giornalisti, medio oriente

Chi la sapeva lunga su Regeni

Quando, ormai due mesi fa, il cadavere di Giulio Regeni fu ritrovato sul ciglio di una strada, con evidenti segni di tortura, apparve subito chiaro che il governo egiziano era in imbarazzo. Le varie ipotesi divulgate dagli inquirenti – un incidente stradale, una rapina, una “vendetta personale” – erano talmente goffe da apparire tentativi di depistaggio: e non c’è motivo di depistare se non si è in qualche modo implicati.

“Io so”.

Eppure, anche in una situazione del genere, tra gli opinionisti italiani c’era chi la sapeva più lunga: chi ci spiegò subito che i responsabili del sequestro e del delitto andavano cercati altrove; non emissari del governo, e nemmeno elementi ‘deviati’, no: Regeni dovevano averlo ammazzato gli oppositori: i Fratelli Musulmani.

A distanza di quasi due mesi, alcuni di questi pareri molto competenti rischiano di sparire dalla prima pagina dei risultati di google. In un certo senso è un peccato, così li incollo qua sotto. Questo è un giornalista di lunga e provata esperienza, Toni Capuozzo, intervistato da Adriano Scianca il sei febbraio per Libero (Capuozzo, la verità sull’omicidio di Giulio: “Vi dico io chi può averlo ucciso”):

«La mia», spiega, «è una conclusione logica: il regime non aveva interesse a compiere questa uccisione […] I dettagli dell’ omicidio raccontano di un interrogatorio condotto con odio e volontà punitiva. Mi pare più probabile che alcuni gruppi organici ai Fratelli musulmani o comunque all’opposizione fondamentalista ad al-Sisi lo abbiano scambiato per una spia.
Giulio era un occidentale, frequentava l’università americana, faceva domande in giro: evidentemente qualcuno lo ha scambiato per ciò che non era e lo ha interrogato, torturandolo, affinché confessasse cose che in realtà non sapeva.
Poi l’ha lasciato in condizioni tali da imbarazzare il regime. Viceversa, anche il peggiore squadrone della morte al servizio di al-Sisi lo avrebbe fatto sparire senza lasciare tracce».

Due giorni dopo Ugo Volli su Informazione Corretta, dopo aver premesso – come Capuozzo – che non conosce molto il caso, ci spiega che il governo non può aver fatto uccidere un ricercatore italiano, semplicemente perché non gli conviene. Invece a chi conviene? Agli islamici. Hanno ucciso Arrigoni (che si fidava di loro) a Gaza, quindi possono aver ucciso Regeni. “Ed è chiaro che questa morte danneggia il governo egiziano, nemico degli islamisti che Regeni frequentava e di cui si fidava, come a suo tempo Arrigoni a Gaza, ben più di un normale attentato. La logica del “cui prodest” punterebbe dunque ai nemici di Al Sisi più che sul governo egiziano).

Nel frattempo emergono testimoni che parlano di poliziotti in borghese che seguivano Regeni; di persone entrate nella sua stanza in cerca di documenti; malgrado tutto questo, venti giorni dopo Angelo Panebianco è ancora convinto che sia stata la Fratellanza Musulmana. In questo caso vale la pena di notare il coraggio di Panebianco, che persiste nel suo “ragionamento” a dispetto delle perplessità dei lettori e delle convinzioni del New York Times, ma soprattutto dagli indizi che nel frattempo erano emersi a carico della “sicurezza egiziana”. Insomma dove c’è un “ragionamento” di un editorialista autorevole, indizi e testimonianze di giornalisti sul campo devono cedere il passo.

Sette (inserto del Corriere) 26 febbraio 2016.

Sia Panebianco sia Volli che Capuozzo sembrano dare per scontato che in Egitto i Fratelli Musulmani abbiano ancora una specie di controllo del territorio simile a quello che la criminalità organizzata ha in certi quartieri italiani. Sembrano insomma ignorare la repressione degli ultimi due anni – 1200 condanne a morte soltanto nel 2014, tra cui la “Guida generale”, Mohammed Badi’; ventimila arresti. Ciononostante per Panebianco gli islamisti penetrano ancora “nei diversi gangli della società”. “Non è difficile ipotizzare che qualche infiltrazione ci sia stata anche negli apparati della sicurezza. Sarebbe strano, anzi, che ciò non fosse avvenuto”.

Alla seconda lettura appare abbastanza evidente cos’è che guida Panebianco nella sua lotta contro l’evidenza: negli stessi giorni, ricorderete, il professore si stava spendendo molto nel tentativo di orientare i lettori del Corriere verso l’intervento militare in Libia. Insomma non è soltanto il problema degli affari dell’Eni, c’è qualcosa di più: secondo Panebianco al-Sisi sarà un nostro alleato in Libia, per quale motivo dovrebbe contrariarci ammazzando un ricercatore? Ma soprattutto, per quale motivo dovremmo contrariarci noi, dandogli la colpa? Ma diamola agli islamici, suvvia, è molto più comodo per entrambi.

Il ritrovamento del cadavere ha aperto una crisi diplomatica fra Italia e Egitto. Una crisi che potrebbe compromettere non solo – come sostengono alcuni – i nostri rapporti commerciali e i nostri investimenti in Egitto ma anche, e soprattutto, la nostra possibilità di contribuire ad arginare la minaccia dell’estremismo islamico. Senza la cooperazione con gli egiziani, ad esempio, non sarà infatti possibile aiutare i libici a sconfiggere lo Stato islamico già insediato a casa loro. Perché allora uomini del regime egiziano avrebbero deciso di uccidere quel povero ragazzo e poi farne ritrovare il corpo? 

Sono passati quasi due mesi; dall’Egitto continuano ad arrivare versioni grottesche; nessuno di questi tre esperti è più tornato sull’argomento. Le loro affermazioni si potrebbero semplicemente classificare come incerti del mestiere. L’opinionismo italiano funziona così: gente che la sa lunga, anche quando non ne sa niente, la spara come può e se non l’azzecca si allontana fischiettando. C’è però un problema.

L’idea di attribuire il delitto Regeni alla fratellanza musulmana non è una pensata originale di Capuozzo, non è un’idea di Volli, non è un ragionamento autonomo di Panebianco. È una velina governativa egiziana.

Se googlate “Regeni fratelli musulmani” ve ne accorgete subito: trovate decine di articoli in cui diversi organi di stampa vi propongono la stessa pista: Regeni “sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano” (è esattamente quel che afferma Panebianco qualche giorno dopo). Tutti però la mettono tra virgolette perché, spiegano, l’ipotesi è stata messa in giro da un sito web governativo, Youm7, che a sua volta ripeterebbe voci recepite intorno alla procura di Giza. E nessuno di questi organi di stampa italiani mostra di voler credere davvero a quel che sostiene un sito web governativo egiziano, e alla procura di Giza. Nessuno tranne Capuozzo su Libero, Volli su Informazione Corretta, Panebianco su Sette. Altri giornalisti italiani che abbiano aderito in modo così acritico a un’ipotesi messa in giro dal governo egiziano non li ho trovati. Così mi sembra utile mettere i loro nomi in nero su bianco. Probabilmente non identificheremo mai i veri responsabili del sequestro e della morte di Giulio Regeni. Tutto quel che possiamo fare è non dimenticarci di chi si prestò, anche in buona fede, a un abbastanza evidente tentativo di depistaggio. 

guerra, Israele-Palestina, medio oriente

Cosa pretendiamo da Israele

Banksy?

“Fuori dalla realtà”. A sentire Gideon Levy gli israeliani che hanno rivotato per il Likud sarebbero vittima di un lavaggio del cervello collettivo. “Se Netanyahu è il prossimo primo ministro, allora Israele non ha divorziato soltanto col processo di pace, ma col mondo”. Che Israele non la pensi come buona parte del “mondo” non è per la verità una gran sorpresa. Nemmeno la vittoria di Netanyahu lo è, non fosse per i sondaggi che hanno movimentato un po’ gli ultimi giorni di campagna. Forse esiste un fattore timidezza anche tra gli elettori del Likud, molti dei quali fino alle scorse elezioni avevano preferito scegliere altri partiti più a destra.

Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l’Iran finché c’è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?

Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni – come se il film non l’avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.

E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.

Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It’s essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven’t finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you’re prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these – (continua qui)

http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm

Come se non ci fossimo già passati. Un Herzog primo ministro avrebbe senz’altro rallegrato i lettori di Gideon Levy, le cancellerie europee e la Casa Bianca; avrebbe dato un’occasione ad Abu Mazen di volare in qualche location esotica e sorridere in favore dei fotografi come il rappresentante legalmente eletto di un qualche popolo; dopodiché – ci siamo già passati – la trattativa si sarebbe rapidamente incarognita sui soliti punti. Ad Abu Mazen, Herzog avrebbe offerto la consueta arlecchinata, una Cisgiordania a brandelli circondata e bucherellata dagli insediamenti e dai posti di blocco. Abu Mazen avrebbe potuto persino accettare, ma Hamas no, e saremmo al punto di prima. Non si capisce perché le cose non dovrebbero andare così, e non credo che un elettore medio israeliano dovrebbe immaginarsi che vadano diversamente. Quindi perché non Netanyahu?

Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall’altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?

Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l’arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica – a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.

Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte – un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d’amore e d’accordo. Ma Israele non è un’isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall’altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così – conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant’anni. C’è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C’è chi dall’altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c’è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell’occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà – finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.

giornalisti, guerra, medio oriente, terrorismo

Troppi specchi in questo bar, andiamo via

Ma siamo sempre stati così? Così incapaci di festeggiare semplicemente per il ritorno a casa di due giovani, così insofferenti per il coraggio che le ha trascinate nei guai, così meschini da voler fare i conti in tasca a chi all’occorrenza salverà anche noi? È difficile dire. Senz’altro sono successe cose, negli ultimi dieci anni, che ci hanno segnato. Può darsi che la crisi ci abbia indurito; di certo le guerre in medio oriente non sono più una nostra priorità – più una di quelle pendenze a cui non vorremmo mai pensare, che ogni tanto salta fuori irritando i nostri sensi di colpa.

Del resto, se anche fossimo stati altrettanto cinici dieci anni fa – quando furono rapite e poi liberate Simona Torretta e Simona Pari – non ci avremmo fatto così tanto caso. Non c’erano i social network ad amplificare le nostre reazioni più luride. Probabilmente qualche brutta chiacchiera da banco la sentivamo anche allora: ma quel che si diceva al bar, restava al bar. Adesso è diverso. Adesso un commentino di un balordo in calce a un pezzo del Giornale rimbalza su qualche sito specializzato in bufale finché non rimpalla sulla timeline del vicepresidente del Senato.

A che serve avere un blog da così tanti anni, se non a offrire qualche controprova, qualche capsula del tempo. Sull’argomento in archivio c’è un pezzo solo, abbastanza imbarazzante (quanto scrivevo male, dio mio). Tutto giocato sull’idea dell'”isteria” di media, governo e opposizione, che secondo il mio illuminato giudizio non sapevano gestire la crisi né comunicare nulla di sensato. Col senno del poi è tutto piuttosto discutibile (il governo in questione risolse la crisi con una certa efficienza, anche se nessuno dei suoi esponenti sembra andarne molto fiero oggi). Me la prendevo già coi giornali che titolavano qualunque cosa senza riscontri, con la nostra ansia di essere aggiornati (“noi che tra un tg e l’altro consultiamo il televideo”, che tenerezza), con Berlusconi che non annullava una visita diplomatica, con Bertinotti che parlava in nome dell’opposizione quando avrebbe potuto anche tacere, con Gianni Letta che licenziava un comunicato costituito di un solo periodo sintattico di 113 parole. Basta. E per gli standard di allora ero uno che se la prendeva per un sacco di cose. Ma l’opinione pubblica? Niente. Non pervenuta. Parlavo di media, e non di lettori. Di governanti, e non dei loro elettori. Ero molto incazzato con chi aveva responsabilità – io non ne avevo. Urlavo dal basso all’alto. Non è una posizione molto elegante, ma per un blog è l’unica sensata.

E se fosse questa, la cosa che è maggiormente cambiata in questi dieci anni? Non la meschinità, non il cinismo, ma l’enorme specchio che Zuckerberg e colleghi ci hanno messo davanti. Tutti questi pareri di perfetti sconosciuti che rimbalzano qua e là – spesso ritagliati e riprodotti in screenshot come rappresentativi di chissà quale sentimento popolare – tutta questa merda non era ancora così facilmente disponibile. Bisognava andare a estrarla dai forum o dai blog (molti quotidiani non avevano ancora aperto lo scolo della fogna sotto ai loro articoli), una gran fatica. Quel che era al bar restava al bar. Era meglio? Era peggio? Era diverso.

Che ipocrita sarei a sostenere che lo specchio di Zuckerberg non mi fornisca mai dritte importanti. È come entrare in decine di bar tutti i giorni, e non m accorgo nemmeno di pagare la consumazione. Quel che pensa la gente mi interessa, mi ha sempre interessato, perché non dovrebbe interessarmi? C’è il problema che su facebook, come dovunque, la battuta trucida o l’opinione tagliata col coltello vinceranno sempre la gara di like contro i ragionamenti ponderati: c’è un sacco di gente intelligente e garbata al bancone, ma l’unica cosa che si sente distintamente è la gara di rutti là nell’angolo. Se l’obiettivo è perdere la fede nell’umanità, i social network si prestano davvero molto bene.

Continuerò a usarli, perché non saprei dove altro andare. Ma mi propongo, come misura di profilassi, di non prendermela mai coi perfetti sconosciuti, per quanto penose od offensive mi possano sembrare le loro opinioni. Continuerò per quel che posso a mirare in alto, con quella caratteristica immodestia che mi imbarazzerà tantissimo quando rileggerò questo pezzo nel 2025. Me la prenderò con chi ha il potere, e in teoria dovrebbe saperla più lunga, e in pratica ha più responsabilità per quello che dice o fa: coi giornalisti e politici. Con chi ‘indirizza’ le opinioni – per quanto sappia che non funziona esattamente così: che per ogni Sallusti ci sono migliaia di italiani che erano stronzi anche prima di mettersi a leggerlo; migliaia di stronzi con cui un Sallusti ha deciso lucidamente di sintonizzarsi. Questo però non scusa un Sallusti: io continuerò a prendermela con lui, e a salutare con gentilezza i suoi lettori che domani incontrerò al bar, perché in questo mondo ci devo pur vivere. Ci sarà sempre qualche idiota che la spara più grossa e non posso fare a pugni con tutti, per quanto ne dica il papa.

ho una teoria, Israele-Palestina, medio oriente

Non è Israele; sei tu.

“Ma la Siria? E l’Iraq? Non muoiono dei bambini anche là, da mesi? Perché non te n’è mai fregato nulla? Che cos’hanno di speciale quelli palestinesi? Cosa c’è di speciale nei bombardamenti di Israele per farti indignare come non ti hanno mai indignato le armi chimiche di Assad o le stragi in Egitto?”

Caro sostenitore di Israele che me lo domandi, su un blog o su un social network, un giorno sì e un giorno pure; e quando non lo chiedi a me lo stai domandando a qualcun altro che spaccia morticini siriani per palestinesi… io so che a nulla valgono le mie obiezioni: potrei dirti che non è vero che non m’è mai fregato nulla; non è vero che Assad non mi ha sconvolto e indignato. Anche se è vero che di Siria e di Iraq, e delle centinaia di altre crisi in giro per il mondo ho discusso di meno, litigato di meno. Ho un’attenzione selettiva? Probabilmente: e credo che ce l’abbiamo tutti. Ci sono mille motivi storici e culturali per cui un cittadino italiano di media cultura può sentirsi più vicino a Israele e alla Palestina che non a tanti altri Paesi che passano guai anche peggiori, vicini e lontani. E poi c’è un altro motivo, banalissimo: su internet si discute, si approfondisce, ma soprattutto si litiga.

Da che navigo in rete non mi è mai capitato di litigare con sostenitori di Assad o dell’ISIS. Non frequentiamo le stesse compagnie, non leggiamo gli stessi giornali, non seguiamo gli stessi opinionisti, insomma non abbiamo nulla da dirci. Nessuno mi ha mai taggato in una discussione sulle armi chimiche di Assad. Nessuno si è mai sentito in dovere di obiettare che sì, Assad è un genocida, però anche i suoi nemici… Nessuno ha mai tentato di spiegarmi quanto fossero giuste le rivendicazioni degli integralisti. E invece con Israele succede, puntualmente.

Tanta gente in buona e meno buona fede si sente in dovere di avvertirmi quotidianamente che sì, Israele ha i suoi difetti, ma Hamas è molto peggio (come se non lo sapessi). Qualcuno si sente in dovere di spiegarmi che sì, Hamas non riesce ad ammazzare nessuno, ma se fosse in grado farebbe un massacro (vero; però non ce la fa). Qualcuno deve continuamente ripubblicare la nuova versione del solito foglietto in cui gli israeliani sparano per difendere donne e bambini e invece i palestinesi li mettono in mezzo, come se non l’avessi visto migliaia di volte in vent’anni. Il tutto deve essere necessariamente condito con qualche sberleffo (“pacifinto”, “sinistroide”) e soprattutto quell’accusa di antisemitismo che ormai è una moneta di latta, tanto è inflazionata. Nel frattempo gli antisemiti veri minacciano e uccidono ebrei anche in Europa, e in rete c’è chi ogni tanto mi accusa allegramente di collaborare con loro. Per capirci: l’istigazione all’odio razziale qui da noi è un reato. Se davvero siete convinti che io stia diffondendo contenuti antisemiti, forse dovreste prendervi la responsabilità di denunciarmi alle autorità competenti. L’altra possibilità è ammettere che state, francamente, esagerando.

Caro lettore o interlocutore filo-israeliano: se davvero vuoi sapere qual è il motivo per cui discuto più di Israele che di Siria, più di Palestina che di Iraq, ebbene… il motivo sei proprio tu. (continua sull’Unita.it, H1t#240)

Sei tu che mi accusi di non capire (quando va bene), e di essere in combutta con degli assassini (quando sei un po’ più nervoso). Sei tu che mi inviti ad approfondire il problema, a studiarlo meglio, a cercare di esporre con più chiarezza le mie ragioni, onde evitare l’accusa di intelligenza con Hamas o la Jihad o direttamente con Hitler che controllerebbe il complotto antisemita da una base lunare. Sei tu che non lasci passare un giorno senza spiegare i motivi per cui Israele fa quello che fa, e non ti accorgi che in questo modo dai davvero l’impressione di avere bisogno tu per primo di ripeterteli ogni giorno, quei motivi. Se fossero motivi convincenti forse non ci sarebbe bisogno di tutto questo sforzo che, fin qui, non ha molto giovato alla tua causa.
Ora tu risponderai che anche i filopalestinesi si comportano così. Sì, qualcuno lo fa. E infatti ce n’è che non sopporto: ogni volta intervistano Vattimo sull’argomento ho l’istinto di impugnare un Uzi. E allora mettiamoci d’accordo almeno su questo: non c’è un altro conflitto che rovesci in rete tante quantità di cattiva fede, di foto false, di argomenti fallaci, da una parte o dall’altra. Temo che sia proprio questo ad attirarmi: non la sorte dei palestinesi o degli israeliani, che dalla nostra attenzione selettiva non hanno tratto finora molti benefici (anzi, forse la ribalta mondiale li ha danneggiati). Mi interessa il fatto che tutti mentano, che tutti si sbaglino, e che molti lo facciano volentieri, e di proposito. Mi interessano le leggende, e c’è chi ne fabbrica in continuazione. E a furia di sentirmele raccontare, e di cercare di smontarle, ho sviluppato una specie di competenza.
Molte cose probabilmente non le ho mai capite e forse non le capirò mai, ma è da anni ormai che ne sento parlare, che leggo, che discuto. Tutto quello che so l’ho imparato proprio mentre litigavo, on line e fuori. Certo, ci sono tante ragioni storiche e culturali per cui Gaza e Gerusalemme possono sembrarci più vicine di altre città martoriate del mondo. Ma forse non avrei mai davvero cominciato a interessarmi a Gaza o Gerusalemme se tanti anni fa, durante un’assemblea studentesca, un ragazzo vestito più o meno come me (jeans, camicia), non avesse preso la parola per accusare Arafat. Era un periodo abbastanza tranquillo, nessuno stava discutendo di Palestina, non era senz’altro all’ordine del giorno di quella precisa assemblea; e il ragazzo lesse un suo comunicato in cui spiegava che Arafat voleva sterminare gli ebrei. Tutti. Voleva riaprire i forni. Ecco, non ho più la minima idea di chi fosse quel ragazzo: probabilmente andò a studiare in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Però ricordo perfettamente me che lo guardavo e pensavo: noi due non stiamo vivendo sullo stesso pianeta. Non avevo particolare simpatia per Arafat – non l’ho mai avuta, tutto sommato, ma questa storia che volesse riaprire Buchenwald, ecco, non l’avevo mai sentita. Si doveva essere aperto un portale interdimensionale, da qualche parte, e io o lui senza volere eravamo finiti in un mondo parallelo: forse ero io che senza saperlo quel mattino mi ero risvegliato in un universo in cui Yasser Arafat era un nazista genocida. Appena potei andai a controllare – no, non risultava. La storia era più o meno quella che ricordavo io: il leader dell’OLP era senz’altro responsabile della morte di molti nemici ebrei, ma questa cosa di riaprire i forni, insomma, era del tutto inedita. Dunque era quel ragazzo, vestito più o meno come me, a venire da un’altra dimensione. Avrei dovuto avvertirlo in qualche modo, e invece lo persi di vista. Forse si era richiuso il portale. Per qualche altro anno non ci pensai più.
Qualche anno dopo arrivò internet. Fu uno choc. Il varco interdimensionale si riaprì e cominciai a leggere di palestinesi nazisti. Era qualcosa che sfidava le mie certezze, che mi incuriosiva. A distanza di anni è ancora così. Perché non m’interesso anche della Siria, di Boko Haram, dei pirati somali? Perché sono un maledetto superficiale, probabilmente. Ma vi garantisco che se un gruppo di sostenitori della pirateria somala mi segnalasse ogni giorno delle notizie sull’umanità degli abbordatori, sulle giustezza delle loro rivendicazioni, sulla moralità dei loro abbordaggi, ecco, io resisterei qualche settimana, e poi comincerei ad interessarmene morbosamente.
“Hai paragonato Israele ai pirati somali, sei antisemita”.

(PS: questo pezzo si può commentare solo su facebook, sulla pagina dell’Unità o in fondo a questa. Vediamo come va).

guerra, Israele-Palestina, medio oriente

Israele ha vinto

…sed victa Catoni. 

Piano piano ci stiamo arrivando: cominciamo re-interessarci di Gaza. Un po’ in ritardo sulle nostre bacheche on line arrivano le solite dannate foto di bambini morti – magari non sono esattamente i bambini che stanno morendo stavolta; magari sono altri bambini di altre guerre, ma insomma, è l’orrore che conta. Però è vero che stavolta abbiamo avuto bisogno di più tempo del solito per carburare la nostra indignazione.

Parlo soprattutto di chi sta coi palestinesi; la controparte ha sempre riflessi più pavloviani. Però da noi è in minoranza: così che c’è stato un momento, durato fino quasi alla fine del mondiale di calcio, in cui davvero sembrava che stavolta gli israeliani avrebbero potuto occupare Gaza senza neanche passare su una prima pagina italiana. Si respira una disaffezione generale per una tragedia che una volta era La Tragedia, il punto focale di tutte le travagliate vicende del Medio Oriente e del mondo – e poi a un certo punto ha smesso di appassionarci. Quando è successo? Dopo Piombo Fuso, prima di piazza Tahrir. Perché è successo? Perché tanto sembra che non cambi mai nulla.

L’insofferenza per una stagione di stasi infinita la mette a verbale sul Post Christian Raimo (“La ripetitività della tragedia”) : “Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale. Le analisi geopolitiche sono delle versioni aggiornate, sempre un po’ al peggio, delle analisi geopolitiche di un anno o cinque o dieci anni fa. Il conflitto israelo-palestinese è diventato una figura retorica che indica qualcosa di irrisolvibile e ricorsivo“. Chi si ostina a discuterne dà a volte l’effettiva impressione di un reduce sotto choc che continua a fare gli stessi discorsi, a ricordare le stesse battaglie: Quarantotto, confini del ’67, accordi di Oslo, eccetera.

Quel reduce a volte siamo anche noi – e forse il problema è tutto lì: perché chi segue la scena con un’attenzione più costante sa che quello che scrive Raimo è vero solo in apparenza: Gaza 2014 non è Piombo Fuso. Netanyahu non è Olmert, Abu Mazen non è più lo stesso Abu Mazen che aveva ottenuto una legittimazione popolare con le elezioni del 2005. Anche Hamas non è più la stessa Hamas. Dietro ai nomi sono cambiate davvero tantissime cose. Forse l’unica cosa che non è cambiata siamo noi, con le nostre idee sul conflitto israelo-palestinese ormai cristallizzate da più di un decennio, refrattarie a tutto quello che nel frattempo si è incaricato di smentirci.

Siamo peraltro in ottima compagnia, se persino John Kerry all’inizio dell’anno pensava di riproporre Due Popoli e Due Stati. Nel frattempo Israele continua a costruire colonie al centro di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina; nel frattempo un Abu Mazen che non osa più convocare le elezioni riesce a trovare un accordo di governo con Hamas; ma anche Hamas è molto diversa da quella che conoscevamo. È un’organizzazione indebolita, che non può più contare sull’appoggio dei Fratelli Musulmani, passati dall’oggi al domani dal governo dell’Egitto alla clandestinità, e che fatica a contenere correnti più estremiste ed eterodirette.

Nel frattempo, soprattutto, l’intero Medio Oriente sta collassando; tra Siria e Iraq è nato un nuovo sedicente califfato che costituisce per Israele una minaccia meno apocalittica della fumosa atomica iraniana, ma più vicina e concreta: il che offre poi a Netanyahu l’occasione migliore per ridere in faccia a Kerry e a chiunque creda che gli israeliani siano mai intenzionati a ritirarsi davvero. Obama può lamentarsi e magari lo farà, ma quando dovrà scegliere tra Israele e uno Stato Islamico del Levante non potrà avere molti dubbi; quanto agli altri osservatori (Europa, Onu), ci aspettiamo tutti che brontolino, ma la loro impotenza è agli atti da decenni. Quindi?

Quindi Israele ha vinto. Ma non adesso: da molti anni. Forse dalla Seconda Intifada, se non da prima. Tutto quello che è successo poi, il piombo fuso e le cupole d’acciaio, fanno già parte della cruenta cerimonia trionfale. Israele ha vinto, nell’unico modo in cui poteva probabilmente vincere. Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l’IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l’Israele di Netanyahu. A noi la cosa non piace e riteniamo che prima o poi debba cessare, in un modo o nell’altro; è un modo molto occidentale di ragionare. Essendo tutti ormai nati in tempo di pace, riteniamo che la guerra sia uno stato eccezionale; che debba finire prima o poi, e sarebbe meglio prima: basterebbe dare un’occhiata migliore ai libri di Storia per capire che l’eccezione siamo noi.

Gli israeliani non sono come noi; la nostra pace non è la loro priorità. Il futuro che lasciano ai loro figli è comunque promettente: chi 15 anni fa cresceva col terrore degli attacchi suicidi oggi può gustarsi i bombardamenti stagionali dell’IDF portandosi il divano in una posizione panoramica. Eppure basta qualche razzo alimentato a fertilizzante a sentirsi sotto assedio e pronti a giustificare qualsiasi bombardamento. Ragazzi e ragazze crescono bellicosi: saranno buoni soldati e maggiormente inclini a votare per la sicurezza e la disciplina. Ci sarà sempre, anche laggiù, una minoranza che non si rassegna; ma chi credeva che Israele avrebbe potuto diventare un’altra cosa ha avuto molto tempo per ricredersi: così chi con tanto ottimismo immaginava che i palestinesi avrebbero potuto resistere, di generazione sconfitta in generazione sconfitta, all’abbraccio del fanatismo islamico. Peraltro il loro ruolo di eterni sconfitti non deve troppo dispiacere anche a chi ancora li finanzia, mantenendoli in vita quanto basta perché possano infastidire il nemico a intervalli regolari. La Palestina non è che la casella di una scacchiera più complessa che non abbiamo mai compreso per intero.

In una parte di questa scacchiera Israele sembra proprio aver vinto. Ammetterlo non significa approvarlo; quel che sta bene agli dei non deve piacere per forza anche a noi. Abbiamo ancora un po’ di spazio e di tempo per ribellarci alla cattiva fede di chi inverte bombardatori e bombardati, di chi scambia un razzo qassam per un attacco atomico, di chi lancia accuse di antisemitismo a vanvera, di chi paventa la fine di Israele faro-di-democrazia-nel-medio-oriente. Israele non è un faro; non è nemmeno il cane da guardia dell’occidente, come molti falsi amici pretenderebbero che fosse: è un piccolo Paese che ha militarizzato i suoi problemi esterni per risolvere i suoi problemi interni. Proprio perché funziona, proprio perché rischia di essere un modello esportabile, vale la pena di osservarlo, studiarlo, smontarlo. Senza quelle certezze prefabbricate che alla lunga, davvero, annoiano.

ho una teoria, medio oriente

L’imbarazzo dello spettatore occidentale

Davanti alle immagini dell’Egitto, il nostro disagio di spettatori occidentali è un po’ più imbarazzato del solito – anche se magari non siamo quelli così imprudenti da aver prenotato a Sharm. C’è che stavolta sentiamo che non sarà facile recitare la parte che ci piace di più, quella delle anime belle e solidali che piangono con le vittime e gridano vergogna, e poi magari per qualche mese indossano un nastro – per la Birmania era rosso, per l’Iran verde, per l’Egitto non ci sarà, perché c’è un limite persino all’ipocrisia. C’è che stavolta non ammazzano i nostri, mettiamola così. I ‘nostri’ hanno manifestato il mese scorso: vogliono un Egitto meno islamico e lo vogliamo sicuramente anche noi, siamo laici. Quelli che si prendono le mitragliate dagli elicotteri invece sono islamici, integralisti, magari anche terroristi, e soprattutto poveri. Se fossimo costretti a scegliere probabilmente sceglieremmo di stare dall’altra parte della mitragliatrice. Fortuna che invece ci basta cambiare canale.

Più di ogni altra cosa noi vorremmo sentirci buoni, e le immagini dal Cairo non ce lo consentono. Vorremmo stare dalla parte dei giusti, e non riusciamo bene a ritrovarla, è seccante. Qualche settimana fa avevamo deciso che stavamo con l’esercito, ma quelli (chi se lo sarebbe aspettato) hanno le armi e le usano. Di solito a questo punto parteggiamo per le vittime, ma sono un po’ troppo velati e fanatici, irregimentati da un’organizzazione oscurantista che venerdì li ha adunati in piazza ben sapendo cosa poteva succedere, forse col proposito deliberato di stabilire un nuovo record di martirio di massa da esibire poi in mondovisione.

Forse adesso capiamo come devono essersi sentiti i nostri zii o padri liberali o democristiani quando Pinochet si mise a massacrare comunisti e sindacalisti in Cile: noi abbiamo delle idee, a volte le tiriamo fuori al bar, o sui blog, e per una coincidenza fastidiosa sono le stesse idee con cui si sta coprendo un generale mentre stermina i suoi compatrioti, da qualche altra parte del mondo fortunatamente abbastanza lontana per non sentire gli spari in diretta. Così va la Storia… (continua sull’Unita.it, H1t#194).

 Così va la Storia: noi occidentali la preferiremmo un po’ più pacifica – è veramente scandaloso che ci si scanni ancora per questioni del genere, eppure succede già a ridosso del nostro cortiletto europeo. Noi vorremmo che le elezioni democratiche premiassero sempre i partiti laici e progressisti, ma nei Paesi musulmani succede troppo spesso il contrario; vorremmo che la laicità fosse una bandiera del proletariato, e invece se ne appropriano gli eserciti (un secolo fa in Turchia, negli anni Novanta in Algeria, ieri e oggi in Egitto), mentre la povera gente preferisce farsi guidare dagli imam. Vorremmo che “sinistra” e “destra” avessero il senso che gli diamo in Europa da qualche decennio in qua, perché alla fine è l’unico che comprendiamo, e soprattutto è l’unico in cui riusciamo a trovare un senso morale: da una parte stanno i violenti, i cattivi, i prevaricatori, dall’altra noi. E invece anche stavolta ci ritroviamo i fanatici da una parte e gli stragisti di Stato dall’altra, non è giusto.
Gratta gratta, oltre a tutte le sovrastrutture e i paraventi, quello che ci spingeva ad autoconvocarci a piazza Tahrir (beninteso senza smuovere il sedere dalla postazione internet casalinga) era la cara vecchia solidarietà di classe. Quelli che due anni fa chiedevano più democrazia e meno Mubarak erano esponenti di un ceto medio urbano. Quelli li capivamo, indossavano le nostre stesse magliette e scarpe; gli slogan sui loro cartelloni, opportunamente tradotti, erano gli stessi che avremmo scritto noi. Questi invece che si fanno ammazzare in nome di Morsi e di Allah non li capiamo proprio, e il fatto che possano aver vinto libere elezioni democratiche è incidentale. Forse nel nedio oriente la Storia gira al contrario, o forse è un po’ in ritardo, impantanata tra Vandea e Termidoro: in quei momenti imbarazzanti in cui la borghesia tira giù la maschera, punta l’artiglieria su sanculotti e contadini, e rinnega certe idee estreme come il suffragio universale.
Nel 1976 in Argentina il generale Videla stimò che per “porre fine alla sovversione e all’opposizione politica” e “applicare il piano economico liberista” occorreva disfarsi rapidamente di almeno ottomila oppositori; non c’è che da augurarsi che i generali egiziani abbiano fatto calcoli meno drastici. Forse tra qualche anno l’Egitto sarà un Paese moderno, laico, un faro di progresso per il medio oriente: non vediamo l’ora. Fino a quel momento tocca voltare le spalle e turarsi le orecchie: tanto non è a noi che si chiede aiuto.http://leonardo.blogspot.com
Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, medio oriente

1980: Fuga dal pianeta dei barbuti

Una locandina vera del film vero;
da non confondere con la vera
locandina del film finto e con
la finta locandina del film finto.

 Argo (Ben Affleck, 2012)

Teheran, 1980; durante l’assalto all’ambasciata americana, sei diplomatici escono dalla porta di servizio e si nascondono all’ambasciata canadese. Per riportarli a casa l’agente CIA Tony Mendez escogita la copertura più assurda della storia dell’agenzia: si finge il produttore di un film di fantascienza, in cerca di location orientaleggianti. La beviamo? Il problema con Argo è un po’ questo perché, come capita a molte storie vere, è abbastanza inverosimile. Girare un film di fantascienza a Teheran durante la crisi degli ostaggi, con le barbute Guardie della Rivoluzione in giro a caccia di occidentali? Eppure dicono che andò proprio così, le Guardie se la bevvero e non si accorsero che i sei accompagnatori dell’agente Mendez non erano registi fotografi e sceneggiatori, ma sei diplomatici in fuga.

Uno dei primi aspetti che colpisce di Argo è la precisione, ormai un po’ stucchevole, con cui viene riprodotto il 1980: arredi, acconciature, musica (i Dire Straits), telefoni e così via. Tutto virato al beige (“erano anni marroni”, come scriveva Jonathan Coe della seconda metà dei ’70). Persino il logo all’inizio del film è quello stilizzato e minimale che la Warner usava a quei tempi. Bei tempi. Ti aspetti che da qualche corridoio spunti Robert Redford, invece ti devi arrangiare con Ben Affleck, e il bello è che dopo un po’ ti accorgi che si può fare.

Ben nell’espressione “con la bottiglia”.

Argo è tornato nelle sale sull’onda lunga degli Oscar: ne ha vinti tre (miglior film, montaggio e sceneggiatura non originale) su sette nomination. Affleck però non ha ottenuto la nomination per la miglior regia, il che ha fatto molto discutere, perché al terzo film la sua sicurezza e versatilità dietro la macchina da presa non sono più una sorpresa per nessuno. Lui ci ha scherzato su, facendo notare che non l’avevano nemmeno nominato tra i migliori attori. In realtà Affleck Attore non sarà Redford ma non è il cane che tutti pensano (nelle sue teche c’è pure una Coppa Volpi, butta via); paradossalmente il viso belloccio non l’ha aiutato a essere preso sul serio, specie dopo che lo abbiamo associato a un certo tipo di film (Armageddon, Pearl Harbour) terribili. In Argo trova il ruolo ideale: un flemmatico agente a cui nessuno domanda di manifestare le proprie emozioni. Al massimo se ha qualche dubbio o imbarazzo prende in mano una bottiglia di whisky, che è una specie di sigaro-di-Clint-Eastwood: e a un certo punto abbiamo questa scena, Affleck-Mendez solo in una stanza con i suoi dubbi e una bottiglia, che prende in mano e rimette giù, e poi riprende e poi rimette giù. Pensatela come volete ma io ci ho riconosciuto qualcuno, c’è gente che veglia intorno ai suoi problemi in questo modo.

Tutta un’altra cosa rispetto all’altra agente CIA che abbiamo visto all’opera di recente, la Maya di Zero Dark Thirty (continua su +eventi!)

ho una teoria, Israele-Palestina, medio oriente, nazismo

Il Paese più strano del mondo

Ieri pomeriggio, mentre leggevo qualche pezzo sui bombardamenti tra Gaza e Israele, ho fatto una cosa che di solito preferisco evitare. Ho controllato quanta gente stesse morendo, in quelle stesse ore, qualche centinaio di chilometri più a nord, in Siria. Mi sono bastati pochi secondi per scoprirlo: 101 vittime nella giornata di ieri, tra cui sei bambini. Non so se qualche telegiornale ne abbia parlato. Non credo che nessuno vi abbia sottoposto via facebook le eventuali immagini delle vittime straziate dai bombardamenti. E tuttavia anche quelli sono bombardamenti, anche quelle sono vittime, e la Siria non è in nessun modo più lontana a noi della Striscia di Gaza. In realtà non avevamo bisogno dei fatti tragici di questi giorni per renderci conto che Israele e Palestina ci interessano di più, ci hanno sempre interessato di più di qualsiasi conflitto regionale. Resta comunque lo stupore, che forse vale la pena di coltivare: Damasco e Gerusalemme distano quanto Milano e Bologna. In poco più di duecento chilometri si combattono due guerre: una richiama fotografi e giornalisti da tutto il mondo, l’altra non se la fila nessuno. Perché?

Ci sono tanti motivi. Alcuni perfino comprensibili. L’inerzia, tanto per cominciare: le guerre vanno e vengono, ma i bombardamenti tra Gaza e Israele sono da troppo tempo, ormai, un appuntamento fisso. È una storia che conosciamo già, o almeno crediamo di conoscere; gli attori in campo sono vecchie conoscenze, Hamas e Likud parole entrate nel nostro vocabolario dieci o vent’anni fa che ormai non abbiamo più paura a usare, anche a sproposito; viceversa quel che accade in Siria è il classico esempio di matassa geopolitica che diventerà chiara solo quando si sbroglierà in un senso o nell’altro, e nel frattempo non vogliamo farci fregare. Magari ci scotta un po’ la fiducia che abbiamo riposto nelle primavere arabe di un anno fa. In fondo siamo occidentali, tendiamo a identificarci e a empatizzare con una classe media che in queste dittature medio-orientali non necessariamente c’è, e anche quando c’è (in Egitto o in Tunisia) e tenta di contribuire alla rivoluzione, si ritrova presto o tardi a fare il vaso di coccio tra esercito e fondamentalismo islamico. Israele è diverso (continua sull’Unita.it, H1t#154).

Israele sembra davvero più vicino, per cultura più che per geografia. È una democrazia, come i suoi difensori non si stancano di ripetere; una potenza industriale; la sua storia è intrecciata con quella europea, dalla quale del resto le nostre discussioni faticano a districarsi, per cui si può prevedere con precisione quasi statistica che qualcuno tirerà fuori nazismo e shoah a sproposito (stavolta Odifreddi, ma poteva essere chiunque, è un riflesso automatico). Eppure anni di infiniti battibecchi mediatici dovrebbero averci insegnato, se non altro, che paragonare israeliani e nazisti è sempre un suicidio retorico: oltre a essere una chiave di lettura piuttosto banale e brutale (i nipoti degli oppressi che diventano oppressori, ecc.) è soprattutto fuorviante, visto che Israele non sta sterminando i palestinesi. Il che non toglie che quello che sta facendo non possa essere considerato profondamente ingiusto, ma appunto: cosa sta facendo? Lo stillicidio con cui si porta avanti il conflitto è in realtà qualcosa di profondamente nuovo, che non ha precedenti nel Novecento. Non lo capiremo finché continueremo a discutere di ghetti o lager, più per mancanza di fantasia (e necessità, forse, di rifarci a un assoluto morale).
Potrà sembrare strano ai cacciatori di antisemitismo in servizio permanente, ma uno dei motivi per cui Israele ci interessa di più, è che in Israele in qualche modo abbiamo creduto di poterci identificare, proiettando sugli israeliani sensi di colpa che poi non si capisce davvero perché avrebbero dovuto condividere. Ma siamo occidentali, è più forte di noi: in quel piccolo Paese c’è una classe media, che dai film e dai romanzi non sembrava troppo diversa dalla nostra. Israele ci sembrava percorso e minacciato da ideologie e sentimenti che riteniamo familiari: nazionalismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, islamofobia. Tutte queste cose crediamo di riconoscerle, e ci danno una sensazione di familiarità che forse è semplicemente sbagliata. Forse dovremmo semplicemente accettare, dopo più di un mezzo secolo di conflitti e occupazione militare, che gli israeliani non sono come noi. Hanno vissuto guerre molto diverse dalle nostre, in condizioni veramente peculiari. Una potenza nucleare grande quanto una regione italiana, una sottile striscia di terra minacciata da altre strisce altrettanto sottili (e dall’Iran), forse è qualcosa di ancora più alieno della Siria. Questo non significa che non debba interessarci, ma non c’è motivo per considerarlo più vicino di altri conflitti, che ci sembrano lontani e non lo sono.
Forse ci servirebbero occhi nuovi, per smettere di guardare al conflitto israelo-palestinese come all’ultima guerra coloniale (o addirittura all’ultima delle crociate). Basterebbe poco, magari constatare che l’unico vero sconfitto in questi anni è stato qualsiasi progetto alternativo allo status quo: come se occorresse bombardare un po’ tutto, ogni quattro anni, affinché nulla cambi davvero. Potrebbe anche essere l’esempio di un nuovo tipo di guerra di bassa intensità, tra società economicamente progredite e sacche di sottosviluppo, funzionali alla conservazione del potere da una parte e dall’altra della barricata. Un modello di guerra radicalmente nuovo, radicalmente diverso da quelle che siamo soliti descrivere (anche quando descriviamo la Palestina) ma che, via via che la distanza tra ricchi e poveri della terra si accorcia, si potrebbe persino esportare. http://leonardo.blogspot.com

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Striscia, il futuro

La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l’esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L’importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c’era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po’ il mordente.

Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all’inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall’altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall’altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.

Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c’è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d’istituto non capirebbe. Quindi che si fa.

Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant’anni avevi risolto un po’ di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l’essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po’ scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant’anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell’alimentazione e nell’igiene. Soltanto un po’, come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.

Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto… ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia – ma in Europa in generale – è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c’entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.

E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente – quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell’Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po’, ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?

antisemitismo, ho una teoria, leggere, medio oriente

Quel che non si può più dire, tanto ormai

Intorno alla poesia di Günter Grass il dibattito mondiale si è inviluppato in una specie di ciclone. Si discute animatamente sui trascorsi nazisti di Günter Grass, sull’antisemitismo vero e presunto di Grass, sui meriti e sulle responsabilità di Grass, sulle reazioni più o meno razionali dei politici e dei letterati israeliani all’intervento di Grass, sull’opportunità di ritirare il premio Nobel a Grass, insomma si parla di tutto… meno che del contenuto della poesia di Grass. Come se di tutto il dibattito il testo che lo ha scatenato fosse l’oggetto meno interessante. Se ne sta nell’occhio del ciclone e non lo legge più nessuno. Peraltro almeno qui da noi c’è un problema di traduzione, che rende i ragionamenti di Grass più arzigogolati di quanto probabilmente non suonino in originale. Detto questo, non è escluso che una reazione del genere sia esattamente quello che Grass si aspettava. La stessa poesia sembra fatta apposta per stimolare un dibattito centrifugo: la maggior parte dei lettori (sempre più distratti, su internet soprattutto) perde l’attenzione molto prima di arrivare al nocciolo di quel che Grass ritene “debba esser detto”: e in effetti sul finale Grass ha in mente una proposta concreta, ma non è di quella che si discute in giro. Si discute dei trascorsi di Grass diciassettenne nelle SS. Sul fatto che Israele lo dichiari persona non grata, tra l’altro in base a una legge che permette di impedire l’ingresso a chi abbia aderito al nazismo (la stessa norma si potrebbe applicare anche a papa Ratzinger, coi suoi trascorsi nella Gioventù Hitleriana?) Insomma tutto il dibattito di questi giorni ruota intorno a un gigantesco argumentum ad hominem: non si discute più di tanto delle idee di Grass, ma del fatto che sia Grass ad averle. Per molti israeliani, ma persino per i socialdemocratici tedeschi, sarebbe meglio che non le avesse: non su questo argomento.

Che l’opinione pubblica israeliana possa nutrire diffidenza per un intellettuale che ha impiegato mezzo secolo a riconoscere i suoi trascorsi nazisti, mi sembra del tutto comprensibile. (Continua sull’Unità, H1t#122).

Che Netanyahu possa speculare su questa diffidenza durante una campagna elettorale in fondo ci sta, e non è certo la cosa più criticabile che ha fatto in questi anni Netanyahu. Magari qui in Italia se ne potrebbe parlare con più calma, visto che non siamo in campagna elettorale e Ahmadinejad non minaccia di toglierci dalla cartina. Scopriremmo così che quel che propone Grass non ha veramente nulla di nuovo o eccezionale: sono le normali richieste che potrebbe fare un intellettuale socialdemocratico, se avesse ancora voglia di parlare di queste cose, appunto. La Germania, secondo Grass, non dovrebbe fornire un sommergibile di ultima generazione a Israele, che potrebbe impiegarlo per un attacco missilistico all’Iran. Più in generale, nella penultima strofa Grass propone che gli impianti nucleari israeliani e iraniani siano messi sotto il controllo di un ente internazionale. Nulla di sconvolgente: esiste un trattato di non proliferazione nucleare, e Israele non l’ha sottoscritto. Per Grass evidentemente dovrebbe farlo (per voi no?), e consentire che la controversia con l’Iran sia affidata ad un’autorità sopra le parti. La soluzione proposta può apparire un po’ irrealistica, specie dopo che l’11 settembre ha messo in crisi una certa idea di multilateralismo; ma è antisemita? Non mi pare, non lo so, ma se lo dice uno che era antisemita a 17 anni forse sì.
Viene il dubbio che Grass lo abbia fatto apposta, che anche a lui più che la proliferazione nucleare interessi la reazione prevista e prevedibile a quel che scrive. Nei primi versi si vedono i bagliori dell’antica fiamma dell’intellettuale engagé, quello del J’accuse, dell’”Io so”, quello che non sa trattenersi di fronte al passaggio dell’imperatore nudo, certe cose sono evidenti, devono essere dette e pazienza se poi la folla lo lincerà. Poi però il ritmo rallenta, assume un andamento sornione: l’autore se la prende comoda, si domanda perché scrive quel che sta scrivendo, perché ha aspettato tanto a scriverlo, ne approfitta per rammentare le sue colpe indelebili… e intanto sa benissimo che il rilevatore di antisemitismo di molti lettori sta già ticchettando intensamente. Sia loro che i loro avversari si attendono un’invettiva finale che non arriva, anzi le proposte finali sono piuttosto modeste. Una poesia-trabocchetto che magari non aiuta a risolvere la questione israelo-iraniana, ma che ci mostra come funziona oggi la battaglia delle idee.
Non funziona. Perlomeno su Israele, non c’è più nessun vero dibattito, non c’è nessuno scambio di idee, ammesso che le idee ancora ci siano. O Israele è un criminale, o chi lo critica è antisemita, in mezzo non c’è nessuna opinione pubblica da conquistare, l’opinione pubblica si è annoiata e parla d’altro. L’arma non convenzionale in questo caso non è l’ordigno nucleare, ma appunto l’argomentum ad hominem: chiunque parla di Israele o è un agente della propaganda ebraica o è un antisemita: anche se non scrive cose antisemite di sicuro le ha scritte da giovane, oppure le avrà scritte un suo amico o suo nonno. Prendi un blog, per esempio: puoi usarlo per parlare di qualsiasi cosa, ma se ti metti a discutere di Israele, e di Palestina, e di Iran, sai che si fermeranno a commentare soltanto i troll. Sono argomenti interessanti, e drammatici, e attuali; e non c’è nessun motivo al mondo per cui la minaccia di un conflitto atomico a poche migliaia di chilometri di distanza non dovrebbe farci discutere, tirandoci fuori anche la rabbia, la paura, la partigianeria quando c’è. È vero che discutere non risolve, ma sarebbe pur sempre un segno che siamo reattivi, che sappiamo che c’è un problema, e ne discutiamo. Invece no, non ne discutiamo più: ogni fazione conta i suoi morti e li rinfaccia agli avversari; nei momenti in cui morti per fortuna non ce ne sono, si strologa su sciocchezze come le dimensioni del naso di Fiamma Nirenstein. Del resto ormai si sa, scambiare opinioni con quelli che la pensano come noi è inutile, con quelli che la pensano diversa è frustrante.
Forse Grass voleva semplicemente farcelo notare. (Poi, certo, vendere sommergibili a una nazione che non ha firmato il trattato di non proliferazione non mi sembra il massimo, ma forse sono antisemita io, o lo ero in una vita precedente). http://leonardo.blogspot.com
Bibbia, Bush, cristianesimo, ebraismo, guerra, Israele-Palestina, medio oriente, santi

Scherzando col Magog sbagliato

10 aprile – Sant’Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos’è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C’è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un’astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall’interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri – non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l’afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano… già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l’aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell’Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L’invasione angloamericana dell’Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all’Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all’Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall’altra parte del filo c’è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l’appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c’è senz’altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l’interprete. Ci sono due tizi, Og e Magog, operativi in Medio Oriente… una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Og e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post…)

essere donna oggi, Israele-Palestina, medio oriente, prostituzione, santi

La meretrice nel deserto

Qui è ancora vestita.

1° aprile – Santa Maria d’Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, ormai gli anni ruggenti dei martiri sono finiti, adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va’, va’, attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche “santo padre antico solitario”. Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un’ombra, un miraggio, si direbbe… una donna, una vecchietta dai capelli d’argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. “Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami”. “Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi”. Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma… per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un’allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né…

“Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un’allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti…”

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d’Egitto, una donnaccia si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. “Ah, ecco cos’era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?” “Se hai il denaro per il naviglio, volentieri”. “Il denaro non ce l’ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah”. Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l’ha riconosciuta: costei è Maria d’Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:

Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.

Piccola parentesi dotta. La vita di Maria d’Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze (o da Varagine). Varazze è un po’ il Moccia del Medioevo, nel senso che come scrittore non lo si direbbe veramente un granché, un compilatore senza particolari abilità: senonché doveva avere intuito qualcosa che ancora non abbiamo capito, perché la sua Legenda Aurea divenne presto un best seller e lo rimase per tutto il medioevo, quel millennio famoso in cui i libri non li mettevano in vetrina, ma li ricopiavano a mano, se necessario raschiando via l’inchiostro di altri libri magari più interessanti. Ecco, fa un po’ piangere il cuore che di tante opere celebri dell’era antica non ci restino che brandelli, e di una compilazione tutto sommato banalotta come la Legenda Aurea ci siano arrivate più di millequattrocento copie manoscritte. Cioè, almeno le teenager che leggono Moccia non stanno raschiando via Nabokov o Proust, anche se in un certo senso sì, lo stanno facendo. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l’avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c’era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l’unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio, ma forse anche dopo. Diciamo fino a D’Annunzio. Ma forse anche dopo. Pasolini? Boh. (Continua…)

giornalisti, ho una teoria, medio oriente, rivoluzioni

Uno spettro si aggira nel Nordafrica

Pensate che c’è gente che, di fronte ai moti che scoppiano tra Maghreb e Medio Oriente, continua a porsi il problema se avesse o no ragione Bush. Ma chissenefrega di Bush, scusate, e poi chi era questo Bush, in fin dei conti. Qui c’è bisogno di idee nuove. Per capire una realtà in rapido movimento. Nuove teorie. Pensatori originali. Per esempio, questo signore:

sulle rivoluzioni, ha dei punti di vista molto interessanti. Lo spettro che si aggira nel Nordafrica è sull’Unita.it, e chi non vuole condividerlo e commentarlo su facebook (cosa vi avrà poi fatto di male facebook), può farlo qui sotto.

Io delle ultime rivoluzioni del Nordafrica non ho capito un bel niente. Tanto vale ammetterlo. Non le avrei mai previste, fino a qualche mese fa; quando Ben Ali scappò pensai che una cosa del genere non sarebbe potuta accadere a un leader potente e universalmente rispettato come Mubarak; quando se ne andò pure Mubarak pensai che questo poteva succedere in una società dinamica come l’Egitto, mentre in quella caserma stagnante che era la Libia Gheddafi avrebbe conservato il suo potere per sempre. Insomma, non ne capivo niente, continuo a non capirne niente, difficilmente migliorerò in futuro.

Mi consola l’essere in ottima compagnia. I più grandi esperti di geopolitica. I diplomatici più consumati. Gli statisti più potenti. Nessuno di loro ha previsto quello che sta succedendo. L’inverno del 2011 è stato ancora più sorprendente dell’autunno 1989; a quei tempi la glasnost di Gorbaciov aveva già fatto annusare un po’ di aria diversa a chi se ne intendeva. Ma chi avrebbe scommesso tre mesi fa un euro o un dollaro sull’esilio di Mubarak? Voi no? Complimenti, ve ne intendete più o meno come i consulenti della Casa Bianca. O gli opinionisti del New York Times. Siamo tutti cascati dalle nuvole, insieme.
Ma davvero era così difficile prevedere tutto questo? Ora confesserò una colpa grave, anche se credo che i lettori dell’Unità saranno comprensivi. Senza essere uno studioso di Marx – perché davvero, non lo sono – io mi ritengo di impostazione marxista, anche se di un marxismo imparaticcio, di terza o quarta mano. Davanti a una rivoluzione, per esempio, sarò portato a domandarmi quali siano le classi sociali in lotta tra loro, chi detenga i capitali e i mezzi di produzione, e se per caso non ci sia una carestia in giro, perché già nel 1848 in Europa l’andamento delle rivoluzioni sembrava legato all’aumento dei prezzi dei cereali. Sembra infatti che la gente scenda in piazza quando ha fame. Poi trova anche altri argomenti (costituzioni democratiche, diritti civili, diritti del lavoro, nazionalità, libertà religiose…), altri spettri da agitare, però la fame ha tutta l’aria di essere un elemento scatenante. Tutto questo io lo so – credo di saperlo – semplicemente perché l’ho studiato nei testi di persone che avevano studiato su testi di persone che avevano studiato Marx, quindi non è affatto detto che la cosa funzioni. Eppure.
Eppure un marxista vecchio stampo in questo caso avrebbe potuto prevedere qualche rivolta nel mediterraneo con qualche anticipo sui teorici della Jihad mondiale o del complotto CIA (sì, c’è pure chi crede che sia tutto un complotto CIA, con Barack Obama che finge di non sapere dov’è la Libia sulla cartina, ma nell’ombra trama ghignante; Marcello Foa sul Giornale ha scritto dei pezzi molto divertenti sull’argomento). È un peccato che non li facciano più, questi marxisti vecchio stile, perché con tutti i loro enormi difetti, forse sarebbe bastato mettergli in mano i prezzi dei cereali quattro mesi fa, e avremmo avuto una previsione di rivolta nel medio-breve termine. E invece cosa abbiamo? Analisti e opinionisti che si guardano smarriti e si affidano più o meno alle loro emozioni. Com’è possibile che tutto accada nel giro di pochi mesi, si domandano? (in realtà accade sempre tutto nel giro di pochi mesi: basta leggere i manuali di Storia… ah, già, ma li hanno tutti scritti i marxisti, maledizione). Stimati osservatori traggono auspici dal fatto di non avere ancora visto bruciare una bandiera americana; in Libia per la verità si vede poco o niente, ma se domani da qualche fotoblog uscisse fuori una bandiera bruciacchiata del genere, cominceremo a gridare Mamma li jihadisti? Se qualche migliaio di egiziani posta la rivolta su Twitter, la rivoluzione diventa un affare di Twitter; poi torna dall’esilio un imam, fa un comizio davanti alle telecamere, e improvvisamente la Twitter generation cede il passo alla Repubblica Islamica. Un esercito depone il dittatore? Un sacco di pensosi opinionisti si precipitano a scrivere che non è mai una buona notizia quando un esercito depone qualcuno. Già, di solito quando si fanno le rivoluzioni l’esercito rimane neutrale, consegnato nelle caserme. È un peccato che costoro non fossero già in servizio attivo ai tempi di La Fayette, o della Rivoluzione dei Garofani, o quando Badoglio sostituì Mussolini: avrebbero potuto gridare al golpe già allora.
Ma i più buffi di tutti restano i Neocons – non quelli originali; diciamo quelli all’amatriciana che, come certi personaggi di telefilm, bloccati per anni su isole deserte, nel 2011 continuano a combattere una lotta senza quartiere per difendere fuori tempo massimo il loro eroe, che in caso ve lo foste dimenticato, era George W. Bush. Ancora lui? Ebbene sì, è lui il vero ispiratore della rivoluzione egiziana, scrivono. Come si fa a capirlo? Semplice: quand’era presidente finanziava gruppi egiziani anti-Mubarak (ma finanziava molto di più Mubarak). Poi Obama ha tagliato quei finanziamenti. Poi il prezzo dei cereali è andato alle stelle. Infine l’Egitto si è ribellato a Mubarak. Come si fa a non vedere che è tutta una geniale strategia di Bush e dei suoi sapienti consiglieri? Se poi dopodomani un partito islamico antisionista dovesse vincere le elezioni al Cairo, saranno pronti a scrivere che aveva ragione Bush a sostenere Mubarak, vicino affidabile di Israele. Ma in realtà i Neoconi più che aiutarci a risolvere un mistero, ne aggiungono un altro: cosa c’era di così affascinante in Bush per continuare a sostenerlo anche oggi che non è nemmeno più ricandidabile? Come se la pagina dell’Iraq non si riuscisse più a voltare. Bisogna assolutamente dimostrare che quella guerra lunga e sanguinosa sia servita a qualcosa, e allora si arriva a dimostrare che i rivoltosi egiziani hanno preso l’esempio da quelli iraniani, che a loro volta avrebbero cominciato a manifestare perché hanno visto che in Iraq un regime si poteva cambiare. È una congettura interessante: la guerra in Iraq che causa le manifestazioni in Iran che causano il crollo di Mubarak…  anche solo per l’acqua che perde in tutti i passaggi: a noi che non siamo neocons sembrava piuttosto che le invasioni di Iraq e Afganistan avessero portato l’Iran a un arroccamento intorno al suo commander in chief (Ahmadinejad); quando poi gli studenti delle città hanno manifestato sono stati repressi nel sangue: il che a rigor di logica avrebbe dovuto demotivare gli aspiranti rivoluzionari del Cairo, piuttosto del contrario… ma noi che ne sappiamo, in fondo? Niente.
Proviamo ad articolare questo niente, con le categorie che il nostro imparaticcio marxismo ci ha lasciato in eredità. Sappiamo che il prezzo di acqua e cereali aumenta, e continuerà ad aumentare per un po’. Le nazioni arabe sono mediamente ricche di risorse naturali, ma acqua e cereali li devono importare. Questo può avere avuto l’effetto di rendere insostenibili ai popoli quei governi che per decenni non hanno redistribuito le ricchezza del sottosuolo. Ora i prezzi non diminuiranno – non basta assediare i forni, questo prima di Marx ce lo aveva mostrato Manzoni – ma alcune sacche di corruzione erano insostenibili, dovevano sgonfiarsi. Cosa accadrà adesso? Dipende dai gruppi sociali, che in un primo momento vanno insieme sulle barricate per sconfiggere il tiranno, ma poi cominciano a lottare tra loro per il famoso controllo dei mezzi di produzione. Se nessun Paese arabo del Medio Oriente, fin qui, sembra essere riuscito a evolversi in una democrazia parlamentare nel senso europeo del termine, questo non è accaduto perché gli arabi siano etnicamente inadatti alla democrazia (come sostiene qualche criptofascista o qualche uomo di paglia dei neoconi) ma perché questi regimi parlamentari sono espressione del ceto medio, e in queste nazioni il ceto medio spesso non c’è. Talvolta l’unico vero ascensore sociale è l’esercito, l’unica ombra di ‘classe media’ è rappresentata da militari e funzionari statali: in questi casi molto spesso è l’esercito a gestire le rivoluzioni, dalla Turchia di Ataturk fino alla Libia del ventisettenne colonnello Gheddafi. Se in molte aree  la classe media è quasi inesistente (ma non nel popoloso e urbanizzato Egitto), esiste in questi Paesi un cospicuo bacino di abitanti sotto la soglia della povertà – proletari e sottoproletari, li avremmo chiamati – che sono il terreno più adatto alla diffusione del fondamentalismo islamico (un’etichetta un po’ di comodo: confondere la Fratellanza Islamica ad Al Qaeda è una bestialità). In casi come questi, dunque, la seconda fase della rivoluzione potrebbe vedere la contrapposizione tra fondamentalismo nelle province ed esercito nei centri urbani, con il primo che cerca il consenso dei più umili sviluppando un welfare alternativo a quello statale, e il secondo che cerca di legittimarsi (anche all’estero) come difensore di istanze progressiste e laiche. Non sappiamo se andrà così: diciamo che è andato più o meno così in Turchia e in Algeria negli anni ’90. Perché dovrebbe andare diversamente, per esempio, in Egitto? Perché l’Egitto è grande, giovane, ha ormai sviluppato un ceto medio che non può sottomettersi agli imam né ai colonnelli di turno, e ha insomma tutta l’energia per stupire i veteromarxisti con le loro categorie ottocentesche.
Ma in Libia? O in Bahrein? Chi lo sa. In realtà ne sappiamo veramente troppo poco. Alcuni dettagli – l’indipendentismo della Cirenaica – ci sfuggono del tutto, siamo già contenti di ricordare dove sta sulla mappa, la Cirenaica. La dialettica tra Sunniti e Sciiti, nel Bahrein, non è così facilmente riconducibile allo schemino marxista di ricchi e di poveri (anche se gli sciiti sembrano occupare ovunque il gradino più basso della società). Le teorie si elaborano a partire dalle informazioni, e informazioni ce ne arrivano poche. Finché continuiamo ad avere dieci opinionisti por ogni reporter sul campo… d’altro canto, i dieci opinionisti costano meno e riempiono più fogli…
In attesa di vedere cosa succede, almeno qualcosa lo abbiamo imparato. Che le rivoluzioni sono un po’ più imprevedibili, specie da quando abbiamo smesso di leggere Marx. Se oggi Mubarak e Ben Ali non sono più al loro posto, se lo stesso Gheddafi potrebbe non esserci più da un momento all’altro non è grazie alla Cia, non è grazie a Bush, non è grazie ai leader europei che, con le tutte le loro meravigliose idee sulla democrazia d’esportazione, avrebbero continuato ad abbracciare e baciare questi tiranni finché non avessero ceduto il potere ai figli. La Storia non la fanno sempre i potenti con le loro idee: più spesso la fanno i popoli, soprattutto quando hanno fame. Ecco la mia teoria – assai poco originale.
essere donna oggi, medio oriente, rivoluzioni, Veltroni

Ma quest’Africa, poi, dove sta?

Professione Disastro

Quello che è riuscito a fare Walter Veltroni nelle ultime settimane è incredibile. Stupefacente anche per chi pensava di conoscerlo un po’, Walter Veltroni; di essersi assuefatto, a Walter Veltroni. No. Veltroni ha questo, che riesce a essere sé stesso e a stupirti lo stesso sempre.

Vogliamo riassumere? Due settimane fa – Silvio Berlusconi era già discretamente a mollo nelle sue stesse secrezioni – Veltroni pensò bene di convocare un’adunata della sua corrente, un Lingotto Due dove lanciò, tra le altre, l’idea fantastica di una patrimoniale. Fantastica, sì, peccato che la presentò in un modo per cui praticamente la dovremmo pagare un po’ tutti, la patrimoniale di Veltroni. A questo punto, ed è un’incredibile coincidenza, no? Un vecchio amico di Veltroni, praticamente uno di famiglia, Giuliano Ferrara, si è scrollato di dosso la polvere clericale che si era accumulata in anni di abbandono, ed è tornato a contare qualcosa nello staff berlusconiano. Esempio commovente di topo che non abbandona la nave che affonda, Ferrara ha scritto per conto di Berlusconi una commovente letterina in cui scongiura Bersani di non fare la patrimoniale. Bel colpo, no? Bersani (che ovviamente ha dovuto respingere la proposta) si è ritrovato cucito addosso una patrimoniale che non era nel programma del PD. La ha anche sconfessata pubblicamente a Ballarò – troppo tardi, tra un po’ si va a votare e il PD sarà presentato come il partito che vuole carotare tutti gli italiani con una casa di proprietà. Tutto questo dimostra che Ferrara non è ancora un vecchio arnese, e poi? Che altro dimostra? Ah, sì. Che Veltroni è… Veltroni. Ma si può essere più disastrosi di Walter Veltroni? Si può fare? Qualcuno può superarlo?

Ma certo che si può. Veltroni stesso, ad esempio: lui può. Non c’è limite. No limits. Ieri è morta la dolce Maria Schneider, e voi direte vabbe’ che c’entra. Cosa vuoi che c’entri. Assolutamente nulla, uff questi blog che saltano dal palo alla frasca. Sì, ma aspettate. Vi ricordate, vero, che Veltroni è uno studioso di cinema? Che ne conosce a mucchi, di cinema? Che scriveva le trame dei film in tv per il Venerdì, nello stesso periodo in cui faceva non so se il Ministro alla cultura o il Vicepremier o il segretario dei DS al minimo storico o tutte e tre le cose? Ebbene, Veltroni ha voluto scrivere il coccodrillo per Maria Schneider. Bene: è un esperto, scriverà cose belle su di lei. Bof. Cinque righe, non molto originali, senza un solo apprezzamento per le sue qualità di attrice.

Maria Schneider era bellissima. Di una bellezza assai rara. Era sfrontata, con il suo corpo rassicurante. Era angelica, con quello sguardo da adolescente impertinente. La sua sensualità era moderna, un impasto di solitudine e nevrosi. Era, esteticamente, figlia del ‘68 e della rivoluzione femminista. Era una ragazza del suo tempo. Un tempo giovane, per la vecchia Europa.

Par di capire che era bella e basta. Ma aspetta. Dove sta andando a parare?

Ci pensavo guardando in queste ore le immagini delle rivolte nel Nord Africa. In piazza sono tutti giovani, segno di società dinamiche. Ma, in piazza, sono tutti uomini. Indice di comunità che negano diritti fondamentali e protagonismo alle donne.

No, ma sul serio? Quindi insomma Walter “Vado-in-Africa” Veltroni non ha la minima idea di quello che sta succedendo al Cairo? E ci tiene comunque a dircelo? A lanciare il suo messaggino di ignoranza benpensante ad usum del lettore della Stampa, affinché tutti noi possiamo, domani, al bar, sentire più forte e chiaro il tizio che Signora mia, se va via Mubarak quelli metteranno le donne sottochiave? Roba che neanche Christian Rocca, ormai?

Via Lia, allego una gallery di foto di donne che stanno manifestando al Cairo. Adesso. Si trovano su Internet, una rete di condivisione delle informazioni di cui forse Veltroni non ha sentito ancora parlare. Va bene, non importa, è ancora un giovane, diamogli tempo, ne abbiamo così tanto.

blog, fotografia, Israele-Palestina, medio oriente

Più di mille parole

La guerra delle cartoline

C’è una foto incredibile di Rina Castelnuovo che è sepolta da mesi tra i miei bookmark. Ogni tanto ci passo sopra col mouse e sovrappensiero la riapro. Allora accade ogni volta la stessa cosa: mi dico “ma questa è straordinaria! Perché non l’ho mai pubblicata?” e decido di farlo seduta stante. Invece non faccio in tempo ad aprire la pagina che i dubbi hanno già preso il sopravvento. Tranne forse stavolta. (In ogni caso vale la pena di avvertire: questo pezzo non ha molto a che fare con la strage al largo di Gaza. È tutto un pezzo su quella fotografia, e soprattutto sull’opportunità di pubblicarla o no. Una questione piuttosto astratta e privata, mentre fuori si scannano, certo).

+ La foto è già un po’ famosa, o meriterebbe di esserlo. Pubblicata su Internazionale, è arrivata al mio portatile al termine di una tortuosa catena di link. Il ragazzo è di origine europea o americana, la donna è una palestinese. Da come curva le spalle dà l’impressione di avere una certa età. Siamo a Hebron, la città dei patriarchi, la più sacra agli ebrei dopo Gerusalemme. Ma non è in Israele; è in Cisgiordania, territorio occupato. Il ragazzino che lancia il vino non è, propriamente, un israeliano: è un colono ebreo. Per parte dell’opinione pubblica israeliana (e persino italiana), è un eroe assediato dai terroristi, che difende con la sua sola presenza le radici ebraiche di Hebron. Questa foto mostra una realtà diversa, una quotidianità di provocazione e arroganza che combacia con altre testimonianze (le reti tese sopra il mercato palestinese per proteggere le bancarelle dai rifiuti lanciati dai coloni). Pubblicarla sul mio sito avrebbe semplicemente un valore di testimonianza: meglio di qualsiasi mio lenzuolo di parole, questa foto mostra a chi non vuol vedere da che parte stiano la prepotenza e la sopportazione.

– D’altro canto, è solo una foto. Qualche filoisraeliano la vedrà e ne posterà una di segno contrario, magari un palestinese che brucia la bandiera azzurra (oooodio!) o la sagoma di Hitler su una baracca di Gaza (iiiiiislamoonazismo!) E andremo avanti così, rinfacciandoci cartoline dalle due sponde dell’inferno. Ma ho sempre pensato che non abbia senso. Forse perché non so fotografare, ma ho sempre rifiutato il giochino: in particolare mi hanno sempre fatto ribrezzo gli avvoltoi che postano i bambini morti dalla loro parte, per convincere sé stessi e gli altri di stare dalla parte giusta. Come se non fossero morti bambini da entrambe le parti. Le foto sono disoneste perché ritagliano un fatto e ti costringono a provare emozioni per quel singolo bambino morto, per quella signora che probabilmente prova per l’odore del vino la stessa repulsione viscerale che io provo per alimenti alieni alla mia cultura: non abbiamo bisogno, io e lei, di consultare il nostro libro sacro per sapere che ci fanno schifo: ci viene da vomitare e basta, siamo fatti così, voi la chiamate Cultura ma noi non l’abbiamo scelta, se ci innaffiano con quella roba ci sentiamo pieni di vergogna e temiamo che nemmeno annegandoci la puzza ne verrebbe via… Ecco, vedete, mi sono immedesimato. Ma da qualche parte c’è un palestinese che tira una pietra a un soldato di leva israeliano, non dovrebbe farmi male la testa anche per lui? A questo modo emotivo di appassionarsi a una guerra ho sempre preferito un approccio pragmatico e crudo: volete parlarmi di bimbi morti? Contiamoli. Vediamo se ne ha fatti più Piombo Fuso o più i razzi Qassam. Poi decideremo per chi emozionarci. Ma se pubblico questa foto, io mi arrendo alle emozioni, all’empatia, alla propaganda che si nutre di cartoline…

+ D’altro canto, questa foto è una bomba. Non teme il confronto. Nessun palestinese odiatore calpestante vessilli in fiamme reggerà mai una foto del genere. Qui non c’è nessun pietismo, la signora è di spalle, e sono le spalle più dignitose che ho mai visto nella mia vita, probabilmente perché dietro di loro sono libero di immaginare il volto che voglio, e ovviamente non farò che prendere mia madre o mia nonna con tutta la loro dignità, e abbronzarle appena un po’. Quant’è bianca, invece, la faccia del colono. Giù la maschera: questa è la faccia dell’imperialismo bianco. Lo stupid white boy, il turista anglosassone tronfio e cretino da generazioni, che segna il territorio col suo bricco di tavernello. Fa la cosa più bianca e imperialista che si possa immaginare: sporca, riempie il mondo di rifiuti. Un mondo povero, ma dignitoso, deve diventare la sua discarica. A Hebron i coloni fanno la guerra coi rifiuti: quello che l’Uomo Bianco riconosce ormai come una vergogna nella sua madrepatria (l’attitudine a lordare) nelle colonie d’oltremare è rivendicato come un preciso diritto politico: hai dei fondi di bicchiere? Li puoi usare per rendere un po’ più difficile la vita dei palestinesi. Che foto incredibile.

– E mentre me lo dico capisco che c’è qualcosa che non va. Il mio buonumore. Là fuori si scannano, amici o nemici, ma io ho trovato una foto che darà forza ai miei amici, e farà stridere i denti ai miei nemici. Ma è questo che voglio? Nel mio blog io parlo di scuola, tv, qualche film un po’ di musica, e di Palestina: ma saltuariamente: solo quando un massacro la riporta in prima pagina. Perché lo faccio? Perché un giorno promisi qualcosa a qualcuno? Credo davvero che ci sia qualcuno là fuori ancora da convincere, qualcuno disponibile a cambiare idea? O voglio semplicemente far bella figura col mio blog, attirare l’attenzione del migliaio di persone non particolarmente influenti che bazzicano? E se fossi davvero tutto qui, una persona superficiale che tra fare qualcosa di concreto e chiacchierare a vanvera ha scelto una volta per sempre la seconda?

– Ma se chiacchiere devono essere, almeno siano farina del mio sacco. Questa foto non è mia. Se la usassi, la ruberei. Certo, si è già fatta un bel giro su internet. Ma il mio non è un sito di segnalazioni; è un sito di contenuti. In gran parte, testuali. Le immagini sono quasi tutte rubate, e servono solo ad alleggerire o a fornire qualche pezza d’appoggio – ma una foto così non sarà mai un corredo di niente. È uno scoop, è un editoriale fatto e finito. Potrei versarci sopra la mia solita colata di parole, ma sento che sarebbe disonesto: qualsiasi parola mia accanto brillerebbe di luce riflessa. Non potrei neanche sporcarla, distorcerla, sfuocarla, come faccio spesso con le immagini che rubo, per sentirmi meno ladro.

– Per di più adesso c’è la questione della pubblicità. Non se n’è accorto praticamente nessuno, ma da qualche settimana a questa parte il mio sito ha uno spazio pubblicitario. Non è una rivoluzione, in dieci anni su Blogger è successo di tutto: nei primissimi tempi ho vaghi ricordi di enormi banner con loghi e suonerie, e una scimmietta a cui dovevi sparare per vincere gettoni d’oro. La novità è che ora qualche centesimo mi arriva in tasca. Quanti? Pochi. Non abbastanza per mettermi a inventarmi espedienti per attirare lettori… ma pubblicare una foto del genere, così potenzialmente controversa, non sarebbe esattamente un espediente? Voglio rubare il lavoro di una fotografa professionista? Voglio usare la tragedia palestinese per attirare clic sul mio sito e centesimi nelle mie tasche? Non mi sembra di essere così gretto, ma di fatto lo diventerò.

+ Insomma, come vedete alla fine ho scelto. Ho messo tutti i pro e i contro sulla bilancia, e poi ho rotto i piattini. La foto è una bomba, pubblicarla è sleale, e probabilmente io sono una patetica persona che ruba cartoline e specula un piattino di lenticchie su enormi tragedie, e pensa di coprirsi dietro lenzuoli di metadiscorsi. Tutto questo è vero, ma è anche poco rilevante di fronte all’immensità dell’universo, alla profondità dell’odio, e alla rabbia muta di quelle spalle, che credono di dover sopportare all’infinito, e invece (grazie a una fotografa israeliana) faranno il giro del mondo. E il giro del mondo oggi passa per di qui, semplicemente. Non me lo merito: chi se ne frega. Guardate la foto, le mille parole che ci ho messo intorno valgono ancora meno del solito.

Israele-Palestina, medio oriente, sofismi

5 sofismi su Israele

Io non credo che ci sia nulla di male nel voler difendere Israele in una discussione. Il problema è il come. Tanti sedicenti avvocati della causa di Israele portano avanti i loro ragionamenti con una serie di argomenti fallaci (o sofismi) che mi fanno rabbrividire, e che finiscono per ottenere il risultato opposto: rendermi più sospettoso nei confronti degli israeliani. Molti dei quali resterebbero sconvolti, credo, leggendo certe castronerie con cui li si difende qui da noi. A volte sembra che il conflitto israelo-palestinese abbia una logica tutta sua, che funziona solo dal Giordano al mare, e che se provassimo ad applicare altrove (anche da noi) provocherebbe caos e distruzione nel giro di pochi minuti.

Col tempo ho finito per riconoscere alcuni di questi sofismi da lontano; tanto che a un certo punto ho pensato di fare cosa utile mettendoli in una lista, con tanto di sottolink. Sarà un pezzo un po’ lungo, ma ne vale la pena se può risparmiarci lunghe e sterili discussioni in futuro. Un’avvertenza per gli studiosi di logica e retorica: in questo pezzo molte definizioni sono usate in modo popolare e improprio. Anche i sofismi, per esempio, non sono proprio tutti sofismi (alcuni credo siano tropi). Confido nel vostro perdono.

1. Mozione degli affetti.
Si parla di Israele e a un certo punto qualcuno sbotta: “se non sei israeliano non puoi capire”; oppure “se non hai amici israeliani non puoi capire”, o “se non sei stato laggiù”, “se non ti è morto nessuno in un bar”, “se non ti è mai piombato un razzo in casa”, “se non hai mai dovuto mandare i figli su autobus separati”, ecc. ecc.
Purtroppo l’affetto è un’arma a doppio taglio: chi scrive queste cose molto spesso mostra lacrime sincere. Ma non si rende conto (o finge di non sapere) che da qualche parte ci sono anche amici di palestinesi, e parenti delle loro vittime; forse che non sanguinano anche loro, eccetera?
Io diffido terribilmente dalla mozione degli affetti, che portata alle estreme conclusioni significa questo: solo le persone coinvolte davvero in una guerra o in un crimine hanno il diritto di parlarne. Sembra una cosa di buonsenso, e infatti lo era: al tempo dei regni barbarici. Ma persino i Barbari a un certo punto si sono resi conto che la giustizia non spetta alle vittime o ai parenti delle loro vittime, bensì a qualcuno che, proprio perché non è stato toccato negli affetti, può decidere con serenità e oggettività. Così è rinato il diritto. Oggi chi metterebbe il parente di una vittima nella giuria che giudica un presunto assassino? Sì, molti giornalisti italiani lo farebbero. Ma ogni volta che qualcuno ne parla, è come se proponesse una momentanea regressione al medioevo. Grazie, no. Paradossalmente, israeliani e palestinesi sono le persone meno in grado di discutere della loro guerra con oggettività e serenità. La loro rabbia e la loro disperazione sono comprensibili. Ma non ha senso scimmiottarle in una discussione.

2. Sofisma del “meno peggio”
“Sì, certo, Israele ha molti difetti, ma… non puoi metterla sullo stesso piano di Hamas”.
Non c’è dubbio che Israele sia meno peggio di Hamas. E figurarsi, io sono sempre stato un patito della formula del “meno peggio”. Ho sempre votato per il meno peggio e lavorato per il meno peggio. Ma attenzione: la tattica del meno peggio funziona solo a patto che il meno peggio di oggi sia peggiore di quello di domani. In Israele accade il contrario: ogni guerra aumenta il divario tra vittime israeliane e vittime palestinesi. Quello che era nato come conflitto tra popoli è diventato guerra di religione.
Il “meno peggio” diventa un sofisma quando viene usato per giustificare qualsiasi cosa: Israele può ammazzare cento palestinesi per ogni sua vittima perché… “è meno peggio”? Sicuri che lo sia ancora? Cosa dovrebbe fare, esattamente, per non esserlo più? Israele non si può criticare finché si macchierà di azioni appena appena meno peggio di quelle di Hamas?
Il sofisma del meno peggio è tra quelli che hanno senso solo se riferiti a Israele; prendi Arafat, ad esempio. Non c’è mai stato dubbio che fosse un interlocutore “meno peggio” di Hamas. E allora perché gli israeliani non hanno accettato di fare la pace con lui? Perché con lui la regola non valeva: era un palestinese.

3. Sofisma del “cratere”
Una variante del precedente, che ho letto anche di recente nei commenti. L’argomentazione più o meno è questa: “è vero che Israele sta facendo cose orribili, ma queste cose non sono niente rispetto a quelle che potrebbe fare grazie al suo potenziale militare”, (variante: “sono niente rispetto a quelle che col suo potenziale militare faremmo noi”). Da cui l’immagine dell’israeliano che si torce le mani perché potrebbe fare di Gaza un cratere in pochi secondi, e invece è costretto a sminarla casa per casa. Questo tipo di logica funziona solo nel conflitto arabo-israeliano: è una cosa folle. Qualsiasi strage può essere perdonata (ma solo agli israeliani) o almeno relativizzata, perché loro potrebbero farne anche di peggio. Ed effettivamente ne fanno sempre di peggio, ma finché non si arriva al cratere è ok.
Ma questa è esattamente la logica che porta al cratere.

4. Sofisma di UDdelMO
Non è un discepolo di Abelardo, ma una sigla che sta per “Unica Democrazia del Medio Oriente”. Che sarebbe Israele, come notano i suoi fans un giorno sì e l’altro pure.
Ma scusate, e la Turchia? E non hanno avuto elezioni regolari i palestinesi? Ma anche se fosse: il fatto che gli israeliani abbiano un governo eletto democraticamente li autorizza a fare di Gaza quel che vogliono? La democrazia non è un valore assoluto: è solo un sistema di governo – il meno peggio, secondo qualcuno. Non è il governo dei buoni o dei bravi: è il governo dei più. È normale che difenda gli interessi dei più, in modo non necessariamente virtuoso o efficace.
Ciò che è buono per la maggioranza degli israeliani non è necessariamente giusto. Anche una maggioranza può avere torto. Già gli antichi avevano notato che in situazioni di emergenza la democrazia può essere controproducente: l’attuale crisi di Gaza non ci sarebbe stata se i partiti al governo a Gerusalemme non avessero sentito la necessità di mostrare al loro elettorato che sanno rispondere a Hamas colpo su colpo. Perché quando si dice che Israele sia una democrazia, si finge di non sapere quanti difetti abbiano le democrazie: necessità di compiacere piccoli partitini anche xenofobi, politiche clientelari, demagogia, corruzione (un avvicendamento tra Olmert e Netanyahu non è proprio il massimo che una democrazia possa augurarsi)…

Quando si passa alla Striscia di Gaza, il sofisma della democrazia viene totalmente capovolto. Ovvero: siccome la maggioranza dei palestinesi di Gaza ha votato per Hamas, sono tutti responsabili e quindi si meritano i bombardamenti. Ho capito bene? La democrazia dà a Israele il diritto di bombardare e a Gaza il diritto di prendersi le bombe. Uno che tentasse di argomentare il contrario (Hamas ha il diritto di bombardare perché ha vinto le elezioni, e se con un Qassam uccide un bimbo israeliano è ok, perché suo padre ha votato per Olmert) quanti punti antisemitismo totalizzerebbe? Non so, ma direi parecchi.

5. Sofisma della morte potenziale, o equazione Kissinger.
Questa andava molto forte ai tempi della Seconda Intifada. Già allora si diceva che i palestinesi “minacciassero l’esistenza dello Stato d’Israele”: poi però bastava contare le vittime per scoprire che morivano più dei loro nemici. Strano modo d’impostare un genocidio.
E tuttavia qualcuno non ha rinunciato a valorizzare le cifre dei caduti nel modo più filoisraeliano possibile. L’esempio classico (ma in Italia si leggevano cose del genere tutti i giorni sul Foglio) è quello di Henry Kissinger, che un giorno invece di dire “i palestinesi hanno fatto cinquanta morti israeliani in 3 giorni” affermò “gli attacchi suicidi hanno ucciso l’equivalente di 2500 americani in tre giorni”. Per ottenere una cifra di “2500 americani” Kissinger aveva moltiplicato le vittime degli attentati (50) per la popolazione degli USA (250 milioni) e diviso il tutto per la popolazione d’Israele (5 milioni). E si capisce che “l’equivalente di 2500 americani” suona peggio di “50 israeliani”; il problema è che non ne erano morti 2500, ne erano morti 50, c’è differenza. O no?
Chi decide di ragionare come Kissinger, grosso modo la pensa così: Israele è piccola e quindi ogni perdita è immensamente più preziosa. Anche questo ragionamento funziona solo con Israele: nessuno si sognerebbe mai di chiamare un morto palestinese “l’equivalente di 50 morti americani”.
L’equazione Kissinger contraddice anche il postulato dell’uguaglianza degli uomini, e lo sostituisce con un altro: tutte le nazioni, piccoli e grandi, hanno un tot di dignità che va diviso per il numero di abitanti. Il Liechtenstein, per esempio, ha trentamila abitanti: se ne ammazzi uno, ammazzi l’equivalente di diecimila cittadini americani: genocidio! Molto meglio sparare a un cinese, che è l’equivalente di un quarto di cittadino americano (una banale amputazione). Sì, sto scherzando. Ma c’è gente che queste cose le afferma davvero, in tutta serietà, senza accorgersene.

Oggi l’equazione Kissinger non va più per la maggiore, ma continuo a leggere conti stranissimi. Per esempio, siccome i Qassam facevano relativamente poche vittime (dico poche rispetto all’ecatombe che ne è seguita), invece di scrivere “Hamas questa settimana ha fatto due vittime”, mi è capitato di leggere: “Hamas sta prendendo a bersaglio duecentomila israeliani”, o addirittura “Hamas ha sotto tiro il dieci per cento della popolazione di Israele”. Coi Qassam. Così si sovrappone ad arte il numero dei veri caduti col numero dei caduti che i palestinesi potrebbero fare se avessero infinite munizioni e infinito tempo a disposizione. Naturalmente questa logica è applicabile soltanto ai nemici di Israele.

Continua…

Israele-Palestina, medio oriente

(e non del tutto sbagliate)

Otto idee su Hamas, non del tutto giuste

1. È Hamas che ha rotto la tregua
Le tregue sono fatte per rompersi, per definizione. In particolare quella stabilita tra Hamas e Israele non è stata rotta: è stata rispettata (male) da entrambe le parti fino alla scadenza prevista. Dopodiché né Hamas né Israele hanno proposto di rinnovarla, e i bombardamenti sono ripresi: a quel punto i razzi di Hamas hanno fatto una mezza dozzina di morti, gli elicotteri israeliani più di quattrocento. Chi sostiene che l’operazione “Piombo fuso” è stata lanciata da Israele soltanto dopo che Hamas aveva ripreso le ostilità, racconta una versione più filoisraeliana dello stesso Israele: Barak, il Ministro della Difesa, ha ammesso che l’operazione è stata pianificata sei mesi fa. Del resto il tempismo è perfetto per mettere davanti a un fatto compiuto il Presidente Obama, che arriverà alla Casa Bianca solo a fine mese: se per allora la questione Hamas fosse archiviata, nessuno si lamenterà troppo del sangue sparso.

2. Hamas considera i civili israeliani dei bersagli e i civili palestinesi degli ostaggi

Sì; ma Israele non è da meno, e le cifre del bombardamento della scorsa settimana lo dimostrano. Chi ha un minimo di dimestichezza col conflitto israelo-palestinese dal ’48 a oggi, e soprattutto dall’inizio della Prima Intifada negli anni Ottanta, sa che questa è una guerra civile, in cui il coinvolgimento di civili da entrambe le parti non è un un effetto collaterale, ma il senso del conflitto. Non si fronteggiano due eserciti, ma due popoli e (almeno dagli anni Novanta) due religioni. Non è una guerra fatta soltanto di combattimenti e attentati; è fatta di espropriazioni di terra e acqua, di insediamenti di popolazione, di demolizioni e di recinzioni. Il confine tra eserciti regolari e bande armate era molto sfumato sin dalla guerra del 1948, e lo è rimasto fino a oggi: da entrambe le parti. In particolare l’uso che Israele fa dei coloni nei Territori Occupati è un simbolo di questa ambiguità: i coloni sono civili che girano armati ed espropriano le risorse dei palestinesi. Perché Hamas non avrebbe dovuto considerarli obiettivi militari, alla stessa stregua di quei ragazzini che indossano l’uniforme dell’esercito? Mesi fa Hamas propose di non bombardare più bersagli civili se Israele avesse fatto lo stesso. Probabilmente era un bluff: in ogni caso Israele non lo andò a vedere.

3. Hamas vuole cancellare lo Stato di Israele dalle carte
.
Sì, perché lo considera l’“entità sionista”, uno Stato costituito sull’identità etnico-religiosa ebraica. Il piano di Hamas per la Palestina è speculare: uno Stato costituito sull’identità etnico-religiosa islamica. Il che ci pone un problema, o almeno lo pone a me: per quel che ho capito, infatti, Israele è veramente uno Stato costituito sull’identità etnico-religiosa ebraica – che invece di stemperarsi, negli ultimi anni è diventata più forte. Dunque perché fondare uno Stato ebraico in Palestina è ammissibile, e fondarne uno islamico no? Di solito le risposte che leggo sono le seguenti:

  • perché gli ebrei meritavano un risarcimento per la Shoah (sì, ma perché a spese dei palestinesi? Non ci toccherà poi di risarcirli a spese di qualcun altro ancora?);
  • perché il mondo è pieno di Stati islamici, mentre uno Stato ebraico mancava (sì, ma io preferirei fare a meno di tutti gli Stati fondati su criteri etnico-religiosi, perché ritengo che il destino di Stati siffatti sia la guerra religiosa ed etnica per l’accaparramento delle risorse);
  • perché Israele è disposto ad accettare anche cittadini arabi (ma non tutti, perché nel giro di una generazione diventerebbero la maggioranza: questo è il motivo per cui Sharon si ritirò da Gaza); in ogni caso anche i membri di Hamas prevedono di accettare cittadini di fede ebraica nel loro futuro Stato Islamico;
  • perché Israele è disposto alla creazione di uno Stato Palestinese, ma Hamas non vuole scendere a patti. Questo è falso due volte; non è vero (1) che Hamas non abbia mai voluto scendere a patti: ci sono esponenti di Hamas che si sono detti favorevoli alla spartizione secondo i confini del ’67. Se Israele avesse veramente voluto arrivare a una soluzione, avrebbe dialogato con loro, e non lo ha fatto. Ma in generale, non è vero (2) che i governi israeliani siano disposti alla nascita di uno Stato Palestinese, altrimenti quello Stato sarebbe già stato proclamato ai tempi di Arafat. Ma Arafat non andava bene; poi non è andato bene Abu Mazen; e sicuramente non poteva andare bene Hamas. I governanti di Israele sono riusciti a procrastinare la nascita dello Stato di Palestina per tutti questi anni, e nulla m’impedisce di pensare che il loro obiettivo sia di proseguire quest’opera di proscrastinazione all’infinito. Naturalmente spero di sbagliarmi, ma questa vecchia intervista al braccio destro di Sharon continua a sembrarmi attuale.

4. Hamas è antisemita
Sì. Le dichiarazioni antisemite da parte degli esponenti di Hamas si sono sprecate: non le linco perché sono veramente le più facili da trovare in rete. Anche lo Statuto ne contiene parecchi: ma chissà se i ragazzini perdono tempo a leggerlo. Anche perché è un documento contraddittorio: in certi passi sembra suggerire la necessità di eliminare tutti gli Ebrei (ma solo alla fine dei tempi), in altri si rifà al concetto di tolleranza coranica che è stato alla base della convivenza più o meno pacifica tra musulmani ed ebrei di Palestina per 13 secoli.
Perché quest’ambiguità? Perché Hamas è un movimento religioso, che si rifà a un Testo Sacro, e i Testi Sacri sono ambigui: anche nella Bibbia si legge forte e chiaro di un Dio sterminatore dei nemici di Israele, e perfino il messaggio evangelico contiene l’idea che tutto il mondo debba essere cristianizzato prima della fine dei tempi.

5. Hamas vuole sterminare gli ebrei di Israele.
No. La prospettiva del genocidio (oltre a essere oggettivamente ridicola, per l’evidente sproporzione dei mezzi), per quanto ho potuto leggere non è contemplata dagli esponenti di Hamas. La loro idea di togliere dalla cartina lo Stato di Israele, non implica lo sterminio degli ebrei che lo popolano. Si veda lo Statuto (art. 31):

Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento umanistico. Si occupa dei diritti umani, e si impegna a mantenere la tolleranza islamica nei confronti dei seguaci di altre religioni. È ostile solo a coloro che mostrano ostilità nei riguardi dell’islam, si mettono di traverso al suo cammino per arrestarlo o ostacolano i suoi sforzi. All’ombra dell’islam, è possibile ai seguaci delle tre religioni – islam, cristianesimo ed ebraismo – coesistere in pace e sicurezza. Anzi, pace e sicurezza sono possibili solo all’ombra dell’islam, e la storia antica e quella recente sono le migliori testimoni di questa verità. […] L’islam concede a ciascuno i suoi diritti, e impedisce l’aggressione contro i diritti degli altri.

E la dichiarazione di Khalid Mish’al all’indomani della vittoria elettorale a Gaza (gennaio 2006, traduzione mia):

Il nostro messaggio agli israeliani è questo: noi non vi combattiamo perché appartenete a una certa fede o cultura. Gli ebrei hanno vissuto nel mondo musulmano per 13 secoli in pace e armonia; sono per la nostra religione “il popolo del Libro”, che hanno un’alleanza con Dio e col suo messaggero Maometto (sia lodato) che deve essere protetta e rispettata. Il nostro conflitto contro di voi non è religioso, ma politico. Non abbiamo problemi con gli ebrei che non ci hanno attaccato, ma solo con quelli che sono arrivati nella nostra terra e si sono imposti con la forza, distruggendo la nostra società e bendendo il nostro popolo.
Noi non riconosceremo mai il diritto di nessun potere di derubare la nostra terra e negare i nostri diritti nazionali. Non riconosceremo mai la legittimità di uno Stato sionista creato sul nostro suolo per espiare i peccati o di qualcun altro, o per risolvere i problemi altrui. Ma se volete accettare i principi di una tregua a lungo termine, noi siamo pronti a negoziarne i termini. Hamas tende una mano di pace a coloro che sono realmente interessati a una pace basata sulla giustizia.

Chi sostiene la tesi di Hamas genocida, oltre ai deliri antisemiti di diversi esponenti, si rifà all’Articolo 7 dello Statuto, dove si cita un Hadith di Maometto:

Il Profeta – le preghiere e la pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Cedro non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei
.

La guerra tra ebrei e musulmani, quindi, è destinata a durare fino all’ultimo giorno (ecco perché Hamas non può parlare di “pace” con Israele, ma solo di “tregua a lungo termine”), quando si salveranno soltanto gli ebrei dietro all’albero del cedro. Hamas però non è un movimento millenarista, non intende accelerare la fine dei tempi, e nel frattempo è disposta ad accogliere cittadini ebraici in una Palestina islamica, secondo i precetti di tolleranza previsti dal Corano.

6. Hamas è finanziata dall’Iran
Sì, quasi pubblicamente. Quando l’Europa ha bloccato i finanziamenti alla Striscia di Gaza, l’Iran si è fatto avanti. In realtà però Gaza è un recinto chiuso su tre lati da Israele e per il quarto dall’Egitto di Mubarak, che ha già fatto capire che non muoverà un dito per aiutare un movimento fondamentalista come Hamas. E quindi le possibilità concrete di ricevere rifornimenti di munizioni dall’Iran, attraverso i cunicoli scavati sotto il passo di Rafah, sono comunque molto limitate, e Hamas continua a fare la guerra coi Qassam e i vecchi Katiuscia. C’è una grande differenza tra le limitate capacità militari di Hamas e quelle degli Hezbollah libanesi, quelli sì riforniti abbondantemente dagli iraniani, che due anni fa seppero tener testa all’esercito israeliano.
Dunque sì, l’Iran per quanto può aiuterà, ma non è che possa molto. E allora perché si insiste tanto sulla sua complicità? Perché proprio l’Iran e non tutti i finanziatori occulti che dagli Stati arabi pompano denaro nelle casse di Hamas via fratellanza musulmana? Perché qualcuno ha deciso che il prossimo nemico è l’Iran, e quindi ora bisogna concentrarsi sul concetto di Ahmadinejad cattivo. Esattamente come sei anni fa era indispensabile focalizzarsi sul concetto di Armi di Distruzione di Massa. Quella era una grande bugia, mentre “Ahmadinejad cattivo” è solo una mezza verità: è assai probabile che finanzi e armi Hamas, ma non in modo determinante.

7. I palestinesi che hanno votato per Hamas sapevano cosa facevano. …E quindi, mi par di capire, non si fa peccato a sterminarli. Ah, il fardello dell’uomo bianco.
I palestinesi, in particolare quelli che hanno passato la loro vita confinati nella Striscia di Gaza, sono giovanissimi, per la stragrande maggioranza disoccupati e poveri, e non possono disporre dei mezzi che in una democrazia occidentale consentono o dovrebbero consentire agli elettori di formare un giudizio equilibrato. Ci vuole un’ingenuità terribile per sovrapporre le dinamiche di una democrazia occidentale a quelle dell’universo concentrazionario di Gaza. Hamas ha vinto perché, in una situazione d’emergenza dove si vive alla giornata, ha dimostrato di avere capi meno corrotti, e soprattutto più risorse da distribuire, rispetto ad Al Fatah. Israele poteva in quell’occasione dimostrarsi pronto a una pace generosa con Al Fatah; questo forse avrebbe potuto far pendere la bilancia della simpatia popolare sul partito laico; ma i suoi governanti hanno deciso altrimenti. Del resto la trasformazione di un popolo in un movimento islamico con la certificazione internazionale di terrorismo ha portato agli israeliani almeno un vantaggio: oggi si bombarda Gaza a cuore più leggero rispetto a qualche anno fa.

8. Tu scrivi queste cose perché sei un sostenitore di Hamas
No, in nessun modo. Le poche iniziative di solidarietà per il popolo palestinese a cui ho partecipato erano organizzate col sostegno dell’OLP e dell’ANP. Nello stesso periodo ho visto chi, in Italia e in Palestina, lavorava per screditare la leadership di Arafat e per consegnare il voto dei giovani palestinesi a Hamas. Credo che la vittoria elettorale di Hamas a Gaza sia stata per quest’ultima la sciagura definitiva. Ma sui blog e perfino su alcuni quotidiani italiani ho letto tante castronerie e facili semplificazioni, al punto che a volte ho la sensazione che gli israeliani siano più equilibrati.
Il conflitto israelo-palestinese è di una complessità strabiliante, e credo che molti blog si siano fatti filo-israeliani per reazione a tutta questa complessità: ci si aspetta sempre che un leader israeliano estragga lo spadone con cui va reciso virilmente il nodo gordiano e risolto una volta per tutte il problema, e nel frattempo si riempie qualche paginetta web con appassionate apologie di strage che tra 50 anni i loro nipoti magari leggeranno dicendosi: eccola qui, la banalità del male.

Israele-Palestina, medio oriente, Obama

Questo non è un muro

…ricapitolando:

– prima dice che Gerusalemme è indivisibile. E’ un punto di vista.

– Poi lascia intendere che si potrebbe anche dividere. Anche questo è un punto di vista.

– Poi infiamma i berlinesi (tipi volubili) con un commovente discorso in cui propone di Tirare Giù I Muri. Ma proprio Tutti. Che per carità, è un punto di vista fantastico.

Mi resta la curiosità: tra Gerusalemme-Palestina e Gerusalemme-Israele cosa crede che ci metteranno, una bella aiola fiorita?

(Quello nella foto comunque non è un muro; infatti la denominazione corretta è: barriera difensiva).

giornalisti, Israele-Palestina, medio oriente

O pace o deserto

Apro Repubblica e leggo:

Obama ai palestinesi: sarà pace

E subito penso: wow, forte Obama. Poi leggo meglio:

Obama ai palestinesi: sarà pace
‘Israele, Gerusalemme capitale’

E comincio a pormi il problema. Perché, ecco, magari il lettore medio di Repubblica non lo sa (e non ha il dovere di saperlo – anzi forse ha il diritto di non saperlo già), ma quelle due frasi lì non potrebbero stare insieme. E’ come se la prima dicesse: Bianco, e la seconda: Nero. In effetti la prima dice: “Pace”. La seconda magari non ne ha l’aria, ma dice: “Guerra”. Mi dispiace, davvero, non credo che Obama sia una cattiva persona, ma dice così.

A questo punto bisogna spiegare cosa c’è di sbagliato nell’indicare Gerusalemme Capitale. Gerusalemme è già la capitale di Israele, no? Non proprio. Cioè: per gli israeliani sì. Gerusalemme è la capitale israeliana “complete and united” per legge, dal 1980. Ma l’Onu, che per la città aveva altri piani, considera quella legge una violazione del diritto internazionale. Di fatto, le ambasciate risiedono a Tel Aviv. Nessun Paese membro dell’Onu, a parte Israele, riconosce alla città santa lo status di capitale israeliana. Nemmeno gli Stati Uniti di George Malvagio Bush. Finché un giorno arriva Obama. Incontra i palestinesi. E gli dice quel che ha detto. Chissà i salti di gioia a Ramallah.

Ma poi l’avrà detto davvero? E’ estate, fa caldo, può darsi che l’istintivo entusiasmo per Obama abbia giocato un brutto tiro all’articolista, vediamo. Scorro l’articolo e ci capisco meno di prima. E sono uno che un po’ di Medio Oriente lo mastico, figuratevi il lettore digiuno. Giudicate voi.

Sul futuro di Gerusalemme il senatore dell’Illinois ha però precisato: “Quello di capitale è uno status finale che dovrà essere deciso dai negoziati e in accordo con i palestinesi. La comunità internazionale, inclusi gli Usa, non riconosce la rivendicazione israeliana di Gerusalemme come sua ‘eterna e indivisa capitale'”

Se ho capito bene: Capitale sì, Unita e Indivisibile no. Ecco, questo rappresenta una cauta apertura alla Palestina, o almeno ad Al Fatah, che ha sempre reclamato Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato palestinese. La dichiarazione è importante soprattutto se si confronta con una di Obama di inizio giugno, in cui Gerusalemme era considerata non solo capitale israeliana, ma anche unita e indivisibile. A questo livello, un palestinese moderato come Abu Mazen può ritenersi persino ottimista per il solo fatto che Obama sia andato a trovarlo a Ramallah – anche perché l’alternativa è un McCain che con i palestinesi nemmeno ci vuole parlare; poi bisognerebbe anche verificare quanti palestinesi ancora si sentano rappresentati da un moderato come Abu Mazen, dopo vent’anni di prese in giro: ma è un altro discorso.
Torniamo alla dichiarazione di Obama. Ce la leggo soltanto io, tra le righe, una certa arroganza? Da una parte il candidato sa già dove vuole arrivare: Gerusalemme Centro agli israeliani, e Ger. est ai palestinesi. Però, attenzione, quello è solo lo “status finale” a cui arrivare dopo tanti negoziati. Come a dire: discutete pure, basta che alla fine si arrivi alla conclusione che ho proposto io. In pratica si chiede ad Abu Mazen (e solo a lui: se Hamas vince di nuovo le elezioni, ciccia) di star seduto, stringer la mano al premier israeliano di turno e sorridere per altri 2-3 anni, per arrivare a un risultato che magari i consulenti di Obama hanno già messo nero su bianco in un dossier.

D’altro canto è abbastanza ingenuo leggere una dichiarazione così dal punto di vista dei palestinesi. In questo momento piacere ad Abu Mazen è l’ultimo problema di Obama. Il dieci per cento dell’elettorato americano dà l’impressione di credere alle storie che lo dipingono come un musulmano travestito da cristiano. In una situazione del genere un viaggio in Israele gli serve soprattutto per mettere una solida pietra sui pettegolezzi, per farsi inquadrare con la quippah in testa, per rassicurare gli israeliani, e soprattutto gli americani che a Israele ci tengono. Che poi ci possa scappare una cauta apertura ad Abu Mazen, è quasi miracoloso. Insomma, la dichiarazione di Obama vuol dir poco, ma poco è meglio di niente.

Forse, più che la dichiarazione, il problema è l’articolo che ci sta intorno; e ancora più dell’articolo, il titolo che ci sta sopra. Quando si critica il messianismo di Obama, si intendono casi come questi: non c’è un politico al mondo che a proposito della Palestina non si sia riempito la bocca della parola “pace”. Ma se lo dice Obama, sembra che “pace” da parola debba diventare al più presto realtà. Obama dice “pace”, e improvvisamente i palestinesi smettono di avere motivi per farsi esplodere o dirottare i bulldozer. Conta poco o niente che la “pace” proposta da Obama risulti alla maggior parte degli abitanti dei Territori un ultimatum inaccettabile; l’importante è accreditare Obama come uomo nuovo in possesso di soluzioni. Anche se a ben vedere sono soluzioni che rischiano di sorpassare a destra quelle di Bush. Ma Bush è il passato: Obama è il nuovo, e ciò che è nuovo è buono.

antisemitismo, Israele-Palestina, medio oriente

Masters of fotti-e-chiagni

L’ospite indecente

Una cosa che farei, se avessi costanza, è istituire il premio chiagni-e-fotti della settimana. Quindici giorni fa il candidato unico era il povero Joseph Ratzinger, ingiustamente emarginato dai professori della Sapienza e costretto a riparare su una diretta domenicale in mondovisione; la settimana scorsa avrebbe vinto a man bassa Totò Cuffaro, anche lui arbitrariamente escluso da una trasmissione, anzi da un processo tv, (conta nulla che fosse stato invitato, e che avesse deciso di non presentarsi, che in quella trasmissione fosse dato ampio spazio a un compagno di partito che lo difendeva a testa alta, e che in Italia ci siano almeno altri 5 canali nazionali a cui Cuffaro può rivolgersi per replicare). Tutta gente a cui viene negato il sacrosanto diritto di esprimersi, insomma. E questa settimana? Beh, anche questa settimana un candidato ce l’avrei. Si tratta tuttavia di un pezzo grosso, un maestro del chiagniefotti, uno che ne ha insegnato l’arte un po’ a tutti, insomma, qualcuno avrà capito che sto parlando proprio di Lui: lo Stato d’Israele. Ma non abbiate paura. Al massimo accendete i rivelatori di antisemitismo, vediamo se bippano e quanto.

Personalmente sono contrario al boicottaggio contro la Fiera del Libro di Torino, che ha invitato lo Stato d’Israele come ospite d’onore. Non per le motivazioni serie espresse qui e là sul Manifesto e la Stampa, che onestamente non mi sono neanche preso la briga di leggere. La distinzione, cara a Bertinotti e al suo Partito, tra Stato d’Israele e governo d’Israele, la capisco benissimo… ma purtroppo mi sono antipatici entrambi; non ho nulla contro gli scrittori israeliani, invece, molti dei quali sono senz’altro validissimi: io in effetti se fossi stato una Fiera del Libro avrei invitato loro, e non lo Stato che non rappresentano.

In generale, poi, l’idea di invitare uno Stato come ospite di onore mi fa sorridere – cos’è esattamente uno Stato? Come fa ad andare a Torino? Stavo pensando già di scriverci un raccontino buffo, con lo Stato d’Israele che sale sull’aereo, e dopo il decollo abbassa subito lo schienale sulle ginocchia della Giordania, ruba la bottiglietta d’acqua della Palestina, s’impossessa del bagaglio a mano del Libano, ecc. ecc…. poi mi sono reso conto che per essere obiettivo avrei dovuto anche far litigare gli altri passeggeri, con l’America che fa lo steward, la Nato in cabina di comando, e man mano che si allargava la metafora diventava sempre più pesante; non solo non avrei fatto ridere nessuno, ma in compenso sarei finito nell’homepage di qualche forum neonazista, o peggio ancora, da Rolli – alla larga.

Invece, leggendo Lia ho scoperto una cosa a cui i quotidiani non hanno dato molto risalto, mi pare (ma onestamente ho cercato poco), e cioè che fino a qualche mese fa l’ospite d’onore avrebbe dovuto essere l’Egitto. Per carità, l’idea dello Stato d’Egitto ospite d’onore mi fa sorridere quanto lo Stato d’Israele, tanto più che anche l’Egitto le sue belle magagne ce l’ha. Il punto è che dietro queste ospitate c’è tutta una dinamica diplomatica che ignoravo: qualche mese fa era stata l’Italia ad essere ospite d’onore alla fiera del Cairo. Lo scambio di favori era talmente implicito che sul sito della casa editrice istituzionale egiziana si parlava dell’Egitto come del “guest of honour in the Turin Book Fair 2008”. Ora, è vero che solo gli stupidi non cambiano idea, ma un voltafaccia internazionale è una cosa che potendo si dovrebbe evitare. Per noi probabilmente cambia poco, ma per gli egiziani (e per gli arabi in generale) no. Tanto più che il famoso anniversario della nascita d’Israele è una ricorrenza che divide più che unire – e continuerà a dividerci finché non ci sarà una vera pace, bisogna dirlo. Ecco, tirare un bidone allo Stato d’Egitto per fare posto allo Stato d’Israele non mi sembra un atto di pace. Piuttosto un atto di guerriglia… ma no, guerriglia è ancora parola troppo nobile, diciamo piuttosto guerretta, la guerricciola di chi confonde la pace con la pigrizia, e di conseguenza si adatta quasi sempre alla pace del più forte.

Detto questo – e guadagnata un’altra discreta quota di punti antisemitismo – ribadisco la mia posizione contraria al boicottaggio. Non per simpatia per gli scrittori – che mi dovrebbero essere simpatici o antipatici per le loro idee, e non per la scritta che hanno sul passaporto (vale per gli israeliani come per gli statunitensi e gli uruguagi). No, per un motivo più terra-terra: vorrei evitare l’effetto-Ratzinger. Per quel poco che conosco il Signor Israele, so che basterebbe un buu! di troppo per farlo stare davvero a casa. E da lì in poi il piagnisteo degli organi di stampa e tv contro la lobby islamo-fascista-de-sinistra che tresca con Ahmadinejad e impedisce al Sig. Israele di recarsi alle libere Fiere del Libro sarebbe intollerabile. Perché credetemi, il Papa e Cuffaro sono pagliacci al confronto. Nessuno fotte e chiagne come Mr. I. Per quel che mi riguarda, vada a Torino, si prenda il suo stand – e anche quello del Libano, già che c’è, giuro che non interverrò. Ho già guadagnato abbastanza punti antisemitismo per vincere un servizio di posate con il logo della Wehrmacht, cosa posso pretendere in più dalla vita?

democrazia d'esportazione, giornalisti, guerra, Iraq, medio oriente

ci vorrebbe un Nemico

(Avvertenza: questo pezzo contiene molte informazioni imprecise, perché questo è un pezzo sulle informazioni imprecise. Non ci tiene a dire “la verità” su Iraq o Afganistan: tiene solo a far notare quanto poco sappiamo su Iraq o Afganistan).

Adesso tutti, sull’Afganistan, dovranno farsi un’opinione. Facciamo la guerra? Dialoghiamo coi talebani? Ce ne torniamo a casa e facciam finta di nulla? Ecc ecc.
Il problema è che dell’Afganistan nessuno sa niente.

Qui non è questione di informazione superficiale: l’informazione, semplicemente, non c’è. Non ci sono giornalisti, né da una parte né dall’altra. Possiamo avere mille, centomila opinioni, possiamo aggiornare i nostri blog o guardarci un bel programma di approfondimento: il problema è che non c’è nulla da approfondire, perché al mulino manca l’acqua, e l’acqua la portano soltanto i reporter. Nel giorno in cui siamo tutti felici perché Mastrogiacomo è tornato, vale la pena di notare questa cosa: ora laggiù non c’è nemmeno lui, ed è difficile pensare che qualcuno segua le sue tracce per parecchio tempo.

È un discorso che va esteso anche all’Iraq. Ogni giornalista, ogni cooperatore che è tornato felicemente a casa, è un giornalista o un cooperatore in meno sul territorio. Da quattro anni a questa parte le informazioni che abbiamo su questi due Paesi sono diventate sempre più confuse e frammentarie – il problema è che siamo troppo indaffarati, distratti o partisan per accorgercene. Del resto diamo per scontato di vivere in una piccola sfera dove le informazioni sono ovunque immediatamente accessibili. Sbagliato: Iraq e Afganistan sono due buchi nel medioevo. Non passano più notizie. Nemmeno ai tempi del Vietnam era successo qualcosa del genere: due grandi nazioni scomparse dalla rete mondiale dell’informazione.

Pensate a questa semplice evidenza: non sappiamo contro chi stiamo combattendo. Per dire, gli americani in Vietnam lo sapevano. I russi in Afganistan lo sapevano. Oggi non lo sappiamo. Perché non vogliono dircelo? Oppure non lo sanno proprio?

Proviamo a ragionare da agit-prop: dobbiamo convincere il crasso Occidente a picchiare duro in Iraq e in Afganistan. Ci serve per prima cosa un Nemico. Osama Bin Laden andava benissimo, salvo che da qualche anno in qua comincia un po’ a puzzare, il cinquantenne ex-dializzato nascosto in una caverna. Continuare a insistere sul fatto che sia vivo, a 2-3 anni dall’ultimo filmato, è quasi un boomerang. E infatti sulla carta stampata si comincia timidamente a darlo per morto. Ma se muore, bisognerà trovare un altro Nemico, ugualmente cattivo ed emblematico, e non è semplice.

Qualche anno fa ci fu l’ondata dei Numeri Due. Il Numero Due era un modo abbastanza elegante per scalare dal concetto di “Bin Laden è il Male” a quello di “Il Capo di Al Quaeda in carica è il male”. Io ho onestamente perso il conto di quanti Numeri Due di Al Quaeda gli americani abbiano catturato e processato. Verso il 2004 la carica di Numero Due si è cristallizzata su Al Zarqawi, un tale che ai tempi non lavorava nemmeno nella stessa organizzazione di Bin Laden, ma era comunque il personaggio più sporco e cattivo in circolazione. Tagliava le teste occidentali, metteva gli snuff in rete, aveva ormai le dimensioni del mito.

Intorno ad Al Zarqawi si è detto di tutto. Proprio come Bin Laden, che fino a un certo punto si dava per dializzato, e poi miracolosamente è guarito, anche Al Zarkawi all’inizio sembrava uscisse e rientrasse dall’Iraq con una gamba finta (generoso regalo di Saddam Hussein) – finché a un certo punto non gli è ricresciuta. Viene in mente il personaggio di Gambadilegno: lo sapete perché si chiamava così? Nelle prime strisce americane aveva una gamba di legno, ma i disegnatori perdevano troppo tempo a disegnarla, e soprattutto non si erano mai messi d’accordo su quale gamba fosse. Finché Walt Disney o chi per lui decise di montargli un “modello nuovissimo” di gamba in tutto e per tutto uguale a quella vera: problema risolto. I Nemici degli americani hanno un po’ la consistenza dei cattivi da fumetti, o delle action figures smontabili.

A dicembre del 2004 Al Zarqawi a furia di decapitare occidentali si era fatto una fama talmente cattiva che Bin Laden in persona è resuscitato da qualche grotta di Tora Bora per nominarlo suo luogotenente in Iraq. Bene. Anzi no, perché a differenza di Bin Laden, Al aveva un difetto: era vivo e operante in Iraq. E se sei vivo e operante, prima o poi qualcuno ti cattura (lo stesso Zarqawi pare non fosse molto popolare nemmeno tra gli iracheni, che del resto ha massacrato a centinaia). E quando ti cattura, poi tocca inventarsi un nuovo Numero Due. Ma a questo punto i lettori occidentali cominciano a spazientirsi: sono abituati a trame di telefilm più verosimili (maledetto intrattenimento di qualità).

Dalla cattura in poi di Al Zarqawi non s’è più capito niente – non che prima si capisse molto. A un certo punto nell’autunno del 2005 Falluja è diventata la roccaforte dei sunniti. C’è stata una battaglia terribile, con armi al fosforo, Falluja è stata espugnata, e poi? E poi evidentemente non era la roccaforte, visto che la guerra coi sunniti è proseguita. O no? Giuro, ho provato a informarmi, ma non ci si capisce nulla. I giornalisti a Bagdad e Kabul e tirano i pastoni con quel che possono. Un’espressione ricorrente, nell’identificare il Nemico, è “un mosaico di formazioni”. Quando non è un mosaico è una mescolanza o un caleidoscopio o un ammasso o una pletora o qualunque cosa. Mai un nome. Mai un progetto politico o nazionale. Mai la faccia di un vero Nemico.

Ci servirebbe. Abbiamo bisogno di una faccia. E abbiamo bisogno di sapere se è una faccia nemica o no. Prendiamo quegli altri simpaticoni degli sciiti. Sono nostri alleati o no? Non si sa. Quante volte s’è visto il faccione di Muqtada-al-Sadr. È un nemico? O un amico? L’impressione è che l’ufficio propaganda se lo tenga come jolly, a seconda del momento. Ci sono fasi filo-sciite e fasi in cui gli sciiti ci stressano, evidentemente, e a seconda del momento il gattone sciita diventa un nemico o un alleato di riguardo.

Gli effetti sono paradossali: in gennaio in Occidente abbiamo assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un tribunale legittimo, giusto? Ma in Medio Oriente hanno assistito all’esecuzione di Saddam Hussein per mano di un boia sciita, e circola voce che l’abbiano appeso davanti a Muqtada-al-Sadr. Ognuno ha la sua verità. Persino Camillo, che tra tanti difetti non aveva l’incoerenza, a fine anno si è messo a parlar bene dell’ayatollah Al Sistani. Per carità, ognuno dosi come vuole le sue idealità col realismo: ma partire dall’esportazione della democrazia per arrivare, in capo a tre anni, agli ayatollah, mi sembra abbastanza triste.

Quanto a me: io qualche anno fa avevo una certa idea, su Iraq e Afganistan. Da lì in poi non l’ho cambiata; non per coerenza, ma perché non ci ho più capito nulla. Se mi dimostrassero con dati alla mano che a questo punto è meglio restare là, sarei disponibile a cambiare idea. Penso che le idee abbiano una loro durata, come la biancheria; ogni tanto cambiarle è doveroso.

Il problema è che le informazioni, semplicemente, non arrivano: nessuno si attenta più ad andarle a prendere. Onore a Mastrogiacomo. Tutto il poco che sarà riuscito a portare indietro da questa esperienza, è oro puro per noi.

Il resto è fuffa, teatrino delle ideologie. “Stiamo combattendo contro i talebani”. “Dobbiamo dialogare coi talebani”. Entrambe sono opinioni rispettabili, il problema è che non hanno senso. La parola “talebano” non ha senso. I talebani del 2000 erano diversi da quelli del 2007. Quelli, per dire, pare avessero vietato la coltivazione del papavero da oppio per motivi religiosi – con conseguente crisi mondiale dell’offerta di eroina. Questi invece con l’oppio ci comprano le armi. Ne producono talmente tanto che la quotazione dell’eroina è ai minimi storici. Tra un po’ ai nostri ragazzi cominceranno a offrire schizzi gratis che nemmeno nel ’78. Un buon motivo per restare laggiù? O per andarsene? E chi lo sa? Non ne sappiamo nulla.

Verrebbe voglia di dire “Sì, restiamo”, giusto per ricordarci che l’Afganistan esiste. Bisognava che sequestrassero Mastrogiacomo perché in tv e sulla carta stampata tornassero notizie di attentati, stragi, combattimenti. Se ce ne andiamo, c’è il rischio oggettivo di dimenticarcene. Ma è solo un’opinione come un’altra. Ci scambiamo opinioni, in mancanza di informazioni.

Bush, camillo, democrazia d'esportazione, fioretti dell'anno nuovo, Iraq, medio oriente, Yale

fioretti per l’anno nuovo, 1

Un sano colpo alla botte

Numero uno, non si sfottono più i Neoconi. Basta. Finito.
Aveva un senso nel Duemilaetré. Continuava a essere divertente nel Duemilaequattro. Nel Cinque era trito, ma funzionava. Ma nel Sette basta, ormai è roba da Vanzina.

Eppure la tentazione c’è, voglio dire, come si fa? Basta un clic, e ti trovi davanti Camillo stizzito perché si sono permessi di mettere in dubbio l’intelligenza di George W, uno che si è laureato in STORIA a Yale. Scritto proprio così, tutto maiuscolo, perché si capisca che è Yale, mica un corso di ricamo. No, dico, provatevi voi a laurearvi in STORIA a Yale. E “con voti migliori di John Kerry” (John chi?)

Sì, sì, certo, ma è facile adesso. Ben altra cosa quattro anni fa. A quel tempo tutto sommato i neoconi erano il massimo. Viaggiavano col vento il poppa, avevano l’aria di chi risistema la Storia con una giocata. Era un bluff, ma è così facile, visto dal fosso del senno del poi. In realtà uno come Camillo è da apprezzare per la coerenza. È lì sulla linea da sei anni, e non si muove di un centimetro. Vi ricordate quando lanciò l’islamofascismo? Beh, lui è ancora lì: Con gli islamofascisti non si discute! Averne, di uomini come lui.

Io dico che con l’anno nuovo bisogna iniziare a preoccuparsi di una razza diversa. È tempo di dare un sano colpo alla botte.
Perché a furia di dire che gli americani hanno sbagliato tutto, qui si perde il lume. Tutti questi festeggiamenti per la tremillesima bara a stelle e strisce sono repellenti. Tutta questa intelligenza col nemico – ehi, guardate che è pur sempre un nemico. Un fanatico. Il migliore c’ha la rogna.

Prendete al Sistani. Ce l’abbiamo col Papa perché non vuole i Pacs; provate a chiederli ad al Sistani, che proibisce di parlare alle donne non sposate. No, giusto per mantenere le proporzioni. Perché tra un po’ rischiamo di farne un santino, di questo al Sistani. C’è persino un giornalista italiano che lo ha già nominato Uomo del 2007 – al Sistani, non so se ci siamo spiegati.
Che giornalista? Mah, uno di quelli dal dialogo facile con l’islam… uno senza permalink, maledizione. Aspettate, eccolo qui.

Islam, medio oriente, vignette sataniche

– al mondo ci sono persone

Al mondo ci sono persone che per queste stronzate muoiono

Pensavo di non avere più niente da aggiungere, poi mi è venuta in mente una cosa:

che tra qualche mese, quando si placherà anche l’ondata di assalti alle ambasciate (come si placano bene o male tutte le ondate, i roghi d’auto in Francia e i sassi in autostrada), qualcuno farà i conti delle vittime e scoprirà che al novanta, forse al novantanove per cento sono musulmani. Islamici. Forse integralisti. Forse solo incazzati. Comunque morti, il che per me chiude il problema.

Noi occidentali abbiamo la tendenza a vederci come parte lesa, in questa storia (e non solo in questa storia). Ma se fossimo davvero così occidentali, se volessimo occidentalmente giudicare la questione in termini di torti fatti e subiti, ci accorgeremmo in un istante che non è così. Certo, abbiamo anche noi avuto delle perdite. Tutte quelle ambasciate, quei consolati, immobili di pregio, spesso in lotti centrali – lo dico senza ironia, è un danno economico grave. Senza parlare di ciò che per molti è ancor più importante, vale a dire l’affronto alla nostra fondamentale libertà di raffigurare nelle vignette tutte le facce che vogliamo, anche quelle dei profeti altrui.

Dall’altra parte, però, sono morti decine (centinaia?) di persone. Islamiche. Ma adesso che sono morte, sono solo persone. Certo, so benissimo che il determinismo è molto più complesso. Non è che un libico muoia perché Calderoli indossa una maglietta – no, per l’amor di Dio. Perché il libico muoia sono necessarie tante variabili indipendenti da Calderoli. Un popolo povero in un Paese ricco. Un’ex colonia, una dittatura militare che si destreggia alla benemeglio coi grandi della terra senza neanche affettare un po’ di democrazia (per i precedenti terroristici è bastata pagare la supermulta). Insomma, miseria, isolamento, risveglio del fondamentalismo islamico, ecc. ecc. Questi sono i veri problemi, altro che Calderoli.

E tuttavia, per quanto indipendente, la variabile Calderoli c’è. E funziona. Calderoli indossa, e un libico muore. D’accordo, non è colpa sua: ma un libico è morto. D’accordo, ha il diritto d’indossare tutte le magliette che vuole, ma un altro libico è morto (e certo, hanno anche bruciato l’ambasciata, è seccante).
Un giornale pubblica vignette: ne ha la facoltà, ma moriranno delle persone. È un ricatto umanitario? È un ricatto umanitario. Io, se fossi il direttore responsabile (nel vero senso della parola: direttore responsabile), cercherei di non scatenare la mia variabile indipendente, e poi alle variabili degli altri ci penseranno gli altri. Non posso convertire l’Islam alla tolleranza in 24 ore (o in 4 anni di guerra al terrore). Del resto, non riesco neanche a cambiare la testa a chi vota Calderoli. Ma se posso fare qualcosa per evitare che muoiano persone, io lo faccio. Mi gioco la mia libertà d’espressione? Forse sì. Però ho fatto quel che potevo per evitare che morissero persone.

Citano tutti Voltaire, ultimamente. Simpatico, ma non è il mio francese preferito. Da ragazzino ne lessi un altro che mi colpì molto, per una frase che suonava più o meno così: può darsi che nell’assurdo in cui viviamo, l’uomo non possa fare altro che cercare di ridurre aritmeticamente il dolore del mondo. Non vi sto a dire chi è, perché è probabilissimo che abbia sbagliato autore e citazione, e poi tutto sommato non importa. Quel che importa è che io ci credo. Per cui ritiro tutti i pipponi sulla cultura del rispetto che vi ho propinato fino a oggi. Il mio è semplicemente un problema di coscienza. Non sopporterei che persone morissero anche per causa mia. Anche se sono fanatici, fondamentalisti, brutti, sporchi e cattivi, e bruciano le ambasciate. Tutto questo ha un’importanza molto relativa per me perché, l’istante dopo essere morti, sono soltanto uomini.

circenses, generazione di fenomeni, Islam, medio oriente, vignette sataniche

– generazione di fenomeni, 2

(Prossimamente, penso che scriverò roba più leggera).

Ma sul serio: se io sono veramente ateo, se credo che Dio sia una semplice impostura, come posso sopportare che miliardi di persone intorno a me vivano in questa impostura? Come posso ‘tollerare’ una menzogna così diffusa e capillare? No, non posso. Devo gridare ai quattro venti che Dio non c’è. Ma allora la mia condizione non è molto diversa da quella di chi crede che un Dio ci sia, uno o trino, o senza volto, o con la proboscide, e che parimenti non può tollerare di avere la verità rivelata in esclusiva: deve gridarla ai quattro venti. Davvero dovrei stare zitto e “tollerare” che gli impostori e gli ingenui intorno a me urlino qualcosa che ritengo sbagliata?

Le risposte che accludo valgono solo per me – tra l’altro, adesso che mi viene in mente, io non sono ateo. Ma cambia poco.

Perché non posso non rispettare le religioni degli altri (anche se sotto-sotto mi sembrano coglionate)

1) Perché non convincerò mai nessuno ostentando la superiorità delle mie ragioni e umiliando le sue – come ben sa chi ha un blog. È mai servito a qualcosa scrivere che Berlusconi è un pagliaccio, e chi lo vota è un fesso? Allo stesso modo, l’approccio “Dio non esiste, smetti di crederci, coglione” non funziona. Dio, come Berlusconi, si sconfigge seminando pazientemente dubbi in chi ci crede. Ma per seminare occorre tempo e serenità. Occorre ostentare rispetto per l’avversario mentre si avvelenano i suoi pozzi. Occorre essere semplici come colombe e astuti come serpi (buona, questa. Dove l’ho già sentita?)

2) Perché non posso convertire tutti. Semplicemente. Il mondo non può permettersi sei miliardi di atei. Se l’ateismo è quello che intendo – un ateismo rigoroso, razionale, scientifico – dobbiamo ammettere che esso è destinato a rimanere ancora a lungo un lusso. Un appannaggio delle élites. Mi rendo conto di dire una cosa antipatica.
Per Marx la religione era il noto oppio dei popoli. Ma i popoli erano destinati a liberarsi e a impadronirsi dei mezzi di produzione: una prospettiva di fronte alla quale l’oppiomania appariva come un palliativo inutile e dannoso. Perché perder tempo in paradisi artificiali quando il Sol dell’Avvenire sta apparendo all’orizzonte? Non c’è bisogno di spiegare che la nostra prospettiva è molto diversa.

Noi sappiamo che la Storia non ci sta preparando nessuna rapida palingenesi. Sappiamo che la scienza, la medicina e l’economia, con tutti i loro progressi, non riescono a impedire che miliardi di persone vivano male: al punto che c’è forse più sofferenza umana sulla terra oggi di quanta ce ne sia mai stata in passato.
Sappiamo che di fronte al dolore la scienza è troppo spesso impotente. Viviamo in un’epoca di diagnosi rigorose e cure imperfette. La nostra scienza funziona benissimo quando deve spiegarci di che malattia stiamo soffrendo, o perché il nostro Paese è in recessione. Funziona assai peggio come erogatrice di speranze. A tutt’oggi non ci sono ricette per gran parte dei mali che ci affliggono, fisici e morali. Forse vale la pena di guardare all’oppio con un occhio diverso.

Le grandi religioni, quelle che azzerano il calendario, si sono sempre affermate in periodi di crisi simili a questo. Prendiamo il cristianesimo: se ha avuto lo straordinario successo che sappiamo, è perché ha individuato un “mercato” che nessun prodotto era più in grado di soddisfare. Il mercato della sofferenza e della disperazione – e quando dico “mercato”, non parlo per metafore. Dal III secolo in poi, le comunità cristiane hanno portato alla luce un soggetto economico che prima non esisteva: il bisognoso. In un mondo che ignorava (oltre che la luce elettrica e la penicillina) qualsiasi forma di Welfare State, i cristiani iniziarono a raccogliere fondi con lo scopo di destinarli a vedove, orfani, perseguitati, poveri. In seno allo Stato militare (che tassava i cittadini ormai quasi esclusivamente per mantenere burocrazia ed esercito), nasceva un’idea di Stato assistenziale. Non è curioso che la fratellanza musulmana (che in Palestina si chiama Hamas) sia nata e cresciuta nei Paesi arabi nella stessa maniera? La fratellanza sostituisce (male) l’assistenza sociale in Paesi in cui i poveri sono abbandonati a loro stessi. Tutto questo è giusto? No. Ma tutto questo può essere cambiato rapidamente?

Se io sono ateo, forse è perché me lo posso permettere. Ho un buon lavoro, che dà un senso a parte della mia vita; e una famiglia abbastanza confortevole. Se soffro di qualcosa, posso acquistare le medicine che mi servono. Posso anche investire parte della mia vita e dei miei guadagni in divertimenti. Insomma, non ho così bisogno di Dio. Così sono ateo. Perché sono più intelligente di altri? O perché sono un privilegiato?
E a chi non è altrettanto fortunato – o intelligente – cos’ho da proporre? Posso garantire un lavoro a tutti i poveri della terra? Una famiglia confortevole? Medicine a prezzi equi? Divertimento occidentale? No, non posso. Se sto bloccando le frontiere, è evidente che non ci sono abbastanza risorse per tutti. Ma allora, cosa ho da proporre ai poveri della terra, di meglio del caro-vecchio-oppio-dei-popoli?

3) Tutto questo, gli impresari delle religioni lo sanno. Dirigono onorate società che stanno sul mercato da migliaia di anni. Si vede che in qualche modo funzionano. Non meritano rispetto, almeno per questo? Vendono una cosa di cui c’è un gran bisogno: la speranza. Poi magari alla fine si scopre che è un pacco – ma per ora non c’è molto di meglio sul mercato. So che è un discorso antipatico.
So che dovrei proporre un orizzonte diverso, in cui tutti ci ribelliamo all’oppio e alle false credenze, e ci diamo da fare per costruire non già un mondo migliore, ma la speranza di un mondo migliore. Purtroppo, se devo essere onesto, non mi sembra di vivere così.
Mi sembra di vivere in un regime di moderata disperazione, che curo con quello che trovo sul mercato occidentale: qualche soddisfazione sul lavoro, una vita domestica abbastanza tranquilla, la mia bella pagina web per la libertà d’espressione… e poi c’è l’intrattenimento. Massicce dosi d’intrattenimento – questo è l’oppio nostro. Persino quell’ateo fiero che è Gianluca Neri, secondo me, sarebbe pronto a immolarsi per il suo decoder. E guai a dirgli che è roba da rincoglioniti – lui risponderà che i fenomeni mediatici vanno studiati, criticati, capiti. Ebbene, con le religioni il discorso è lo stesso. Sono fenomeni mediatici millenari, che tutto meritano fuorché d’essere snobbati: vanno studiati, criticati, capiti. Se non altro, perché hanno funzionato per centinaia di generazioni – i reality show non dureranno altrettanto. Non credo, perlomeno.

Islam, medio oriente, Oriana Fallaci, terrorismo, vignette sataniche

– libertà, quanti crimini in tuo nome

Il Male esiste. Ma anche la Stupidità non scherza.

Il fanatismo islamico esiste. E peggiora, di anno in anno. Non credo di dare a nessuno una notizia.
Ma tocca scriverlo lo stesso, perché altrimenti sembra di voler minimizzare il problema. No. È proprio che mi pongo il problema, proprio come se lo pone la Fallaci (anche se lei guadagna di più). Il fanatismo islamico esiste e fa proseliti. Ogni anno. E se intendiamo continuare a pubblicare vignette che mostrano il volto di Maometto, quest’anno magari ne farà parecchi di più. Naturalmente abbiamo il diritto di farlo. Ma a chi conviene esattamente? A noi o ai terroristi?

Com’è fatta la società araba? In cima, ci sarà bene una crosta sottile di laici. In profondità, alcuni nuclei tossici di integralismo religioso. Tutto il resto è un’amalgama di persone più o meno ligie all’Islam e ai suoi Cinque Pilastri.
I nuclei tossici più o meno li conosciamo. Ormai siamo dei veri esperti di integralismo: ci sono i film, i libri, e tutto. Ma l’amalgama, cos’è? L’arabo-massa, chi è? Ne sappiamo poco.
Cerchiamo almeno di raffigurarcelo. Diamogli un nome. Omar (È il più facile da scrivere).
Chi è Omar?
È il mio alter-ego sull’altra sponda del mediterraneo. Cos’ho io che lui non ha? Parecchie cose. Malgrado i soldi a pioggia arrivati (non dappertutto) col petrolio, Omar è più povero di me e non ha una vera rappresentanza politica. Dunque è arrabbiato. Se ha accesso a un satellite, ha la possibilità di vedere che dall’altra parte del mediterraneo c’è un mondo più ricco e democratico. È possibile che sia anche invidioso. Nei fatti, molti coetanei di Omar si sottomettono a esperienze umilianti e costose pur di approdare nei nostri Paesi: segno che l’Occidente è ancora un modello ammirato. Ma se Omar vuole restare? Non possono andare via tutti.
Fino a vent’anni fa, chi restava poteva coltivare la speranza che il Maghreb e il Medio Oriente raggiungessero lo stesso tenore di vita dell’Occidente. Poi quella speranza si è spenta (proprio quando cominciavano ad arrivare i primi canotti da noi). Non è stato un perfido mullah a spegnerla. I perfidi mullah si sono semplicemente inseriti nelle crepe di una disperazione. Quelli che negli anni Sessanta erano i Paesi in via di Sviluppo, sono rimasti bloccati sulla via dello Sviluppo. L’integralismo è ricominciato dalla constatazione – rabbiosa – che i cancelli d’oro del benessere occidentale erano chiusi. Da cui la necessità di ripiegare su un’altra via, un’altra speranza: l’Islam. Proprio mentre la nostra società si secolarizzava definitivamente, quella araba si è irrigidita.
Naturalmente possiamo esecrare questa involuzione. Ma la religione non è il problema: la religione è un sintomo del problema. Nelle nostre società le fedi – tutt’altro che in crisi – sono funzionali a uno scopo preciso: la gestione della sofferenza. Più le cose vanno male, e più esse si ritrovano a raccogliere vittime degli ingranaggi sociali arrugginiti, dando loro uno scopo di vita. Non funziona così soltanto nei Paesi arabi.

L’Islam, nei suoi fondamentali, è una religione semplice e astratta. Esiste un solo Dio, e non è raffigurabile. Perché è, irrimediabilmente, ‘altro’ dall’uomo. Maometto, il fondatore, temeva l’idolatria annidata in figure e statuette. Adorare una figura di Dio non è adorare Dio. Se lascio liberi i miei fedeli di costruirsi delle immagini, come possono essere sicuri che i loro figli non adoreranno soltanto le immagini? Non è una sciocchezza, questa. Pensiamo soltanto al nostro culto dei santi, con le statue che vanno in giro e fanno i miracoli. Pensate al culto della Madonna, che a seconda della statua cambia denominazione e facoltà miracolosa (Madonna del Rosario, del Carmelo, di Lourdes, Immacolata Concezione… proprio come le dee pagane: Venere Victrix, Venere Felix…) Per l’Islam (ma anche per Lutero) quella è tutta paccottiglia da idolatri. Certo, i musulmani non vengono a dircelo in faccia. Che io sappia non pubblicano vignette sulla stupidità dei cattolici idolatri. Magari ne avrebbero il diritto. Ma non lo fanno.

L’idea della non raffigurabilità non è un’invenzione islamica. Già il Dio degli Ebrei non amava essere visto, e nemmeno pronunciato. Persino i cristiani non erano tutti d’accordo sulla libertà di raffigurazione: un secolo dopo Maometto, gli imperatori bizantini (cristiani) ordinarono la distruzione di icone e bassorilievi (cristiani).
Ma in Occidente la raffigurazione ha vinto. Ha vinto perché il Dio dei cristiani è un’entità molto più umana: ha fatto l’uomo a sua immagine, e poi si è incarnato in lui. Tutto questo ha portato non solo ad alcune degenerazioni, ma anche alla nascita di una cultura squisitamente figurativa. Per molti secoli in Italia Cristo ha dovuto esprimersi in figure – visto che i fedeli non sapevano leggere (o forse non imparavano a leggere perché tanto c’erano le figure?) Ci sono stati i misteri medievali, in cui gli attori impersonavano le figure della Bibbia (e spesso il risultato doveva risultare parodico, che lo volessero o no). C’è stata la pittura, che a partire da Giotto ha inserito Cristo e i Santi in cornici sempre più realistiche. C’è chi dice che lo stesso realismo ottocentesco e novecentesco abbia una radice nelle rappresentazioni figurate che dal medioevo in poi sono diventate sempre meno divine e sempre più umane.

Nel frattempo, sotto il mediterraneo, l’Islam produceva una cultura figurativa totalmente diversa. Per i musulmani la mediazione tra Dio e l’uomo non avveniva mediante l’immagine, ma la parola: mentre noi sviluppavamo il realismo figurativo, loro perfezionavano la calligrafia e l’arte astratta. Col tempo, il divieto di raffigurare Dio si è esteso anche al suo profeta, Maometto. Ciò non significa che non esistano, già dai primi secoli, raffigurazioni del profeta con volto e barba (via Griso); ma sono rimaste minoritarie (del resto anche noi avevamo quadri che ritraevano gli apostoli intorno alla Madonna morta: poi un Papa ha dichiarato che la Madonna era immediatamente volata in cielo al trapasso, e quei quadri non li abbiamo fatti più).

Tutta questa digressione perché continuo a sentire e leggere persone che non riescono a capire la pietra dello scandalo: in fondo, dicono, sono solo una dozzina di vignette, né molto cattive, né molto divertenti. Ma il problema non è che alcuni ritratti del profeta potrebbero risultare razzisti e, sì, antisemiti. Non è nemmeno la battuta. Il problema è la raffigurazione. Raffigurare Maometto non è come raffigurare Cristo: da una parte ci sono duemila anni di raffigurazioni, dall’altra mille anni di divieti. È così difficile da capire, la differenza? Possiamo rifiutare di capirla. Ne abbiamo il diritto. Possiamo continuare a pontificare di cose che non sappiamo. Ma ci facciamo una bella figura?

Torniamo a Omar. Abbiamo detto che non è un integralista. È probabile che covi un amore/odio per l’occidente. L’Islam è la sua cultura, e l’Islam proibisce la raffigurazione del volto di un profeta. Può darsi che la sharia contempli divieti molto odiosi; ma questo, francamente, non lo è. È un punto d’onore teologico. Ciò che fa l’Islam una religione diversa dalle altre è l’enfasi sul monoteismo.
Quest’arabo-massa, per quanto possa sembrarci strano, si sente minacciato. Proprio come noi, che dall’11 settembre ci sentiamo assediati dall’Islam. Nel 2001 gli anglo-americani (che dai tempi del Kuwait hanno basi in Arabia Saudita) hanno invaso l’Afganistan; due anni dopo l’Iraq. Ora c’è la crisi in Iran. Per non parlare della questione palestinese, che in molti regimi è usata come valvola di sfogo sociale: si organizzano parate antisioniste per prevenire spontanee manifestazioni antigovernative. Non voglio entrare nell’annoso dibattito su chi abbia iniziato, se noi o loro. Di sicuro non abbiamo iniziato io o Omar. Ma cosa importa? A questo punto anche io e Omar ci sentiamo in guerra. E nessuno di noi è convinto di vincerla. Io vedo attentati in tutto il mondo civilizzato, e Omar vede gli arabi sconfitti sul campo.

Ed ecco che arriva questa brutta storia delle vignette.
Omar non è un integralista. Quindi dovrebbe capirci. Capire che quello che per lui è un grave affronto alla religione, i danesi lo hanno fatto senza malizia, in omaggio al loro dogma (altrettanto religioso) che dice Libertà di Espressione a Ogni Costo. Dovrebbe tollerare le nostre idiosincrasie, Omar; la nostra necessità insopprimibile di dire cacca a Gesù e piscia a Maometto, come se fosse davvero satira, come se fosse almeno divertente.
Certo, se fosse gentile, educato, rispettoso delle culture diverse dalla sua, Omar dovrebbe reagire in questo modo.
Però tutta questa è solo melassa politically correct. Perché mai Omar dovrebbe essere gentile e rispettoso? È più povero di me. È meno educato di me. Non posso chiedergli un ragionamento più complesso di quello che faccio io. E se io sono così sciocco da pensare che la pubblicazione di una dozzina di volti di Maometto sia un momento fondamentale per la tutela della libertà d’espressione in Occidente, perché lui dovrebbe essere più furbo di me? Se io mi metto a dire “Tutto sommato ha ragione la Fallaci”, perché lui non dovrebbe nel frattempo articolare un “Tutto sommato ha ragione Bin Laden”?
Il resto lo fanno i gruppi organizzati. Nel caso della Palestina, è evidente il desiderio di Hamas di mostrare i muscoli. Ma è possibile che in certi casi siano stati arabi qualunque, come Omar, a scendere in strada e riagganciare gli integralisti. Del resto queste sono solo congetture. Come si comportino davvero gli arabi, non lo so (Lia ne sa di più).

Credo però che non possano essere molto più furbi di noi. E noi, in questa banale storia di provocazione antislamica (a quasi vent’anni dalla fatwa a Rushdie: come se certe cose non le sapessimo), siamo stati molto stupidi. Poi, naturalmente, esiste l’integralismo, il fondamentalismo, esiste l’Odio, esiste il Male. Ma per favore, teniamo in debito conto anche la Stupidità.

camillo, democrazia d'esportazione, Israele-Palestina, medio oriente

– help i’m a rock #357

Io, in realtà, non volevo. Ha insistito lui:

la prossima volta che l’orrido sito dice che qui si scrivono “cazzate”, faccia degli esempi. Dove? Come? Quando?

E va bene. Hai scritto una cazzata, Camillo.

Quando?

Ieri, 26 gennaio.

Dove?

Ma sul Foglio, naturalmente, la prestigiosa joint venture tra Veronica Lario e noi umili contribuenti.

Come?

Diciamo che ti sei lasciato un po’ trasportare. Succede agli ideologi, e tu, volente o nolente, quello sei. Quando la realtà ti delude, te ne fai un’altra su misura.
Per esempio, in questo pezzo hai scritto che i palestinesi hanno votato a Gaza. Proprio così. L’ho letto e l’ho riletto, e mi sembra proprio che di Cisgiordania non parli. Se abitassi in cima al mondo, e il mio unico contatto con i miei simili fosse il quotidiano mio e di Veronica (e se fossi uno che si fida di quel che scrivi), dovrei dedurne che l’altro ieri i palestinesi hanno votato solo a Gaza.
Ora, io non sottovaluto affatto l’importanza di Gaza: in quella strisciolina di costa un tempo ridente vive più di un milione di palestinesi. Però la maggioranza sta altrove: in Cisgiordania. E a Gerusalemme est. E hanno votato pure loro. L’hanno detto tutti i telegiornali, e tu li guardi i telegiornali, sì? No? L’avrà detto anche la Gazzetta di Los Angeles e il Corriere di Tulsa, Oklahoma. Insomma, è una notizia di dominio pubblico. Ma tu nel tuo articolo parli solo di Gaza. E io mi sono chiesto il perché. Cos’ha Gaza che, per dire, Hebron non ha? O Gerico ? O Gerusalemme est?
L’unica differenza che mi è venuta in mente è che Gaza è stata sgomberata dai coloni, e il resto dei Territori no. Come se tu volessi istituire un rapporto di causa-effetto tra le due cose – ah, furbetto!

L’ultimo rifugio di quelli che dall’11 settembre 2001 a oggi non-ne-hanno-azzeccata-una è un nostalgico “si stava meglio quando si stava peggio”. I palestinesi votano a Gaza? Un disastro, signora mia. La democrazia per gli arabi? Una pia illusione di quei pasticcioni degli americani. Trattandosi di ex territorio occupato da Israele, i nostalgici che scrivono sui giornali non arrivano a rimpiangere i carri armati con la stella di David. Restano però più che scettici sul futuro democratico dei popoli arabi, quasi fossero “unfit”, incapaci di vivere senza un bel dittatorone coi baffi che li educhi e li bastoni per benino.

Chissà chi saranno poi questi signori “non-ne-azzecco-una”. Di sicuro è gente poco informata. Visto che i palestinesi stanno facendo elezioni democratiche da dieci anni. Dieci, esatto. Le prime elezioni presidenziali e legislative dell’autorità palestinese ebbero luogo il 20 gennaio 1996. È vero che furono boicottate da Hamas, dalla Jihad e da gruppi meno importanti ma storici, come il FPLP e il FDLP. Ma è anche vero che la partecipazione fu massiccia per gli standard medio-orientali: il 73% in Cisgiordania e l’86% nella Striscia di Gaza. Ci furono brogli? No, secondo i 650 osservatori internazionali sotto la responsabilità dell’Unione europea (c’era anche Jimmy Carter). È probabile che Camillo non si fidi di loro.
È probabile che si trovi più d’accordo con Joel Mowbray del National Review, secondo cui Arafat vinse le elezioni presidenziali del 1996 troncando il dibattito interno nella sua coalizione (rifiutò i risultati delle primarie dell’OLP), e occupando massicciamente i media. Ma è davvero il caso di fare così gli schizzinosi? Dobbiamo escludere dal mondo democratico tutti i paesi in cui un leader di coalizione blocca il dibattito interno e occupa massicciamente i media? Meglio di no, per ora, eh? Se ne riparla in aprile.

Badate bene: non è che Camillo contesti le elezioni del 1996; non ne parla proprio. Sembra che non siano mai esistite. Del resto Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente”, no? La Palestina non conta, la Palestina non è neanche uno Stato.
Scorriamo il suo pezzo ancora un poco.

Quando, mannaggia a Bush e a Sharon, si è formata una nuova leadership palestinese, Israele si è ritirata dai territori, si è cominciato a parlare concretamente di Stato palestinese e a Kabul, Baghdad e Gaza si è votato veramente, gli editorialisti accigliati hanno convenuto che nella regione si sarebbero aperti foschi scenari teocratici.

Così giovane, e già così revisionista. La “nuova leadership palestinese” si sarebbe formata grazie a Bush e a Sharon. Camillo probabilmente allude a quella fase farsesca della roadmap in cui Bush decretò che Arafat era corrotto e che quindi doveva nominare un Primo Ministro, e che quel primo ministro doveva essere Abu Mazen. Forse che chiese d’indire le elezioni, Bush? No. Non c’era bisogno di elezioni, era sufficiente che il corrotto Arafat nominasse l’immacolato Abu Mazen. Si esporta così, la democrazia: a colpi di diktat. Funzionò?
Funzionò quattro mesi: isolato da Hamas, Jihad e dallo stesso Arafat, si dimise in ottobre (si era insediato in marzo), accusando Israele e gli USA di non avergli dato quel sostegno che si aspettava almeno da loro. Questo fu il concreto contributo di Sharon e Bush alla creazione della “nuova leadership palestinese” (tra parentesi, Abu Mazen è una degnissima persona, ma di “nuovo” non ha poi molto: è del ’35 ed è stato uno dei padri fondatori di Al Fatah nel ’57).

Però alla fine è chiaro quel che Camillo intende, no? La democrazia in Medio Oriente si può fare, a patto che lo voglia Bush. A patto che lo sottoscriva Sharon. Insomma, purché sia d’esportazione! La democrazia fatta in casa non ci piace. Al punto che se i palestinesi votano, per la terza volta in dieci anni (l’anno scorso ci sono state le presidenziali e le ha vinte proprio Abu Mazen), lui si trova a dover fingere che la vera novità siano le elezioni a Gaza. E perché solo a Gaza? Ma perché è l’unica strisciolina di terra da cui Sharon ha avuto la buona creanza di ritirarsi. Un ritiro unilaterale, senza nessun progetto comprensibile dietro. Ma per Camillo tutto ha un senso: muore Arafat, Sharon si ritira, e i palestinesi possono finalmente votare. Tutto sta andando per il meglio, nel migliore dei mondi eccetera.

Ma ora le forze democratiche mediorientali hanno l’opportunità di avere un impatto reale nel futuro dei loro paesi, un’eventualità che non avrebbero mai avuto se Saddam, Arafat e il mullah Omar fossero rimasti al potere.

In definitiva sì, credo sia il caso di dirlo: stai scrivendo cazzate, Camillo. Io non ho mai nutrito eccessiva simpatia per Arafat; ma infilarlo in un elenco tra Saddam Hussein e il mullah Omar è fare violenza alla complessità delle cose. Non era Arafat a impedire lo sviluppo democratico della Palestina. Era una cosa che si chiama occupazione. Militare. Dei territori occupati. Dura da quarant’anni, ormai, e rende oggettivamente difficile qualsiasi transizione verso la democrazia. Ieri spingeva i palestinesi tra le braccia di un rais corrotto. Oggi li porta ad abbracciare il credo di Hamas. Quella che poteva essere la culla del laicismo arabo è diventata la prima regione del Medio Oriente dove i Fratelli Musulmani vanno al potere con elezioni regolari. Che bel risultato, per Bush.
Secondo solo a quanto avvenuto in Iraq: tre anni di guerra e guerriglia per mandare al potere gli ayatollah. Ora, in franchezza, sei assolutamente sicuro che Bush stia esportando la democrazia, Camillo? Non è che stia piuttosto contribuendo a seminare un bel po’ di fondamentalismo religioso? Una cosa di cui si sentiva il bisogno.

E tu ti congratuli. Si congratula anche Mahmoud Ahmadinejad. Avrete qualcosa in comune.
Sì, ma cosa? Beh, una certa impostazione ideologica, forse. Quando la realtà non vi piace, la cambiate. Certo, è peggio lui che pasticcia con l’uranio. Tu in fondo le spari solo grosse su un giornale. Che però è anche il mio giornale, ricorda (e di Veronica).
Forse dovresti trattarci con più rispetto.

(E a tal proposito: ma i permalink, ci fanno proprio così schifo?)

Israele-Palestina, medio oriente, memoria del 900, pasticcioni dell'umanità, Sharon

– pasticcioni dell’umanità, 2

(Questa serie di post, che annoiano tutti, nascono da uno scrupolo: a un certo punto mi sono chiesto se, oltre a rivendicare il diritto di criticare Israele e la politica di Sharon, io fossi in grado davvero di criticare Israele e la politica di Sharon: citando fatti e date, senza le solite scappatoie da blog di opinione. È una gran fatica, ma ogni tanto qualcuno la deve fare. Perché è vero, un sacco di gente non sa di cosa sta parlando: e allora è tempo che chi qualcosa la sa informi gli altri. Che senso ha continuare a palleggiarsi degli “Sharon boia” e degli “Antisemita!” come se avessimo vent’anni – io non li ho più, vent’anni. E i ventenni ignoranti di adesso mi spaventano.

Questo non significa che dobbiamo smettere di scrivere battute su Sharon, se ce ne vengono in mente. E’ solo che ogni tanto bisogna spiegare ai nuovi di cosa si parla: illustrare il perché quello che ad alcuni sembra un eroe e uomo di pace è ritenuto da altri un boia o un assassino. Tutto qui).

I disastri di Ariel Sharon (seconda parte)

1. La strage di Qibya.
2. Quel che disse Ben Gurion
3. Il passo di Mitla
4. “Immaginate di dover prendere la collina X…”
5. Eroe di guerra.

6. Nasce il Likud
Nel 1974 il nostro uomo compie il passaggio definitivo dalla vita militare a quella politica.
La traiettoria politica di Sharon, apparentemente, la conosciamo tutti: da caparbio promotore degli insediamenti nei Territori (1977-2003) a coraggioso artefice del ritiro dei coloni dagli insediamenti stessi (2003-2006). È una visione piuttosto schematica dell’uomo e della sua psicologia: come se dopo l’irruenza della gioventù, la cocciutaggine dell’età adulta s’intenerisse con la vecchiaia (secondo il vecchio luogo comune: battaglieri a vent’anni, moderati a sessanta…) Le cose per la verità sono più complicate. Per esempio, il primo incarico politico Sharon lo ottiene in un governo laburista: consigliere speciale di sicurezza nel primo gabinetto Rabin (1974-1977). Pochi sanno (e nemmeno io sapevo) che in un primo tempo “Sharon meditava di formare un partito con i pacifisti…

parlò dello Stato di Palestina, e prima che a destra nessuno avesse nemmeno il coraggio di pronunciare quella parola, lui era pronto a stringere un accordo. Quello che voglio dire è che sapeva come muoversi in tutte le direzioni almeno dal punto di vista retorico.”

La testimonianza dello storico israeliano Avishai Margalit ci restituisce l’immagine di un politico più smaliziato e disinvolto. Resta da capire cosa porti in pochi anni Sharon dalle avances nei confronti dei pacifisti alla fondazione del Likud (1973), il blocco di centro-destra capeggiato da Menahem Begin che considera i Territori Occupati nel 1967 “Terra di Israele liberata”. Forse l’ostinazione opposta e speculare dell’OLP di Arafat, che continuava la sua guerriglia dal Libano, rifiutando ogni progetto di spartizione tra il fiume Giordano e il mare (non già perché voleva cacciare gli israeliani, come qualcuno oggi pensa e dice, ma perché il programma di Al Fatah prevedeva la creazione di uno Stato unico, multietnico e non confessionale, in cui arabi ed ebrei avrebbero dovuto vivere con pari diritti e dignità: lo so, a dirlo oggi sembra fantascienza). Potrebbe anche trattarsi di una questione di opportunità: alla prova dei fatti Sharon sperimenta che il pacifismo in politica non paga, e si butta a destra. Quando il Likud va al potere, Begin lo nomina Ministro dell’Agricoltura. È un dicastero fondamentale, perché ha la delega sugli insediamenti.

7. La guerra della terra e dell’acqua
Gli “insediamenti” sono villaggi creati dagli israeliani (e in alcuni casi diventate vere città) nei territori occupati dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967): Gaza e la Cisgiordania. Fino al 1977 erano sorte per lo più in zone scarsamente popolate ma strategicamente rilevanti. La ‘colonizzazione’ vera e propria dei Territori inizia con l’avvento del Likud al potere. L’obiettivo è rendere i milioni di palestinesi, residenti e profughi a Gaza e in Cisgiordania, una minoranza, circondata da una rete di città e strade israeliane. Come avverte, a chiare lettere, il presidente della commissione per l’insediamento dell’Organizzazione sionista mondiale, Matityahu Drobless: “diviene necessario effettuare una corsa contro il tempo.

[…] le terre demaniali e le terre incolte di Giudea e Samaria devono essere immediatamente confiscate al fine di colonizzare le zone entro e attorno i centri di residenza delle minoranze per ridurre al minimo il pericolo di un nuovo Stato arabo su questi territori. Non deve esserci il minimo dubbio sulla nostra intenzione di tenerci per sempre la Giudea e la Samaria” (citato da Baron, I palestinesi (2000), pag. 369).

“Giudea e Samaria” è il nome biblico per la Cisgiordania. I progetti di colonizzazione avanzati da Drobless riprendono le idee avanzate da Sharon e costituiscono il proseguimento della guerra (della sua guerra) con altri mezzi. Il principio fondamentale è lo stesso: non c’è miglior difesa dell’attacco, non c’è migliore strategia di quella che consiste nel mettere il nemico di fronte a un fatto compiuto. Così, mentre Begin temporeggia e tratta la pace separata con l’Egitto, Sharon permette ai coloni d’impadronirsi della risorsa fondamentale: l’acqua. Dal 1967 le autorità militari hanno proibito ai palestinesi dei Territori di creare, possedere o fare funzionare una installazione idraulica esistente senza l’autorizzazione del comandante della regione. In compenso i coloni dei Territori hanno il permesso di trivellare i pozzi nei loro insediamenti. Del resto nel 1980 Sharon ammette che due terzi dell’acqua nelle tubature israeliane proviene dalle alture del Golan e della Cisgiordania. Nel 1982 il governo ‘nazionalizza’ l’acqua palestinese, affidandola alla compagnia idrica israeliana.
Quello che rende disastrosa questa strategia di accerchiamento è che paradossalmente ha funzionato, rendendo nei fatti impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato, almeno in Cisgiordania, di una contiguità territoriale. Come ben sa chi ha guardato una cartina del futuro Stato palestinese secondo Camp David, Oslo, o la Road Map. Ma se i palestinesi hanno perso terre e acqua, gli israeliani non hanno vinto la battaglia demografica: in pratica Israele si è dissanguata (nel 1982 l’insediamento di una famiglia di coloni costava a Israele e all’Organizzazione sionista mondiale 120.000 $) per creare colonie di ostaggi, nelle quali la sindrome di accerchiamento ha favorito lo sviluppo di una società alternativa, spesso ispirata all’ebraismo più ortodosso: refrattaria a qualsiasi idea di pace coi palestinesi, pronta ad accusare i fratelli israeliani di tradimento, come si è visto quest’estate. Un bel disastro. E chi lo ha combinato? Dovendo fare un solo nome, io direi… ma è solo una mia opinione, andiamo avanti.

8. Gli attentati del 2 giugno 1980
Fino al 1977 Israele aveva combattuto molte guerre: alcune contro eserciti regolari, altre asimmetriche e ‘sporche’, contro nemici non riconosciuti, fedayn e terroristi (del resto il terrorismo era stato praticato anche da fazioni israeliane, come l’Irgun di Begin).
Con la colonizzazione dei Territori, la guerra diventa demografica. Può sembrare un progresso: non si tratta più di respingere un nemico, ma di circondarlo; non di sopprimerlo, ma di essere più prolifico di lui. In realtà è probabilmente il più grande disastro commesso da Sharon: l’aver posto le premesse per la nascita di una generazione di israeliani nelle colonie, cresciuti nel culto della terra degli antenati e, inevitabilmente, nell’odio per “gli usurpatori” palestinesi. I coloni sono, naturalmente, ‘costretti’ a difendersi da soli: nella pratica formano una milizia paramilitare permanente (in compenso sono spesso esentati dal servizio militare, il che li allontana ancora di più dall’esperienza di vita dei loro connazionali). Con la colonizzazione dei territori il conflitto israelo-palestinese diventa definitivamente una guerra civile: non più un Esercito regolare contro un Fronte di liberazione, ma coloni coi fucili e i palestinesi con le pietre (all’inizio; e con le bombe, in seguito). Una metastasi sociale che complicherà le cose sia all’Esercito israeliano che all’OLP. Forse Sharon non aveva previsto tutto questo.
In ogni caso si tratta di un processo che egli ha contribuito più di altri ad avviare. Nel 1980, durante un duro confronto tra le autorità israeliane e i sindaci palestinesi (accusati di essere “direttamente responsabili della sovversione in Cisgiordania”), Sharon parla di non meglio precisati “mezzi non convenzionali” da adoperare per normalizzare i Territori. Il 2 giugno il sindaco di Nablus (da poco scarcerato) perde due gambe in un’esplosione, dopo aver messo in moto la sua auto. Pressappoco alla stessa ora anche il sindaco di Ramallah ha un incidente analogo (perde una gamba). Il sindaco di el-Bireh, informato, dà un’occhiata alla sua auto nel garage e vi trova una terza carica esplosiva. Per il quotidiano israeliano Haaretz “è praticamente sicuro che si tratti di opera di ebrei” (Baron, op. cit., pag. 377). Nel 1982 quattro importanti esponenti della colonia di Kyriat Arba vengono arrestati per detenzione di esplosivi: due di loro sono processati in Israele per aver occultato documenti utili sull’inchiesta relativa agli attentati del 2 giugno. Nessuno, naturalmente, si permette di attribuire una qualche responsabilità morale a Sharon. Che nel frattempo è già lontano, a Beirut, alle prese con nuovi disastri… (Continua)

2025, blog, dietrology, medio oriente, Pasolini

– 2025

Nome in codice: Agente CoPro.
Operazione Stay Besides!

Riassunto dell’ultima puntata: da qualche parte, in un posto che rassomiglia curiosamente al Paradiso a Pedali, Bar Taddei (per gli amici Teddi, il Neocone) è a rapporto. O credevate che gestisse il suo blog filoamericano a gratis, come quello di un fesso di neocone qualunque? Macché, Teddi è un evoluzione del neoconismo, è il neocone che sa associare passione e concretezza, ideali e $: Teddi è agente della Cia, cioè, non proprio un agente, perché mica ti assumono per scrivere stronzate su un blog: solo un Collaboratore a Progetto (Nome in codice CoPro). Verso la fine del 2005 iniziò a farsi pagare dall’Agenzia un cent ad accesso. Era l’inizio di una non entusiasmante carriera. E ora, vent’anni dopo, è finalmente giunto il momento di vendicarsi del suo diabolico nemico, ovvero…

“Eppure qualcosa non mi torna, Bar. Voglio dire, dovevamo essere davvero disperati per pagare gente come te, vent’anni fa. Eravamo così disperati?”
“Abbastanza, Signore. Vi eravate infilati in una guerra al Terrore virtualmente infinita, e stavate perdendo il sostegno di tutti i governi europei. La cosiddetta coalizione della Buona Volontà stava abbandonando l’Iraq alla chetichella. Avevate bisogno di riconquistare le opinioni pubbliche della Terra di Mezzo…”
“Finanziando siti amatoriali?”
“Signore, era un’idea all’avanguardia! Erano i tempi del viral marketing, del nanopublishing…”
“Parla la mia lingua, agente Bar”.
“Questa è la sua lingua, Signore!”
“Allora dev’essere successo qualcosa alla mia lingua, perché io sono nato nel 2001 e non le ho mai sentite con le mie americanissime orecchie*, queste stronzate”.
“Davvero è nato nel 2001, Signore?”
“Sì, perché?”
“Complimenti, Signore”.
“Chi ti capisce è bravo, Bar. E io non sono bravo. Ma scusa, non potevamo finanziare qualche opinion-leader serio?”
“Signore, nessun opinion-leader di qualche peso si sarebbe messo a difendere l’uso del fosforo a Falluja o cose così”.
“Ma non ne avevamo già a libro paga?”
“Alcuni sì. Giuliano Ferrara, ad esempio”.
“Giuliano chi?”
“Con tutto rispetto, signore, un ex comunista che vi rifilò un paio di sòle. Organizzava fiaccolate bianco-azzurre a Roma, e cercava di dimostrarvi che l’Italia stava diventando filoisraeliana grazie a lui”.
“E non stava diventando filoisraeliana”.
“No, signore, non abbastanza almeno”.
“Va bene, e così abbiamo iniziato a finanziare la gente come te. Ho qui il tuo dossier… ci sei stato utile in varie occasioni, Bar, questo è indubbio. Per esempio, ehm… l’operazione Stay Besides
“Un’idea geniale, Signore”.
“Già, già. Beh… in realtà il dossier in vent’anni s’è un po’ deteriorato… facciamo così: spiegami con parole tue cos’era questa operazione Stay Besides”.
“Semplice, signore. Avevamo deciso – pardon, avevate – di riscrivere la Storia d’Italia dal dopoguerra sotto una luce diversa. Per cinquant’anni ce l’eravamo raccontata come se si trattasse di pacificare un Paese del Patto Atlantico sulla soglia della Cortina di Ferro: Comunisti e anticomunisti, anni di piombo, caduta del muro, fine delle ideologie, ecc.. Questo modello non vi soddisfaceva più”.
“Naturalmente”.
“Vi serviva un nuovo modello, che proiettasse le ombre della Guerra al Terrore sul passato dell’Italia. Occorreva dimostrare che molto prima di Al-Quaeda, molto prima dell’11/9, l’Italia era già stata colpita dal terrorismo islamico”.
“E come… potevamo fare?”
“Non era così difficile, Signore. Bastava trovare piste islamiche per tutte le stragi impunite degli ultimi 40 anni”.
“Ah, perché in Italia c’erano state stragi impunite?”
“Parecchie, Signore. E tanti altri casi misteriosi. Per esempio, nel 1980 era esplosa una bomba a Bologna, una città governata dal Partito Comunista: 80 morti. Il processo andò avanti per vent’anni, e alla fine condannarono un paio di fascisti. Ma restavano molti misteri. E a questo punto arrivammo noi, con l’Operazione Stay Besides”.
“E cioè?”
“Qualche suo collega andò a spulciare in un cartone di un vecchio Servizio Segreto Italiano – lì si trova qualsiasi cosa, a cercarla. Si scoprì infatti che c’erano indipendentisti palestinesi a Bologna quel giorno”.
“Ma Bologna è una città molto grande, no?”
“Sissignore. In ogni caso venne confezionato un articolo sulla «pista islamica». Fu pubblicato sul peggior Giornale italiano e lì sarebbe rimasto, Signore, se noi blogger filo-Bush non gli avessimo dato una spinta“.
“E qualcuno se l’è bevuta?”
“Signore, era solo l’inizio. Nei mesi seguenti dimostrammo che l’ordine di assassinare Aldo Moro era partito dal noto nazista Arafat”.
“Aldo Moro?”
“Che l’assassinio di Pier Paolo Pasolini era la naturale conseguenza di una fatwa proclamata da un oscuro Ulema di che aveva avuto una sincope assistendo a una proiezione del Fiore delle Mille e Una Notte in un cinema per adulti di Alessandria d’Egitto”.
“Pier Paolo Pasolini?”
“Che la strage del Cermis era stata provocata da un kamikaze siriano che si era rotolato nella neve causando una valanga che aveva trascinato con sé i tiranti della funivia, malgrado l’eroico sforzo dei piloti USA di salvare i passeggeri…”
“Stop. Stop. Io non so chi sia questa gente, Taddei. Non ne ho sentito parlare. Per me potrebbero essere tutte frottole (**)”
“Certamente, signore”.
“Perché non erano frottole, vero?”
“Non lo so, signore. Io linkavo, copiavo, incollavo”.
“Ma eri sicuro delle notizie che linkavi, copiavi, incollavi?”
“Ero sicuro della Causa, Signore. La Causa prima di ogni cosa”.
“Taddei, guardami negli occhi. Hai raccontato altre bugie?”
“Per la Causa, Signore. Per la Causa”.

(*) Lui in realtà dice: “All-american ears”
(**) “Bullshit”

2025, Israele-Palestina, medio oriente, terrorismo

– 2025

Il Kamikaze di Via Nomentana

[…]

Caro Leonardo,
hai capito cosa ti chiedo di fare?
E hai capito perché lo sto chiedendo a te?

Non schermirti, ti prego. Non ti abbiamo scelto a caso. Non sei il classico prescelto da trilogia hollywoodiana. Sei semplicemente uno sfigato che ha qualche esperienza nel settore. Non è la prima volta che ti fai esplodere, non è vero? Non la prima volta che ci provi, perlomeno.

Come faccio a saperlo?
Beh, io lo so.
Non è una risposta, dici.
Lo so.

Hai ancora dubbi? E allora ascoltami:

Verso la fine del 2005, nella penisola che nomavasi Italia, ad alcuni liberi pensatori cominciavano a girar le palle…

Da vent’anni costoro puntavano la loro carriera su questo o quel cavallo, nel grande ippodromo delle idee – e da vent’anni non avevano ancora azzeccato un piazzamento.
In una sala scommesse un po’ più seria sarebbero già stati allontanati, ma l’Italia è evidentemente una bisca di quart’ordine, dove si fa credito sulla parola, o sulla faccia, o sul cognome; sicché questi continuavano imperterriti a giocare, sempre inseguendo la vincita clamorosa che avrebbe riscattato il cumulo di debiti. Proviamo a ricapitolare:

– avevano puntato sull’uomo nuovo, decisionista e di sinistra, senza tanti fronzoli moralistici: Bettino Craxi. Era finita molto male.

– avevano sperato nel libero mercato, bella speranza! Complimenti! Quanti bei soldi bruciati sul Nasdaq, bravi! E che astuti, geniali, a spellarsi le mani quando la Cina entrò nel WTO, che grande idea! Dopo qualche tempo, pur continuando a professarsi liberali, smisero di parlarne.

– nel frattempo avevano anche puntato sull’imprenditore nuovo, decisionista e anticomunista: Silvio Berlusconi. Pensavano: di politica sa nulla, avrà bisogno di noi. Si misero a libro paga, ottennero quotidiani e ministeri.
…Ma in capo a tre mesi dalla presa del potere era chiaro che non contavano niente. SB pensava solo a SB, ai suoi condoni e alle sue prescrizioni, al massimo alla formazione del Milan. Le dotte analisi sociopolitiche le dava da leggere alla moglie.

– allora avevano alzato lo sguardo: non c’è un padrone più grande (e più fesso) che ci possa adottare? Nessuno sembrava più grande e fesso di George Bush II, e loro accorsero scodinzolando. Guerra al terrorismo! Togliamo il burqa alle madri afgane! Saddam Hussein produce armi di distruzione di massa, è una vergogna! Esportiamo la democrazia! Giù le mani da Israele e dal nostro stile di vita!
…Ma si era tutto impantanato tra Tigri ed Eufrate, in quella guerra assurda che George Bush I aveva troppo saggiamente evitato. E benché non si potesse negare che Afganistan e Iraq fossero stati, in qualche modo, ‘liberati’, sul piano mediatico nel 2005 la battaglia era chiaramente persa. 2000 vittime americane (e 40 italiane) erano sufficienti a rendere il boccone per sempre indigesto. Si stavano defilando tutti: persino Berlusconi avvertiva di essere sempre stato contro la guerra. Persino Pannella.

– allora, ormai piuttosto nervosi per via degli uragani, si erano giocati il tutto e per tutto sulla carta dell’identità religiosa. Trascendendo dal Neoconismo al Teoconismo, avevano trovato il loro Dio, incarnato nell’essere perfetto e incorruttibile: l’Embrione. E sulle prime – complice un Papa morto di fresco – la cosa sembrava poter funzionare. Avevano persino vinto un referendum, senza partecipare (impossibile, lo so, ma è così). Avevano iniziato a tirar bordate contro il relativismo laico. Avevano festeggiato le detrazioni fiscali alla Chiesa. Erano pronti a inneggiare alla chiusura delle frontiere, delle moschee, dei campi nomadi. Tutto era pronto, occorreva solo un piccolo aiuto per saltare il fosso. Una catarsi. Un botto – insomma, non sono abbastanza chiaro?

Un attentato, perdio!

Un attentato kamikaze a Roma, Milano, Napoli o Torino, che ci voleva? Perché gli spagnoli gli inglesi gli indonesiani sì e noi no?
Apposta, a guerra fatta, eravamo andati ad appollaiarci a Nassiryia – o credevate che ci fossimo andati ad aprire le scuole e addestrare la polizia? Qualche anima bella l’avrà creduto. O che fosse per il petrolio? Qualche cronista addentro l’avrà pensato. Illusi! Macché scuole, macché petrolio! Era una provocazione bella e buona, uno sputo all’Islam, in diretta dalla ridente penisola nel bel mezzo del mediterraneo. L’Italia reclamava il suo piccolo undici settembre nazionale! La sua festa del “nulla sarà mai più come prima!” La sua pearl harbour in sedicesimo, il suo piccolo incendio del Reichstag! E non ci voleva mica tanto, no? Ci si accontentava di poche centinaia di morti, a Trastevere o in Galleria, per sedersi al tavolo dei vincitori…

Nell’estate del 2005 tutto era pronto. Ma niente. Cioè, quasi niente, appena una strage a Sharm el Sheik, colonia italiana d’oltremare. A sentire i servizi, la penisola pullulava tuttavia di alqaedisti in sonno, eppure nessuno si sognava di farsi esplodere qui. Ed era un bel guaio, per certi opinionisti nostrani, che sull’attentato si giocavano l’ultima fiche della loro carriera. Berlusconi stava per tramontare (così sembrava, almeno) e li avrebbe trascinati con sé. Dovevano agire. Entrare anche a gamba tesa, se necessario.

Ormai ogni scusa veniva buona per provocare. Per esempio: gli elettori iraniani, che forse si percepivano accerchiato dai contingenti angloamericani in Iraq e Afganistan, avevano espresso a sorpresa un presidente ultra-integralista. Uno di quegli effetti indesiderati dell’esportazione violenta di democrazia… bene, qualche mese dopo il neo-eletto presidente islamico annunciò a un congresso di studenti che Israele andava tolto dalla cartina. La solita boutade, niente di nuovo. Certo, l’Iran stava diventando una potenza nucleare – d’altro canto Israele lo era già da un pezzo. Certo, Israele si era appena ritirato da Gaza (che senso ha minacciare un ladro proprio quando dopo quarant’anni inizia a restituirti i cocci di casa tua?) Insomma, quel che aveva detto il presidente iraniano era molto grave, come tutto quello che succedeva in medio oriente da diversi anni. Ma in Italia – solo in Italia – divenne un fatto d’interesse nazionale, perché un quotidiano liberale, pochissimo letto, ma finanziato dallo Stato, decise d’indire una manifestazione di solidarietà a Israele. Lodevole iniziativa, no?
E tutti avevano aderito: da destra, da sinistra, dal centro; tutti a sventolare stelle di David azzurre in campo bianco, per la gioia dei telespettatori di Al Jazeera in mondovisione. Così, benché non si aspettasse milioni di persone in strada, il direttore del piccolo quotidiano poteva a ragione fregarsi le mani: era riuscito a far dire all’Italia intera: “cucù, siamo qui, siamo in mezzo al mediterraneo, e siamo filo-israeliani“. Se gli alquaedisti in sonno non si svegliavano quel giorno, non si sarebbero svegliati mai. O no?

E se ora mi rivolgo a te, è perché lo so.
Quella sera di vent’anni fa – stai cristallizzando il ricordo giusto or ora – tu eri a Roma, barbuto e abbronzato, con una pettorina esplosiva e forse una kefiah.
Forse che non c’eri?

“Arci…”
“Sì?”
“Mi sa che stiamo facendo una cazzata “.
“Non ti preoccupare. Inspira ed espira, su. Ricorda l’addestramento”.
“Ma che addestramento, Arci, dai. Andiam via. Ho paura”.
“Sssst. È tardi. Inspira ed espira”.