato (ad esempio, “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute“), segue un’altra lista di “potestà legislative” riservate alle Regioni, non voci non dissimili dalla prima (ad esempio “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali“) ma in un ordine diverso. Può darsi che tutto ciò contibuisca a determinare con chiarezza ciò che spetta allo Stato e ciò che spetta alle Regioni (al primo la salute, al secondo la, uhm, programmazione dei servizi sanitari), ma così a occhio, ecco, non sembra. In mezzo la famosa clausola di supremazia “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” che mi sembra veramente formulata nel modo più vago possibile, come a scoraggiare da qui in poi qualsiasi rigurgito di orgoglio regionale.

Però, sapete che c’è? In fondo non me ne intendo. Magari è un buon articolo, una di quelle cose brutte ma pratiche; bisognerebbe chiedere ad avvocati o amministratori. E visto che di motivi per votare No ne ho già più che sufficienti, qui lascio la mano. Non voglio dare l’impressione di uno che sta a spulciare il testo alla ricerca del minimo errore. Tutte le cose che ho trovato fin qui erano magagne evidentissime che mi era già capitato di notare, di cui avevo già discusso qui o altrove; l’articolo 117 mi dà solo una brutta impressione, ma magari è un pregiudizio.

Ipotizziamo che si tratti proprio di un pregiudizio, e che in realtà l’art. 117 sia un ottimo articolo. Sarebbe più o meno il primo. E più che di una riforma, bisognerebbe parlare di controriforma: un ritorno al centralismo dopo la revisione del Titolo V votata da un parlamento a maggioranza di centrosinistra nel 2001 e confermata da un referendum nell’ottobre dello stesso anno, quando Berlusconi era già tornato al potere. Del resto da quando esiste questo blog lo scrivente ha già partecipato a due referendum confermativi di revisione costituzionale: nel 2001, appunto, e nel 2006. Il che mi pare un buon argomento contro uno dei mantra renziani, ovvero che se non si cambia la Costituzione stavolta non la cambiamo più. La Costituzione si cambia continuamente. Ai tempi dell’emergenza spread i tedeschi ci convinsero a inserire il pareggio di bilancio (secondo la mentalità nordica per cui se metti una legge nella Costituzione, dopo la rispetti). Tremaglia fece inserire le circoscrizioni per gli elettori all’estero. E così via.

Chiunque abbia una salda maggioranza nel Paese può cambiare la Costituzione italiana quando e come vuole. Renzi forse non ce l’ha, ma non c’è davvero motivo di pensare che a Renzi segua il diluvio. La prospettiva escatologica di alcuni renziani è abbastanza irrazionale; quanto alla fretta di Napolitano, è difficile impedirsi di pensare che l’età avanzata non giochi un ruolo. Ma noi saremo qui anche quando Renzi cadrà – e non è affatto detto che sia stavolta, anzi: potrebbe anche essere il suo più grande trionfo – ma prima o poi cadono tutti, e siamo sopravvissuti a leader che sembravano più irresistibili di lui. Se vince il Sì, per un po’ occorrerà tenersi questa nuova costituzione coi sindaci al Senato e i referendum propositivi. Se vince il No, si può ricominciare a parlarne anche da subito; magari modificando quei passi che gran parte degli osservatori aveva criticato, molto prima che la riforma passasse in parlamento.

Il caso dei sindaci è il più eclatante: non c’è davvero motivo per mandarli al Senato (ci sono modi più onesti di risparmiare), salvo che Renzi lo aveva promosso a una Leopolda e da lì in poi ci si è intestardito: a una buona riforma scritta da gente esperta, R. ha preferito una riforma discutibile scritta come la voleva lui. Perché alla fine era su di lui che voleva che votassimo; la Costituzione, in fin dei conti, è un pretesto. Fosse tornato indietro sui sindaci e su qualche altro dettaglio, Renzi avrebbe avuto persino il mio voto: ma il punto è che non lo vuole, questo voto mio. Vorrebbe mettermi in minoranza, o almeno costringermi a votarlo turandomi il naso, anteponendo la paura del post-Renzi a una legge che in coscienza ritengo peggiorativa. Io ho, come tutti, paura del post-Renzi, ma non al punto di mettere la croce sotto qualsiasi schifezza. Renzi è una risorsa ma non è indispensabile: potrà durare ancora moltissimo, sia se vince sia se perde di misura. Potrà avere il mio voto, quando proporrà cose che riterrò buone: non è davvero questo il caso.

Gli altri motivi per votare il referendum

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po’ ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore.

provincia, Renzi, repliche

Chi abolisce le province non capisce il territorio

La Riforma Boschi-Renzi, com’è noto, non elimina di fatto le Province, ma le raschia via dal testo costituzionale, realizzando così una vecchia proposta dell’Italia dei Valori – ma anche Renzi, nei 100 punti di una delle sue prime Leopolde, aveva messo nero su bianco che le province andavano abolite perché costano troppo. L’ho sempre trovato un punto di vista straordinariamente miope e populista, e non ho mai smesso di scriverlo. Così perdonatemi se stavolta, invece di trovare nuove parole per spiegare le stesse semplici cose, mi limito a copiare e incollare pezzi che ho prodotto negli ultimi cinque anni, su questo blog e sull’Unita.it. 

Dalle mie parti è stato il Natale più caldo del secolo. È probabilmente un record destinato a infrangersi presto, conviene prepararsi. Temperature miti a Natale significano poca neve sull’alto appennino, precipitazioni piovose un po’ dappertutto, fiumi in piena (noi ne abbiamo due abbastanza pericolosi), ponti da chiudere al traffico, e rischi di inondazioni. Per fortuna ci sono le casse di espansione, i bacini artificiali da allagare quando i fiumi arrivano a livello di guardia. E però non sono mai stati collaudati. Pare. In Regione dicono che non c’è problema, ed è sicuro che funzioneranno; anche l’Agenzia interregionale del Po è dello stesso parere, e quindi ce le teniamo così. Nel frattempo dall’altra parte dell’Appennino una procura sta indagando su tredici funzionari accusati di disastro e omicidio colposo, perché? Perché non avevano collaudato una cassa di espansione. Sembrava funzionante. Poi un giorno il Magra ha straripato e ad Aulla sono morte due persone. Più i soliti milioni di euro di danni. Collaudare la cassa d’espansione sarebbe costato meno, ma è un’operazione complessa e non del tutto priva di pericoli, che arreca disagio alla popolazione, e così alla fine non è mai la priorità di nessun funzionario o politico.

Se i politici tendono a non pensare più di tanto al territorio, non è per miopia o egoismo; semplicemente, il territorio non vota. Votano i cittadini, e i cittadini sono sempre più concentrati nei centri. Del dissesto territoriale si accorgono soltanto quando arriva la piena. Una possibile soluzione poteva passare per il potenziamento dell’ente provinciale, che ha le dimensioni ottimali per occuparsi dei problemi relativi al territorio e alla viabilità. I comuni sono troppo piccoli, le regioni troppo grandi. La provincia era perfetta: sicuramente qualcuna avrebbe potuto essere accorpata, ma in generale è l’entità territoriale che permette di gestire un fiume, una valle, una catena montuosa; l’unica in cui gli amministratori potrebbero trovare l’equilibrio tra le esigenze del centro urbano e quelle del territorio circostante.

Avremmo dovuto potenziarla. Invece a un certo punto qualcuno ha cominciato a dire che andava abolita, e a furia di ripeterlo ci abbiamo creduto tutti. Quella che resterà in piedi col decreto Delrio sarà una specie di dopolavoro dei sindaci, dove la bilancia penderà ancora di più dalla parte di chi rappresenta i centri urbani più popolati. Questi sindaci-volontari dovranno preoccuparsi di inezie come il dissesto idrogeologico praticamente gratis. Bisogna infatti risparmiare, tutte le forze politiche ci tengono molto a risparmiare e pare che il modo migliore sia non pagare lo stipendio ai politici che devono vigilare sul territorio. Il risparmio si calcola subito; i milioni di danni di una frana o di un’alluvione li conteremo poi.

Sull’abolizione delle province ho una teoria. Di solito chi ne parla come una cosa seria, fattibile, sensata… abita a Roma. Al massimo a Milano. Già i napoletani, immagino, si rendono benissimo conto che una cosa è il comune (900.000 abitanti) una cosa la provincia (tre milioni stretti stretti). Ma i milanesi, e i romani soprattutto, le province non riescono a capirle perché non le vedono. Non fanno parte della loro esperienza.

Una provincia ben gestita è una provincia che ha una rete viaria efficiente; che conosce le necessità del suo territorio; sa dove rimboschire per evitare le frane a valle; sa dove intervenire per evitare le alluvioni; sa interpretare il pericolo sismico regolamentando l’edilizia di conseguenza. Tutto questo i comuni non lo possono fare: hanno un orizzonte più corto, ogni comunità vede solo il tratto di fiume che l’attraversa. Né possono farlo le regioni, enti troppo grandi, portati per forza di cose a privilegiare le esigenze dei centri più popolati (che portano più voti) e accantonare il resto.

Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone.

Ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccola, il territorio a cui fa capo è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni.

La stragrande maggioranza degli italiani non vive in grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso.
Chi vive nell’Italia non metropolitana sa benissimo che tra comune e regione esiste un livello intermedio, che può mettere insieme il bacino di un piccolo fiume, o il contado di una città di medie dimensioni. E che certe decisioni ha più senso prenderle a Massa o Ascoli che non a Firenze o ad Ancona. Le scuole, gli ospedali, i tribunali, le prefetture, perfino le diocesi: chiunque si è posto il problema di amministrare un servizio nel territorio ha sempre preferito dividere l’Italia in pezzettini da 2000 chilometri quadrati, invece che venti enormi blocchi da trentamila.La dimostrazione di quanto sia finto il federalismo dei leghisti è tutta in decisioni del genere: blaterano di dialetti e intanto tagliano province.

Potremmo leggere questa fase di dissoluzione localistica come una fase di guerra tra la nozione di provincia e di regione: mentre le regioni trionfano (la Lega è un partito che ragiona per regioni), la nozione stessa di provincia viene messa in discussione: pare che sia una burocrazia inutile… perché debba essere inutile proprio la provincia e non la regione, non si sa. Un vero decentramento dei servizi dovrebbe avrebbe un respiro provinciale. Ma la tendenza non è questa: la tendenza è quella di trasformare venti città d’Italia in venti capitali di staterelli autonomi, e chiamarlo federalismo. Se potessimo aprire la testa di un federalista milanese e dare un’occhiata al suo “federalismo”… sospetto che ci troveremmo davanti uno Stato assoluto e accentrato su Milano, peggio che ai tempi di Lodovico il Moro; nel frattempo pero’ i comuni di confine fanno i referendum per passare al Trentino (si pagano meno tasse), e in generale ‘sti sudditi “lombardi” non c’è verso di farli passare per l’Hub Granducale di Malpensa: i bresciani hanno Montichiari, i bergamaschi Orio al Serio, e cosi’ via.

Forse la provincia è l’esatto contrario del campanile: il luogo in cui le esigenze dei centri si armonizzavano con quelle del territorio circostante. Le province sono state, dall’Unità a oggi, le maglie di un tessuto complesso, avvinto a un territorio eterogeneo. Non a caso le loro competenze riguardano quasi esclusivamente la tutela delle terre e delle acque (e delle strade, non meno importanti). La retorica populista che in questi anni ci ha voluto convincere che le province ‘non servono a niente’ nasconde il nostro progressivo scollamento da un territorio che non capiamo, attirati come siamo dai Centri. Non lo vediamo nemmeno più, il territorio, dai finestrini di treni sempre più veloci; salvo spaventarci e indignarci quando lo stesso territorio si ribella, e frana o smotta. In quei casi ci accorgiamo che avrebbe dovuto essere amministrato meglio – ma da chi? La Regione avrebbe dovuto preoccuparsene, ma aveva altre priorità, legate a territori più popolati e più rappresentati in consiglio regionale. Non resterà che lamentarsi dell’emergenza che nessuno aveva previsto: e trovare da qualche parte i soldi per la ricostruzione. Se spenderemo più di quanto avevamo risparmiato tagliando le province, nessuno se ne accorgerà. Sono conti difficili, calcoli noiosi, non li farà nessuno.

Considerate le mie opinioni sulle province e sulla serietà di chi propone di abolirle, non credo che ci si possa stupire se voto No a questa riforma – è più strano che Grillo voti come me, e in effetti l’impegno che il M5S sta esibendo nella campagna per il No mi stupisce. Qui sotto gli altri motivi che ho trovato per votare No. Magari non sono tutti buoni, ma insomma, cominciano a essere tanti: 

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.

costituzione, provincia, Renzi

Due milioni di napoletani (e tanti altri di italiani) non avranno il diritto di eleggere il loro sindaco metropolitano

La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (articolo 114 della Costituzione riformata).

Le città “metropolitane” (Scusate le virgolette,
ma Cagliari e Messina che ci fanno?)

La bruttezza si vede dai dettagli. È un’improvvisa assimmetria, uno sbrago fatto per imprudenza o per distrazione e poi abbandonato lì – o magari valorizzato, come mettere una cornice intorno a una crepa dell’intonaco sperando che gli ospiti la prendano per arte contemporanea. L’Italia in cui sono nato e cresciuto, quella che mi piaceva insegnare a scuola, era divisa in comuni, province e regioni. Tre livelli amministrativi, come in tutte le democrazie europee simili per popolazione e superficie.

I comuni erano il livello più vicino al cittadino, che da trent’anni può scegliere il sindaco di persona; le province univano intorno ai centi storicamente più rilevanti i comuni meno abitati, riprendendo una gerarchia che si è formata spontaneamente a volte prima del medioevo, la dialettica tra borgo e contado, i confini ancora culturalmente percepibili di alcune signorie. Le ho sempre trovate, salvo qualche assurda esagerazione recente (la Brianza o Fermo nelle Marche), le unità più adatte alla tutela del territorio, specialmente quando sono definite dal bacino di un fiume, dall’estensione di una vallata.

Le regioni hanno una storia più recente (e controversa), ma abbiamo imparato a riconoscerle appese alle pareti scolastiche, in quella cartina politica dell’Italia tutta colorata, e ci siamo affezionati – anche se per la maggior parte sono diventate operative solo nel 1970: da lì in poi ogni progetto di federalismo ha dato per scontato che i mattoni dell’Italia fossero le regioni, il che probabilmente non ha giovato al federalismo stesso.

L’Italia era dunque fatta di Comuni, di Province, di Regioni. Ogni italiano era cittadino di un comune, di una provincia, di una regione. A un certo punto si sono fatte strada anche le Città Metropolitane, anche se il percorso è stato molto accidentato. L’idea originaria, mutuata da altre esperienze europee, era riconoscere uno status particolare alle province più popolate, quelle che gravitano intorno alle metropoli: e dunque Roma, Milano, Napoli, le altre altre sei province che raggiungono il milione di abitanti (Torino, Palermo, Bari, Catania, Firenze, Bologna), altre metropoli storiche (Genova e Venezia) e Reggio Calabria, non so il perché. Le regioni a statuto speciale hanno il diritto di promuovere altre province a Città metropolitane, e quindi la Sardegna ha incoronato Cagliari (neanche mezzo milione con tutta la provincia) e la Sicilia Messina, che poverina, tra Palermo Catania e Reggio si sarebbe sentita un po’ la Cenerentola. Ma vabbe’.

In tutto gli abitanti di queste città metropolitane raggiungono la ragguardevole cifra di venti milioni di abitanti. Gli altri 40 milioni di italiani non abitano in una città metropolitana, ma in una provincia. O dovrei dire “abitavano”, perché le province non esistono più. La riforma costituzionale le abolisce.

D’ora in poi alcuni cittadini saranno abitanti di un comune e di una regione (due livelli), e altri di un comune, di una Città metropolitana e di una regione (tre livelli). Che senso ha? Perché venti milioni di cittadini meritano tre livelli e altri quaranta soltanto due? Qual è la differenza, qual è la logica per cui chi abita a Reggio Calabria avrà tre livelli e chi abita a Crotone soltanto due?

Si risparmia.

Ma non si risparmiava di più a eliminare un intero livello per tutti? Perché lasciarlo soltanto per alcuni? Se è utile per loro, perché non dovrebbe essere utile anche per gli altri?

In realtà a veder bene gli italiani metropolitani non sono i favoriti dalla riforma. I non metropolitani, è vero, hanno perso il diritto di votare per i loro rappresentanti a livello provinciale. Ma anche se è stata completamente raschiata dalla costituzione la Provincia esiste ancora: ha conservato i vecchi confini ma è diventata un ente amministrativo di secondo livello, ovvero il presidente e i consiglieri sono eletti dai sindaci e dai consiglieri dei comuni che ne fanno parte. La Città metropolitana invece nella costituzione c’è ancora. Ma forse è incostituzionale.

Infatti non è più retta da un presidente di regione, ma di un “sindaco metropolitano” che è… il sindaco del capoluogo. Ovvero: gli abitanti del comune di Rho sono anche abitanti della Città Metropolitana di Milano, ma non votano per il sindaco metropolitano di Milano. Devono fidarsi di quello che hanno scelto per loro gli incliti abitanti di Milano, che è pur vero, in quella città metropolitana saranno la stragrande maggioranza.

E allora pensate all’abitante di Pozzuoli. Fa parte di una grande Città metropolitana di tre milioni di abitanti, e il suo sindaco metropolitano sarà De Magistris. Potrà votare per lui? No. Potrà votare almeno per un suo contendente? No. L’abitante di Pozzuoli verrà amministrato da un sindaco metropolitano per il quale non potrà votare. Pazienza, dirai, Pozzuoli è piccola e Napoli è grande. Maledetti fetusi, rispondo io, il comune di Napoli non fa un milione di abitanti e la sua Città metropolitana ne fa tre. Poi ve la prendete coi grillini ignoranti, ma chi è che ha lasciato passare una legge che trasforma gli abitanti del comune di Napoli in cittadini di serie A e quelli di Pozzuoli e tutta l’hinterland del Golfo – la maggioranza – in cittadini di serie B? Se poi il sindaco metropolitano privilegerà gli interessi dei primi a scapito dei secondi, ce la prenderemo con lui o con i pericolosi imbecilli che hanno fatto passare una legge del genere?

Vediamo dunque come il nuovo articolo 114 della Costituzione, combinato con l’oscena legge Delrio del 2014 trasforma il cittadino di Pozzuoli in un qualcosa di diverso al cittadino di Piadena (CR).

– Il cittadino di Pozzuoli può eleggere i suoi consiglieri comunali e il suo sindaco. Anche quello di Piadena.

– Il cittadino di Pozzuoli vota per eleggere il consiglio regionale della Campania e il presidente della stessa Regione. Il cittadino di Piadena vota per eleggere il consiglio regionale della Lombardia e il presidente della stessa Regione.

– Riguardo al livello intermedio (si dice “Area Vasta”: la bruttezza si infila in ogni fessura), il cittadino di Piadena è amministrato dagli organi provinciali (consiglio provinciale, assemblea dei sindaci, presidente di provincia) della provincia di Cremona. Non li ha eletti lui – tranne il suo sindaco – ma sono stati eletti da un’assemblea di delegati eletti da tutti gli abitanti della provincia di Cremona, tra cui anche lui. Il cittadino di Pozzuoli no. Il cittadino di Pozzuoli si attacca. Bisognava risparmiare e si è risparmiato lì. Il cittadino di Pozzuoli abita in un’Area Vasta in cui comanda il sindaco di Napoli, eletto solo a Napoli. Fine.

Tutto questo secondo me è anticostituzionale, ma magari mi sbaglio. Però non mi sbaglio se dico che è brutto. Peraltro, se le province esistono ancora, perché Renzi ha voluto sbianchettarle da tutti gli articoli della Costituzione (riprendendo una vecchia proposta dell’Italia dei Valori)? Per cercare di ingraziarsi i grillini che sognano di tagliare milioni di budget con “l’abolizione delle province”? O perché è un modo di creare le premesse per abolirle davvero, in un secondo momento? In altre parole, visto che qui si crede che abolire le province sia un gesto sconsiderato: quando Renzi e Boschi parlavano di toglierle, quando le hanno cancellate dalla loro bozza di costituzione, erano sconsiderati in buona o cattiva fede? Non lo so e tutto sommato non m’interessa: non saprei neanche dire quale delle due possibilità mi sembra più grave. In entrambi i casi trovo il tutto brutto brutto in modo assurdo, e voto No.

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?

Quirinali, Renzi

No, non sarà così impossibile eleggere un Presidente della Repubblica di parte

Ma insomma questa riforma è tutta da buttare? Diciamo che ci sono cose assurde e altre quasi accettabili, che uno sarebbe tentato di mandar giù. L’elezione del presidente della Repubblica, dai, in fin dei conti potrebbe anche funzionare… Poi però accendi la tv, vai su internet, e ascolti gli imbonitori del sì, la loro retorica da fustino dixan fuori tempo massimo: lo stesso dettaglio che a te sembrava quasi passabile, cercano di vendertelo come una mountain bike col cambio shimano. Siori e Siori ci vogliamo rovinare! L’articolo 83 della nuova Costituzione è un baluardo contro qualsiasi deriva autoritaria!

Nientemeno?

Con l’articolo 83 della nuova Costituzione sarà matematicamente impossibile eleggere un Presidente della Repubblica che non sia al di sopra delle parti.

No, scusa, ripeti.

Con l’articolo 83 sarà ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile eleggere…

Hai detto matematicamente?

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

E va bene, vediamo questa matematica.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (dall’articolo 83 della Costituzione riformata).

L’attuale presidente della Repubblica è stato eletto il 31 gennaio 2015 con 665 voti su 1009. Siccome era la quarta votazione, il quorum necessario era appena sceso da 673 (due terzi dell’assemblea) a 505 (la metà più uno). Quindi la coalizione di governo, coi suoi 610 grandi elettori, avrebbe potuto eleggerlo da sola. In futuro invece di una coalizione potremmo avere un partito solo (se si continua a puntare sul maxipremio di maggioranza). Aumenta quindi il rischio che i capi del governo, forti della maggioranza alla Camera, facciano nominare al Quirinale un inquilino su misura – in fondo anche stavolta la sensazione è che Mattarella lo abbia scelto Renzi, litigandoci con Berlusconi: figuriamoci nel giorno in cui un post-Renzi guidasse un monocolore. Di fronte a questo grosso rischio, che alcuni chiamano deriva autoritaria e io chiamo presidenzialismo, gli imbonitori del Sì scuotono la testa: ma come, non avete visto il nuovo fiammante articolo 83? Di qui in poi sarà matematicamente impossibile imporre un candidato senza concertarlo con la minoranza.

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.


Sarà. Senz’altro le discussioni si ridurranno, com’è ovvio che succeda in un’assemblea che si riduce di un terzo: dai mille-e-qualcosa di adesso a 730 (cento senatori più 630 deputati). Mettersi d’accordo è più facile quando siamo in meno: è anche più difficile mimetizzarsi nella folla, come fecero i misteriosi 100 che impallinarono Prodi nel 2013. Dunque durante i primi tre scrutini la maggioranza necessaria sarà di 487 grandi elettori, contro i 673 di adesso. Al quarto, se bastasse la maggioranza più uno come adesso, diventerebbero 366 anziché gli attuali 505. Ma con la nuova regola dei tre quinti, baluardo matematico contro la deriva autoritaria, ne serviranno 438. Se qualcuno d’ora in poi vi chiede la definizione matematica di baluardo democratico, ebbene, pare che in un’assemblea di 730 elettori essa si assesti intorno a 438-366=72. Settantadue voti. Un decimo dell’assemblea stessa. (Tre quinti meno un mezzo fa appunto un decimo). Ha un senso?

Magari persino sì, un senso ce l’ha. Ma sapete cosa c’è di buffo? Mentre i nostri nuovi padri costituenti decidevano che il voto di un decimo dell’assemblea è una garanzia democratica, negli stessi palazzi, a volte persino nelle stesse stanze, si stava pensando seriamente di assegnare a chi otteneva almeno il 40% dei suffragi il 54% dei seggi: quella simpatica legge che chiamiamo “Italicum”, sulla quale Renzi decise di chiedere la fiducia al parlamento, e che è tuttora legge della repubblica (certo, hanno detto che la cambieranno. Ma prima bisogna mettere la crocetta sul Sì). Tra il 40% (252 seggi) e il 54% (340) c’è una differenza di 88 seggi. Ok, non ci eleggi un presidente della Repubblica, con 340 seggi. E chissà che situazione puoi trovare al senato. Ma intanto ricordiamo che l’Italicum voleva regalare 88 seggi al primo partito, per una questione di “governabilità”. L’italicum sparirà, e cosa prenderà il suo posto? Non si sa.

Però quest’estate a Orfini piaceva il modello greco (quello che nel frattempo è stato abbandonato anche in Grecia). Un maxipremio al primo partito, senza ballottaggio. Nel parlamento greco (300 seggi), il maxipremio era di 50: un sesto dell’assemblea. Non è servito né a evitare crisi di governo, né governi di coalizione, né referendum inutili. Ma pensiamo a una cosa del genere in Italia: un centinaio di seggi alla Camera da regalare al primo arrivato per la “governabilità”. Capite dove voglio andare a parare? Con una legge del genere, che forse è quella che è stata promessa a Cuperlo, non sarà poi così difficile per un partito trovare quei 438 voti necessari a eleggere come presidente della repubblica un caro vecchio amico non necessariamente super partes (anche Cuperlo – lo dico con simpatia, non sarebbe poi così male Cuperlo).

E comunque, se anche non riuscisse a trovarli, c’è sempre il settimo scrutinio. Da lì in poi il quorum dei tre quinti va ricalcolato sul numero di elettori che si presenta effettivamente a Montecitorio: se non entrano, il quorum diminuisce. Viene in pratica introdotto il silenzio-assenso. A cosa serve? A prima vista sembra una foglia di fico offerta alle minoranze per coprirsi coi loro elettori nel momento in cui cedono a un’offerta irrifiutabile. Mettiamo che abbiano tuonato davanti alle telecamere per giorni e giorni: “Noi Cuperlo mai!” Mettiamo che alla fine abbiano deciso, in cambio di qualcosa, di accettare pure Cuperlo. Non c’è bisogno di votarlo: basta uscire dall’aula e abbassare il quorum. Funzionerà? In altri tempi magari avrebbe funzionato, ma adesso come si fa? Uscire dall’aula ti espone ancora più che restare dentro. All’interno almeno il voto è segreto. Là fuori ci sono le telecamere, appunto, e se proverai a dire che tu non hai votato, che tu ti sei astenuto, ti rideranno in faccia. E un Cuperlo eletto in seguito al ritiro di un’intera delegazione di deputati o senatori non avrà molti motivi per considerarsi “presidente di tutti”. Oggi tutto è discusso, tutto è condiviso, tutto è drammatizzato. È curioso che questa nuova generazione di padri costituenti non se ne sia resa conto: sono quelli che hanno l’iphone, mica il telefono a gettone. Eppure.

Ci sono poi altre possibilità di abbassare artificialmente il quorum: abbiamo già visto che un sindaco-senatore può essere in qualsiasi momento destituito dal suo consiglio comunale. Il voto decisivo per eleggere Cuperlo potrebbe saltar fuori dal consiglio comunale di Vipiteno! Se la situazione è grave si potrebbe anche mandare all’aria un consiglio regionale. Vengono sempre in mente quei vecchi conclavi in cui la mortalità dei cardinali impennava.

Ricapitolando: i riformatori sostengono che nessun partito, anche qualora trionfasse alle elezioni, potrebbe nominarsi un presidente della repubblica senza il consenso di almeno parte della minoranza. Questo perché anche dal quarto scrutinio in poi non basterebbe metà dell’assemblea (366 seggi), ma servirebbero i tre quinti (438). In realtà è difficile capire cosa potrebbe succedere, finché non sappiamo che legge elettorale sarà approvata; e in caso di legge elettorale alla greca, con maxipremio, quei 438 seggi potrebbero davvero essere a portata di mano del partito di maggioranza. Neanche la possibilità di abbassare il quorum ulteriormente, a partire dal settimo scrutinio, non calcolando gli elettori assenti, sembra una garanzia di pluralità: tutto il contrario. E quindi insomma neanche qui c’è nulla che mi spinga a votare Sì: e ho già tanti altri motivi, si è visto, per votare No:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.

Beppe Grillo, referendum, referendum costituzionale 2016, Renzi

Referendum propositivi? Cosa potrà mai andare storto?

Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali (dall’articolo 71 della Costituzione riformata).

A proposito di leggi di iniziativa popolare: sono passati quasi due anni da quando Beppe Grillo presentò trionfante le 50.000 firme (raccolte in un week-end) che chiedevano l’istituzione del referendum propositivo. Il piano di Grillo, un po’ tortuoso, prevedeva poi di raccogliere altre firme per indire un referendum che avrebbe proposto al governo di uscire dall’Euro (ripeto perché secondo me è bellissima: Grillo non ha mai direttamente chiesto di uscire dall’Euro; Grillo ha raccolto firme per proporre una legge che istituisse un referendum per proporre agli italiani di uscire dall’euro).

L’iniziativa di legge popolare m5s si è arenata, com’era ovvio: in compenso Renzi ha fatto inserire il referendum propositivo in Costituzione. Non è l’unico caso in cui i due sembrano in sintonia: Grillo tuona contro le auto blu, Renzi le mette su ebay. Grillo vuole tagliare gli stipendi ai politici, Renzi propone un senato di dopolavoristi. Grillo vuole chiudere Equitalia, Renzi la chiude. Grillo voleva il referendum propositivo. Renzi lo introduce. Cosa potrà mai andare storto? Si tratta solo di chiedere ogni tanto un parere al popolo. Ragionevole, no?

No, niente. 

Vi è piaciuta questa campagna elettorale? A me non è sembrata così violenta come dicono in giro, ma è anche vero che non guardo i talk show. Comunque pensate: tra un anno potremmo avere un bel referendum propositivo sull’Euro. Perché no? E chissà come andrà a finire, eh? Negli ultimi due anni abbiamo avuto due meravigliosi esempi: la Grecia e la Gran Bretagna. Parliamoci chiaro: Grillo è un populista, è il suo mestiere, lo fa con una certa grazia istintiva. No, non gli farei gestire il mio condominio (ma neanche lui si proporrebbe). Renzi per contro è un politico con ambizioni di statista. Cosa gli sta dicendo il cervello? Se dopo la calda estate greca del ’15 e la Brexit del ’16 ha ancora voglia di subire o indire referendum propositivi, qualcosa veramente non va. Non abbiamo già abbastanza problemi? Lo chiedo a tutti quelli convinti che se vincesse tra dieci giorni poi Renzi avrebbe campo libero per cinque o dieci anni: ma avete capito che campo minato ci aspetta se passano i referendum propositivi?

Il caso greco è particolarmente istruttivo. A inizio di luglio il governo greco chiede ai propri cittadini un parere sul pacchetto di misure proposte (imposte) da Bruxelles. Il popolo greco risponde di no – e d’altro canto sarebbe stato molto curioso il contrario. Ti chiedono un parere su aumenti di tasse e licenziamenti, cosa dovresti rispondere? No. Festa di piazza, il popolo ha parlato, Varoufakis si dimette, ufficialmente per non ostacolare le trattative. Tre settimane dopo il governo greco accetta un pacchetto di misure sostanzialmente più aspre di quelle che erano state sottoposte a referendum. Perché questo è il bello dei quesiti propositivi: fanno populista e non impegnano. In fondo Tsipras non aveva mica scritto sulla scheda “rifiuti qualsiasi tipo di pacchetto”. Se ne rifiuti uno pesante, non è detto che quindici giorni non ti vada di mandarne giù uno più pesante. Però ti ho chiesto un parere, non è bello chiedere i pareri?

Ma perché Tsipras e Varoufakis chiesero un parere? Non erano già i legittimi rappresentanti del popolo greco, autorizzati dal voto popolare? In teoria sì. In pratica:

Come cercò di spiegare Varoufakis in uno dei tweet più belli di sempre: noi abbiamo preso solo il 36% dei voti, non ci si può mica aspettare che prendiamo una decisione tanto grave! Per una decisione del genere abbiamo bisogno almeno del 50%+1. Una dimostrazione più evidente di quanto sia sbagliato il maxipremio di maggioranza non si potrebbe avere – ci torno su perché a quanto pare il “modello greco” continua a interessare ai nostri riformatori: un bel premio di seggi al partito che arriva primo e amen. Ecco: in Grecia non solo non ha assicurato la governabilità (due elezioni in tre mesi), ma ha creato una specie di crisi di legittimità: quando rappresenti soltanto un terzo dei tuoi elettori, fai oggettivamente fatica a imporre agli altri due terzi delle misure impopolari. Sai benissimo che è la tua fine politica. E allora chiedi un parere: referendum consultivo. Ma funziona?

Il referendum di indirizzo è una strana creatura che sorge spontanea nella putrefazione dei corpi intermedi, e si nutre della mancanza di visione dei leader. Cameron è contrario a uscire dall’Unione Europea, ma non riesce a imporre la sua linea a parte dei Tories: indice un referendum (a cinque mesi dal voto sulla Brexit, i britannici non hanno ancora capito come usciranno dall’UE. Pensavano che non servisse un voto del Parlamento – l’Alta Corte ha detto che serve. Forse serve anche il parere di quello scozzese, di quello gallese, forse, non si sa). Grillo non osa dirsi contrario all’Euro: Grillo propone un referendum. Se poi crolleranno le borse non sarà mica stata colpa sua, lui mica voleva uscire, lui voleva solo chiedere un parere. Tsipras e Varoufakis vincono col 35% il gran premio delle elezioni greche, ma non hanno poi tutta questa voglia di recitare la parte dell’antipatico che impone le tasse anche al restante 65% – sicura garanzia di perdere il gran premio successivo. E allora indicono un referendum. Non sai quel che vuoi? Lo chiedi ai tuoi elettori, lo sapranno loro. I tuoi elettori hanno idee più confuse delle tue? Eh, sarà colpa del suffragio universale, dell’era postfattuale, delle notizie finte su facebook. E andiamo avanti così. Il referendum consultivo è il lato oscuro della governabilità: in teoria vai spedito, non accetti compromessi, e ci vediamo tra 5 anni. In pratica, appena ti tocca imporre una tassa in più, una norma in più, sei fregato. Sai che gli elettori se la prenderanno solo con te. Fai una mossa laterale: chiedi un parere al popolo. Provi a responsabilizzarlo. Cosa potrà mai andare storto? Non so, chiedete a Cameron: il popolo non vuole responsabilizzarsi e trascina il Paese in un guaio enorme. Chiedete a Tsipras: il popolo non vuole un pacchetto ma alla fine gliene fai mandare giù uno più pesante.

Io credo nella democrazia rappresentativa, che cerca di rimediare alla non specializzazione degli elettori offrendo loro delle figure intermedie, che sappiano dimostrare la propria competenza e autorevolezza. Non disprezzo chi raccoglie firme – è una degna forma di lotta – ma non credo nei plebisciti, non credo nelle scorciatoie populistiche. Si capisce che chi vuole governare senza avere il 50% del voto popolare sarà spesso tentato di indirne uno per rafforzare la propria posizione (in fondo è quello che Renzi sta facendo in questi giorni, salvo che adesso usa la Costituzione come pretesto). Mi sembra tutto sbagliato: credo che l’esecutivo deve essere espressione di una maggioranza solida, rappresentante una netta maggioranza del Paese, magari messa assieme mediante coalizioni, patti, alleanze e inevitabili compromessi. Credo nel meccanismo di delega, temo che trasformare i partiti in comitati elettorali li renda fragili e incapaci di articolare qualcosa che non sia funzionale alla carriera del leader di turno. I referendum propositivi rappresentano tutto quello che secondo me non va nella politica di oggi: ovviamente di fronte a questa brutta e miope riforma che cerca di introdurli voto No. (E non prendetevela con me se Grillo fa la stessa cosa: è lui l’incoerente).

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi).

Renzi

Non fare il furbo con le leggi di iniziativa popolare, Matteo Renzi

Ho questa idea, che a Matteo Renzi la democrazia partecipativa non interessi poi molto. Non è il suo genere – lui è un decisionista, uno che ha delle idee e le realizza: ascoltare le proposte degli altri non è nel suo stile. Le uniche riunioni a cui partecipa volentieri sono quelle in cui parla lui. Epperò si è ritrovato a scalare il potere nel periodo in cui tutti parlavano di democrazia partecipativa, e anche lui a un certo punto ha dovuto imparare la canzone e cantarla. A una Leopolda lanciò il Wikiprogramma: ve lo ricordate il Wikiprogramma? No, perché non è mai esistito. Un po’ come “la piattaforma” del M5S: per molto tempo sia Renzi che Grillo hanno continuato a dire che avrebbero deciso gli attivisti sul web – senza preoccuparsi di fornire agli attivisti uno strumento. Alla fine Grillo ha mantenuto più di Renzi, il che è tutto dire. Però Renzi ha fatto riscrivere la Costituzione, e non ha senz’altro mancato l’occasione di farci entrare un po’ di democrazia partecipativa, vero? Vero?

Lo si è già visto con l’approccio tiepido al referendum abrogativo: l’atteggiamento di Renzi è abbastaza gattopardesco. Si cambia qualche cosa per dare l’impressione che si stia cambiando qualche cosa. Nel caso dell’abrogativo, si ritocca appena appena la soglia del quorum quando si raggiungono le 800mila firme. In compenso avrete sentito dire che ha introdotto altri due strumenti: il referendum propositivo e le leggi di iniziativa popolare – queste ultime in realtà esistevano già, ma ora la Camera sarà obbligata a discuterle, mentre prima a quanto pare le lasciava in un cassetto. Gli avvocati del Sì insistono molto su questa cosa: prima raccogliere firme per presentare una legge in parlamento era fatica sprecata, mentre da qui in poi si cambia, vedrete che roba, discussoni sprint. Lo stesso Violante, in quello che rimane a oggi l’intervento più organico e autorevole in favore del Sì, lo fa presente un paio di volte: finalmente con la riforma il parlamento sarà obbligato a recepire le leggi di iniziativa popolare. Certo, servirà il triplo di firme in più, ma…

Il triplo di firme in più?

Chi è sopravvissuto agli anni Ottanta non ha probabilmente dimenticato uno slogan pubblicitario che ci si è inciso sulla corteccia cerebrale con la pura forza della reiterazione: “colore chiaro, è whisky di malto”. Lo abbiamo sentito dire per anni anche se non bevevamo whisky, non avevamo nemmeno intenzione di cominciare, ma a furia di sentirlo ci siamo convinti che il colore chiaro fosse un dettaglio positivo: se è chiaro è malto, oh, lo dice la tv, sarà buono. Non è vero, un whisky chiaro è meno invecchiato, e quindi generalmente meno pregiato. Il pubblicitario in questione aveva deciso di prendere di petto uno dei difetti del suo prodotto, e trasformarlo in una bandiera: il mio whisky è buono perché è chiaro, e se ve lo dico tutte le sere, anche voi prima o poi ve ne convincerete. Tuttora qualche dubbio mi è rimasto.

Allora: si può discutere se le leggi di iniziativa popolare vadano incentivate o no. Ma il fatto che Renzi e Violante e altri vadano in giro a dire che grazie a questa riforma finalmente avremo leggi di iniziativa popolare è pura propaganda, delle più sfacciate: colore chiaro, sarà un buon whisky di malto. È vero l’esatto contrario: il tetto di firme necessarie a presentare una legge di iniziativa popolare alle camere sale a 150.000: il triplo di quante sono necessarie oggi. È giusto? È sbagliato? Se ne può parlare. Ma non ne state parlando. State cercando di convincerci che per avere più leggi di iniziativa popolare bisogna rendere più difficile raccogliere firme per presentarle. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, la democrazia partecipativa è più facile se devi raccogliere tre firme invece che una.

Certo, una logica c’è: se ci sono meno iniziative di legge da presentare, quelle poche iniziative il parlamento le tratterà seriamente. Lo dice Violante: perché non fidarsi? Lo dice Renzi: perché non rasserenarsi?

Perché non c’è nessuna garanzia. Il nuovo articolo 71 recita, semplicemente: La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari.

Tutto qui. Tre righe in cui si rimanda a un regolamento parlamentare che garantirà la discussione delle proposte di iniziativa popolare. Ovviamente il regolamento deve ancora essere scritto: prima bisogna mettere una crocetta sulla scheda, lì in basso dove sta scritto “SI”. E anche stavolta tocca fidarsi. L’Italicum? Sì, faceva schifo, ma dopo lo cambiamo. Le iniziative popolari? Importantissime, importantissime, metti la crocetta e poi ce ne preoccupiamo.

Vedrete che alla Camera scriveranno un regolamento dove ogni legge di iniziativa popolare sarà portata in palmo di mano: coccolata, vezzeggiata. La faranno passare prima delle altre leggi, vedrete. Anche la Finanziaria dovrà accostare a destra quando passa la vostra Proposta di Legge di Iniziativa Popolare – con 150.000 firme, ma vuoi mettere?

Ah, e poi naturalmente l’abbatteranno senza pietà. Certo, che vi aspettavate, mica sono obbligati ad approvarla. Dicono soltanto che promettono di discuterne in fretta. E si fa prestissimo a segare una proposta di legge. Onorevoli, pronti? Uno, due, tre, premete il pulsante. Fatto.

Chi ci ha provato lo sa (io ci ho provato). Le iniziative popolari non servono a cambiare la legislazione: soprattutto quando vengono inviate a un parlamento apertamente ostile. Al massimo possono servire ad attirare l’attenzione mediatica su un argomento. Non ci legalizzi le droghe leggere – per fare un esempio – con un’iniziativa popolare da 150.000 firme: ed è giusto così, il parlamento rappresenta il Paese tutto, 35 milioni di elettori e più: perché dovrebbe darti la precedenza? Dietro c’è un’idea di democrazia partecipativa molto ingenua, a cui Renzi non smette di strizzare l’occhio: ma è peggio di un bluff. Dicono che sarà più facile presentare iniziative di legge, e triplicano il numero di firme necessarie. Dicono che però ne discuteranno più in fretta, in base a un regolamento che riscriveranno.

Non è tanto l’argomento in sé, perché davvero: le iniziative di legge popolare sono uno strumento poco incisivo, che al massimo serve a ottenere un po’ di visibilità. Ma è questo atteggiamento da vecchi imbonitori che mi lascia indispettito. Non mi piace quando qualcuno prova a fregarmi. Magari ha ottimi motivi per farlo, magari deve portare a casa la pagnotta anche lui. Ma mi sta offendendo, è convinto che io sia un cretino. Non è tanto per l’autostima, ma è fondamentale che lui e gli altri sappiano che non sono un cretino, e quindi voto no.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi, su).

referendum, Renzi

Il referendum tiepido di Matteo Renzi

Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente io ti vomiterò dalla mia bocca. (Apocalisse, 3,15-16)

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali (dall’art. 75 della Costituzione).

In Italia si fanno troppi referendum abrogativi. Sono consultazioni costose, che il più delle volte non portano a nessun risultato apparente (il quorum non viene raggiunto). Servono a movimenti minoritari e iper-minoritari per dimostrare a sé stessi e agli altri la propria vitalità; diffondono l’idea che l’attività legislativa del parlamento possa essere superata da periodiche consultazioni popolari – col piccolo problema che il popolo a queste consultazioni non si fa più vivo, o quasi. Però almeno gli scolari stanno a casa il lunedì (io odio i referendum abrogativi).

I critici del referendum abrogativo di solito si dividono in due frange: li chiameremo per comodità referendumari e antireferendumari. I primi ne vorrebbero di più (o almeno vorrebbero che funzionassero, abrogando leggi a tutto spiano); i secondi ne vorrebbero di meno, come probabilmente avevano previsto i padri costituenti, ai tempi in cui raccogliere 500mila firme doveva sembrare molto difficile. I referendumari spesso propongono l’abolizione del quorum: idea dissennata e irrealizzabile che annuncerebbe la fine della democrazia parlamentare, e che infatti Grillo, grande referendumaro, ha rilanciato più volte. I secondi, più timidi, hanno spesso suggerito di alzare l’asticella del numero di firme da raccogliere. Evidentemente 500mila sono poche; oggi c’è tutta un’industria della raccolta che è destinata ad affinarsi con le nuove tecnologie.

E Renzi? È un referendumaro o un antireferendumaro? Eh. Ne vuole di più o ne vuole pochi, ma veramente importanti? Eh, eh.

Decidete voi:

La proposta soggetta a referendum [abrogativo] è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi (dall’art. 75 della Costituzione riformata).

Renzi cerca di tenere il piede in entrambe le staffe – non importa che appartengano a cavalli che tirano in direzioni divergenti. Renzi doveva decidersi: se voleva meno referendum, avrebbero dovuto portare il numero di firme a 800mila o un milione; se ne voleva di più, avrebbe dovuto abbassare il quorum. Incredibilmente – ma non inaspettatamente – ha provato a fare entrambe le cose. Un po’ grillino e un po’ casta. Il tetto delle firme resta a 500mila: indire referendum dunque continua a essere facile come adesso. E i referendum continueranno a essere inutili come adesso, a meno che le firme raccolte non siano 800mila.

In questo caso il quorum si ridurrà un poco: non si fermerà al 50%+1 degli aventi diritto, ma al 50%+1 di chi ha votato alle elezioni precedenti. Mi piacerebbe tanto conoscere il costituzionalista che ha suggerito questa cosa un po’ folle – ma è quel tipo di follia in cui si intravvede un metodo, insomma, bisognava trovare un numero più basso di 50%, ma almeno non si è fissato un numero a caso come 40% – no, il numero lo estrarranno a sorte gli elettori, ogni volta che andranno a votare per la Camera: se ci vanno in 35 milioni, il quorum sarà 17,4 milioni; se ci vanno in 30, sarà 15, e così via. Ha un senso, no?

Sì, un pazzo senso ce l’ha (ho qualche sospetto su Calderoli, è quel tipo di cosa contorta che a lui piace). Siccome le leggi le scrive il parlamento, possono essere abrogate soltanto da una volontà popolare che sorpassi quella che ha eletto la maggioranza parlamentare. Metti che il parlamento voti a maggioranza una legge che introduce, boh, il casco ai ciclisti; il popolo la può abrogare. Ma se il parlamento è stato eletto da 35 milioni di italiani, ci si aspetta che al referendum vadano a votare altrettanti; sennò nisba. Ribadisco, un senso ce l’ha. Magari a quel punto non si capisce perché questa logica scatti solo oltre le 800mila firme: come mai si istituiscono dei referendum di serie A e dei referendum di serie B? (tra questi ultimi vanno inclusi i referendum richiesti da almeno cinque consigli regionali, come quello che c’è stato in primavera sulle trivellazioni: per quelli il quorum resta fisso al 50%+1 degli aventi diritto).

L’affluenza ai referendum abrogativi, dal ’74 a oggi.

Io sono un convinto antireferendumaro: credo che i padri costituenti considerassero il referendum abrogativo come un evento eccezionale, di quelli che capitano una volta al massimo per generazione, come le guerre o le epidemie. Non immaginavano che i cattolici avrebbero cercato di usarlo per chiamare la maggioranza silenziosa alla conta dopo che il divorzio era passato alle camere (fallendo); non immaginavano la nascita di micro-movimenti parassitari dediti alla raccolta di firme, alla pubblicizzazione di sé stessi e all’incasso di contributi (però grazie ai radicali non abbiamo più il ministero dell’agricoltura, è un risultato importante). Non potevano pensare che i referendum sarebbero stati usati per dare una spallata impropria alla partitocrazia (legge elettorale nel 1991) o al berlusconismo (abrogazione del legittimo impedimento nel 2011). Non potevano pensare che a un certo punto il referendum sarebbe diventato un momento rituale, un gioco delle parti che il più delle volte rafforza lo status quo. Non potevano immaginare tutto questo e un po’ li invidio.

L’illusione che il popolo si possa sostituire al parlamento e farsi legislatore diretto, scolpendosi le leggi a piacimento col martello pneumatico del referendum, non mi sembra soltanto pericolosa, ma anche ridicola. Nei fatti non funziona: se abolisci un ministero, lo riaprono con un nome diverso; se abolisci i finanziamenti ai partiti, in seguito dovrai abolire i rimborsi. Il fatto che questa riforma non faccia nulla per combattere questa illusione – anzi la lusinghi con l’idea di un super-referendum a quorum abbassato – mi sembra un buon motivo per votare No.

Grillo e gli altri referendumari invece voteranno No perché Renzi non ha fatto abbastanza per rendere i referendum più efficienti – anzi non ha proprio fatto nulla: ha solo introdotto una clausola che probabilmente non scatterà mai. E dunque vedete come funziona la cosiddetta accozzaglia antirenziana? Se Renzi non piace né agli uni né agli altri, è perché ha cercato in tante cose una via di mezzo. Non è né caldo né freddo, e come mandò a dire l’Angelo alla chiesa di Laodicea: se non sei né caldo né freddo, fai vomitare. Io voterò No, Grillo voterà No. Ma se il No vincerà non ci metteremo d’accordo. È più probabile che i renziani – che stanno in mezzo – vengano a patti: o coi referendumari, o con gli anti. Io credo nella seconda eventualità, e quindi voto No.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta).

Renzi

Scriviamo già troppe leggi col bicameralismo perfetto (figuratevi senza)

In Italia ci sono tanti problemi, e lo sappiamo. La corruzione, l’inquinamento, la crisi economica, il debito, le mafie, il traffico; e poi quello che per Renzi e gli altri ispiratori della riforma è il problema più grave di tutti, quello che una volta risolto ci consentirà di risolvere anche gli altri, ovvero che non si legifera abbastanza in fretta.

Non si legifera abbastanza in fretta.

È un punto di vista condiviso da esperti e studiosi, per esempio l’altro giorno sul Corriere Franco Bassanini spiegava che “la storia ha subito in questi anni un’accelerazione straordinaria”. Adesso i legislatori devono scontrarsi con realtà nuove come “Globalizzazione, climate change, terrorismo globale, internet, digitalizzazione e cybersecurity”. Non si può più perder tempo a rimpallare leggi tra Camera e Senato: non si può. Vedi cosa fanno all’estero. Cosa fanno all’estero?

Da: Valerio Di Porto, I numeri delle leggi. Un percorso
tra le statistiche delle legislature repubblicane.

Scrivono meno leggi di noi.

Il nostro bicameralismo perfetto, che senza dubbio ha tanti difetti e si poteva riformare (ma con un testo decente, non con questo sbrago) produce più leggi dei bicameralismi imperfetti di altri Paesi. Nota che anche loro stanno scoprendo la globalizzazione, i cambiamenti climatici, il terrorismo, e addirittura l’internet. Ma legiferano meno di noi. Come spiegare questo fatto?

Comincerei intanto a levarci le maschere. Quello che sta chiedendo Bassanini, dal Corriere, è un regime emergenziale. La Storia è di fronte a un’accelerazione improvvisa: da qui in poi ogni mese, ogni settimana, ogni giorno richiederà leggi nuove, e quindi è irrealistico immaginare di farle scrivere a due camere, a centinaia di persone. Quanto durerà quest’emergenza? Siccome quando la Storia accelera poi difficilmente rallenta, temo che per Bassanini i regimi parlamentari siano un relitto del passato da superare di slancio.

Quello che in generale né Bassanini né molti di noi sembra cogliere con chiarezza è la differenza tra potere legislativo ed esecutivo. Confesso, è sempre stato il concetto più ostico quando mi interrogavano su Montesquieu. Tra giudiziario e legislativo non avevo difficoltà, ma la differenza tra le mansioni di governo e parlamento mi ha sempre lasciato un po’ perplesso: alla fine la mandavo a memoria e amen. Ho il sospetto di non essere stato l’unico – forse è una tendenza storica. Pensate a quanto ci siamo rimasti male perché Obama non ha rivoltato gli USA come un calzino. Non poteva: era esecutivo, non legislativo. Ci sembra un’ingiustizia. In Europa del resto abbiamo sempre pensato che l’esecutivo debba avere la fiducia della maggioranza del parlamento. Non solo, ma in Italia a un certo punto abbiamo dato per scontato che uno dei compiti più importanti del governo fosse inviare al parlamento decreti legge da approvare con una certa urgenza. È una tendenza che addirittura la riforma cerca di contrastare – però l’idea rimane potente: le leggi vanno scritte in fretta. Forse non è giusto che le scriva direttamente il governo, ma allora il parlamento deve darsi una mossa, perdio, basta ping pong.

Anche qui i numeri ci dicono una cosa diversa. Il ping pong si sta sensibilmente riducendo: le leggi che hanno il sostegno di una solida maggioranza vanno abbastanza spedite. Se invece questa maggioranza non c’è (vedi il ddl Cirinnà, o quello della Kyenge sulla cittadinanza), la legge si blocca. Senza dubbio togliere una camera risolverebbe il problema, ma non nel modo in cui a volte ci auguriamo: ovvero, senza Senato certe leggi non partirebbero nemmeno. Quelle leggi che magari all’inizio alla Camera lasciano perplessi i cani più sciolti di una maggioranza, che però alla fine la votano lo stesso perché “tanto poi la cassano al Senato”; al Senato invece ne riscrivono un pezzo e alla fine quando torna alla Camera è diventata una legge più votabile. Quelle leggi a volte diventano leggi grazie al ping pong, non malgrado il ping pong. È una mia sensazione e magari mi sbaglio; ma poi uno va a vedere e scopre che l’Italia produce più leggi di altre nazioni. Forse semplicemente perché abbiamo più parlamentari, e più camere dove proporle?

(Taciamo qui di tutti i disegni di legge che alla prima approvazione della Camera erano indecenti: tutti quei casi in cui il ping pong ci ha salvato da leggi scritte coi piedi e altri organi del corpo).

Ma facciamola più semplice. Nel Regno Unito legiferano meno di noi. Nel Regno Unito stanno peggio? Hanno il fianco più scoperto nei confonti di Globalizzazione, climate change, terrorismo globale, internet, digitalizzazione e cybersecurity? In un libro di qualche secolo fa, meno conosciuto di quanto dovrebbe essere, un romanziere con la stoffa di storico si perdeva in una lunga digressione sul proliferare di editti e di grida nella Milano spagnola del Seicento. C’era in quel periodo un’emergenza criminalità: le strade pullulavano di bande armate, perlopiù assoldate da nobili per difendersi da altre bande armate assoldate da altri nobili. Di fronte a una situazione del genere, l’autorità costituita reagiva prontamente emanando non una ma due, tre, quattro, sei leggi, tutte un po’ diverse, tutte un po’ uguali.

Se ne doveva dedurre – sosteneva il romanziere – che nessuna di queste leggi era stata applicata. A volte si legifera molto perché non si esegue niente. Se fossi ministro dell’istruzione renderei quel libro obbligatorio nelle scuole, perché è davvero molto chiaro e istruttivo. A un certo punto c’è un avvocato che solleva dalla sua caotica scrivania un foglio appena stampato e dice al suo cliente: ecco. Questa è la legge che fa al caso nostro: è la migliore perché è la più recente. Le leggi più fresche fanno più paura. Lo rileggevo un mese fa, nel mio comune era appena passata un’ordinanza molto restrittiva sulla circolazione delle automobili nel centro – del resto abbiamo più piombo nell’aria che a Città del Messico. Stavamo quasi pensando di rottamare una vecchia utilitaria. Poi ci siamo accorti che nessuno fa le multe e niente, ce la siamo tenuta. Però vedete com’è rapido il mio comune a legiferare quando c’è un’emergenza.

Per farla breve: pur concedendo che la Storia stia accelerando, io non credo che un regime emergenziale sia una buona idea; non penso che nel futuro ci serviranno continuamente leggi nuove, leggi fresche, leggi che fanno più paura perché quelle vecchie non le rispetta nessuno. Penso che abbiamo bisogno di poche leggi e buone, scritte bene ed eseguite con fermezza. Non sono un fanatico del bicameralismo perfetto, ma quello imperfetto disegnato dalla riforma non mi piace, e in generale trovo la Fretta una consigliera troppo ascoltata da Matteo Renzi. Senza contare che dopo di lui verranno altri, e chissà che leggi manderanno alla Camera, chissà che roba ne salterà fuori. Mi sembra un rischio da evitare e quindi voto No.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare).

Renzi

Davvero l’articolo 70 non si poteva riscrivere meglio?

Questa riforma è brutta. Mi sono accorto di averlo scritto spesso, richiesto o no, quando mi capitava di assistere a una conversazione sulla riforma: non dannosa, non inutile, non pericolosa: brutta. Come se fosse più grave, e magari non lo è.

Ma cosa significa “brutto”, se si sta parlando di leggi? Forse cerco solo di spostare la discussione in un campo più congeniale, perché di leggi non mi intendo (di bruttezza invece sì?) Se dico che una ripartizione dei seggi mi sembra iniqua, sto giocando a fare il costituzionalista e non lo sono. Se dico che è brutta, beh, de gustibus. Ma in cosa consiste, per me, la bruttezza di una legge?

Sto per introdurre – qualcuno l’avrà già sospettato – il famigerato articolo 70: quello che nella stesura originale recitava semplicemente: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, e adesso dice così:

La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

(In realtà questo è solo il primo comma; ce ne sono altri sei, meno brutti: ma la visione d’insieme è, come dire, notevole).

In questi lunghi mesi di campagna l’articolo 70 comma 1 è stato spesso sbeffeggiato con quel genere di foga bullistica che in me ottiene sempre l’esatto contrario: mi fa venir voglia di intervenire in favore dello sgorbio. Lasciatelo stare, poverino, mica è colpa sua se l’hanno scritto così. C’è anche chi ha provato a difenderlo: per essere brutto è brutto, nessuno lo nega, ma c’è un motivo per cui non si poteva concepirlo meglio. Lo dice gente esperta di legge, e io non lo sono, per cui potrei fidarmi.

Ma non ci riesco. A me sembra davvero scritto brutto apposta. Guardate quel “soltanto” alla seconda riga. L’estensore ha appena iniziato un elenco di situazioni in cui le due Camere eserciteranno insieme la funzione legislativa. Si capisce che gli preme far notare che la cosa non succederà spesso, e quindi usa l’avverbio “soltanto”. Seguono dodici righe di eccezioni. Evidentemente qualcosa non è andata per il verso giusto, ma a quel punto almeno si poteva togliere “soltanto”. Non c’era nessun motivo di lasciarlo lì.

Da grafomane conosco bene la situazione. A volte mi metto a scrivere un’eccezione, poi ne trovo altre ventinove, nel frattempo si è fatto tardi e a volte nemmeno rileggo perché mi addormenterei. Quando mi capita di ridare un’occhiata mi faccio schifo, ma c’è da dire che tengo un blog: se mi capitasse di riscrivere la legge fondamentale della mia Repubblica, userei qualche attenzione in più. La farei rileggere ai miei amici, e colleghi, dieci volte, cento volte. Il tempo non dovrebbe essere il problema: non credo proprio che avrei qualcosa di più importante da fare nel frattempo.

Ecco, forse ho trovato la risposta. Cos’è il brutto per me? È qualcosa che non è semplicemente sgraziato, ma lo è volutamente, pervicacemente, come per attirare l’attenzione: non un difetto di natura, ma il difetto di natura messo in scena con fuori la fila per pagare il biglietto. Un articolo di legge può essere difficile da leggere; a volte è inevitabile che sia così. Ma questa volta era davvero così inevitabile?

Art. 70
Le due Camere esercitano insieme la funzione legislativa nei seguenti casi:
(a) eventuali leggi costituzionali o di revisione costituzionale;
(b) leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche;
(c) referendum popolari e altre forme di consultazione previste dall’art. 71;
(d) leggi relative ai Comuni e alle Città metropolitane (ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo, funzioni fondamentali, disposizioni di principio sulle forme associative);
(e) leggi relative alle politiche comunitarie dell’Unione Europea (norme generali, forme e termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche comunitarie);
(f) casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma;
le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, si possono abrogare, modificare o derogare solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

Ecco qui. L’ho riscritto. Ci ho rimesso dieci minuti. È ancora brutto, ma almeno si intravede una sagoma, un senso. E ho tolto quel “soltanto”, che sembra una presa in giro. Adesso non è più un brutto da circo; è un brutto noioso, è un bruttino che si impegna, che cerca di vestirsi bene ed essere simpatico a tutti, nella speranza che dopo un po’ qualcuno si dimentichi che, in effetti, è pur sempre brutto.

È quel brutto che alla Boschi e a Renzi non interessa. Mi sembra che la loro filosofia, opposta alla mia, si possa sintetizzare così: se devi fare schifo, almeno fa’ schifo alla grande. Fallo con arroganza, fallo che si veda da lontano. Fa’ in modo che tutti sappiano non solo che fai schifo, ma anche che te lo puoi permettere. Guarda quanto siamo arrivati lontano, senza nemmeno sapere scrivere in italiano. E credi che impareremo adesso? No way, siete voi plebe che dovrete sforzarvi di capirci. Ora vi vandalizziamo la carta costituzionale e poi ve la facciamo votare col ricatto dello spread. Potremmo fare meglio di così? Certo. Non sarebbe neanche così difficile. Ma non sarebbe divertente, non saremmo noi.

Il comma 1 dell’articolo 70 sarebbe discutibile anche se a riscriverlo avessero resuscitato Italo Calvino. Potrebbe essere considerato il simbolo di una riforma che era partita per semplificare e si è complicata da sola strada facendo. Il fatto che sembri invece messo giù da uno stagista in affanno non è accidentale. Forse è inevitabile – la Fretta è un po’ la grande ispiratrice di gran parte dell’azione di governo renziana. La traccia che la mia generazione lascerà sulla carta costituzionale sarà uno sbrago fatto in fretta e furia perché sennò l’Unione Europea, i mercati, Napolitano, le cavallette. E se non ci sbrighiamo poi non si potrà mai più far niente. Perché? Non si sa. I grillini, i fascisti, il riscaldamento globale, insomma o si cambia la costituzione in mezz’ora o non si cambia più. L’abbiamo riscritta male? Beh sì, ma prendere o lasciare.

Secondo me si poteva scrivere meglio, e quindi voto no.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
).

Renzi

Un molisano, nel nuovo Senato, varrà cinque marchigiani (ma perché?)

Premessa inutile: vi capita mai di accendere la tv, trovare Affari Tuoi e domandarvi dove riescono a trovare ancora concorrenti valdostani? Una volta ho cercato di fare il calcolo – non ci sono riuscito – in ogni caso Affari Tuoi va in onda da più di dieci anni e calcolando in media un concorrente valdostano ogni venti puntate (tre settimane), ormai tutti i paesi della piccola regione dovrebbero avere la loro quota di veterani dei pacchi. L’idea che ogni sera il concorrente valdostano abbia le stesse chance di giocare di quello della Lombardia, dove abitano quasi 10 milioni di persone, non è bizzarra ai limiti dell’iniquità? Non lo so. Ma so che chiunque abbia scritto la riforma costituzionale, una domanda del genere non se l’è mai posta. Eh, beh, certo, aveva di meglio da fare. Ma giudichiamo dai risultati.

Il modello del nuovo Senato.

Nel nuovo Senato post-riforma, che dovrà rappresentare “le istituzioni territoriali ed esercita[re] funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”, le istituzioni territoriali saranno rappresentate in modo approssimativo e bislacco. Della bizzarra idea di mandare un sindaco per regione abbiamo già diffusamente parlato: per come la giri non ha senso, è un capriccio di un ex sindaco e del suo staff che nessuno è riuscito a far ragionare. In una prima fase c’era anche l’idea molto americana di assegnare a ogni regione lo stesso numero di senatori, alla Lombardia come al Molise: poi si sono accorti che i lombardi sono 30 volte più dei molisani e che a quel punto certe loro tentazioni secessionistiche sarebbero più che motivate (persino io andrei a iscrivermi alla Lega la sera stessa), e finalmente fu reintrodotto nella bozza il sacrosanto principio della proporzionalità, in questo comma (art. 2 della riforma, 57 del nuovo testo costituzionale:)

La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

Questo è molto buffo, perché non è vero. Cioè se leggi qui sembra che ogni regione avrà un numero di senatori proporzionato agli abitanti. In ogni parte d’Italia, a tot abitanti dovrebbe corrispondere un senatore. Giustissimo principio, che però viene completamente falsato dall'”applicazione delle disposizioni del precedente comma” che precisa:

Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due.

Che è come scrivere, in un comma: “il prossimo senato sarà tondo”, e nel comma precendente: “il prossimo senato deve avere almeno tre angoli”. Cioè se hai 100 senatori da assegnare – anzi 95 perché gli altri li nomina il Presidente della Repubblica, e due li devi dare a tutti, comprese alle regioni che non arrivano all’1% della popolazione, come Val d’Aosta e Molise, e le province di Trento e Bolzano… che senso ha parlare di “proporzione”? Sarà una proporzione completamente falsata. Eccola qui (rubo i dati da http://politics.ildavid.com/23)

Regione abitanti Percentuale sulla popolazione senatori Abitanti per ogni senatore
Valle d’Aosta 126806 0,11% 2 63403
Molise 313660 0,53% 2 156830
Prov. Bolzano 504643 0,85% 2 252322
Prov. Trento 524832 0,88% 2 262416
Basilicata 578036 0,97% 2 289018
Umbria 884268 1,49% 2 442134
Sardegna 1639362 2,76% 3 546454
Friuli-VG 1218985 2,05% 2 609493
Piemonte 4363916 7,34% 7 623417
Campania 5766810 9,70% 9 640757
Calabria 1959050 3,30% 3 653017
Abruzzo 1307309 2,20% 2 653655
Puglia 4052566 6,82% 6 675428
Lazio 5502886 9,26% 8 687861
Lombardia 9704151 16,33% 14 693154
Veneto 4857210 8,17% 7 693887
Sicilia 5002904 8,42% 7 714701
Emilia-Rom 4342135 7,31% 6 723689
Toscana 3672202 6,18% 5 734440
Marche 1541319 2,59% 2 770660
Liguria 1570694 2,64% 2 785347

Il prossimo senato sarà talmente proporzionato che un senatore valdostano rappresenterà 63mila concittadini – gli abitanti di una piccola cittadina; un senatore ligure ne rappresenterà quasi 800mila. Avranno entrambi un voto al Senato. Se vi sembra equo, proporzionale, sensato, votate pure Sì a questa riforma, che posso dirvi.

Vedi tu a volte un confine che può fare: se nasci a San Severo di Puglia hai diritto a un senatore ogni 670mila abitanti; se nasci 30 km più a nord, in Molise, puoi godere di un senatore ogni 150mila abitanti. Perché? Non c’è un perché, o almeno non c’è un perché che sia decente spiegare. Volevano il senato leggero e ci hanno messo cento sedie; però gli altoatesini – meno dell’1% della popolazione – volevano almeno due posti, e chi era Renzi per privare gli altoatesini delle loro due seggioline? La minoranza linguistica, sai. Ma a quel punto però bisogna darle anche ai trentini, a cui sin dai tempi di De Gasperi spetta tutto ciò che spetta agli altoatesini – è il trauma di essere stati austriaci fino al 1918, che non passa e a questo punto non passerà mai – ed ecco che quattro posti già sono riempiti. Ma a quel punto vuoi non darne un numero eguale anche ai valdostani, ai lucani? E i friulani-giuliani che sono, i figli delle serve? Con tanti saluti al principio di proporzionalità.

Michele Ainis ritiene che l’articolo 39 possa rendere gli Statuti speciali delle regioni autonome “più garantiti della Costituzione medesima” (creando di fatto cinque Stati nello Stato, con un’autonomia a prova di revisione parlamentare). Mettiamo che si sbagli. Possiamo comunque accettare che i privilegi di trentini, altoatesini, valdostani, ecc., non saranno ritoccati mai più: anzi, la riforma va in senso contrario, assicurando a quei due milioni scarsi di cittadini che il loro status di italiani di serie A è riconosciuto da una quota blindata di seggi nel Senato; e i liguri, con tutti i loro problemi di dissesto idrogeologico che renderanno nei prossimi anni necessari interventi emergenziali col benestare dell’Unione Europea, se ne possono pure sprofondare nell’omonimo mare, o votare il demagogo locale che comunque difficilmente potrà rifare il Senato da capo.
Nel caso ci provasse, però, io sarò con lui. Le autonomie che avevano un senso e una necessità nel 1945, andavano ridiscusse già trent’anni fa; se passa questa riforma le consegneremo ai posteri che un paio di domande se le faranno, e si daranno anche un paio di risposte. Mi sembra un altro valido motivo per votare No al referendum. 

7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre).

Renzi

Altri ragionevoli motivi per cui mandare 21 sindaci in Senato è davvero una stronzata pazzesca

L’Amleto di Gorgonzola. 

Ancora sull’elezione in Senato dei 21 sindaci, perché davvero, è una cosa che più ci rifletti meno senso ha. Per quanto io possa capire le obiezioni: in fondo ci sono un sacco di sindaci che vanno a Roma per curare gli interessi del loro comune.

Ma lo fanno anche a Cuneo dunque, non sapevo.

Sì. Del loro comune, non della loro regione. Metti che il sindaco di Gorgonzola si ritrovi a dover deliberare in fatto di formaggi DOP. Difenderà gli interessi del suo specifico comune o di quello di un eventuale gruppo di comuni limitrofi che richiede all’Unione Europea il permesso di produrre un formaggio molto simile con la stessa denominazione – danneggiando Gorgonzola? Capite che c’è almeno un conflitto di interessi qui? (Siamo passati dalla fase in cui li ignoravamo alla fase in cui li stiamo coltivando, questi conflitti).

Un sindaco che si trovi in una situazione del genere rappresenta gli elettori che lo hanno installato nel suo municipio o i consiglieri regionali che l’hanno portato a Roma? Dite: in questo caso dovrebbe rappresentare i secondi, che lo hanno portato a Roma. Certo. Peccato che

1. I consiglieri regionali, una volta che lo hanno mandato a Roma, non lo possono far decadere; i suoi consiglieri comunali sì!
2. Chi lo paga? Ops! Non lo pagano per stare a Roma. Lo pagano per fare il sindaco di Gorgonzola. E quindi perché gli dovrebbe fregare qualcosa degli incliti abitanti di Orio al Serio? Li rappresenta solo part-time, ed è quella part del suo time che al limite gli vale un rimborso spese.

Trasformismo 2.0

Una volta installato, il nuovo Senato non si dovrebbe sciogliere più. Sindaci e consiglieri che rappresentano una regione si rinnovano a ogni elezione regionale. Se in mezzo un sindaco decade, dovrebbe essere rimpiazzato da un sindaco dello stesso schieramento – ma gli schieramenti possono cambiare, chi è berlusconiano può diventare verdiniano può diventare renziano può diventare qualsiasi cosa. Trasformismo è parola ottocentesca, c’era ai tempi dello Statuto Albertino. Forse è possibile combatterlo per via legislativa, ma la riforma Boschi-Renzi non fa questo. La riforma Boschi-Renzi col trasformismo ci va a nozze. Sentite questa.

Decade un sindaco di centrosinistra. Il consiglio regionale che dovrebbe eleggere il rimpiazzo ha una solida maggioranza di centrodestra, però per rispettare lo “spirito dell’articolo 57” deve eleggerne uno di centrosinistra. A quel punto un qualunque sindaco di centrodestra convoca una conferenza stampa e dice: ho cambiato idea, adesso sono un sindaco di centrosinistra. Straccia una tessera, se ne fa dare un’altra: chi può impedirglielo?

E chi può impedire ai consiglieri di quella regione di mandarlo al Senato?

E chi può impedire allo stesso sindaco di cambiare idea il giorno dopo? C’è il vincolo di mandato? Se c’è dove sta? Magari c’è e me ne sono accorto, non chiedo di meglio. Sul serio, spero di sbagliarmi, perché al di là che vinca il Sì o il No, l’idea che in parlamento siedano simili legislatori mi inquieta e non poco.

Il presidente si elegge a Forlimpopoli

Come vedremo forse più in là, la riforma introduce qualche bizantinismo anche nell’elezione del Presidente della Repubblica, che a un certo punto (dopo il settimo scrutinio) non richiede più la maggioranza assoluta dei parlamentari (in realtà i tre quinti), ma la maggioranza assoluta dei votanti. Quindi un presidente inviso ai più potrebbe comunque essere eletto col tacito consenso di parlamentari che invece di votare si assentassero, abbassando il quorum necessario. Chiunque abbia scritto tutto questo aveva in mente scenari di crisi da risolvere con tatticismi sfrenati, più che con l’elezione di figure super partes. Ma tant’è.

Mettiamo che neanche così un presidente si riesca a trovare: un altro modo di abbassare il quorum è mandare all’aria il consiglio comunale di qualche sindaco-senatore riottoso, che so, di Forlimpopoli, e poi andare a votare svelti prima che il consiglio regionale mandi un rimpiazzo. Sembrano cose assurde finché un giorno non succedono. Il vizio è in partenza: mandare in Senato persone che possono essere sfiduciate a Forlimpopoli. Dite: ci sono già sindaci senatori col doppio incarico. Vero. Ma se li sfiduciano a Forlimpopoli, restano senatori. E se si scioglie il Senato, restano sindaci. No, voi volete mandare a Palazzo Madama qualcuno che può essere licenziato a Forlimpopoli, con una spada di Damocle che può dipendere dall’umore di un qualsiasi centro abitato. In Germania fanno così, dite. Natürlich. Allora, magari non succederà così spesso che un presidente della Repubblica si elegga grazie a una crisi municipale a Forlimpopoli. È solo un’ipotesi. D’accordo.

La cialtronaggine di chi ha scritto questa roba non è un’ipotesi. È un dato acquisito. Magari l’acqua non uscirà proprio da questo buco, ma mi posso fidare di chi cerca di vendermi un testo con tutti questi buchi? Credo proprio sia necessario votare no al referendum.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca).

Renzi

Mandare 21 sindaci al Senato è una stronzata pazzesca

Dopodiché, ok, entriamo nel merito.

Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. (Articolo 57 della Costituzione secondo l’articolo 2 della riforma Boschi/Renzi).

Avrete sentito dire che proprio nel giorno in cui Salvini cercava visibilità a Roma, a Padova gli siluravano il sindaco, uno dei suoi fedelissimi. Lo avrete sentito dire anche se non siete padovani né veneti, perché in Italia spesso funziona così: la lotta politica nazionale si conduce quartiere per quartiere, ente locale per ente locale. Magari c’erano localissimi motivi per togliere la fiducia a quel sindaco; magari qualche consigliere seguiva anche istruzioni che venivano da Roma o Milano. Insomma succede spesso, in Italia, che l’esigenza dei cittadini di scegliere un sindaco che sappia interpretare le loro richiesta passi in secondo piano rispetto a quella di mandare segnali a Salvini, o a Renzi, persino a Grillo. Ed è un peccato, perché l’Italia non ha solo bisogno di un buon governo, ma anche (e soprattutto) di migliaia di sindaci che sappiano fare il loro mestiere, restando il più possibile vicini ai cittadini e indifferenti alle beghe di palazzo. Renzi questa cosa dovrebbe saperla, Renzi è stato sindaco e metteva piede a Roma lo stretto necessario.

Invece Renzi ha deciso che, su 100 senatori, 21 saranno sindaci. Non ex sindaci: primi cittadini, eletti nei loro comuni, e poi elevati al rango di senatori dal loro consiglio regionale. Potrebbero essere sindaci di una grande città o di un paesino di campagna; potrebbero rappresentare la maggioranza o la minoranza presso il rispettivo consiglio regionale; non importa tutto ciò, l’importante è che siano sindaci pagati con i soldi con cui si pagano i sindaci: così si risparmia.

Non è mia intenzione fare satira adesso qui: vorrei semplicemente cercare di spiegarmi e spiegare i punti che ritengo più controversi di un articolo di legge che forse tra un mese sarà nella Costituzione del mio Paese. Però non intendo nemmeno abusare in diplomazia: questa è una delle cose più cretine che io abbia mai sentito in vita mia. Pescare un sindaco a regione. Uno solo. Perché?

No, non importa il perché, davvero: la genesi di questa scemissima idea, partorita in una di quelle leopolde traboccanti di acritico entusiasmo in cui contava più la musica che le parole; sopravvissuta a una lunga scrematura di stronzate (per un po’ i senatori dovevano essere due per regione, indifferentemente dalla popolazione, una roba che avrebbe fatto votare Lega Nord persino a me), e alla fine stampata ben bene in una legge approvata da una piccola maggioranza parlamentare che alla fine mi vergogno ugualmente di aver sostenuto. Un quinto dei senatori saranno sindaci: gente che dovrebbe svegliarsi ogni mattina nel proprio territorio, guardarsi attorno, discutere con gli abitanti, eh no; devono andare a Roma a fare cose per ora nemmeno molto definite, come partecipare “alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea” (cioè?), valutare “le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori“: a Bruxelles staranno tremando, ma lo sapete che a Roma stanno facendo un’assemblea che ci valuta, tutta di gente che in quel momento dovrebbe essere altrove?

A chiunque ha scritto questa roba, e ha continuato a difenderla in questi mesi, manca una delle fondamentali dimensioni dell’intelligenza, ovvero la fantasia. Cioè non ha passato neanche cinque minuti a provare a immaginare questi sindaci divisi tra la loro città e un Senato in cui per la maggior parte del tempo si discute oziosamente di regolamenti UE. O saranno buoni sindaci o saranno buoni senatori, e in molti casi non saranno nessuna delle due cose. (Come se non sapessimo che super-impegnarsi è l’alibi di qualsiasi mentecatto che, non sapendo finire nulla, almeno ha la scusa di essere indaffarato in due o tre cose diverse: come se non lo vivessimo ogni giorno sulla nostra pelle).

“Tanto che importa, no? Quel senato è perlopiù inutile” (ma allora perché non l’hanno abolito?)

Eh, invece no. Per la maggior parte del tempo, concedo, sarà inutile: una cosa che sembra lasciata aperta perché chiuderla avrebbe richiesto uno sforzo in più. Poi, quando meno te lo aspetti diventa fondamentale. Per esempio, ha voce in capitolo nelle proposte di riforma costituzionale: quindi o prima o poi voterà per abolire sé stesso, o ce lo terremo per sempre come esce da questa riforma, deforme e insensato. E poi il senatore vota per il presidente della Repubblica, non dimentichiamo. E mettiamo che un partito stia cercando i numeri per eleggere un presidente della Repubblica. Gliene manca una manciata: non sarebbe la prima volta, no? Ci sono due o tre sindaci che proprio non collaborano. Che si fa?

Possiamo telefonare ai loro consiglieri comunali e farli sfiduciare da loro.
Proprio così? La prosecuzione della politica nazionale sul territorio?
Proprio così. Se un senatore decade da sindaco, decade anche da senatore.
“Cioè mi stai dicendo che da qui in poi l’elezione del presidente della Repubblica potrebbe passare dal consiglio comunale di Ladispoli?”
Te lo sto dicendo. E non solo il Quirinale: anche le leggi di riforma costituzionale. Mancano due voti per il quorum? Mandiamo a casa due giunte.
“No, no, aspetta. Quando un sindaco decade, che succede?”
Il consiglio regionale dovrebbe eleggerne un altro.
“Ma ne eleggerà un altro dello stesso schieramento politico, no? Dovrebbe essere tenuto a farlo da… da…”

Da questo comma: Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di
attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio.

“Vedi? Quindi se fai dimettere un sindaco leghista, il consiglio regionale deve rinominare senatore un altro sindaco leghista”.
Vedo. E mi sembra assai bislacco. Inoltre siamo in Italia: metti che per eleggere, che so, Violante al Quirinale, manchi alla conta un senatore/sindaco di centrodestra che Violante assolutamente no. Lo fai dimettere. Vuoi non trovare un altro senatore/sindaco del centrodestra che invece Violante lo vuole? Sarà così difficile? I sindaci grillini sono sempre esattamente d’accordo su tutto? Se un giorno un sindaco grillino decade, lo puoi sostituire con Pizzarotti? tecnicamente la cosa si può fare o no? Non si sa. Forse che sì, forse che no.
“Ma quindi…”
“È una stronzata pazzesca, esatto”.

Un altro (ottimo) motivo per votare no al referendum

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca).

Renzi

Meglio un Renzi sconfitto oggi (che un Salvini domani)

(Anche Trump sembrava un candidato improbabile).

Molti sostenitori di questa riforma costituzionale sono più profondamente sostenitori di Renzi. Magari l’hanno letta, e la condividono in buona fede; ma la condividerebbero anche se fosse completamente diversa, purché l’avesse scritta Renzi. A volte ti chiedono di giudicarla “nel merito”, senza preoccuparti di tutte le cose contingenti che le girano intorno – l’italicum, la carriera politica di Renzi, ecc. A volte sembrano più spaventati: ma insomma, ti dicono, non capisci che ne va della carriera di Renzi? E del destino dell’Italia tutta, naturalmente, che senza Renzi come farà? Ora, bisogna essere onesti: se mi guardo attorno, una figura che nel breve termine possa subentrare a Renzi e interpretare lo stesso ruolo in modo più progressista non la vedo. Alternative di sinistra a Renzi per parecchio ancora non ci saranno, mentre da destra arrivano nubi minacciose – magari non Salvini, ma prima o poi qualcosa erutterà. Mi è già capitato di votare Renzi in passato, perché in quel momento era il meno peggio, e potrà accadermi in futuro: specie se continua a essere l’unico intenzionato a gestire la crisi dei profughi in modo umano. Ma la sua riforma costituzionale non mi piace, e soprattutto credo che Renzi potrà sopravvivere a una sua eventuale sconfitta referendaria. Ho detto credo. Non ne sono sicuro.

Invece molti sostenitori di Renzi sembrano sicuri che un successo del Sì proietterà il loro beniamino verso un trionfo elettorale – dopodiché, senza l’impiccio degli imbarazzanti alleati di centrodestra, dei riottosi rimasugli del vecchio Pd e di un senato eletto ancora dai cittadini, finalmente potrà gestire l’Italia come vuole e non potrà che gestirla bene. Ora, questo futuro luminoso è appena a un passo da noi, ma solo se votiamo Sì al referendum: altrimenti tenebre, caos, Bersani e Matteo Salvini. Come tutte le prospettive apocalittiche, anche questa sembra più la proiezione di un desiderio che un’analisi realistica della situazione. Nessuno sa cosa succederà il quattro dicembre: se Renzi perde, potrebbe abbandonare il governo? È possibile (ma non esistono ancora alternative serie a lui, soprattutto nel suo partito).

Se invece vince, continuerà a vincere anche alle prossime elezioni politiche, al più tardi nella primavera 2018? Chi lo pensa sembra sottovalutare il logoramento inevitabile di chi si trova al governo, in anni di crisi. La vittoria dei brexiters, quella di Trump, sembrano puntare in quella direzione. La figura di Renzi appare già abbastanza logorata, eppure chi lo sostiene sembra voler credere che basta fargli vincere un referendum ogni tanto per ringiovanirlo. Soprattutto non mostrano di capire quello che a me sembra un dato di fatto: più vince, meno Renzi è sopportabile. Magari tra un mese vince di nuovo, ma a quel punto a chi non gli vuole bene sembrerà ancora più arrogante. E non può vincere sempre.

Mi rendo conto di essere, tra i sostenitori del No, un caso molto particolare: per molti si tratta solo di mandare a casa Renzi. Per me il contrario: forse è l’ultima occasione che ho per dare un segnale a Renzi senza mandarlo a casa. Molti sostenitori del Sì sanno benissimo che questa riforma contiene diverse magagne, ma se la fanno piacere perché, dopotutto, se si tratta di salvare Renzi si può anche vandalizzare qualche articolo di Costituzione. Ma rischiamo di ritrovarci nella situazione peggiore: costituzione vandalizzata e, due anni dopo, un Salvini o peggio al governo. Con maggioranza blindata per cinque anni. E un senato irrilevante. Questo per me è un altro grosso motivo per votare No.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani).

referendum costituzionale 2016, Renzi, Veltroni

Sei sicuro che vuoi fare come gli americani, Matteo Renzi?

Riportando tutto a casa, sarà interessante capire cosa succede ai renziani ora che Obama se ne va, e con lui forse si dissolve quel campo di distorsione che li ha portati a immaginare per l’Italia un assetto simil-presidenziale. Ovviamente c’è già in giro chi trae dalla vittoria di Trump auspici per la vittoria del Sì o del No al referendum: ognuno cerca di inquadrarla con le cornici che si trova in casa – due in particolare non le reggo in più, la cornicetta che si chiama “cambiamento” e quella che si chiama “anti-establishment”. Non vogliono più dire nulla: quale cambiamento? Quale estabishment?

Io non ho la minima idea di chi vincerà il quattro dicembre, ma penso che la riforma sia brutta, e che fosse ancora più brutta nelle prime stesure, quando ancora il Senato delle Regioni era concepito come l’assurdo Senato Americano: quello in cui tutti gli Stati eleggono lo stesso numero di senatori, compreso il Vermont dove sono bastati 190.000 voti; in California ce ne sono voluti 4.800.000, venticinque volte tanto. Si tratta evidentemente di un sistema iniquo e arcaico, ma è difficile rinunciarvi dopo due secoli di successi; più difficile è capire perché in Italia qualcuno lo volesse introdurre, offrendo a trecentomila molisani la stessa rappresentanza di dieci milioni di lombardi – dopo vent’anni di leghismo! Ci scrissi qualcosa sul sito dell’Unità – pazzesco quel che pubblicava una volta il sito dell’Unità.

Poi magari la Boschi si accorse che qualcosa non andava e cambiò di nuovo la bozza; ma il solo fatto che l’abbiano proposta e divulgata lascia sgomenti – è come l’inglese di Renzi, anzi, molto peggio: da una parte sei contento che Renzi stia migliorando la sua pronunzia e che la Boschi abbia scoperto che in Italia la densità di popolazione varia sensibilmente di regione in regione; dall’altra è un po’ imbarazzante veder crescere in diretta questi aspiranti riformatori e statisti: cioè per carità bravini, la stoffa c’è, ma non siamo a un talent show, bisognava arrivare già preparati.

È dal dopoguerra che gli italiani guardano con ammirazione agli USA – i democristiani più di altri. Fino a un certo punto qualsiasi ipotesi di modificare la costituzione in senso americano rimane comunque circoscritta alle fantasie di un Pannella o un Almirante. Quand’è che la passione per le cose di Washington si trasforma in una vera e propria tensione riformatrice che contagia persone altrimenti ragionevoli? Il 2008 mi sembra un ottimo termine a quo. A primavera, la sconfitta del Pd di Veltroni – non fu per la verità una sorpresa, quella volta forse persino i sondaggi ci azzeccarono: ma ci si aspettava senz’altro qualche punto percentuale di più e soprattutto nessuno immaginava la completa sparizione della sinistra. Delusi da un bipartitismo ancora molto imperfetto, diversi elettori italiani del PD si appassionano alla più emozionante campagna elettorale statunitense, quella con Obama prima contro la Cinton e poi in finale contro McCain (con la Palin spalla comica). C’è una vignetta dell’allora sconosciuto Makkox che esprime il lato patetico di quell’entusiasmo. L’ipotesi veltroniana, qui ho cercato di spiegarlo, proponeva una interiorizzazione dell’antiberlusconismo: visto che sconfiggere il Berlusconi reale sembrava per il momento impossibile, occorreva eliminare il berlusconismo dentro di noi. Smettere di nominarlo, smettere di pensarci, purificarsi. Guardare all’estero era l’unica possibilità, e all’estero quella di Obama era l’unica favola a lieto fine. Alcuni non hanno distolto lo sguardo per otto anni, e sì che molti dettagli non tornavano; le tensioni razziali, le stragi a mano armata a cui il POTUS ha assistito indignato e impotente, l’approccio un po’ dilettantesco alla crisi in Medio Oriente, lo scandalo della NSA e il trattamento riservato ai whistleblower. Tutto questo non ha impedito a Obama di essere straordinariamente cool fino all’ultimo, e tanto bastava. Veniva bene in tutte le foto, faceva battute divertenti, è stato un presidente fantastico.

Negli stessi anni prende piede in Italia un timido tentativo di riformare l’Italia in senso semipresidenziale – senza avvertire i cittadini, il che è un problema a parte: cioè se almeno lo avessero detto chiaramente, si sarebbe potuta apprezzare la franchezza. Non è a dire il vero il primo e forse nemmeno il più sostanziale: già l’introduzione dell’uninominale del 1993 – e soprattutto l’abitudine di Berlusconi di mettere il suo cognome bene in evidenza sul simbolo – avevano preparato il terreno. Tuttora, chi si lamenta che Renzi non sia stato “eletto dal popolo”, ha probabilmente in mente il modo in cui Berlusconi e Prodi sono usciti vincitori dalle elezioni tra ’94 e ’08: molti elettori avevano la sensazione di votare per l’inquilino di Palazzo Chigi oltre che per il parlamento (avevano torto?) La riforma Renzi e Boschi non fa che proseguire la tendenza: l’idea che la sera delle elezioni si debba conoscere il vincitore è una suggestione quasi hollywoodiana – se socchiudi gli occhi ti sembra di vedere i coriandoli rossi e blu. Renzi si allena a fare i discorsi, tutti lodano il suo Concession Speech alle primarie del 2012, sembra di stare in uno di quei videoclip di Vasco Rossi o Ligabue che giravano negli USA per darsi un tono – non importa dove, bastava un incrocio qualsiasi, il primo parcheggio con un concessionario appena fuori dall’aeroporto.

A un certo punto tutti si mettono a parlare di Accountability, che viene molto imprecisamente tradotto “votami per cinque anni e se faccio un disastro ne discuteremo poi”. L’obiezione che l’Italia non è una repubblica presidenziale, che è il parlamento a nominare il capo del governo, a concedergli la fiducia e a potergliela ritirare in qualsiasi momento, viene liquidata con fastidio: roba da vecchi! Vecchi! Guarda invece Obama quanto è cool. Nel frattempo Obama aveva perso da un pezzo la maggioranza del Congresso, e dopo aver faticato a varare una riforma sanitaria, non ha più potuto far nulla per limitare la vendità delle armi da fuoco – solo dei discorsi accoratissimi all’indomani di ogni strage. Fantastici discorsi. Renzi & co. avranno senz’altro preso appunti.

Ieri un’elezione ha regalato a Trump la presidenza (malgrado la Clinton abbia avuto più voti) e un’ampia maggioranza al congresso e al senato. Per molti è stata una doccia freddissima; magari salutare. L’uomo più cool del mondo sta lasciando la Casa Bianca: forse è l’occasione per maturare un minimo distacco critico. Obama non ha rottamato la vecchia America; non ha mai avuto i numeri per farlo; per gran parte del suo doppio mandato è stato poco più che un’anatra zoppa. Adesso la palla passa a Trump, che avrà almeno all’inizio molto più margine d’azione. Certo, dopo quattro anni gli americani giudicheranno. Sono comunque notevoli i disastri che un capo del governo, attorniato da un parlamento plaudente, può fare in quattro anni. L’Italia è una cosa molto diversa, ma appunto: siamo sicuri di voler fare come loro o addirittura peggio di loro? Il fatto che presto o tardi qualche populista pericoloso possa aggiudicarsi il 41% dei suffragi è un buon motivo per regalargli un premio alla Camera, eliminargli il contrappeso del Senato, e aspettare cinque anni per vedere come va? Ammesso che gli americani si possano permettere questo tipo di accountability, noi possiamo?

Questo mi sembra un terzo buon motivo per votare No al referendum.

Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.

costituzione, Renzi

Votate sì al referendum perché dopo cambiamo l’italicum anche se non sappiamo ancora come però dai basta una crocetta e poi ci pensiamo

E dunque ieri notte – forse era già stamattina – Matteo Orfini ha pubblicato un “Documento del Partito Democratico” in cui si mette per iscritto un impegno a modificare la legge elettorale che fino a qualche mese fa mezza Europa avrebbe dovuto copiarci. Siccome i tempi per discuterne prima del referendum non ci sono, a causa delle opposizioni (perfidissime queste opposizioni che si rifiutano di riaprire un dibattito a 29 giorni da una consultazione popolare), è chiaro che se ne riparlerà dopo – come aveva già promesso Renzi. Siccome la parola di Renzi in effetti è quello che è, il Partito Democratico sentiva la necessità di metterlo nero su bianco. La vera novità è che in calce a quel documento c’è la firma di un personaggio importante come Cuperlo, che a questo punto voterà Sì al riforma.

Il documento pubblicato da Orfini, definito “buono” da Orfini stesso, è promettente ma in realtà piuttosto vago; su un punto cruciale, il ballottaggio, addirittura evasivo. Ci sarà un “superamento” del ballottaggio: in che modo? Non c’è scritto, si vedrà, nel frattempo Cuperlo vota Sì, votatelo pure voi.

Non servivano lauree per notare quanto il ballottaggio dell’italicum fosse cosa maldestrissima, probabilmente incostituzionale, e senza precedenti noti al mondo: di solito i ballottaggi su scala nazionale si fanno per eleggere un presidente (e si parla quindi di repubblica presidenziale o almeno semipresidenziale), non per aggiungere un bonus di scranni in parlamento. Di solito, e questo è cruciale, questi tie-break scattano quando nessuno dei due contendenti ha ottenuto la quota 50%+1, che non è un livello arbitrario: è la definizione di maggioranza assoluta. Quello dell’italicum invece scattava a soglie bizzarre che il legislatore ha un po’ esitato a fissare, prima 35 poi 37 poi 40, all’indomani delle elezioni europee che Renzi aveva appunto vinto col 40 – da questi dettagli vedi lo scout, sempre più in alto! Bene. Resta il fatto che il 40% non è la maggioranza assoluta; che vuoi vincere un premio senza essertelo meritato perché sai, la “governabilità”.
(Questo pezzo se siete lettori abituali potete saltarlo, è la stessa lagna da quasi tre anni in qua).

Ora dicono che “superano” il ballottaggio: cosa vuole dire? Non si sa, votate sì e poi ce lo spiegano. Voglio sperare che non sia quel famoso “modello greco” che lo stesso Orfini aveva ripescato la scorsa estate, magari durante un’insolazione. Se invece trattasse davvero di quella roba, se ne riparlerà, ma finché non lo mettono per iscritto io non ci posso né voglio credere. Tiriamo ora un pietoso sipario sullo spettacolo di un partito che a un mese dal referendum non sa ancora che legge elettorale vuole, e probabilmente non lo saprà nemmeno dopo il referendum. Riassumiamo la situazione:

1. Per due, quasi tre anni, l’italicum è stato criticato fuori e dentro dal Pd. Renzi reagiva spiegando che era bellissimo e alla fine ci mise la fiducia.
2. Quando i sondaggi – sia elettorali che referendari – hanno cominciato a dirgli male, Renzi ha annunciato che se ne poteva riparlare: però dopo il referendum.
3. Adesso c’è un impegno scritto, che però equivale alla promessa di cui sopra: ci impegnamo a riparlarne, ma non spieghiamo come. “Supereremo” il ballottaggio. Adesso per favore ci votate la riforma?

C’è qualcosa di peggio di non saper scrivere una legge elettorale decente? Renzi e Orfini ci hanno mostrato che qualcosa di peggio c’è: usare la stessa indecente legge elettorale come moneta di scambio durante una campagna referendaria. Abbiamo fatto una legge che fa schifo; ora se per favore votate per noi siamo disponibili a cambiarla. Ma l’italicum non è una merce di scambio, l’italicum puzza e basta.

Non sarà il primo dei motivi per votare no al referendum, ma secondo me è un buon motivo. Tanto l’italicum lo cambierete lo stesso, perché è brutto, anticostituzionale e (soprattutto) non vi garantisce la vittoria. E se non lo cambierete voi, ci penserà il prossimo. I bluff in politica si possono anche apprezzare: quando c’è qualcuno che li sa fare, sono uno spettacolo. Non è il vostro caso.

Ricapitolando i miei motivi per votare no:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.

referendum, Renzi

Il referendum è un martello pneumatico

Tra un mese si vota per cambiare la Costituzione, e a questo punto credo valga la pena di parlarne sul serio – con l’ambizione di aggiungere qualcosa non dico di originale, ma che non sia già stato ripetuto fino alla noia; e che magari possa risultare interessante anche a chi ha deciso di votare Sì (io voterò No).

Premessa: non sono un costituzionalista, così come non lo siete voi che leggerete. Il fatto che ci venga chiesta un’opinione su questioni così delicate era, fino a qualche tempo fa, piuttosto inusuale. Non c’è bisogno di un referendum confermativo per emendare la Costituzione: bastano i due terzi del parlamento. Renzi non li aveva e questo, a mio parere, avrebbe dovuto ridurlo a più miti consigli: d’altro canto prendersela con lui perché non è prudente è un po’ come prendersela con la cicala che frinisce al solleone, non potrebbe fare silenzio? No, è una cicala, è fatta così. Renzi è fatto così, Renzi va veloce, si è ritrovato a capo di una maggioranza risicata di un parlamento eletto con una legge dichiarata anticostituzionale e invece di limitarsi a cambiarla alla svelta e ripassare la palla agli italiani, ha pensato di usare questa risicata maggioranza per riscrivere qualche articolo legge fondamentale dello Stato. Renzi quando se la vede brutta rilancia e alla fine va anche solo contro tutti – magari gli dice bene.

A questo punto però c’è una cosa che i suoi sostenitori dovrebbero concedere, e cioè che è di fatto impossibile separare Matteo Renzi dalla riforma che ha voluto mandare avanti a dispetto dei numeri in parlamento, dell’opportunità politica e, beh, anche un po’ del buon senso. Chi ieri gli rimproverava di aver personalizzato la questione, stava appunto lamentandosi del canto della cicala: Renzi personalizza, è il suo stile, se non vuoi la personalizzazione non ti prendi Renzi. Chi oggi addirittura gli propone di dimettersi per dare un segno, a mio modesto parere, manifesta lievi segni di ubriachezza: anche se Renzi domani decidesse di aprire un chiringuito ai Caraibi, la legge che ha voluto rimarrebbe renziana al 100%; vi si trovano ancora dettagli che sono stati messi per iscritto per la prima volta durante qualche vecchia Leopolda che ho la sensazione di ricordare meglio io di molti renziani di recente conversione. Chi accusa gli alfieri del No di “avercela con Renzi” sembra aver perso un passaggio: certo che ce l’abbiamo con Renzi, se non ci piace la sua riforma. Certo, molti suoi fieri oppositori danno la sensazione di guardare più all’Italicum, o al Jobs Act, o alla Buona Scuola, che al testo della riforma. In coscienza non credo sia il mio caso: io voterò No perché questa riforma proprio non mi piace.

Ma è così strano che i cittadini, nel momento in cui si chiede loro un parere con quella cosa gigantesca che è il referendum, non riescano a separare il Renzi riformatore della Costituzione dal Renzi rottamatore dell’articolo 18 o da quello che prima mette la fiducia sull’Italicum perché è la legge elettorale più bella del mondo, e poi cambia idea? Non solo i cittadini non sono tutti algidi costituzionalisti, ma non è previsto che lo siano. Non è previsto che non siano faziosi, non è contemplato che siano tutti ben informati: non sono una corte di saggi, sono un’enorme massa di persone che processa le informazioni nel modo caotico e impreciso che ormai ben sappiamo. E appunto: siccome lo sappiamo da tempo che con le masse va così, e non è obbligatorio consultarle, se proprio decidiamo di farlo, avrà senso lamentarsi del fatto che il dibattito diventi rozzo? Il referendum è uno strumento rozzo per costituzione. Sì, no, bim bum, fine. Vale per il confermativo quello che qualche anno fa annotavo per l’abrogativo: non è un bisturi – non dai a una massa un bisturi, non lo sa maneggiare – al limite è una ruspa, un martello pneumatico.

Il referendum abrogativo è un diabolico arnese. Da una parte entra la volontà popolare. Ma può entrare solo con una pressione fortissima: il 50% degli aventi diritto più uno. È abbastanza chiaro che se scomodi la metà degli italiani, quello che salta fuori dovrebbe essere Legge: una di quelle scolpite nel marmo. 

In realtà però questo getto fortissimo di Volontà Popolare non può scrivere un testo di legge. Può solo esprimersi in due modi: Sì, o No. Ultimamente è anche peggio di così: il getto di Sì o No non viene usato per abbattere una legge intera, ma soltanto qualche frase qua e là; per modificare un tecnicismo, limare una asperità, cambiare senso a un paragrafo. Riparare un testo di legge con un referendum abrogativo è un po’ come rimuovere una carie con un martello pneumatico: per funzionare funziona, ma ha qualche controindicazione.

Ecco se vi va il primo motivo per cui voto No: prima ancora di entrare nel merito, non mi va di cambiare la Costituzione col martello pneumatico. Non credo sia la più bella del mondo, ma nemmeno che sia possibile migliorarla in questo modo. Tutt’al più fai qualche sbrago creativo che renderà necessario un successivo e più mirato intervento. Tanto vale saltare il passaggio.

razzismi, Renzi

Cosa fare col razzismo (o schiacciarlo o svezzarlo)

Non ci siamo svegliati razzisti una mattina: il razzismo è una possibilità che forse ci portiamo dentro da un passato rinnegato un po’ in fretta. È un cucciolo che è stato svezzato e coccolato da una precisa parte politica, per scopi chiari e chiaramente ignobili. Ci sono responsabilità evidenti: testate giornalistiche, programmi televisivi, interi gruppi editoriali hanno deciso di spacciare un determinato tipo di prodotto che creava consenso, vendeva giornali (neanche tantissimi), produceva odio. Certo, c’è la libertà di parola (non quella di propaganda razzista); certo, nel mondo libero ogni messaggio trova la sua nicchia. Siamo uomini di mondo, sappiamo come vanno le cose, le orazioni indignate contro i penultimi che alzano le barricate contro gli ultimi suonano fastidiose e ipocrite. Non ci siamo svegliati razzisti una mattina e non è coi bei discorsi che si può pensare che ci sveglieremo meno razzisti domani. C’è un lavoro da fare. Avrà un costo. E chi ha fatto i suoi soldi seminando odio, ora dovrebbe restituire. È tutto qui.

In Italia abbiamo, tra gli altri, un problema. Non è forse il più grave ma a mio parere è uno dei primi nodi della matassa: una volta sciolto scopriremmo che la situazione è molto più semplice. In Italia, in luogo della tradizionale contrapposizione tra una sinistra progressista e una destra conservatrice, abbiamo avuto una strana psico-dialettica tra una destra che inseguiva il Principio del Piacere e una sinistra che periodicamente rammentava il Principio di Realtà. Berlusconi è stato il simbolo e l’alfiere di una destra irresponsabile, che abbassava le tasse e inseguiva sogni di grandezza: il centrosinistra di Amato o Prodi si faceva vivo ogni tanto, un periodico bagno di realtà che serviva a recuperare un po’ di conti, e a preparare l’ennesimo viaggio nei beati mondi della fantasia e dei ponti sugli stretti. L’invenzione di un’Italia ostaggio della malavita straniera, un’Italia terrorizzata prima dagli albanesi e poi dai rumeni e in seguito dai jihadisti, nasce nei laboratori del consenso berlusconiano e leghista. Certo, trova un terreno fertile. Un paese in recessione, colpito fatalmente dalla concorrenza dei più agguerriti tra i paesi emergenti, è il terreno più adatto a un certo tipo di predicazione xenofoba. E ciò non toglie che questa predicazione ci sia stata: che qualcuno abbia deciso di investire tempo, risorse, palinsesti televisivi.

Una macchina dell’odio che ormai procede in automatico, nel senso che ormai in cabina di regia non c’è più bisogno di nessuno e infatti non c’è nessuno: i berlusconiani si contentano di cavalcare l’antirenzismo; quanto alla Lega di Salvini, ormai è un movimento più teatrale che politico, in cerca più di visibilità che di potere autentico. La destra insomma resta a bearsi della sua irresponsabilità, inventandosi nemici immaginari e producendo tossine che respiriamo tutti. E la sinistra? La sinistra governa, si barcamena, cerca di recepire le direttive comunitarie sull’accoglienza dei profughi senza offendere i buoni cittadini razzisti che alzano le comprensibili barricate; la sinistra si sobbarca, si fa criticare, ma spera in qualche modo di poter vincere il referendum, e poi le elezioni, farsi firmare un contratto a tempo determinato fino al 2023 che le consentirà di? Di continuare a barcamenarsi mentre fascisti, grillini, leghisti ed ex berlusconiani continueranno beatamente a soffiare su qualsiasi brace di rivolta. In questo Renzi è veramente l’erede dello spirito di servizio dell’Ulivo prodiano e poi veltroniano: questa idea che solo un centrosinistra responsabile possa farsi carico dei problemi, e ottenere l’investitura popolare in forza delle proprie energie positive. La gente dovrebbe votarci perché siamo quelli buoni.

Si dice che a Gorino e altrove personaggi pittoreschi come Naomo hanno potuto ritagliarsi il loro spazio a causa della sparizione dei corpi intermedi. Vero, ma dunque che si fa? Perché un Naomo non si guarisce a discorsi, e nemmeno con una notte in cella per istigazione all’odio razziale. Un’altra possibilità – molto rischiosa, me ne rendo conto – sarebbe dargli in mano la situazione: fallo tu il corpo intermedio. Prova tu a gestire l’accoglienza dei rifugiati nella provincia di Ferrara. Va’ tu a spiegare ad alcuni albergatori che si devono tenere quelli che l’ostello di Gorino non vuole. Come si sta facendo coi grillini a Roma, in fin dei conti. Credo che a quel punto si volatizzerebbe. I parolai prosperano dove il conflitto è bloccato.

E quindi siamo sempre lì. Piuttosto che a governare senza avere il 50% del Paese, il centrosinistra dovrebbe cercare di smontare il centrodestra; di metterlo di fronte alle sue (non)responsabilità. Di dividerlo, come in fondo ha fatto cooptando Alfano e poi con Verdini. È una possibilità. Oppure dovrebbe schiacciarlo, ma sul serio, come non è mai stato schiacciato Berlusconi anche quando seminava odio da emittenti nazionali che occupavano illegalmente l’etere tv. Renzi non sta facendo nessuna delle due cose. Vuole governare da solo, vuole mano libera, vuole che ci fidiamo di lui e che lo giudichiamo dopo cinque anni. E magari dopo cinque anni lui sarà stanco del giocattolo: ma noi saremo ancora qui, in un Italia dove si consente a Libero, al Giornale, di stampare immondizia xenofoba tutti i giorni: a Del Debbio di raccontare l’invasione dei profughi; e ai leghisti di giocare impuniti alle barricate.

migranti, razzismi, Renzi

È "difficile" giudicare trenta razzisti, Matteo Renzi?

Al referendum voterò No e non credo neanche sia necessario spiegare il perché – lo faccio da due anni, ormai. Quel che invece sto cercando di fare è purificare le ragioni del mio No: dimostrare, almeno a me stesso, che a farmi votare No sono considerazioni serie, previsioni ponderate, e non un’epidermica insofferenza per Matteo Renzi.

Faccio fatica.

La Repubblica

Un po’ senz’altro per colpa mia – ma anche Renzi da parte sua potrebbe applicarsi di più. Quello che gli si chiedeva, di fronte a un fatto banale e inquietante insieme, come la rivolta di Gorino, è una posizione netta, magari anche sbrigativa perché cosa sono dodici o venti posti letto di fronte a un’emergenza nazionale, continentale, mondiale? Non sono niente finché non diventano un simbolo.

Prima che succedesse questa cosa, Renzi avrebbe pur potuto passare davanti alle telecamere e dire: signori, raccontiamoci poche palle. Io forse posso comprendere la “stanchezza” degli italiani di fronte a un’emergenza che non finisce mai, ma nella fattispecie non quella degli abitanti di Gorino, che di profughi non ne hanno mai visti. Se non ne vogliono dodici, qualcun altro comune del ferrarese se ne dovrà sobbarcare: qualche altro onesto cittadino padano dovrà pagare per la “stanchezza” immaginaria dei pescatori di Gorino che lo Stato sovvenziona già così lautamente. Spero di essermi spiegato e che non ci sia bisogno dell’aiuto delle forze dell’ordine per smontare i gazebo e le altre cianfrusaglie che bloccano il traffico a dispetto del codice stradale. E però.

E però Matteo Renzi è in campagna referendaria; è appeso a uno stelo di consensi che ondeggia a ogni refe di vento, e quindi gli è toccato dire che è difficile giudicare la ‘stanchezza’ di un paesino dove non c’è mai stato un profugo-uno. Ridursi a cercare i voti di Naomo, d’accordo, a un politico può succedere anche questo: ma almeno finirà? Perché la speranza dei renziani è che tutta questa manfrina un bel giorno finirà e Renzi regnerà incontrastato. Quando?

Mettiamo che vincesse al referendum: sarebbe un bel ripulisti per il Pd (ci potrebbe anche essere una scissione) e anche a centrodestra ci sarebbero contraccolpi notevoli, magari positivi per le piccole compagini di Alfano e Verdini. Ma Renzi continuerebbe a essere il capo di un governo di coalizione che continuerebbe a dipendere da Alfano e Verdini. Fino alle elezioni, che lo stesso Renzi non credo vorrebbe disputare prima del 2018 – a questo punto non si sa bene con che sistema elettorale, ma diamo per scontato che dopo una debacle referendaria la sinistra Pd non riesca più a ottenere nulla e si vada con un sistema non troppo dissimile dall’italicum com’è oggi.

Mettiamo che scoppi un’altra Gorino – o altre dieci, cento, mille Gorino. Renzi continuerà a capire la “stanchezza” di chiunque. Non è che abbia molte alternative: o vince o va casa. E non è davvero detto che vinca. Nei tempi lunghi, peraltro, perdiamo tutti.

1500 caratteri, Renzi

Matteo Renzi, l’uomo del Vaffanbagno

Io credo che se cinque anni fa avessimo chiesto ai sostenitori del neonato Movimento Cinque Stelle “che cosa vuoi davvero”? pochissimi avrebbero risposto “Beppe Grillo al governo”. Nemmeno Beppe Grillo avrebbe detto una cosa del genere.

Molti avrebbero risposto, invece: “chiudere Equitalia”: e Grillo tra loro.

Il Post

E quindi oggi chi deve festeggiare: Matteo Renzi che governa e si prende la responsabilità di politiche non sempre popolari, o Beppe Grillo che senza sporcarsi le mani ottiene quello che Beppe Grillo per primo ha desiderato e formalizzato in una richiesta? Equitalia è solo un nome; alcuni debiti restano, altri Renzi li condona per motivi elettorali che non scandalizzano nessuno. Ma “chiudiamo Equitalia” era uno slogan, e chi l’ha coniato ha evidentemente conquistato l’egemonia nel dibattito politico.

Perché perder tempo a governare quando puoi ispirare l’azione di governo a distanza, da un blog, e tirare pure un po’ di soldi coi banner? Grillo dice: abbasso la casta! e Renzi s’ingegna a ridurre i parlamentari. Grillo tuona contro le auto blu, Renzi le requisisce e le mette all’asta su eBay. Grillo richiama l’attenzione sul fatto che molta gente è costretta a pagare gli interessi sui debiti, e Renzi provvede. Grillo ottiene quello che domandava e Renzi forse vincerà il referendum che gli preme tanto: ma con che faccia viene a proporsi come alternativa all’antipolitica? Perché non dovremmo considerarlo, piuttosto, un grillino dal volto umano? Uno che dal movimento del Vaffanculo ha preso due o tre istanze che funzionavano, le ha moderate aggiungendo qualche spezia progressista o liberale, e con questo polpettone prova a vincere, anche lui, un po’ di elezioni?

Certo, “Bye bye Equitalia” suona molto meno truce di “Chiudiamola”. In parrocchia, da bambini, non volendo offendere troppo il nostro interlocutore (e non sapendo ancora molto di sodomia), a volte dicevamo “vaffanbagno”. Matteo Renzi è un po’ così, uno che cerca di combattere il Vaffanculo col Vaffanbagno. Magari funziona.

catastrofi, ferrovie, Renzi

Il ponte sullo Stretto esiste già

Ciao, siccome Renzi l’altro giorno per festeggiare l’Impregilo è tornato sull’argomento (in modo molto vago, peraltro), nei prossimi giorni si parlerà del ponte sullo Stretto di Messina, dell’opportunità che rappresenta, dei rischi che comporta, ecc. ecc. Siccome non è la prima volta, e non sarà l’ultima, tanto vale equipaggiarsi. Ad esempio: lo sapete quanto è stretto lo Stretto? Più o meno 3 km.: una semplice nozione geografica che molti sostenitori del progetto, curiosamente, non condividono.

Peccato, perché è facile. Ripetete con me: Stretto di Messina, 3 km. Adesso lo sapete.

Inoltre in certi punti è molto profondo, quanto profondo? Abbastanza da rendere tecnicamente impossibile piantare dei piloni sul fondale, come si immaginava ancora negli anni Ottanta – si vedevano modellini di ponti a tre campate, a cinque campate, Craxi diceva che ormai era tutto pronto, si sarebbe fatto il ponte (io leggevo Topolino). Non andò esattamente così, e già allora c’era chi accusava l’indecisionismo italiano, il disfattismo italiano, ecc.. Però da lì in poi nessuno ha più proposto di piantare piloni nello Stretto. Pare che per adesso proprio non si possa (e sarebbe anche un problema farci passare le navi). Dagli anni Novanta in poi, il progetto proposto e approvato prevede una campata unica: una torre da 300 metri in Calabria, l’altra in Sicilia, e in mezzo… tre km senza sostegno. Sono tanti? Sono pochi?

Di solito a questo punto qualcuno tira fuori i giapponesi, che non sono disfattisti, non sono indecisionisti, e che con tutto il rischio sismico che si ritrovano riescono comunque a stendere ponti pazzeschi. Vero. In fatto di ponti i giapponesi sanno proprio il fatto loro. Negli anni Novanta la campata più lunga del mondo, ovviamente, era in Giappone. E quanto è lunga?

Salutate l’Akashi Bridge, inaugurato nel 1998, lungo la bellezza di tre chilometri e novecento metri.

Visto? Quindi, se si può fare in Giappone, perché no tra Reggio e Messina? Perché sempre questo disfattismo?

Aspetta. Il ponte giapponese arriva a 3900 metri, ma la campata centrale è lunga soltanto 1991. Ripeto: al momento è la campata più lunga del mondo. Neanche due chilometri. Vi ricordate quanto è largo lo Stretto di Messina? Dai che ve lo ricordate. Tre chilometri.

Tutto qui.

Quando Berlusconi annunciava al mondo che avremmo presto costruito il Ponte sullo Stretto, stava dicendo nientemeno che avevamo intenzione di migliorare il record del mondo di campata unica del 42%. Al tempo lo spernacchiavamo – anche Renzi diceva che c’erano altri problemi, le case antisismiche, la banda larga, ecc.. Adesso Renzi promette la stessa cosa – no, a dire il vero dice solo che il Ponte creerà migliaia di posti di lavoro. Addirittura decine di migliaia di posti di lavoro. Magari ha ragione.

Se la vediamo da questo punto di vista, il Ponte funziona, già da vent’anni. Tanti appalti sono già stati appaltati, tanta gente ci ha mangiato. Solo di penali il governo Monti ha dovuto sborsare 300 milioni di euro. Briciole. Nel 2007 il governo Prodi rischiava di dover pagare 500 milioni di penale, proprio all’Impregilo. Un sacco di soldi, un sacco di posti di lavoro – cioè, lavoro, aspetta, non è che sia proprio necessario di lavorare. Anzi nel caso del Ponte non ce n’è proprio bisogno. Basta vincere un appalto e aspettare che cambi il governo: di solito il centrodestra lo vuole e il centrosinistra lo blocca. A volte il centrosinistra non vince le elezioni e allora il centrodestra se lo blocca da solo, nel 2011 successe appunto questo.

Nel frattempo il mondo gira, e in tante altre nazioni meno disfattiste della nostra si costruiscono grattacieli, dighe, ponti; per esempio adesso il recordo mondiale di ponte a campata unica è… è sempre lo stesso di vent’anni fa.

Ciao Akashi, quanto tempo ti è passato sotto.

Neanche i giapponesi l’hanno migliorato: né del 42%, né del 5%, né di niente. Forse hanno finito gli Stretti. O forse nemmeno loro, sono in grado, per adesso, di costruire una campata unica più lunga di due km. Magari tra un po’, con una tecnologia diversa. Ma per adesso non lo fanno.

Peraltro, si tratta di un ponte non ferroviario: farci passare i treni sarebbe stato problematico anche per i giapponesi? Una buona notizia è che il ponte ha già retto, durante la sua fabbricazione, un sisma di magnitudo 6,8 avvenuto proprio nella faglia di Akashi: il terremoto di Kobe del ’95, terribile anche per gli standard nipponici: quindicimila morti. I piloni del ponte di Akashi si sono allontanati appena di 120 centimetri, e dopo qualche mese i lavori sono ripresi. Magari se il ponte fosse stato già terminato, si sarebbe deformato un po’. Comunque anche il rischio sismico non sembra insormontabile, se ci sono riusciti i giapponesi. Magnitudo 6,8. A Messina c’è mai stato un sisma più forte?

Certo che c’è stato. Nel 1908 i sismografi hanno registrato una scossa di 7,1 magnitudo – ricordiamo che è una scala logaritmica: si tratta di un terremoto sensibilmente più disastroso di quello di Kobe. E ovviamente, se è già successo, non possiamo escludere che un giorno non ce ne sia un altro di intensità anche superiore. E qui potremmo anche inserire un lungo discorso sulla storica tendenza degli italiani a sottostimare il rischio sismico – Messina e Reggio sono due città che già rischiano troppo, un filo di cemento sospeso a trecento metri sul mare non aggraverà la situazione, ma nemmeno l’allevia. Aggiungete qualche considerazione sulla surrealtà di essere italiani, di vivere in un Paese dove solo un mese fa sembrava necessario rifare tutte le scuole, tutte le città secondo criteri antisismici, e adesso, e adesso niente, ci siamo rimessi a discutere del solito ponte.

Di solito a questo punto qualcuno invoca l’autorità: ma insomma, c’è un progetto, c’era un comitato scientifico che lo ha approvato, evidentemente il ponte si può fare, no? Già. Però nessuno lo fa, un ponte lungo così: né a Messina né altrove. Nel frattempo il coordinatore del comitato scientifico che approvò il progetto preliminare ha scritto un libro in cui sostiene che la campata unica è troppo lunga; ha accusato la società dello Stretto di Messina di aver nascosto una faglia sismica, è stato condannato per diffamazione. Insomma tutto questo consenso scientifico forse non c’è. Le sue obiezioni sono condivise da altri architetti, ingegneri e accademici: cito Massimo Majowiecki (IUAV di Venezia):“Allo stato attuale, pertanto, è più che legittimo domandarsi quali siano gli schemi d’impalcato da impiegare per la realizzazione di grandissime luci, che eccedano la misura di 2000m. È doveroso, invece, recepire e studiare i dati forniti dalla ricerca Giapponese, che, nella misura di 2000m, individua il limite applicativo delle soluzioni alari, aerodinamicamente efficienti” (la fonte è purtroppo il blog di Beppe, ma l’intervista è interessante). Lo stesso Majowiecki ha cofirmato una proposta alternativa (una specie di funivia) che tiene conto del problema del vento – sì, il vento crea più problemi dei terremoti. Una bella ricostruzione della storia del Ponte l’aveva scritta qualche anno fa Luca Silenzi.

In rete c’è anche la storia “Zio Paperone e lo Stretto di Messina“, costruita su una trovata geniale: un ponte di corallo, una barriera che si autoriparerebbe da sola. In fondo il Ponte è un po’ questo: una struttura immaginaria che facciamo a pezzi periodicamente, e periodicamente torna a protendersi tra il promontorio del Dire e l’irraggiungibile costa del Fare. Ho detto “immaginaria”, ma in realtà esiste. Il ponte fa discutere, fa votare, fa vincere appalti, fa commissionare studi di fattibilità, il ponte fa un sacco di cose. L’unica cosa che non fa, e che non farà ancora per parecchi anni, sarà portare i siciliani in Calabria e viceversa. Ma quello in fondo è un dettaglio.