generazione di fenomeni, Renzi

Tra due dinosauri, scegli quello in via d’estinzione: vota NO.

21) Poi c’è chi voterà Sì ben sapendo che si tratta di una riforma brutta, scritta male, che probabilmente complicherà le cose, rendendo il clima politico ancora meno respirabile, ma l’alternativa è peggio, perché l’alternativa sarebbe… D’Alema. O Berlusconi. Insomma i vecchi.

Che è un po’ la storia che il Sì ha cercato in tutti i modi di raccontare nelle ultime settimane, quelle in cui Renzi, potendo scegliersi un avversario da talk show, ha optato per Ciriaco De Mita. Contro di noi c’è l’accozzaglia, contro di noi i pensionati, contro di noi i dinosauri. Restando nel campo della buona fede, prendiamo Francesco Costa:

Cos’altro succederebbe con una vittoria del No? Un’intera anziana e vastissima generazione politica si guadagnerebbe il diritto a un ultimo giro di giostra: da Brunetta a D’Alema, da Bersani a Berlusconi, da Maroni a Monti, da Gasparri a Fassina, persone che hanno fatto in modi diversi la storia della Seconda Repubblica e ora sono sul punto di uscirne, come fisiologicamente accade in ogni democrazia, conquisterebbero nuova centralità e vitalità nei loro partiti e quindi nel paese. Lo dico a prescindere dal giudizio nei loro confronti: è un fatto che alle successive elezioni bisognerebbe ancora, di nuovo, fare i conti con loro.

22) Il momento in cui i renziani hanno sorpassato
a destra la Casaleggio, occupando pagine di facebook
con meme beceri creati per l’occasione
(vedi Leonardo Bianchi su Vice).  Che a pensarci
è già un altro ottimo motivo per votare No. 

Questo argomento immagino abbia sicura presa coi trentenni, specie se cognitari: gente che tutti i giorni si misura nel luogo di lavoro con capi incompetenti che hanno il doppio della loro età (ehm no, non è il caso di Costa, ma per capirci). Cosa potrei obiettare? Secondo me non è vero: non vedremo D’Alema, Monti o Bersani in primo piano alle prossime elezioni. Non funzionerebbero – non credo stiano funzionando nemmeno adesso, non sono loro a spingere il No: al massimo sono un bersaglio comodo per la propaganda del Sì. Berlusconi è un discorso a parte, per gli interessi dell’azienda che rappresenta (e che gli sopravviverà). Ma alla fine non è tanto questo il problema.

Fingiamo che davvero ci sia una lotta generazionale, dinosauri contro rottamatori; fingiamo che tutto si decida conquistando i ventenni e i trentenni, ebbene: cari ventenni, cari trentenni, pensateci bene. Tra il dinosauro in via d’estinzione e quello che ha la vostra stessa età, con chi scegliete di combattere?

Sul serio: da una parte gente che ormai ha dato tutto quello che doveva dare. Bersani non dirigerà più il Pd, Monti non è più un nome spendibile per Palazzo Chigi. Berlusconi al limite può fare ancora il kingmaker, con esiti per ora mediocri. Ma Renzi, se lo votate, non ve lo levate più dal groppone. Fin qui l’anagrafe giocava dalla vostra parte, ma (cari trentenni) non sarà sempre così.

Ok, siete abituati a misurarvi nel luogo di lavoro, tutti i giorni, con colleghi e superiori incompetenti più vecchi di voi. Ma fateci caso: cominciano a farvi posto. Cominciano a chiedervi come funziona la tal procedura, perché ormai è innegabile che siate più svelti. Cominciano ad andarsene in pensione. E tra un po’ se ne saranno andati tutti. Ma siate sinceri: il clima sta migliorando? Guardatevi attorno: non li vedete i trenta-quarantenni arroganti, quelli convinti di aver capito le cose meglio di voi, quelli che combinano casini pasticciando con le procedure e poi cercano di addossare la colpa a qualcun altro – magari a voi? Quelli che si credono d’aver capito qualcosa, quelli che pensano di poterla spiegare a tutti, quelli in pensione non ci andranno per un pezzo? Capace che vi ci mandino voi. Quelli, se non vi date da fare, ve li tenete finché campate.

Lo so che è uno choc. Fin qui qualsiasi persona odiosa, qualsiasi coglione, per quanto insopportabile, aveva pure una data di scadenza. C’era qualcosa di irresistibilmente comico nella deriva senile di Berlusconi: da una parte le faceva enormi, dall’altra si capiva che non sarebbe durato. Ma avete dato un’occhiata a Renzi, alla Boschi? Quelli non scadranno ancora per tanto, tanto tempo. E vi dicono che dovete scegliere: o loro o quelli vecchi. Io non avrei dubbi, davvero. Di motivi per votare No ne ho tanti altri, e un po’ più seri: ma se è una questione generazionale, si risolve alla svelta. Tra due prede da inseguire, sempre scegliere quella stanca e ferita. Tra due nemici, sempre guardarsi dal più giovane e in forze. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e votate No.

Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po’ ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché “NO” almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini.
21. Perché tra due generazioni di dirigenti poco capaci, la più pericolosa è quella giovane e ancora in sella.
22. Perché la propaganda renziana è scesa a livelli intollerabili.

generazione di fenomeni, internet, Pd, primarie 2012, Renzi, scuola

Renzi e il Partito nella Nuvola

Finché un bel momento si accorge che la polemica sulle regole gli è scappata di mano, e che averla trascinata fino a questo punto sarà controproducente anche per lui, sia che vinca sia che (più probabilmente) perda. Così a due giorni dal voto registra un messaggio pregando, “implorando” i suoi sostenitori di parlar d’altro, “di politica, del futuro del Paese”. A parte rimarcare la faccia tosta, quasi ammirevole, di chi avendo esaurito i sassi da gettare s’ingegna all’ultimo momento a nascondere la mano, io vorrei qui provare a spiegare senza troppa polemica perché Renzi non può fare così: non può pretendere che i ragni non pizzichino, che le cicale non cicalino, che i suoi sostenitori non polemizzino sulle regole. La polemica sulle regole non è una cosa semplicemente strumentale, un trucco per attirare l’attenzione. La polemica sulle regole è ormai diventata il messaggio, e riflettendoci un poco non poteva che andare a finire così.

La rissa sulle giustificazioni scritte, sui certificati, sui documenti, non è un incidente che ci ha coinvolti per sbaglio. È il modo in cui si è espressa la vera identità del movimento renziano, che non è la bozza Ichino o la vocazione maggioritaria o la mano tesa agli elettori di centrodestra. Il renzismo è, prima di tutte queste cose, un movimento generazionale, che interpreta la frustrazione di una categoria abbastanza precisa di persone. Hanno quasi tutti meno di 45 anni; alcuni sono professionisti, altri sono precari, ma in ogni caso lavorano tutti. E sul luogo di lavoro si scontrano, tutti i giorni, con gli over 50: che mantengono posizioni di potere, che hanno sempre la maggioranza, che sono troppi, si autolegittimano ma spesso non sanno come si accende il tablet che hanno appena comprato, che non si rassegnano a essere rottamati. Lo zoccolo duro di Renzi è questo, e per quanto cerchi di allargarlo alla fine i suoi ultras sono fatti così; non è un caso il fatto che litighino sulle regole, che vivano la giustificazione scritta come un’umiliazione, che non capiscano come mai l’iscrizione ai registri non si può fare on line. Non è un dettaglio. È qui che passa il fronte della guerra generazionale: carta contro iPad, giustificazione scritta contro moduli on line, file nei seggi contro clic e tag, sedi di partito vecchia maniera contro social network: burocrazia contro internet.

Sono i quasi-nativi digitali. Fin qui internet è stato l’unico ambito che ha dato loro soddisfazioni e riconoscimenti: le rare volte che sono riusciti a convincere i colleghi a snellire una procedura passando dalla carta alla cloud, oppure quella volta che il direttore ha chiesto di loro per risistemare un sito o una banca dati. Internet è l’unico territorio amico, l’unico luogo in cui si sentono più sicuri dei loro avversari: è normale che cerchino di trasferire la battaglia lì, che a tre giorni dalla fine di tutto aprano un sito internet allo scopo di attingere a un enorme bacino di potenziali elettori di Renzi. Non ha importanza che questo bacino esista o no: ricorrere a internet è una reazione istintiva, un riflesso involontario: non c’è problema che la Nuvola non possa risolvere.

La carta, invece, è il nemico. Le code sono sempre lunghissime, estenuanti, retaggi di una civiltà analogica che dev’essere smantellata al più presto e sostituita da qualche software o app altri nomi a caso che ogni tanto effettivamente Renzi pronuncia. Il renzismo non è un’ideologia, è una frustrazione: noi siamo nel 2.0 e ci tocca prendere ordini da gente che va in crisi se la fotocopiatrice è in standby? E adesso cosa vogliono, la giustifica come a scuola? Dobbiamo scrivere? Su dei pezzi di carta?  Douglas Coupland si preoccupava che fosse la prima generazione senza Dio; per adesso questo più di tanto non si nota, almeno da noi; si nota più il fatto che sia stata la prima generazione a diventare adulta senza abituarsi a timbrare un cartellino. Mettersi in coda non è semplicemente una rottura: è umiliante.

Ne conosciamo tutti di tipi così. Per esempio io nel mio luogo di lavoro conosco un tizio che ha un problema col registro di carta: non riesce a gestirlo. Proprio non ce la fa, piuttosto di mettere i numerini con la penna nei quadratini si farebbe ore di riunioni, di lezioni, di qualunquecosa. Ce l’ha a morte con la Gelmini, con Profumo, con la Moratti, con tutti quelli che non gli hanno ancora dato il registro elettronico che a sentir lui sarebbe facilissimo da usare, praticamente si riempirebbe da solo. E in effetti lui ce l’ha già una specie di registro elettronico, se lo è fatto per i fatti suoi, lo ha messo nella Nuvola e ci si trova abbastanza bene, ma quello di carta non sa proprio più fisicamente come si riempie, è un’angoscia. Ecco, quel mio collega sotto sotto è un renziano – anche se su tutti i blog scrive in lungo e in largo il contrario.

generazione di fenomeni, lavoro, repliche

Mi è tuttora oscuro il perché

[Dieci anni fa Beppe Grillo andava in giro per i palazzetti a spaccare i computer col martello. La gente non voleva leggere sul video, stampava qualsiasi cazzata. Meno male che i blog ancora non esistevano, tranne questo. Per festeggiare dieci anni di obsolescenza, leonardo.blogspot.com pubblica dieci vecchi pezzi che parlano di passato e di futuro. Questo è del novembre 2003. Ci ho messo anni a ritrovare il volantino originale].

Trova l’errore

In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?

(Clicca qui per ingrandire).

È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.

Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?

No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?

E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.

Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.

E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.

Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.

O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.

elezioni 2010, generazione di fenomeni, ho una teoria

Gli uomini prima del diluvio

Potete immaginare di vivere cinque anni senza di lui?

(Sì). (In effetti non sapete manco chi sia). (Ecco, appunto).
Altri dettagli in Ho una teoria #10, sull’Unita.it (dove temo che i commenti non funzionino).

Qualche cosa può essere sfuggita“, dice Bertolaso. Potremmo fare il piccolo sforzo di credergli, perché no? Dal 2008 in qui il capo della Protezione Civile è stato sottosegretario all’emergenza rifiuti in Campania; commissario dell’area archeologica romana; e ancora commissario straordinario per il terremoto dell’Abruzzo (con annesso vertice g8), per le eruzioni nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto della Haven, per il rischio bionucleare, per i mondiali di ciclismo e per qualcos’altro che mi sarà senza dubbio sfuggito… In mezzo a tanti impegni un cantiere alla Maddalena potrebbe effettivamente essere passato inosservato: ma anche sforzandoci di credere alla sua buona fede, come possiamo giudicare un sistema che considerava qualsiasi evento importante un’emergenza (i mondiali di ciclismo…) e ogni emergenza degna dell’intervento di un singolo uomo? Non c’era in Italia un’altra persona preparata in grado di gestire almeno un’emergenza su cinque, qualcuno che potesse gestire con più attenzione i cantieri della Maddalena mentre Bertolaso volava in Abruzzo a soccorrere i terremotati?

Ho una teoria: Bertolaso – che non nasce berlusconiano – è rimasto suo malgrado intrappolato nella categoria berlusconiana degli “uomini del fare”. Vere e proprie incarnazioni della Provvidenza, gli Uomini del Fare risolvono i problemi da soli, in poche mosse. Moderno Cesare, l’Uomo del Fare viene, vede, vince, e vola a farsi un massaggio antistress. Stress che si lascia facilmente spiegare: gli Uomini del Fare non lo dicono, ma devono essere circondati da incompetenti a cui non potrebbero cedere nemmeno un decimo delle loro responsabilità, senza correre il rischio che tutto il loro lavoro crolli come un castello di carte. Dopo gli Uomini del Fare c’è sempre il diluvio.

Prendiamo la Lombardia. La più popolosa regione d’Italia, saldamente in mano a una classe dirigente di centrodestra che negli ultimi quindici anni dovrebbe avere espresso e cresciuto numerosi validi amministratori… e invece no, pare che l’unico in grado di mandare avanti la regione, da quindici anni a questa parte, sia Roberto Formigoni. Dopo aver surclassato il record di Franklin Delano Roosvelt (appena dodici anni alla Casa Bianca), il governatore lombardo punta ora a completare il ventennio, un primato senza molti precedenti nelle democrazie moderne (persino in una democrazia sui generis come la Federazione Russa, dopo otto anni di presidenza Putin si è dovuto trovare un altro incarico). Certo, dietro Formigoni c’è un compatto blocco di potere.. Ma sarebbe nell’interesse di qualsiasi blocco di potere rinnovare i propri uomini ogni tanto: giusto per non dare l’impressione che dopo Formigoni ci sia il diluvio. Tanto più che una sua eventuale rielezione rischia di risultare illegale: la legge 165 del 2004 vieta esplicitamente la rielezione dei presidenti delle regioni dopo due mandati consecutivi (quello di Formigoni sarebbe il quarto). Ne ha scritto di recente, sulle colonne dell’Unità, il professore di diritto costituzionale Vittorio Angiolini. L’ineleggibilità di Formigoni, già lungamente dibattuta in rete (tra i primi a parlarne Luca Sofri e Giuseppe Civati nei rispettivi blog) non ha forse ancora avuto sui quotidiani la visibilità che meriterebbe. Gli stessi avversari di Formigoni esitano a sollevare la questione.

Non è difficile capire perché: basta attraversare il Po per trovare un’altra grande regione (l’Emilia-Romagna) governata da un Uomo del Fare (Vasco Errani, PD) che gareggia per il suo terzo mandato. Una sua vittoria (probabile) non sarebbe meno illegale di quella di Formigoni a Milano. Ma il caso di Errani è, se possibile, più preoccupante, perché dimostra che la categoria degli Uomini del Fare sta penetrando anche nelle regioni storicamente di sinistra (per carità non chiamiamole più “rosse”). Ma davvero l’elettore emiliano di sinistra è così incline al culto della personalità? In realtà finora ha dimostrato il contrario, confermando al governo della regione e di tante amministrazioni locali una classe di funzionari piuttosto efficiente, ma che non brilla certo per eccessi di protagonismo; tanto che a parte l’eccezione rilevante del piacentino Bersani, gli amministratori emiliani non hanno mai avuto brillanti carriere a livello nazionale (viceversa sono stati personaggi carismatici alla Cofferati ad avere i loro problemi con la base emiliana). Lo stesso plurigovernatore Errani non è mai stato una celebrità alla Formigoni, e difficilmente lo diventerà anche dopo una terza vittoria. Chi andrà a votarlo, più che l’Uomo, premierà la continuità, la tradizione, forse anche l’appartenenza… tutti valori che potevano essere espressi da qualsiasi altro amministratore emiliano capace, purché il PD lo candidasse. Riproporre invece per la terza volta lo stesso Uomo, per quanto validissimo (ma se è così bravo, possibile che non gli si possa trovare nessun altro incarico all’altezza?) lascia intendere che anche nella sinistra emiliana, dopo Errani, non ci sia che il diluvio. Una prospettiva, per chi ha meno di quarant’anni, abbastanza inquietante.
generazione di fenomeni, universiade

Tuo sinceramente

Rispostina
“Caro papà.
Come va? Io sto bene, ma la tua lettera mi ha un po’ preoccupato.
Soprattutto mi ha preoccupato che invece di scrivere al mio indirizzo tu l’abbia mandata a Repubblica. Perché, ecco, se hai qualche problema preferirei che restassero in famiglia.

Allora, io il tuo messaggio non l’ho tanto capito. Ricapitolando: tu sei un pezzo grosso. Io sono tuo figlio e mi sto per laureare. Ora, dovrei essere veramente l’ultima anima candida d’Italia per non aspettarmi da un genitore serio e rispettato come te, in un momento così delicato per la mia formazione, un solenne spintone.

E invece mi arriva ‘sta letterina aperta, in cui mi chiedi neanche tanto velatamente di levare le tende… Come no, certo, mio papà dirige la Luiss e io devo andare a fare l’assistente sottopagato alla facoltà di Stocausen… Papà, senti, senza tanta sociologia, dimmi qual è il vero problema: hai promesso a qualcuno un posto che tenevi per me? Ti sei innamorato? Ti ricattano? C’è in giro un tuo video con due trans e la Mussolini? Papà, sul serio, se c’è un problema possiamo parlarne.
Basta che non attacchi la manfrina della povera Italia – sai papà, noi giovani abbiamo tanti difetti, però non è che ci beviamo qualsiasi fregnaccia.

Tuo sinceramente”.

cinema, generazione di fenomeni, tv

è++++++++èèèèèèèèè+

Sogni di 1961


Hai notato come la gente come me e te si ritrovi sempre più spesso nel 1960?

Dopo cena, s’intende.
Al mattino infatti la sveglia è fissa agli anni Zero. (Dai, che è l’ultimo). (Dai, che tra un po’ arrivano i Dieci, e con loro il posto e il mutuo a tasso fisso). (Dai e dai, perché non dovremmo diventare adulti pure noi?)

La gente come noi peraltro ha problemi sin dalla sveglia, che ogni notte va puntata a un’ora diversa. Se ci pensi, è un pessimo modo per finire/cominciare la giornata. Ma si sa, a un certo punto qualcuno ci ha traviato, ci ha raccontato che la flessibilità era qualcosa di nuovo ed eccitante, per cui lunedì ti svegli alle sette, martedì alle undici, mercoledì non ti svegli proprio nel senso che sei rimasto dilà a lavorare a una traduzione e sei crollato alle cinque del mattino col naso sul laptop e quando ti sei svegliato avevi riempito duecento pagine di hjjhjhjhjjjhjhjhjhjhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjhhhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj
(per la verità a pag. 79 spostandoti nella fase rem e ti eri riposizionato su è+è+è+è+è+èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè+++++++++++++++++++++è+è+è+èèèèè++++++++++++ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùàè+èèèè++++++++++++++++++++++++++èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè)
e prima di svegliarti, in un soprassalto di sonnambulismo, contemplando il tuo capolavoro avevi selezionato “Stampa”.

(La gente come noi, quando le dicono “Lo so che hai un romanzo nel cassetto”, sorride.
“Hai ragione. Ma è un po’ sperimentale. L’ho scritto a notte tarda”. “Come Kafka!”).

Ma tergiverso quando tu hai fretta, vuoi finire il post per rispondere alla mail che ti è appena arrivata da Tizio che ti chiede se hai finito il lavoro dello scorso mese per Caio così può farti pagare da Sempronio, e tu non hai la minima idea di chi siano tutti e tre, e la colpa di chi è? È anche un po’ colpa di Leonardo che scrive pezzi lunghi. Hai ragione, scusa.

Ma hai notato questa cosa buffa? Com’è che ci ritroviamo sempre più spesso proprio nel 1960?
Alla fine di queste giornate che non iniziano e non finiscono precisamente mai, dopo una cena mangiata di fretta o saltata proprio, ci si tuffa in una puntata di Mad Men, fresco di download; oppure si va al cinema a vedere Revolutionary Road che è la stessa identica bazza: pendolari suburbani che sbarcano a Grand Central alle otto in punto, salgono un ascensore, si ficcano in un ufficio dove non c’è nemmeno la macchina da scrivere (per quello ci si serve di apposite schiave), e ding dong, è già mezzogiorno. Ristorante, bistecca ai ferri, sigaretta, si fa anche in tempo a ingroppare la segretaria e prendere il treno delle 5.

Tutto filologicamente documentato, accuratamente riprodotto, scrupolosamente standardizzato, per il nostro sofisticato intrattenimento. Da quand’è che un passato non ci prendeva così?
Escluderei il fattore nostalgia; non eravamo nemmeno nati. Del resto siamo nati anche un po’ troppo tardi per Happy Days dopo la Tv dei Ragazzi. Dopodiché, certo, ci sono generazioni che hanno ereditato la nostalgia di quella dei padri, ma non pensavamo d’essere altrettanto deficienti.

E quindi? E quindi chissà? Forse in quel passato così accurato e sottilmente claustrofobico, in quel passato omologante cinico e disperato, c’è qualcosa di consolatorio. Noi che un treno da prendere tutte le mattine ormai ce lo sogniamo; noi schiavi di noi stessi e delle nostre fottute scadenze, noi che guadagniamo un mezzo eurocent per ogni tasto che spingiamo; noi guardiamo Don Draper o Frank Wheeler sconfitti e frustrati e un po’ ce la godiamo.
Mentre voi che avete vissuto all’apice della civiltà del consumo, e oggi siete cenere indistinguibile da quella delle vostre sigarette che non vi siete mai goduti veramente, voi: cosa sognavate sui seggiolini del treno, mentre tornavate a casa dalla mogliettina bionda? Scene di caccia, barricate a Parigi, western in bianco e nero, vite fuori dagli schemi, selvagge, precarie. Come le nostre, già! Sognavate di essere noi, è così?

[No. Forse è meglio avvertirvi che scherzo, non è così. È ovviamente il contrario. È che a una certa ora dopocena, non c’è mansarda parigina che non venderemmo per un lotto suburbano e la casina bianca dei Wheeler, per i lenti treni che si tuffano nel bosco e riemergono a Park Ave., per un po’ di vuoto patinato standardizzato e una sveglia, una sveglia cromata che suoni cinque e solo cinque mattine alla settimana, e alla stessa fottuta ora].

concerti, generazione di fenomeni, musica, repliche, tv

Sporcdrughè live in Maranello

(25 giugno 2008)

  • Quaranta gradi in casa e il condizionatore piscia acqua, il tecnico al telefono ha detto per carità non azionatelo, noi magari tra due mesi lo ripariamo. Bene, ma stasera piuttosto di restare in questo sottotetto t’accompagno a Maranello a vedere i Bluvertigo.

  • No, no, tranquilla che non lo scrivo, un post sui Bluvertigo, è vero che mi sono un po’ antipatici, ma è un’antipatia senza nessun significato sociale o politico, mi stan sulle balle e basta, che senso ha parlarne? Poi sembra di essere gli stronzi.

  • C’è che sono miei coetanei, e dei miei coetanei non mi va di parlare. I giovani sono patetici, i vecchi rincoglioniti, ma i coetanei no-comment. Effettivamente stavano vendendo dischi, o romanzi, mentre io non lo facevo. Io in quel periodo, soprattutto, ignoravo. Più che altro per dribblare l’invidia, che è una bestia brutta.

  • Però poi vorrei anche dirti che non mi sono perso niente, che le mie intuizioni sui coetanei avevano del buono. In effetti, spiegami com’è che ogni volta che ripescano qualche residuato dei Novanta sembra più vecchio dell’artista omologo anni Ottanta? Ma è un discorso che vale per il mondo intero, vuoi mettermi gli Oasis con gli U2? Probabilmente c’erano fattori universali che hanno determinato che l’ultimo decennio del secolo fosse un decennio di mezzecalze.

  • Uno di questi fattori è la saturazione. In campo musicale, o di costume, i Novanta arrivano dopo quarant’anni ininterrotti di evoluzione stilistica, in pratica era impossibile inventare qualcosa di nuovo: e allora si citava. Si citava per necessità, perché non si aveva veramente molto di originale da fare, però a un certo punto citare diventò il gioco più hip che c’era in città, si passavano lunghe serate a misurarsi – tu non puoi capire, erano cose soprattutto da maschietti – lunghe sedute a vedere chi citava più lungo. Tutto senza nessuna capacità selettiva, gli Alphaville valevano quanto Battiato, vinceva chi aveva più memoria e più dischi vecchi in casa. Ecco, i Bluvertigo (a proposito, siamo qui da mezz’ora, quando attaccano?) mi sembravano, mi sembrano, i rappresentanti quegli anni postmoderni nel senso che bastava la parola “postmoderno” per sembrare chissachi, e invece la verità era che si andava in giro oberati da un’enorme “cultura” divorata e maldigerita, una mole di dati che non riuscivamo a disciplinare e saltava fuori sempre a sproposito: testi di canzoni e dialoghi di film responsabili di storie finite male con ragazze che poi si sono sposate al primo stronzo e tutto il resto.

  • Comunque i Novanta sono passati, e non so se lo hai notato; la gente cita meno. Per vari motivi, ma uno dei primi credo sia internet. Per esempio, gli Oasis hanno fatto conoscere a molti ragazzini i Beatles; passo successivo, i ragazzini si sono scaricati i Beatles; terza fase, hanno smesso di cagare quei pianobaristi dei fratelli Gallagher. Tutta quella straordinaria memoria che ci serviva negli anni Novanta per trovare il pezzo giusto da mettere nella cassettina giusta, oggi non ci serve più, un clic e via – la possibilità di farsi archivi enormi e portabili ha banalizzato quelle capacità di memoria e di critica che in quegli anni non erano mica un lusso, erano un esigenza. Analogamente, se proprio mi viene l’insano desiderio di vedere qualcuno pittato come i Duran Duran ai tempi di Rio, faccio molto prima a mettermi su youtube che a venire qui a Maranello ad aspettare questi cazzo di Bluvertigo che, ha detto il tipo, “cominceranno tra mezz’ora per problemi logistici”. Logistici?

  • Allora siamo qui seduti all’ombra del monumento ad Enzo Ferrari a forma di stronzo. Dietro c’è una chiattona che ripensa alla sua prima cassettina dei Bluve “nel novantasei”. Davanti c’è una ragazzina DEL novantasei che guarda il backstage con sguardo canino e rapace: “Cioè, se sapessi come fare a entrar lì… è come se… (spiega all’amica)… qual è il tuo gruppo preferito? I Tokio Hotel? Cioè, è come se i Tokio Hotel fossero lì dietro…”

  • Sì, ecco, dimenticavo, c’è questa cosa della televisione. C’è che Morgan è andato in tv, quest’anno, e pare che abbia salvato da solo un programma di giovani talenti con Simona Ventura. E quindi adesso da vecchio arnese anni Novanta si trova sbalestrato sul target dei Tokio Hotel. Secondo me ha fatto bene, eh. Però anche solo se dico così, si capisce che sotto sotto intendo il contrario, che per me un citazionista succube delle proprie citazioni, uno che si traveste per eludere il problema dell’identità, è perfetto per la tv, dove si colloca tranquillamente nella fascia di brontoloni televisivi tra Sgarbi e Zeri; inoltre, siccome il format di Simona Ventura è la versione nobile e hip di Amici di Maria De Filippi, avrei buon gioco a constatare che Morgan si è trasformato nella versione nobile e hip di Platinette. Poi tu t’incazzi ma cosa ci posso fare se questo passa tre mesi pittato in vari modi a difendere l’integrità artistica contro la dittatura del Televoto, e poi porta al trionfo una boyband salentina di trentenni con la pancetta che steccano pure? Ecco, meno male che cominciano a suonare. Andiamo in mezzo, però, perché da qui non si sente tanto bene, eh.

  • Si sente male anche in mezzo, e lui non si regge in piedi. Ma non è questo il problema. Il problema è che è giù di voce. Veramente parecchio giù di voce. Non stecca, non sbaglia a suonare, ma la voce è un graffio che fa male a sentirla. Per fortuna che parecchie strofe sono su una nota sola. La gente comincia a dire “drògati meno”. 

  • Mi viene in mente che io sono cresciuto in un posto un po’ più piccolo, ma sostanzialmente simile, dove ai tempi della mia prima infanzia c’era una cumpa nota come “i drogati”, i quali si ritrovavano al pomeriggio, bada bene, nel cortile davanti alla chiesa, e fumavano. Erano effettivamente gli anni dell’eroina a prezzi popolari. In seguito però seppi da fonte attendibilissima che “i drogati” non si drogavano affatto. Fumavano Marlboro, proprio come nel pezzo degli Offlaga. Però ci tenevano a essere chiamati “i drogati”, e li posso capire: è una gran consolazione, se vivi in un paesone, lo sguardo della vecchietta che passa, ti fissa e pensa Sporcdrughè.

  • Poi penso a una cosa che mi ero scordato, e che mi ha rimesso in mente Enzo: che negli anni Novanta, per esempio, abbiamo *lavorato* anche a una rivista dove una volta comparve un’intervista a Morgan, non fatta da noi, ma da uno che, vivendo veramente negli anni Novanta, Morgan lo idolatrava. E dunque a un certo punto gli chiedeva: perché ti pitti le unghie? Cioè, noi stavamo cercando di mettere su una rivista letteraria, e su questa rivista un tizio chiedeva al suo cantante pop la ragione intrinseca del suo pittarsi le unghie. Ma vabbè. Comunque Morgan rispose che se le pittava per studiare le reazioni della gente, per esempio, se poi entrava dal tabaccaio, cosa avrebbe pensato di Morgan e delle sue unghie nere?

  • Questa cosa ci fece molto riflettere. Coniammo anche un’espressione, purtroppo intraducibile, che doveva riassumere una certa velleità ribelloide affetta da inestirpabile provincialismo: épater le tabacchèin. Cercammo anche di raffigurarci il quadretto: un tabaccaio qualsiasi degli anni Novanta, con un’intera stanza di videopoker abusivi, alle spalle precedenti per ricettazione e spaccio. Le cinque del pomeriggio. Entra Morgan, chiede un lollipop, e lo scarta facendo ben vedere le sue unghie pittate di fresco. Il tabaccaio sovrappensiero non reagisce – sta pensando che se la rumena non si sbriga a pagare il subaffitto del seminterrato bisogna sloggiarla con le maniere forti, ma è una grana – e allora Morgan glielo dice: “ehi, hai notato che ho le unghie pittate di nero? Che te ne pare? Sono o non sono un ragazzaccio? Un maudit?”

  • Insomma, non ha voce. Tu non hai idea di cosa riescano a combinare i cantanti quando non hanno voce. Mio cugino per esempio si buttava a pesce dovunque, senza nessuna pretesa di essere sorretto, si buttava anche sulla batteria, e poi il batterista voleva menarlo, ma in un qualche modo la serata era risolta. Una cosa che mi faceva abbastanza ridere erano quelli che guardavano Xfactor e commentavano quant’è fatto Morgan, ma perché non gli dicono niente? Cioè: secondo voi Simona Ventura dovrebbe dire a Morgan “Vacci piano?” Ma ti ripeto: non stecca e non sbaglia a suonare, quindi è abbastanza lucido.

  • E continuano. “Fatti di meno! Drughèèèè! Ecc.” E io vorrei urlare Lasciatelo Stare, è giù di voce e sta cantando da un’ora, non vedete che a suo modo ce la sta mettendo tutta? Non vedete che si vergogna anche lui, ma tira avanti, e se c’è l’acuto ti fa pure l’acuto, soffre ma lo fa? Ma sarebbe come barare. Oggi il gioco è questo: lui fa lo Sporcdrughè, e noi siamo il suo pubblico di tabacchini.

  • Se dio vuole comincia a far fresco. Speriamo di dormire stanotte. No, ti giuro, no, non lo scrivo un pezzo su Morgan, in fondo mi è simpatico.

dialoghi, generazione di fenomeni, racconti, tv

Questo è Intrattenimento

Se anche questa sera voglio stare a casa

Drin, drin
“Pronto, ma chi è?”
“Sono Arci, disturbo?”
“S-no, aspetta… solo un attimo… devo pausare… ecco”.
“Cos’è che devi fare?”
“Ma niente… stavo guardando una cosa sul… sul lettore. Dimmi”.
“Ma hai sentito di Genova?”
“Eh?”
Il processo! Hanno condannato quelli che sono entrati alle Diaz”.
“Ah, bene”.
“Ma bene un cazzo! Hanno preso solo i pesci piccoli! Tutti i graduati scagionati…”
“Ahi”.
“Io non ho parole. Non le ho più, veramente”.
“Eh”.
“E neanche tu, mi sembra”.
“Ma infatti cosa vuoi che ti dica, guarda… è uno schifo”.
“Altroché”.
“Ma mica da oggi”.
“Infatti io non ne posso più. Ne ho parlato anche con Aurelio. Te lo ricordi Aurelio”.
“Come no”.
“Lui dice che siamo a Vienna ormai. Il congresso, capisci?”
“Che congresso?”
“Il congresso di Vienna! 1814! La restaurazione in tutta Europa! È lì che siamo tornati!”
“Beh, in effetti”.
“Per cui lui sostiene che bisogna ripartire da lì”.
“Che in pratica vorrebbe dire…”
“Insomma, stiamo rifondando la Carboneria”.
“Tu e Aurelio”.
“Ti chiamavo infatti per sapere se ci volevi stare”.
“Eh?”
“Sta tranquillo, chiamo da un anonimo occultato. Comunque se ci stai d’ora in poi dovremo comunicare con un codice crittografico che…”
“Scusa, eh. Però non mi sembra una cosa seria questa. Cioè, mica si fonda in due o tre, la Carboneria”.
“Ah, ma non credere che all’inizio, nel 1814, fossero molti di più”.
“Sarà, ma comunque…”
“E anche in seguito, c’è poco da scherzare, sai? La prima generazione, tutti alla forca. Il carcere duro nei casi fortunati. Però da qualche parte bisogna pure iniziare. E allora, ci stai o no?”
“Ci devo pensare”.
“Balle. Sì o no, avanti. Non posso mica perder tempo, sto chiamando tutto l’indirizzario del duemilaetré”.
“Vedi, il punto è che ho tantissima roba da fare, tu non hai veramente idea di quanta”.
“Bravo, spezzati la schiena per Tremonti”.
“C’è questo mutuo maledetto che…”
“Bla bla bla”.
“E ho anche messo famiglia, sai”.
“E che futuro le prepari, ci stai pensando?”
“Arci, ma ti rendi conto? E’ mezzanotte, sono qui sprofondato sul divano e tu mi telefoni per chiedermi di unirmi a una congiura e ti devo dire sì o no subito? Non posso pensarci almeno fino a domani?”

La mia generazione non è che abbia avuto tutte le fortune del mondo, eh, possiamo anche dirlo.
Certo, ad altri è andata pure peggio. Noi siamo pur sempre quelli troppo giovani per le pere e troppo vecchi per il crack. Non ci hanno nemmeno fatto respirare il ddt. In compenso siamo stati irradiati da tantissima televisione a colori che, si è scoperto in seguito, faceva male.
E si vede. Prendi un trentenne di successo a caso (uno dei 15 trentenni di successo di cui si fregia l’Italia): uno scrittore o politico o musicista o che ne so. Grattalo un po’, e vedrai cosa salta fuori: Goldrake e Fonzie, Fonzie e Goldrake. Tutto qui? Quasi sempre tutto qui. Eppure.
Eppure, a furia di prendere sberle dalla Realtà, a un certo punto sembravamo esserci svegliati pure noi. E proprio quando cominciavamo a capire che il mondo aveva bisogno del nostro impegno. Proprio quando cominciavamo a sensibilizzarci, a responsabilizzarci, a organizzarci. Proprio quando ci apprestavamo a raccogliere il testimone dai quarantenni spossati, proprio quando sembrava giunta finalmente l’ora di uscire di casa…

“Se proprio insisti ti richiamo domani”.
“Oh, grazie. Adesso ciao, eh?”
“Ma senti. Cosa stai guardando?”
“Io? No, niente”.
“Come niente. Quando ti ho chiamato, hai detto che mettevi in pausa qualcosa”.
“Mah, sai, è una serie americana che ho scaricato”.
“Una serie?”
“Sì, è la quarta serie di un telefilm che… qui da noi in chiaro stanno ancora mandando la terza… devo dire che mi sta prendendo”.
“E di che parla?”
“Mah, è un gruppo di straordinari eroi che lotta per la salvezza del loro mondo, ma… detta così, suona ridicola”.
“Mentre invece…”
“Mentre invece ognuno di loro ha una storia molto incasinata, gli elementi fantastici sono finalizzati alla caratterizzazione psicologica, ci sono degli incastri narrativi particolarmente complessi, insomma è scritta davvero bene, certe volte ti viene l’invidia, davvero…”
“Ti sento molto entusiasta”.
“Beh, guarda, mi ero messo lì a guardare un episodio alle sette, e poi…”
“E’ mezzanotte ormai”.
“Cacchio, vuol dire che sono qui sul divano immobile da cinque ore”.
“Non devi andare in bagno?”
“No. Anche perché non ho bevuto niente. Disidratato”.
“Gli americani sanno il fatto loro”.
“Ah, ma quando ti capita di vederla, capirai. Cioè, magari i primi due episodi ti sembra una stronzata. No, diciamo che fino a metà della prima serie è una stronzata. Ma poi….”
“Ti prende”.
“Se vuoi ti passo la prima serie, c’ho il cofanetto… comunque sul mulo trovi tutto, eh”.
“Grazie, ma non credo che avrò il tempo”.
“Ah già, dimenticavo, la Carboneria”.
“Sì, quella m’impegnerà molto, temo”.
“Allora mi richiami domani?”
“Forse”.
“Solo magari cerca di suonarmi verso le sette, perché dopo…”
“Non vuoi essere disturbato”.
“Mi mancano ancora sei episodi. Così dopo non ci penso più”.
“Ma dopo ne troverai un’altra”.
“Un’altra così? No, questa è davvero l’ultima”.
“Dici sempre così”.
“A domani allora, eh?”
“A domani”.

…Proprio quando sembravamo finalmente cresciuti, flop! Atterrarono in un colpo sui nostri salotti centinaia di serie americane, tutte meravigliose e intriganti, tutte più intelligenti di quanto non sembravano, tutte scaricabili gratis, tutte per noi. Direi che anche stavolta il Risorgimento è rimandato.

generazione di fenomeni, musica, racconti

ump ta ta, ump ta ta

La strage alla sagra d’Autunno
(“La voce di Rimini”, estate 2000)

Brigadiere, Fischio non era un tipo cattivo. Lo lasci dire a me che lo conoscevo.
Faceva il deejay, sì, ma che vuol dire? È un mestiere come un altro, peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.
32, dice lei?
Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, Brigadiere, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?
Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, e la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, mammone. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.
E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Fiera d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina. Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.
Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.

(Ogni volta che a settembre provo ancora a uscire, e andare a un concerto, mi sembra che la balera diventi sempre più grande, e ripenso a questo raccontino. Ha già otto anni).

famiglie, generazione di fenomeni, immobili

caccia la grana, nonno

Da quando Padoa Schioppa li ha chiamati bamboccioni, i giovani d’oggi sono diventati popolarissimi. Soprattutto a centro-destra, dove tutti improvvisamente si accorgono che avere vent’anni è un problema. Gli affitti. Le caparre. Il precariato. Paolo Guzzanti è scatenato. “Se un ragazzo vuole prendere in affitto una topaia non gli bastano oggi tremila euro soltanto per firmare un contratto prima ancora di cominciare a pagare l’affitto”. Qualcosa non mi torna. Tutta questa gente dov’era, cinquanta ore fa?
Non erano gli stessi pronti a denunciare per concorso in brigatismo chiunque parlasse male della Legge 30 detta Biagi? Non erano gli stessi che in cinque anni di governo hanno lasciato andare gli immobili alle stelle? La strategia di Tremonti per fare uscire di casa i giovani in cosa consisteva esattamente? Perdonatemi se a tutti questi avvocati della gioventù per il momento preferisco Padoa Schioppa, che borbotta, sì, ma scuce.

D’altro canto è pure vero: il suo paternalismo è vomitevole. Ma è un tic molto diffuso. Mi fa venire in mente una cosa che ho scritto sei mesi fa. La ripubblico qua sotto, non avrei molto da aggiungere.

Se mille euro al mese (in due) vi sembran tanti

Caro Augias,
sto leggendo con molto gusto i servizi di Concita de Gregorio sulla famiglia italiana, pubblicati sul retro della sua rubrica.
Martedì scorso, la sua collega ha coraggiosamente messo il dito sulla piaga purulenta della società italiana: i mammoni, i parassiti, insomma, i figli che non schiodano mai di casa. Le percentuali contenute nel pezzo sono agghiaccianti: in Italia 7 maschi su 10 tra 25 e 29 anni vivono coi genitori. I mammoni spesso hanno un lavoro, eppure non contribuiscono al bilancio famigliare: non puliscono, non fanno la spesa, hanno libero accesso al frigo, insomma protraggono scandalosamente i privilegi dell’infanzia.
Nei carruggi genovesi, la giornalista ha snidato un esemplare di giovane adulto italiano che a 27 anni, malgrado porti a casa uno stipendio (400 euro) e abbia una relazione seria con una “fidanzata”, inspiegabilmente non schioda. Il bilancio della famiglia rimane così tutto sulle povere spalle del padre gruista: 58 anni, 1800 euro al mese “arrotondati con qualche lavoretto” (un bel modo all’antica per dire che prende del nero, ma pazienza).
Caro Augias, non c’è dubbio che un 27enne che si porta la ragazza in casa e chiude a chiave sia qualcosa di squallido; qualcosa di cui dobbiamo cominciare a vergognarci; qualcosa su cui è giusto puntare il dito, come coraggiosamente ha fatto la sua collega. E tuttavia qualcosa non mi torna. Nel pezzo di martedì c’è un’affermazione un po’ curiosa. È scritta in corpo sedici, perché tutti la notino. La de Gregorio scrive che i due giovinastri che passano le serate “in famiglia”…

arrivano a mettere insieme 1000 euro al mese, ma non se la sentono di cercarsi una casa e fare un figlio.

Caro Augias, francamente non m’intendo molto dei prezzi di Genova. Ma i casi sono due: o è un’isola felice in tutta l’Italia settentrionale (nel qual caso mi ci trasferirò immediatamente con la mia compagna, abbattendo quasi del 50% le mie spese correnti), o c’è un refuso. Perché vede, d’accordo con la mentalità parassitaria e tutto il resto, ma nessuna coppia sana di mente, al giorno d’oggi, si cercherebbe una casa con mille euro al mese. Una casa? Un affitto? O magari un mutuo? E magari anche i mobili, la cucina, il posto
macchina? E dopo tutto questo… un figlio? Pannolini, pappe, culle, vestitini, madre probabilmente licenziata (a 600 euro al mese è difficile credere che il suo contratto la tuteli)?

Metter su famiglia con mille euro al mese… Qui non si tratta di essere poveri ma belli: qui è roba da folli o criminali. Qui dopo tre mesi i servizi sociali ti tolgono il figlio. Come minimo. E fanno bene.
Perché d’accordo, il mammismo è un problema: ma è inutile puntare il dito sul mammone. Lui non fa che incarnare il problema, e tirare a campare. Fingere che dipenda da lui, in un Paese dove qualsiasi buco con servizi costa come una reggia, è nascondersi dietro le cifre: come pretendere che i sanculotti si sfamino a brioches. Per quanto possa ingegnarsi o darsi da fare, il mammone non raggiungerà mai i 1800 euro più nero del padre. Ergo, chi glielo fa fare di crearsi un nido nuovo? Sarebbe persino irresponsabile, da parte sua. Non gli resta che attendere che i suoi vecchi gli smollino la casa, per consunzione. Del resto le probabilità che il padre nei prossimi anni venga colpito da un incidente professionale sono dannatamente alte.
Non vede come tutto si tiene? In Italia, la terra dei mammoni e degli infortuni sul lavoro, abbiamo scelto di aiutare le famiglie e stipendiare i padri; tuteliamo i pensionati e non finanziamo gli studi dei giovani: a questi ultimi non resta che attendere, economizzando le risorse e minimizzando gli sprechi. Il 27enne a 400 euro al mese non esce di casa perché sa che, dietro a tutta la retorica dell’indipendenza dai genitori, sarebbe soltanto un enorme spreco di soldi.
È vero che altrove è diverso. Nell’Europa del nord i figli evacuano a 18 anni. Questo ce lo hanno detto tutti. Quello che non sempre ci hanno detto, è che quasi sempre ricevono generosi aiuti dallo Stato, per lasciare i genitori e metter su famiglia. In quei Paesi, dopo la Mamma e il Papà, i giovani imparano a rispettare lo Stato e le sue leggi anche grazie agli sgravi, ai sussidi, alle borse di studio.
In Italia s’è deciso altrimenti, e non da ieri: è la Famiglia l’unico soggetto che ottiene aiuti. Ci sono motivi storici e culturali per cui è andata così, e forse è inutile lamentarsene. Sta bene: ma è altrettanto inutile prendersela col Mammone, in un Paese in cui gli unici soggetti riconosciuti sono le Mamme e i Papà. Lui ha semplicemente tratto le conseguenze: non si fa romanzi, arrotonda lo stipendio rubando dal frigo materno, e conta di andare tirare ancora avanti a lungo con la pensione di papà. Per quale motivo al mondo non dovrebbe?
E soprattutto, caro Augias, lei crede davvero che se potesse uscire di casa non lo farebbe? Sul serio: pensa che a 27 anni ritirarsi con la ragazza nella cameretta sia divertente?

generazione di fenomeni

Vizi italiani (3): siam vecchi (ma mica fessi)

Giù le mani dai vecchi!
(Sono una risorsa nazionale…)

Tra un signoramia e l’altro bisognerebbe anche cercare di essere ragionevoli. L’Italia è la nazione più vecchia del mondo, quindi è abbastanza scontato che abbia una delle classi dirigenti più vecchie del mondo. Può non piacere, ma ha un senso. Quindi: ha un senso passare mesi e mesi a scontrarsi a videocamere accese sull’età pensionabile? Sì, un senso ce l’ha eccome: perché per quanto l’argomento possa sembrare poco sexy, è questo che intriga la maggior parte degli italiani: non la guerra in Iraq, non la pena di morte del mondo, non la droga in periferia: la panchina ai giardinetti. Può dare fastidio, ma ha una sua logica strutturale (e se poi, dopo esservi lamentati, andate a vedere i Genesis al Circo Massimo, in fondo siete vecchi dentro anche voi).

Quindi va bene, avanti col dibattito: potrà sembrarvi logorante, ma in fondo è democrazia. Quello che invece non capisco è il concetto di conflitto generazionale; ovvero, lo capisco benissimo, ma non mi convince molto. Gli alfieri dell’innalzamento dell’età pensionabile (Bonino in testa) insistono sul concetto: se continuiamo a sborsare per baby-pensionati di 58 anni, non avremo soldi per le giovani generazioni che ne han tanto bisogno. Ora, magari Bonino & company potrebbero aver ragione. Ma non sono convincenti, e le loro istantanee non ci restituiscono l’immagine del mondo in cui viviamo. Se guardo fuori dalla finestra non vedo nessuna trincea di pensionati, assediata da giovani squattrinati e famelici. Quello che vedo è un sacco di ventenni scapestrati che fanno ancora molto affidamento sulla pensione di mamma e il lavoretto in nero di papà. Insomma il conflitto generazionale, come lo vedono i politici, ha tutta l’aria di una fantasia nata alla buvette di Montecitorio.

Provate a mettervi in un 25enne di oggi (per alcuni di voi non sarà difficile). Da una parte vedete una generazione di pensionati e pensionabili che ha votato il centro-sinistra, ha vinto le elezioni (seppure di striscio), e adesso – giustamente – difende lobbisticamente i suoi interessi. Che non sono i vostri, è chiaro. Dall’altra parte invece chi c’è? Ci sono i giovani? No: ci sono politici che sostengono di voler innalzare l’età pensionabile per risparmiare soldi da… dare ai giovani? In che forma? Sul serio? Ci crediamo?

In pratica, caro 25enne: da una parte hai tuo nonno, dall’altro Emma Bonino o Padoa Schioppa. Di chi ti fidi? A chi lasceresti il malloppo? Io non avrei un dubbio, neanche un po’. Diamoli al nonno, è più probabile che alla fine ti arrivi qualcosa. Conflitto generazionale? Davvero i giovani sarebbero così stupidi da mettersi contro i vecchi, che in Italia sono la maggioranza? No, non ha senso. I giovani, istintivamente furbi, hanno probabilmente capito che in Italia i vecchi vanno utilizzati come una risorsa. Perché sarà vero che non abbiamo petrolio né diamanti, e anche a metano non siamo messi benissimo, ma vecchi pensionati ne produciamo a profusione. E allora sfruttiamoli, no? Del resto, come fa notare Suzukimaruti, funzionano da dio. Sono spesso più produttivi di noialtri. Altro che panchina: continueranno a lavorare per altri 10 anni, salvo che lo faranno in nero. Spendendo poco, perché sono risparmiatori di natura… E secondo voi chi erediterà tutto quanto?

Se io fossi un 25enne, probabilmente farei molto più affidamento sull’eredità del nonno pensionato che sul destino del mio TFR. La mia prospettiva a lungo termine non esclude lo squagliamento delle calotte polari e l’emigrazione nella fertile Terra di Baffin; secondo voi posso avere fede nella sopravvivenza dell’INPS di qui a 40 anni? Inoltre, se avessi 25 anni probabilmente sarei un precario, in attesa che un vecchio vada in pensione per prendere il suo posto. Secondo voi accenderò ceri a Maroni o alla Bonino, che gli innalzano l’età pensionabile? Ma neanche un po’. Io voglio che vada in pensione, anche perché probabilmente è mio nonno, o mia madre, e una volta in pensione potrò lasciarle il bambino il pomeriggio, risparmiando un fracco di soldi su asilo e baby-sitting.

Adesso coraggio, onorevole Bonino, mi dica che i soldi ricavati dallo scalone aveva intenzione di devolvermeli sotto forma di assegni per l’asilo e per il baby-sitting. Su, andiamo, me lo dica, coraggio. Non voleva darli a Montezemolo e ai suoi poveri piccoli imprenditori, vero? Non voleva darli a Pannella per la sua nuova campagna mondiale sui diritti civili, no, no. Voleva darli a me. E io volendo potrei crederle, in fondo ha una faccia abbastanza rassicurante. Invece mi fido più di mio nonno.

Se ne avessi ancora uno. Ma sono morti tutti e due abbastanza presto.
Facevano mestieri usuranti.

Capezzone, cattiva politica, generazione di fenomeni, Marco Biagi

nato ieri

I misteri di Daniele C.

(Scusi, lei dov’era negli anni Novanta?)

Quest’uomo lo conoscete tutti, o meglio credete di conoscerlo.

Fa politica e fa tv, è stato opinionista nel partito di Chiambretti e segretario politico nel palinsesto di Pannella. Con quest’ultimo di recente ha litigato, ne avrete sentito parlare. Perciò ieri (4 luglio) ha fondato un nuovo partitino Network neoliberale, con poche idee ma molto chiare. È pragmatico, è giovane, sa comunicare, e si guarda in giro, senza preconcetti: centro-sinistra, centro-destra, centro-quel-che-c’è, centro-basta-che-respiri. Quest’uomo è Daniele Capezzone. Voi pensate di conoscerlo, e invece no.

Quest’uomo è un mistero.

Voi sapete quanto sia ricco d’informazioni d’ogni tipo il web 2.0. E forse sapete anche come in questa foresta d’informazioni e comunicazioni più o meno pervasive e spesso inutili, i radicali italiani costituiscano un cespuglietto non grande, ma inestricabile. Nelle italiche boscaglie essi sono riconoscibili da lontano per il fitto intrecciarsi di link e blogroll, per la tendenza a scriversi addosso all’infinito, quasi che temessero di perdersi o scomparire appena mettono punto. Un’ansia che capisco fin troppo bene, ma qui non si parla di me.

Si parla di Capezzone. Anche lui scrive e comunica molto. Ma quasi mai di sé stesso.
In questo non c’è nulla di male, anzi, il saper sfoggiare altri argomenti a parte sé stesso, in generale, è un bene: tuttavia è piuttosto singolare il caso di un uomo politico, pubblico, con un buco di almeno dieci anni nella propria biografia. La sua storia sembra veramente sintetizzabile in questa riga della sua scheda nel sito della Camera dei Deputati: “Liceo classico; segretario del partito radicali italiani”. Di lui si sa con certezza che ha fatto il Liceo – con le suore. Si tramanda anche una battuta ad effetto: “Il problema è che vi sono uscito con il massimo dei voti ed il minimo della fede”. (Sarà per questo che il suo nuovo Network propone di scaricare le rette delle scuole dei preti dalle tasse: non fa una grinza, se i preti insegnanti formano i migliori studenti laici, tanto vale pagare direttamente i preti e chiudere le scuole laiche).
E dopo il Liceo? Nulla: ha incontrato Pannella e tre anni dopo è stato nominato segretario dei Radicali italiani, il più giovane in Italia. Bravo, complimenti, eppure… tutto qui? Possibile che non si trovi nient’altro?

Se Capezzone è del ’72, deve essersi diplomato nel ’91, bombardieri su Bagdad. La sua nomina a segretario dei Radicali è del 2001. Nel mezzo c’è appunto un buco di dieci anni. Dove è stato Capezzone per tutti gli anni ’90? A Roma, probabilmente, ma a fare cosa? A parte presentarsi a Pannella nel 1998, episodio sicuramente importante e decisivo – ma che non deve avergli preso più di una mezza giornata. Ha frequentato Giurisprudenza alla Luiss – senza laurearsi, vabbè. Questo non significa nulla, nemmeno Veltroni è laureato. Nemmeno D’Alema (Berlusconi sì). Ma è possibile che un giovane così dinamico, così pieno di voglia di fare, sempre in giro a rilasciare dichiarazioni, abbia passato dieci anni ad ascoltare Radio Radicale e a studiacchiare legge?

Voglio essere più esplicito: prima di diventare attivista politico e – con uno sprint impressionante – segretario politico nazionale, Capezzone ha mai lavorato in vita sua? Come ha fatto a campare? Non era mica semplice. Non per tutti, almeno.

Il paragone mi viene facile, essendo quasi un suo coetaneo. Io in effetti in quegli anni non sono stato fermo un attimo. Mi sono laureato. Ho fatto il mediatore culturale in Francia col servizio volontario europeo. Poi sono tornato a casa e avevo bisogno di soldi. Ho fatto cose di cui mi vergogno, per esempio intervistavo la gente per strada sui romanzi di rosa (e non biasimo Capezzone se non mette miserie del genere nel suo curriculum). Ho fatto dei corsi, ho lavorato in una specie di dotCom, ho tradotto dei libri. Ho fatto un mega-Concorso statale al termine del quale sono stato assunto dallo Stato, con quasi una trentina di contratti precari in cinque anni. Ho incontrato una ragazza, che ha sciaguratamente accettato di venire a vivere con me, malgrado non avessimo nessuna agevolazione sull’affitto; anzi, lei licenziandosi dal suo lavoro a tempo indeterminato ha perso il suo diritto al sussidio di disoccupazione, in virtù della Legge 30. Anzi, della Legge Biagi. O della Legge-perla, per dirla con Capezzone. L’ha chiamata proprio così: l’unica perla del Governo Berlusconi. La legge 30.

Scusate se per un attimo mi sono paragonato a Capezzone. È chiaro che lui è più bravo di me. Ma quel che provo per lui è un po’ quello che provo per tutti i giovani in politica. Ho la sensazione che abbiano più nozioni di me, ma meno esperienze. Colti, ma nati ieri. Nessuna persona con un po’ di vita vissuta chiamerebbe la legge 30 una “perla”. Nessuno che abbia almeno un cugino, o un amico cocoprò, si permetterebbe. Dicci che è una legge severa, ammortizzabile, dicci quel che vuoi: sei un politico, hai studiato, le parole giuste dovresti conoscerle. Ma non scherzare sui nostri problemi. Non saranno i problemi dei rifugiati in Darfour, ma son problemi.

Lo so che non è giusto prendersela con Capezzone per questo. È vero che l’Italia è piena di politici dal curriculum esclusivamente politico. Rutelli che altro ha fatto in tutta la sua vita? E Fini, e Fassino?
Ma il caso di Capezzone è più curioso, essendo lui un convinto liberale. Non uno alle vongole; lui su questo è serio: vuole tagliare tasse subito, e dare agli imprenditori tutte le ricchezze che si meritano. E se questo significa chiudere il rubinetto al ceto politico, pazienza. In Italia è abbastanza raro vedere queste idee difese da un politico: in effetti di solito gli imprenditori preferiscono difenderle da soli, scendendo direttamente nell’agone politico, come Berlusconi o Montezemolo. Oppure mandare avanti fantocci illetterati, come Bossi o Maroni.

Negli USA è diverso. Laggiù c’è un rispetto tutto particolare per l’intellettuale, e persino gli ultraliberali non vedono nulla di male nel finanziare lobbies di uomini in occhiali e bretelle che passano le giornate a bere caffè in uffici climatizzati, mentre scrivono editoriali su quanto sia prioritario tagliare le tasse ai ricchi. Capezzone è precisamente questo; il problema è che non sta a New York o Washington, ma su un terrazzo di Roma bella. Somiglia a una piccola enclave statunitense in Italia, qualcosa di ancora poco comprensibile.

E allo stesso tempo terribilmente familiare. Capezzone è cresciuto a pane e politica; Pannella lo ha cacciato fuori, e lui che vuoi che faccia? Che altro saprebbe fare? Che altro potrebbe fare, che gli frutti almeno seimila euro al mese? Manco una laurea c’ha, manco il pezzo di carta. Farà un partitino, pardon, un Network. Andrà in tv, pagato da noi, a spiegare che i nostri canali tv vanno svenduti a qualche investitore straniero. Che continuerà a invitarlo in prima serata, si capisce. I miei migliori auguri. Nato appena ieri, e già così tanto più furbo di me.

Berlusconi, calcio, fratelli d'I., generazione di fenomeni, Ligabue, mondiali

– campioni

Una vita da Gattuso

I meri fatti sono questi: Zidane ha perso la testa e Trezeguet ha preso una traversa.
Il risultato, indiscutibile, e’ che siamo Campioni del Mondo. Tutti cinquanta milioni e rotti quanti siamo. Campioni. Ce lo meritiamo? Non troppo. Lo meritavano i francesi? Men che meno. C’era il rigore? No (ma ce n’era un altro nel secondo tempo). C’era il fuorigioco sul gol annullato? Non lo so, qui tutti hanno urlato e non si e’ capito niente.
Cos’ha detto Materazzi a Zidane? In francese si dice provo’. Se la pazzia di Zidane potra’ insegnare a milioni di piccole pesti francesi a non reagire alle provo’, tanto meglio. Noi dopo Baggio abbiamo imparato a tirare i rigori.

Antropologia spicciola: i francesi (studenti) urlano piu’ degli italiani, ma urlano solo nei momenti piu’ intensi. Hanno un Dio: Zizou. E vari idoli: Henry, Barthez, e via scendendo. Quando Zizou impazzisce, restano gelati. Non glielo perdoneranno mai. Ancora tra quarant’anni spiegheranno ai loro figli che la finale l’ha persa lui.
(Non e’ cosi’ vero.
Negli ultimi dieci minuti, con un uomo in piu’, il centrocampo italiano non riusciva a spingere. Ma la difesa teneva. Zidane avrebbe pascolato fino al 120′, e poi avrebbe segnato il suo bel rigore. Ma Trezeguet avrebbe preso la traversa ugualmente).

Per contro, gli italiani commentano le azioni. Non hanno nessun Dio a cui raccomandarsi, ma soltanto calciatori che potrebbero sempre dare un po’ di piu’. Dai Zambrotta, dai Gattuso, spingi Pirlo, non far cazzate Materazzi, e dove cazzo e’ Totti, e’ sceso in campo o no? La nazionale si critica fino all’ultimo minuto secondo.

Questo forse manca ai francesi: un po’ di sano senso critico. Zidane ne avrebbe avuto bisogno. Ma e’ antropologia da due soldi.

Come ci si sente a vincere per un soffio, all’ultimo minuto, lo sappiamo gia’. Di sicuro avremmo preferito vincere come i nostri genitori. Tre botte al Brasile, due alla Polonia, tre alla Germania. Quella era gente seria. Noi siamo quelli che siamo, e si sa.
Siamo, per dirla con una parola che vuol dir tutto e niente, berlusconiani. Dove “Berlusconi” ormai e’ un concetto che col povero S. B. non ha niente a che fare. Ma il tormentone di quest’anno, dal Caimano in poi, e’ stato questo: Berlusconi ha vinto, siamo tutti figli suoi.

Siamo immaturi e un po’ ignoranti. Tatuati e pasticcioni. Abbiamo prosperato in un clima moralmente discutibile, dove gli arbitri finivano chiusi negli spogliatoi e noi credevamo che fosse ok. Abbiamo peccato di parole, di opere, e soprattutto di omissioni. Ci sarebbe piaciuto essere persone piu’ serie, ma alla fine non siamo altro che noi.

D’altro canto, non siamo necessariamente peggio degli altri. E siccome saremo ancora noi, per molti anni, tantovale farvelo vedere: se c’e’ bisogno lottiamo, su ogni pallone, se c’e’ bisogno mandiamo a casa i padroni di casa, e neanche gli armadi d’ebano francesi ci fanno paura.
Non siamo Dei, siamo terzinacci. Ma neanche voi siete Dei, mettetevelo in testa. Noi siamo campioni perche’ non crediamo piu’ a nessun intervento divino, di manager o arbitro o centravanti miracolato. Crediamo solo in noi stessi, e anche poco.

C’e’ questa vecchia idea asfissiante, questa riduzione della Storia d’Italia ai minimi termini, per cui gli anni di piombo finiscono al Santiago Bernabeu. Di vero c’e’ questo: negli anni Ottanta ci siamo tutti un po’ montati la testa. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre capacita’, e stiamo ancora pagando.

Succedera’ di nuovo? Io spero di no. Vorrei che questa vittoria avesse un sapore diverso. Il riscatto per una generazione che ha fatto melina per troppo tempo. Che viveva di illusioni e rimediava solo figuracce (2002 e 2004).
E’ una generazione che non mi sta simpatica, ma alla fine e’ la mia. Sono io. Non posso mica inventarmi diverso da quel che sono. Sono come tutti voi, uno che e’ cresciuto un po’ troppo lentamente. In ogni caso sono cresciuto, e adesso si tratta di farvela vedere. Si tratta di lavorare, tutto qua. Non c’e’ nessun regista miracoloso a cui passar la palla. Da qui in poi stacco, senno’ divento Ligabue.

generazione di fenomeni, italianistica

– big jim bites the dust

Mi chiamo Leonardo, ho 32 anni, e non vi odio più

La prima cosa che mi viene in mente, davanti al nuovo libro di Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese) è: che titolo triiiste, non lo venderanno mai.
Si tratta naturalmente di un’impressione sbagliata. All’Einaudi-Stile-Libero sanno il fatto loro.

E poi andiamo, non si è ancora capito? La lagna tira. Non facciamo che lamentarci di quanto poco guadagniamo. I nostri padri esploravano i mondi artificiali, e noi sappiamo solo prendercela perché ci aumentano l’affitto e la benzina, e ci rinnovano il contratto (forse) ogni due mesi. Non sappiamo vedere più in là. Generazione gretta e venale.

Del resto io, se non si è ancora capito, la mia generazione l’ho odiata, sin dalle elementari, sin dalle prime pubblicità Mattel che interrompevano i cartoni animati su Telesanterno. Odiavo la bimbetta bionda che si circondava di miniaccessori di plastica rosa fluorescente. Odiavo anche la sua versione con autopista e big jim. Con l’autopista ci ho giocato e credo persino col big jim, ma i ragazzini viziati e leccati delle pubblicità li ho odiati di un odio viscerale, etnico. Il consumismo mi stava sulle palle molto prima di aver mai sentito la parola “consumismo”, e forse anche la parola “palle”. Non so il perché. Forse è semplicemente genetico: c’è una percentuale di persone che nasce refrattaria allo shopping. Non vi resta che sterminarci – o smettere di riprodurvi con noi – ma non è facile, perché siamo rudi e tenebrosi.

Un altro picco di odio l’ho avuto da matricola universitaria. Credo che avesse a che fare con le tare congenite dell’università di massa – lezioni oceaniche e vacue, sedersi sui gradini, le orazioni dei ciellini e i bonghi dei pancabbestia, vaffanculo, morite tutti, e dire che ho fatto pure due occupazioni. La cosa incredibile è che nello stesso periodo c’erano scrittori – più o meno della stessa mia età o anche più giovani – che scrivevano di questa università di massa oceanica e vacua e andavano forte, erano la nuvelvàg della letteratura italiana, e io li odiavo; senz’altro c’era invidia perché da un mondo così grigio sapevano tirarci fuori storie vendibili, e uscivano con ragazze più carine delle mie, ma c’era anche quel problema genetico di cui sopra.
In realtà non è così vero che li odiassi, suvvia. Erano ragazzi come me, evidentemente più bravi di me, che non se la tiravano nemmeno tanto. Quello che non sopportavo ero i loro lettori. Sia quelli più giovani, che vedevano mondi meravigliosi e cannibalismo selvaggio dove c’era soltanto un po’ di sfiga medioborghese; sia i più vecchi. I vecchi. I vecchi che leggono gli scrittori giovani e s’informano. Sugli usi e sui costumi. I vecchi che vogliono sapere la musica che ascoltiamo, le sostanza che assumiamo, e soprattutto se scopiamo. Io ho odiato la mia generazione, soprattutto quando pubblicava i suoi diari e ammiccava lubrica alle altre generazioni bavose. Sì, era pieno di p e d e r a s t i in giro, ma se andate in giro conciati in quel modo ve la state cercando.

Dieci anni fa apriva Einaudi-Stile-Libero, con un libro che ho odiato intensamente, ai tempi suoi. Era un reportage sulle camerette dei ragazzini. Le camerette. Dei ragazzini. Che invece di uscire di casa restano in famiglia e si fanno la cameretta. E si sa che gli adulti ne vanno matti, per queste cose. Gli adulti vogliono sapere come si chiama il cantante del poster. Vogliono eccitarsi davanti alla tua originalissima collezione di CD. Non vedono l’ora di sfogliarti la smemoranda e andare in deliquio davanti alle foto dell’interrail dell’estate scorsa – quando dovevate girarvi tutta la Francia la Germania e invece vi siete piantati quindici giorni in un campeggio ad Amsterdam. (io comunque amavo immaginare che sull’armadio ci fosse ancora il vecchio big jim, o qualche accessorio in plastica rosa, perché non vedevo nessuna vera soluzione di continuità tra la vostra infanzia di plastica e la vostra adolescenza: la cameretta era la stessa, e voi eravate gli stessi, solo con qualche smorfia in più). Il ggiovanilismo, il lolitismo, l’ipocrisia melliflua di chiamare Fuori tutti un libro che invece invitava tutti dentro la propria vita privata… vi ho odiato, maledetti, non ve l’ho detto perché nelle camerette delle vostre sorelle cercavo spesso di entrarci, ma vi disprezzavo. No, non avevo nessun piedistallo da cui disprezzarvi, lo facevo e basta. Ero giovane anch’io, va bene?

Ci pensavo l’altro giorno e mi chiedevo: chissà che fine hanno fatto, quei ragazzini. Se in media avevano sedici anni, quando posavano aprivano il loro sancta sanctorum giovanile ai vecchi curiosi, adesso in media ne hanno ventisei; in qualsiasi altra nazione occidentale avrebbero finalmente lasciato la loro cameretta, ma sarebbero ancora i protagonisti assoluti dello spettacolo del consumo, il target più ambito perché è quello che compra di più.
In qualsiasi altra nazione occidentale, ma in Italia no. Da noi la generazione più consumista è quella over 35. Sono loro che si divertono a comprare l’Ipod nuovo ogni volta che ne lanciano uno. Sono loro a spassarsela con l’high tech e la parabola. Invece il ventiseienne-tipo, oggi, è il più delle volte un neolaureato nel panico, che scopre con angoscia di essere stato sovraqualificato: vale a dire che il mondo del lavoro aveva bisogno di persone meno laureate di lui, da pagare meno e da mandare a casa ogni due mesi.

Il mondo cambia. E Stile-Libero si adegua. Dieci anni fa s’invitava nella vostra cameretta, adesso viene a misurarvi il monolocale. Dieci anni fa vi chiedeva la boy band preferita. Adesso s’informa su quanto prendete in busta. Certo, se ha 40 anni, Roberta non può aver posato per Fuori tutti. Ma mi piace pensare che tra le persone intervistate da Aldo Nove ci sia anche qualche reduce del libro di dieci anni fa. E mentre lo penso, dovrei provare un gusto sadico. Perché continuate a sembrarmi di plastica come i vostri giocattoli – vent’anni fa vi vendevano bambole, dieci anni fa scrittori giovanilisti e cannibali, poi c’è stato il revival della plastica anni Ottanta (vi hanno rivenduto gli stessi giocattoli usati, a prezzo maggiorato) e adesso siete pronti per l’industria culturale della lagna. E quindi io dovrei detestarvi, sono nato per farlo. Programmato per farlo.

Ma qualcosa non va – ieri sera per esempio in tv ho visto Aldo Nove, con quelle borse sotto gli occhi, così terribilmente adulto – e pensate un po? mi stava simpatico. E pure voi, con le vostre lagne, e il parlar sempre di affitti e banche che non ti fanno il mutuo – non vi ho mai voluto tanto bene come adesso. Vorrei venirvi a trovare in tutti i vostri monolocali, fare la pipì in tutti i servizi delle vostre mansarde-con-servizi.
Non vi odio più, questa è la verità. Sì, c’è stato un tempo in cui vi ho odiato, vi ho amato; ma adesso stiamo semplicemente invecchiando assieme.

circenses, generazione di fenomeni, Islam, medio oriente, vignette sataniche

– generazione di fenomeni, 2

(Prossimamente, penso che scriverò roba più leggera).

Ma sul serio: se io sono veramente ateo, se credo che Dio sia una semplice impostura, come posso sopportare che miliardi di persone intorno a me vivano in questa impostura? Come posso ‘tollerare’ una menzogna così diffusa e capillare? No, non posso. Devo gridare ai quattro venti che Dio non c’è. Ma allora la mia condizione non è molto diversa da quella di chi crede che un Dio ci sia, uno o trino, o senza volto, o con la proboscide, e che parimenti non può tollerare di avere la verità rivelata in esclusiva: deve gridarla ai quattro venti. Davvero dovrei stare zitto e “tollerare” che gli impostori e gli ingenui intorno a me urlino qualcosa che ritengo sbagliata?

Le risposte che accludo valgono solo per me – tra l’altro, adesso che mi viene in mente, io non sono ateo. Ma cambia poco.

Perché non posso non rispettare le religioni degli altri (anche se sotto-sotto mi sembrano coglionate)

1) Perché non convincerò mai nessuno ostentando la superiorità delle mie ragioni e umiliando le sue – come ben sa chi ha un blog. È mai servito a qualcosa scrivere che Berlusconi è un pagliaccio, e chi lo vota è un fesso? Allo stesso modo, l’approccio “Dio non esiste, smetti di crederci, coglione” non funziona. Dio, come Berlusconi, si sconfigge seminando pazientemente dubbi in chi ci crede. Ma per seminare occorre tempo e serenità. Occorre ostentare rispetto per l’avversario mentre si avvelenano i suoi pozzi. Occorre essere semplici come colombe e astuti come serpi (buona, questa. Dove l’ho già sentita?)

2) Perché non posso convertire tutti. Semplicemente. Il mondo non può permettersi sei miliardi di atei. Se l’ateismo è quello che intendo – un ateismo rigoroso, razionale, scientifico – dobbiamo ammettere che esso è destinato a rimanere ancora a lungo un lusso. Un appannaggio delle élites. Mi rendo conto di dire una cosa antipatica.
Per Marx la religione era il noto oppio dei popoli. Ma i popoli erano destinati a liberarsi e a impadronirsi dei mezzi di produzione: una prospettiva di fronte alla quale l’oppiomania appariva come un palliativo inutile e dannoso. Perché perder tempo in paradisi artificiali quando il Sol dell’Avvenire sta apparendo all’orizzonte? Non c’è bisogno di spiegare che la nostra prospettiva è molto diversa.

Noi sappiamo che la Storia non ci sta preparando nessuna rapida palingenesi. Sappiamo che la scienza, la medicina e l’economia, con tutti i loro progressi, non riescono a impedire che miliardi di persone vivano male: al punto che c’è forse più sofferenza umana sulla terra oggi di quanta ce ne sia mai stata in passato.
Sappiamo che di fronte al dolore la scienza è troppo spesso impotente. Viviamo in un’epoca di diagnosi rigorose e cure imperfette. La nostra scienza funziona benissimo quando deve spiegarci di che malattia stiamo soffrendo, o perché il nostro Paese è in recessione. Funziona assai peggio come erogatrice di speranze. A tutt’oggi non ci sono ricette per gran parte dei mali che ci affliggono, fisici e morali. Forse vale la pena di guardare all’oppio con un occhio diverso.

Le grandi religioni, quelle che azzerano il calendario, si sono sempre affermate in periodi di crisi simili a questo. Prendiamo il cristianesimo: se ha avuto lo straordinario successo che sappiamo, è perché ha individuato un “mercato” che nessun prodotto era più in grado di soddisfare. Il mercato della sofferenza e della disperazione – e quando dico “mercato”, non parlo per metafore. Dal III secolo in poi, le comunità cristiane hanno portato alla luce un soggetto economico che prima non esisteva: il bisognoso. In un mondo che ignorava (oltre che la luce elettrica e la penicillina) qualsiasi forma di Welfare State, i cristiani iniziarono a raccogliere fondi con lo scopo di destinarli a vedove, orfani, perseguitati, poveri. In seno allo Stato militare (che tassava i cittadini ormai quasi esclusivamente per mantenere burocrazia ed esercito), nasceva un’idea di Stato assistenziale. Non è curioso che la fratellanza musulmana (che in Palestina si chiama Hamas) sia nata e cresciuta nei Paesi arabi nella stessa maniera? La fratellanza sostituisce (male) l’assistenza sociale in Paesi in cui i poveri sono abbandonati a loro stessi. Tutto questo è giusto? No. Ma tutto questo può essere cambiato rapidamente?

Se io sono ateo, forse è perché me lo posso permettere. Ho un buon lavoro, che dà un senso a parte della mia vita; e una famiglia abbastanza confortevole. Se soffro di qualcosa, posso acquistare le medicine che mi servono. Posso anche investire parte della mia vita e dei miei guadagni in divertimenti. Insomma, non ho così bisogno di Dio. Così sono ateo. Perché sono più intelligente di altri? O perché sono un privilegiato?
E a chi non è altrettanto fortunato – o intelligente – cos’ho da proporre? Posso garantire un lavoro a tutti i poveri della terra? Una famiglia confortevole? Medicine a prezzi equi? Divertimento occidentale? No, non posso. Se sto bloccando le frontiere, è evidente che non ci sono abbastanza risorse per tutti. Ma allora, cosa ho da proporre ai poveri della terra, di meglio del caro-vecchio-oppio-dei-popoli?

3) Tutto questo, gli impresari delle religioni lo sanno. Dirigono onorate società che stanno sul mercato da migliaia di anni. Si vede che in qualche modo funzionano. Non meritano rispetto, almeno per questo? Vendono una cosa di cui c’è un gran bisogno: la speranza. Poi magari alla fine si scopre che è un pacco – ma per ora non c’è molto di meglio sul mercato. So che è un discorso antipatico.
So che dovrei proporre un orizzonte diverso, in cui tutti ci ribelliamo all’oppio e alle false credenze, e ci diamo da fare per costruire non già un mondo migliore, ma la speranza di un mondo migliore. Purtroppo, se devo essere onesto, non mi sembra di vivere così.
Mi sembra di vivere in un regime di moderata disperazione, che curo con quello che trovo sul mercato occidentale: qualche soddisfazione sul lavoro, una vita domestica abbastanza tranquilla, la mia bella pagina web per la libertà d’espressione… e poi c’è l’intrattenimento. Massicce dosi d’intrattenimento – questo è l’oppio nostro. Persino quell’ateo fiero che è Gianluca Neri, secondo me, sarebbe pronto a immolarsi per il suo decoder. E guai a dirgli che è roba da rincoglioniti – lui risponderà che i fenomeni mediatici vanno studiati, criticati, capiti. Ebbene, con le religioni il discorso è lo stesso. Sono fenomeni mediatici millenari, che tutto meritano fuorché d’essere snobbati: vanno studiati, criticati, capiti. Se non altro, perché hanno funzionato per centinaia di generazioni – i reality show non dureranno altrettanto. Non credo, perlomeno.

generazione di fenomeni, Islam, vignette sataniche

– non il solito post sulle vignette

Pensiamo tutti all’elefante, ovvero
generazione di fenomeni

Questo, se Dio vuole, non è un pezzo sulle vignette. Che sono state semplicemente una disastrosa provocazione (su questo direi che possiamo concordare).

Questo è un pezzo sulla mia generazione, che secondo me ha dei problemi con Dio. Non nel senso che non vuole riconoscere la sua infinita misericordia, ecc. Balle. Si può benissimo vivere senza credere in Dio, la maggior parte di noi lo fa. Ma si può vivere senza rispettare i credenti?

Dici: la tua generazione. Ma cos’è una generazione? Come fai a capire che esiste una generazione? L’ho capito dai blog. La mia è la generazione che li sa usare. Gli altri non li conoscono, i blog, o al limite li subiscono. La mia li usa, non sempre bene.
Il caso delle vignette ne è una prova. Come ha notato, per esempio, Luca Sofri, c’è stato uno scollamento tra i pareri espressi sui quotidiani e quelli sviluppati sui blog:

la distanza tra le opinioni pubblicate sui giornali e quelle pubblicate sui blog – sulle questioni danesi – non era mai stata così vistosa (non sto a linkare i mille esempi, li avrete visti tutti). “ci sono molti che si stanno rivolgendo a internet, ai blog, ai commenti, per trovare e dire quello che sono stati delusi di non trovare sui giornali. E mi pare – ripeto, non voglio affermare nessuna competizione o svolta epocale: parlo di questa circostanza – che il livello del dibattito sia assai superiore.

E’ successo che, mentre tutti i rispettabili corsivisti dei quotidiani, oltre a condannare la reazione violenta del mondo islamico, ricordavano la necessità di non offendere gratuitamente le religioni altrui, sui blog prendeva forma una posizione molto meno sfumata. Che potrei riassumere così: la libertà d’espressione non si tocca. Se cominciamo a rispettare un tabù (il volto di Maometto), o un dogma, o una ‘sensibilità particolare’ di qualsivoglia religione, alla fine non riusciremo più a parlare di nulla. E a ridere di nulla. Sto semplificando, eh? Ma il punto più o meno è quello.

Luca Sofri cita, come esempio di “dibattito superiore”, un pezzo di Babsi Jones su Macchianera apprezzato da molti, che dice, fra l’altro:

Ho detto e scritto che l’Islam ha un gravissimo problema di gestione del concetto di “libertà individuale”, e lo riscrivo. E che ritengo il laicismo l’unica soluzione possibile per una pacifica convivenza, e le religioni, tutte, un rincoglionimento neanche tanto progressivo.

Quest’ultima frase, a pensarci su, è enorme.
Infatti, per Babsi il laicismo è l’unica soluzione per convivere (e posso concordare): ma per convivere con chi? Con tutti noi: con chi crede in un Dio e con chi non ci crede. Il problema è che per Babsi (ma non solo per lei, non solo per lei) chi crede in un Dio alla fine della partita è un rincoglionito. Dunque: “il laicismo è l’unica soluzione per convivere con voi, che comunque siete tutti rincoglioniti”.

Purtroppo per Babsi (e per molti), non basta definirsi laici per esserlo. Un ateo che è convinto di avere assolutamente ragione non è molto più laico di un testimone di Geova che crede di avere assolutamente ragione. Entrambi portano la luce in un mondo di rincoglioniti.
La laicità è un’altra cosa. E’ accettare che esistono altre verità, oltre alle mie. Non devo per forza essere d’accordo con chi le sostiene, ma devo rispettarli. Proprio perché pretendo che loro rispettino me.

Quel che mi è successo in questi giorni, è che ho capito che la mia generazione (la generazione che usa i blog) questa idea non l’accetta, magari la capisce, ma non la manda giù. Se credi in Dio sei un coglione, punto. Io non ho molta voglia di interessarmi alla tua particolare sensibilità di coglione superstizioso. Sei tu che devi imparare che le religioni sono una fregatura. Non puoi impormi la tua sensibilità. Devi accettare la mia, che è migliore, perché è laica (ah sì? E’ laica?)

Prendiamo ancora Luca Sofri. Legge Battista sul Corriere, e lo trova interessante. Battisti sostiene che alcune vignette su Maometto siano razziste, se non antisemite. Sofri ci ragiona un po’ su e conclude: no, mi sembra che non ci sia razzismo nelle vignette. Questo sì che è curioso. Battista ce lo vede, Sofri no. Entrambi hanno un paio d’occhi e il cervello acceso. Perché non arrivano alla stessa conclusione?

Io dico che sia un problema generazionale, appunto. Battista sa che con la religione bisogna andarci cauti. Il suo è una specie di riflesso incondizionato: c’è una vignetta anti-religiosa? Non mi fido, sento già odore di razzismo. Con Sofri questo riflesso non scatta più. Non voglio dire che sia un bene o che sia un male, che Battista sappia più di Sofri o sia più empatico con l’Islam. Semplicemente, Sofri è più giovane. Dove con “giovane” non intendo dire “inesperto”. Intendo: appartenente a una generazione (la mia), che non ha la stessa cautela in materia di religione. Che questi argomenti è portati a tagliarli col coltello. Fino al paradosso di Babsi: io sono laica, infatti credo che i credenti siano tutti rincoglioniti.

Chissà quanti credenti saranno disposti al dialogo con Babsi su queste premesse. Ma il punto è: lo vogliamo veramente, il dialogo, noi della generazione di Babsi? O non c’interessa semplicemente reclamare il nostro spazio, la nostra insopprimibile libertà espressiva, la nostra necessità di sovvertire qualsiasi divieto? (E qui, certe considerazioni di Lia cadono a fagiolo).

A chi mi ha seguito fin qui, posso confessarlo: vi ho fregato. Questo era un pezzo sulle vignette.
Posso riassumere una volta ancora la questione?
C’è una religione X che tra i suoi tabù ha il seguente: non devi mai pensare a un elefante rosa. Mai e poi mai.
Passano mille anni, e gli adepti a un’altra religione (la chiameremo LSO: “Laicismo snob occidentale”), scoprono che i loro dirimpettai della religione X hanno dei problemi a immaginare gli elefanti rosa. Siccome tira una brutta aria (migrazioni di massa, crisi economica, guerre civili), gli adepti di LSO iniziano a passarsi la voce: gli adepti di X hanno un ridicolo tabù che limita la libertà di pensiero! E’ una vergogna! Facciamo qualcosa!
Cosa facciamo?
“Pensiamo tutti a un elefante rosa! Infatti, ne abbiamo il diritto! E guai a chi ce lo tocca! Elefante rosa! Elefante rosa!”
Domanda: chi è più “rincoglionito”? Chi crede in X o chi crede in LSO?
Provate a rispondervi laicamente.

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Anche i ricchi piangono
(e hanno tutta la nostra solidarietà)

Ma noi (e intendo proprio io e te), a che generazione apparteniamo?
È una storia vecchia. Direi che si tratta di una generazione di passaggio (come tutte), che fa discretamente fatica a crescere (come tutte), e che è composta più o meno da una quarantina di persone che mi conosco e mi stanno simpatiche, quasi tutte comprese tra Bologna e Reggio, con casuali propaggini in altre città della penisola.

Questa generazione avrà senz’altro le sue tradizioni e i suoi svaghi, molto interessanti da rievocare, mentre tutte le altre generazioni intorno sbadigliano. Qual era il nostro telefilm preferito? E il cartone animato? Cosa cantavamo intorno al fuoco sulla spiaggia? C’è un libro, una marca di scarpe, una droga, una lettera dell’alfabeto che ci possa identificare? Per me andrebbe bene anche Lambrusco Generation, ma tu sei astemia e fai le smorfie, come non detto.

E quando la nostra generazione va al cinema, cosa guarda? Per prima cosa guarda il prezzo del biglietto, e non è una battuta. Quest’estate la mia generazione era in vacanza in Spagna e passava più tempo a studiare i menu dei ristoranti che a mangiare. Potremmo chiamarla Nice Price Generation: ha studiato, sa cos’è buono e pretende di consumarlo, ma non sempre se lo può permettere. Cavalca con passione tutte le tendenze finto-povere, nella speranza di riuscire a passare l’inverno con la giacca dell’anno prima. Perché in effetti il sushi è buono, ma pensa che colpo se lo gnocco fritto andasse di moda.

Perciò va al cinema i giorni dispari (prezzo tagliato), cercando di non farsi fregare. Diffida naturalmente dei kolossal, e non ha apprezzato molto la svolta splatter di Scorsese. L’appartamento spagnolo meglio di no, perché la nostra generazione non c’è andata, in Erasmus. Oh, ci sarebbe piaciuto. Ma costava un po’ e non abbiamo mai avuto il coraggio di chiederlo alla generazione dei nostri genitori.

Così andiamo a vedere il film di Muccino, un regista che nei suoi film “indaga sui rapporti tra le generazioni”. E che almeno è un ragazzo sveglio: infila nei suoi film il maggior numero di personaggi possibili, così è costretto a lavorare per sottrazione, a condensare una sequenza in una scena, un dialogo in un’occhiata: e intanto il pubblico resta sveglio, anche se i critici preferiscono ritmi più lenti. Molti entrano per vedere un ritratto destabilizzante della loro generazione, e anche noi, nel buio della sala, facciamo finta di destabilizzarci un po’. Anche se le generazioni di Muccino pagano d’affitto in un mese quello che noi guadagnamo in tre.

Dunque più o meno andrà così: tra vent’anni avremo un bell’appartamento, nostro figlio ci fregherà il bancomat per comprare fumo da offrire a tutta la sua classe, nostra figlia sognerà di fare i calendari, noi continueremo ad alimentare i fuochi di paglia delle nostre velleità di ragazzini, quando volevamo scrivere un libro o fare gli attori. Ogni tanto andremo in crisi, ogni tanto faremo la pace. Andrà così?
Beh, magari.
Se tutti i problemi della mia vita dovessero consistere nel vivere in tre camere, cucina e soggiorno di un quartiere signorile, nel fare un lavoro noioso con un capo che posso permettermi di mandare affanculo, nel dover scegliere, a 45 anni, tra Laura Morante e Monica Bellucci… io ci farei la firma.

Ma temo che la mia vita non andrà così, perché sono precario, e ho sentito dire da fonte autorevole che la precarietà invecchierà con me. L’inflazione galoppa, i buoni del tesoro sono carta straccia, e mi pare che la guerra non stia aiutando le borse e i mercati. Anche se dicono che sarà una guerra breve (ma allora perché la chiamano “Infinita”?)

Per tutti questi motivi, temo che non riuscirò mai a permettermi quell’appartamento, e forse non avrò nemmeno le risorse per riuscire a mantenere un paio di figli stronzi. Credo che continuerò ad avere un lavoro difficile, e non finirò mai il mio romanzo, probabilmente non lo inizierò nemmeno. Credo che la mia compagna, anche volendo, non avrà il tempo di fare teatro, perché continuerà a lavorare più di otto ore al giorno. E se avremo amanti, saranno poveri cristi come noi, non registi di teatro, non Moniche Bellucci, e non avranno seconde case al mare in cui ospitarci. Insomma, in fin dei conti forse questi amanti non li avremo proprio, sotto un certo standard economico l’adulterio perde ogni romanticismo, diventa una povera, squallida cosa.

Di più: credo che se dopo vent’anni di società precaria esisterà ancora il bancomat, e io sarò stato così fortunato da conservare il mio, me lo terrò ben stretto, e se mio figlio lo userà per comprare un etto di fumo, prima lo romperò di botte, poi lo costringerò a rivendere quel fumo nella sua scuola per restituirmi il maltolto con gli interessi. Perché la precarietà rende tutti più nervosi e violenti, e la mia generazione non farà eccezione.
E credo che il giorno che mi capiterà un incidente, tipico deus ex machina delle moderne sceneggiature, forse dovrò indebitarmi per pagare l’operazione, forse non potrò permettermi una riabilitazione a regola d’arte. Insomma, forse alla fine resterò su una sedia a rotelle. E a quel punto tu dovrai volermi bene a tutti i costi, o assumere una badante più precaria di me, che mi spinga lungo il viale del tramonto aggirando le barriere architettoniche.

Insomma, credo che le cose non andranno così bene per noi due. Abbiamo contro tutte le statistiche del mondo, il buco dell’ozono, le micropolveri, le pensioni che paghiamo agli altri e che nessuno pagherà a noi. Meglio non pensare troppo al futuro. Meglio infilarci in un cinema, a guardare le case e le scenate di persone che anche se vanno in crisi stanno comunque meglio di noi. Così come una volta andava di moda la decadenza asburgica, destini infelici in un tripudio di stucchi e waltzer, così ora va in scena la decadenza della borghesia italiana. Ma il vero modello resta il Sudamerica: loro lo sanno da vent’anni, che gran consolazione sia per la povera gente sapere che Anche I Ricchi Piangono.
E noi piangiamo con loro, amore. È un momento difficile per incontrarsi, per volersi bene, per guardare avanti. Ma è il nostro momento. Tra un po’ scorreranno i titoli e si tratterà di uscire. Ma io non ho paura, almeno finché mi tieni la mano. E tu?