memoria del 900, musica

Bambini, attenti a Nonno Superman!

Qualche giorno fa ci ha lasciato Cino Tortorella: attore, regista, giornalista, pioniere della televisione italiana, e in particolare della televisione per bambini; per più di trent’anni una presenza ubiqua su Rai e canali locali, sul Corrierino e sul Giornalino, ovunque un bimbo mettesse il naso, di lì Tortorella era passato, lasciando spesso un segno. Ma tutti lo ricorderanno soprattutto per lo Zecchino d’Oro, la rassegna canora che s’inventò dal nulla e che presentò per cinquant’anni, prima vestito da mago e poi in borghese. Lo Zecchino è stato uno dei tanti modi in cui gli italiani si sono raccontati, dagli anni Sessanta in poi. Tra una strofa e l’altra c’è il boom, la guerra fredda, la distensione, la crisi della prima repubblica e tanto altro. Qui sotto qualche appunto, e qualche dritta per chi ama il genere o deve imparare a conviverci (può succedere a chiunque).

1965: Dagli una spinta
Di scena sono i missili e i razzi a propulsion, qualcuno entra in orbita, qualcuno fa eccezion; poi quelli che ricadono in fumo se ne van: son cose che succedono, ma si rimedieran. Le generazioni centrali del Novecento sono nate col treno a vapore e hanno fatto in tempo a vedere l’uomo sulla luna: l’osservazione che altrove avrebbe ispirato epici inni al progresso, qui ottiene l’effetto contrario. Verga rovesciava positivismo e darwinismo e voleva raccontare la storia dei Vinti; Dagli una spinta finge un po’ di ottimismo ma condivide lo stesso punto di vista. Non importa cosa inventeranno domani di eccezionale, vedrai che a noi si guasterà comunque. Noi siamo quelli che scendono e spingono… no, in effetti noi siamo già un po’ troppo furbi, un po’ troppo cinici, noi siamo quelli che dicono agli altri di scendere e spingere.

1967: Per un ditino nel telefono
Sette-sette-sette arrivò la polizia, e invadendo casa mia portò via il mio papà… La tecnologia è il male. Il bambino cerca di infilarci un dito perché è piccolo e perfido. Non ne potranno seguire che sventura e vergogna. Ci metteranno le manette i carabinieri. La polizia ci porterà in prigione. La mamma in manicomio. Ogni volta che sui giornali leggete un pezzo sgomento sugli orrori di internet e sui social network – covi di spacciatori e stupratori seriali – e vi domandate: ma questi giornalisti da dove saltano fuori?, beh, è difficile dirlo, ma forse nel 1967 seguivano lo Zecchino d’Oro (continua nientemeno che su Rivista Studio! Qui sotto lascio i video).

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, memoria del 900, nazismo

Il Terzo Reich in miniatura

Colonia (Colonia Dignidad, Florian Gallenberger, 2015)

11 settembre 1973: a Santiago del Cile, durante il golpe del generale Pinochet, un fotoreporter tedesco (Daniel Brühl) scompare. Emma Watson, la sua ragazza, si prende una settimana di ferie (fa la hostess) e indaga. Una pista la conduce alla Colonia Dignidad, una specie di enclave nazista sulle Ande, una comunità cristiana integralista governata col pugno di ferro da un predicatore bavarese ricercato in patria per pedofilia. Il luogo ideale dove torturare i detenuti politici – pare che anche Mengele si sia rifugiato lì per un po’. Ovviamente il luogo è un incubo totalitario, un lager con tanto di recinto elettrizzato. Ovviamente uomini e donne sono separati, guardati a vista, istigati a spiarsi e torturarsi a vicenda. Il piano di Emma è vestirsi da suorina, bussare al cancello, chiedere di entrare a far parte della congregazione, sopportare frustate e privazioni finché non le riesce di trovare Daniel, e poi scappare insieme in un qualche modo.

Ci riesce.

E vabbe’, un po’ implausibile, ma se è tratto da una storia vera…

Il vero cancello della Colonia.

Salvo che non è una storia vera. O meglio: lo sfondo è tragicamente autentico. La Colonia Dignidad è esistita davvero (e in un qualche modo esiste tuttora). Il suo fondatore molestava davvero i bambini: Pinochet usò davvero la colonia per nascondere e torturare un numero imprecisato di oppositori; l’ambasciata tedesca occidentale era davvero al corrente; persino il transito di Mengele è in qualche modo documentato. È una storia pazzesca che meritava senz’altro un film. Ma per il film serviva una storia in primo piano, e quella girata dal pur talentuoso Gallenberger è un disastro, una specie di compendio di tutte le ingenuità da evitare in un film d’azione (continua su +eventi!)

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, ebraismo, memoria del 900, nazismo

Un videogioco ad Auschwitz

Il figlio di Saul (Saul Fia, László Nemes, 2015).

Un giorno o l’altro uscirà un videogioco su Auschwitz. Sarà probabilmente un buon prodotto, assolutamente rispettoso della memoria delle vittime, che riuscirà a terrorizzare e a suscitare un genuino orrore in tutti i volonterosi giocatori. Si potranno interpretare diversi personaggi, sonderkommando o kapò o fuggitivi. Ci saranno missioni da compiere: trovare una macchina fotografica con la quale documentare il terrore; organizzare una rivolta; seppellire il proprio figlio con un rito religioso. Un giorno qualcuno lo farà, e dopo la sorpresa iniziale, non ci sembrerà una cosa così strana o sbagliata. Un modo di esercitare la memoria, di combattere il negazionismo, di far vivere ai giovani qualcosa di lontanamente simile a un’esperienza… Ciononostante le polemiche fioccheranno: è giusto ambientare un’avventura ad Auschwitz? Forse non è giusto, ma ormai ci ha gà pensato il cinema, no? I videogiochi seguiranno.

No, è fatto meglio di così.

Il figlio di Saul ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero e il Gran premio della giuria a Cannes, e decine di altri riconoscimenti tra cui uno assolutamente straordinario: è il primo film ambientato ad Auschwitz a essere recensito sui 400 calci, che più che un blog ormai è la Bibbia quotidiana del cinema d’azione. Perché Il figlio di Saul, oltre a essere un buon prodotto, assolutamente rispettoso della memoria delle vittime, è un film d’azione. L’ambientazione è sin dall’inizio data per scontata, del resto ormai escono più film su Auschwitz che western. Il personaggio è un sonderkommando, un prigioniero ebreo addetto ai lavori più orribili: accompagnare i suoi correligionari alle docce, sentirli urlare mentre soffocano, smistare vestiti e oggetti personali, trasportare i cadaveri ai forni, smaltire le ceneri. Durante una giornata di gioco lavoro, Saul fa tutto questo, ma ha anche una missione da compiere: seppellire degnamente un bambino che forse è suo figlio. Bisogna trovare un rabbino, corrompere qualcuno, collaborare con qualcun altro che sta organizzando una rivolta. Ma tutto questo resta sullo sfondo: in primo piano c’è il personaggio, e la sua missione. Tutto l’orrore che gli scorre intorno finisce rapidamente fuori fuoco.

Il figlio di Saul è piaciuto a tutti tranne me… (continua su +eventi!)

autoreferenziali, memoria del 900, scuola

Il suo nome è sulla lista?

Niente fa gennaio come i corridoi delle scuole, quando tirano via le stelle di Natale e mettono i cartelloni con le svastiche il filo spinato e le stelle di David.

Ciò detto, quest’anno insegno in una classe esposta a sud, con tapparelle discutibili, e se c’è il sole la LIM è nitida solo fino alle 9 del mattino, poi è meglio fare altro. Quindi in terza se voglio proiettare un po’ di Schindler’s List devo partire subito, l’appello magari lo faccio quando il sole comincia a picchiare.

Ecco. Fare l’appello dopo aver visto un qualsiasi pezzo di Schindler’s List è inquietante in un modo che non vi immaginate – cioè adesso che ve l’ho raccontato magari ve lo immaginate, ma anche un po’ di più.

(Dall’archivio:

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, memoria del 900

Un uomo serio a Berlino

Sembra che a Berlino stiano costruendo una specie di… muro.

Il ponte delle spie (Steven Spielberg, 2015).

Rudolf Abel – ovviamente non si chiamava così – imparò a dipingere in America. Il mestiere del pittore era la copertura ideale per una spia: quando sei un artista, nessuno fa caso ai tuoi orari o ai tuoi itinerari. Puoi sparire per mesi e nessuno si preoccupa. Ma anche se resti fermo nello stesso posto per ore e ore, nessuno si porrà il problema: basta che davanti hai un cavalletto. Abel non era un pittore, ma non è che avesse molto altro da fare nei suoi lunghi pomeriggi en plein air o nella sua base segreta camuffata da atelier. Durante la guerra era stato un elemento prezioso, ma negli anni Cinquanta, a New York, l’impressione è che tirasse a campare: dopo l’esecuzione dei Rosenberg, gran parte dei suoi contatti erano bruciati. In più il KGB gli aveva procurato un compare inaffidabile, un finlandese che si scordava in giro i microfilm e col vizio peggiore che una spia possa avere, l’alcool.

Il nemico ti ascolta.

Abel invece dipingeva. Stava diventando bravo, anche se un po’ accademico. In effetti la sua freddezza per le avanguardie, e un certo debole per il realismo socialista, alla lunga avrebbero potuto insospettire qualche collega pittore – se a bruciarlo non avesse provveduto il finlandese. Sapeva che Abel era scontento di lui. Quando da Mosca lo chiamarono a rapporto, lui perse la testa e si ritrovò nell’ambasciata americana di Parigi. Si guadagnò la fiducia dei federali facendo una manciata di nomi, tra cui quello di Abel. Condannato a morte, mantenuto in vita in attesa di essere usato come merce di scambio (con la prospettiva di essere giustiziato in patria da chi sospettava che avesse tradito) Abel in cella continuò a dipingere, diventò sempre più bravo. Non aveva molto altro da fare, e comunque preoccuparsi non sarebbe servito.

A volte Spielberg sembra voler estrarre il cuore pulsante dell’America, altre volte sezionarne il sistema nervoso. Quello che ci conquista è il fatto che sia impossibile capirlo prima di dare un’occhiata: gli basta passare da una storia all’altra per oscillare allegramente dal pacifismo alla paranoia. L’autore che più di tutti ha amato gli alieni e ci ha invitato ad accoglierli a braccia aperte, è anche quello che ce li ha mostrati più spietati e assetati di sangue. Potrebbe essere interessante cercare di organizzare i suoi film in coppie antitetiche, ad esempio: Incontri ravvicinati come un anti-Squalo, La guerra dei mondi un anti-ET. Il soldato Ryan un anti-1940The Terminal un anti-Prova a prendermi. Per certi versi Lincoln si presentava come una specie di Schindler allo specchio: le malefatte di un presidente eroico contro le opere di bene di un nazista profittatore.

Il Ponte delle spie riflette di nuovo allo specchio alcuni temi di Lincoln: se là la sceneggiatura si attardava compiaciuta sui metodi moralmente discutibili di un grande personaggio con un grande scopo, qui Spielberg inverte le lenti e si concentra su un piccolo uomo che salva il mondo semplicemente facendo il suo lavoro, senza deviare dalla retta via o ammettere strappi alle regole, cascasse il cielo (e il cielo poteva cadere davvero: le spie sovietiche si erano appena impadronite dei segreti del progetto Manhattan). Tom Hanks è ancora una volta il buon americano qualunque, come nel soldato Ryan (mentre in The Terminal era l’opposto, il buon selvaggio); ancora una volta l’avvocato di un alieno, che si appassiona al suo caso disperato e alla fine non solo riesce a salvarlo, ma mostra la superiorità del sistema giudiziario migliore del mondo. Spielberg ci crede sul serio, e la sua fede non ci sorprende: è molto più bizzarro che facciano mostra di crederci i fratelli Coen (continua su +eventi, e Buon Natale!)

guerra, La grande gara di spunti, memoria del 900

La ritirata di Berto

“Torno a Majano con l’autoblindo il mattino del 30 ottobre. Gli austriaci se l’erano ripresa nottetempo. Avevano 6 pezzi mitragliatrici montate su biciclette”.
“Su biciclette”.
“Almeno tre in riga, stupidamente scoperte. Procedo in retromarcia e le punto con la mia mitragliatrice di culo a 50 metri di distanza. Una raffica e la mitragliatrice austriaca al centro è rovesciata. Vedo sollevarsi il mitragliere che era coricato dietro pancia a terra e tentare di alzarsi. Ha nel petto e nel ventre un buco enorme squarciato di 30 cm che schizza sangue a fiotti, a rivoli, destra, sinistra, inondando la strada piena d’acqua, che si arrossa tutta…”

(Questo pezzo riprende Fiume 1920, che si è qualificato agli ottavi della Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 


Al bar il comandante teneva banco con la storia della sua ritirata del Friuli – un’anabasi di epici conflitti a fuoco. Berto gliel’aveva sentita raccontare una dozzina di volte, sempre più fiorita di dettagli vividi, sempre più simile a un’avanzata vittoriosa. Non era del resto il solo, tutti avevano il loro aneddoto su Caporetto. Era curioso. Quel che era successo nel maledetto ottobre del 1917, per un anno nessuno aveva voluto raccontarlo. Tutta questa memorialistica da locanda, da bar, da caffè concerto, ci aveva messo almeno un anno a incubare. E adesso tutti avevano la loro storia.

“Il mitragliere morto impigliato sanguinosamente nel suo trepiede è schiacciato dalla mia blindata che passa sopra. L’altro tira pancia a terra. Ho le gomme sfasciate. Il mio sergente automobilista lo insegue e lo pugnala contro la porta chiusa d’una casa. Le altre 3 mitragliatrici che ci bersagliavano nascoste nel granoturco sulla destra tacciono. Il capitano del battaglione di fanteria è colpito a terra e cade morto….”

Solo a Berto non toccava nessuna storia. Lui a Caporetto si era messo in coda, semplicemente. All’inizio non si era nemmeno reso conto di dove stavano andando – era nuovo del fronte e non capiva quanto fosse eccezionale tutto quello che gli succedeva intorno. Solo dopo un paio d’ora, quando avevano superato un carro di profughi impantanato, e il sergente si era lasciato sfuggire una bestemmia in una varietà di lombardo mai udita prima. Sergente ma che succede, dove ci mandano?

“Ma non hai capito, gnàro? Abbiamo perso la guerra. A casa ci mandano”.

Detta da lui, non era sembrata una buona notizia; a Berto però si era gonfiato il cuore, in quel momento, e da allora non riusciva a pensarci senza vergognarsene. Perché mentre quel metro e sessanta di sergente veterano tratteneva le lacrime per tre anni di battaglie sull’Isonzo mandati a puttane da quattro traditori infami, tre anni inutili a marcire in trincea mentre qualcuno a casa vendemmiava il suo e gli metteva incinta la figlia, Berto si era improvvisamente visto a casa, tutto intero, pronto per fidanzarsi a Natale e sposarsi entro Pasqua, senza che nessuno potesse permettersi di dirgli niente. In guerra non c’era andato? Appena era stato abbastanza grande da imbracciare il Novantuno. Mica era colpa sua se nel frattempo era finita. E Trento? E Trieste? Sarebbe stata per un’altra volta. Era senz’altro terribile perdere una guerra, ma almeno per un istante Berto ricordava di aver calcolato quanto gli convenisse.

Lo stesso pomeriggio aveva di nuovo incrociato Martone. Portava un fez verde mai visto, e coi suoi colleghi andava nella direzione contraria. Camerati buonasera! noi si va a Trieste! Nessuno rispondeva. Solo il sergente aveva reagito.
“Cosa dicono questi scriteriati”.
Martone si era voltato, mostrando un ghigno che Berto conosceva (gli immaginava lo stesso ghigno addosso mentre rigirava coltelli tra le vertebre dei crauti).
“Non ha sentito le novità signor sergente? La Terza Armata ha sfondato. Sono a Trieste, adesso”.
“Ma dove Trieste. Ma fatemi il piacere. Se volete andarvi ad ammazzare, almeno non raccontate storie ai ragazzini”.
“Allora se non le dispiace sergente io vado”.
“Chi vi ha dato l’ordine?”
“Non lo so, io seguo i miei?”
“E io non sono il tuo superiore, quindi vatti pure a farti inculare dove ti piace”.
“Berto tu vieni?”

Berto si era immobilizzato. Prima gli avevano detto che la guerra era finita e persa. Poi vinta. Adesso gli offrivano un po’ di gloria e lui non sapeva più cosa provare.

“Gnàro, se fai solo per seguire questo malmaturo ti fucilo seduta stante. Alle spalle”.

Il sorriso di Martone si era appena incurvato. “Sergente io e voi a fine guerra abbiamo un appuntamento”.
“Va bene, vediamo chi ci arriva”.

Il sergente era morto un mese prima della vittoria, Martone si nascondeva da qualche parte nel Carnaro. La storia della liberazione di Trieste – Berto aveva saputo poi – era una bufala messa in giro dagli austriaci.

Se il baldo furor giovanile non ti manca, orsù, vota con entusiasmo questo spunto che compete con. Il mondo dei non-ancora-nati. Metti Mi piace su facebook, o esprimi il tuo ardimento nei commenti in calce al pezzo. Eja, carne del Carnaro! e arrivederci ai quarti di finale.

cattiva politica, La grande gara di spunti, memoria del 900

Le avventure di Pandolfo

Pandolfo è uno Zelig al contrario: in qualsiasi ambiente si farà notare. Testa calda ai tempi del GUF, nella primavera del ’44 entra in una formazione partigiana comunista; litiga col comandante, a cui rimprovera di pensare più alla guerriglia che all’ideologia. Dopo aver causato la scissione della brigata, fonda in agosto la repubblica di Monticello, piccolo paese dell’Appennino che in settembre viene completamente bruciato dalle SS; ma Pandolfo è già lontano.

Lo si rivede nel triangolo rosso dopo il 25 aprile, quando mostra la sua insofferenza per la svolta di Salerno ammazzando qualche ex gerarca. Scappa quindi in Ungheria, dove apre gli occhi sul socialismo reale. Partecipa alle prime manifestazioni del ’56, ma quando entrano in azione i carri sovietici lui è già lontano, forse in un kibbutz dove apre gli occhi sulla triste condizione dei palestinesi.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

Torna in Italia nell’estate del 1960, giusto in tempo per protestare contro il governo Tambroni: a Genova appicca il fuoco a una camionetta della Celere, a Reggio applaude gli operai che non si disperdono – ma quando cominciano le cariche, lui non si trova. Dopo qualche anno di militanza nel PSI, passa al PSIUP. Nel 1968 partecipa alla battaglia di Valle Giulia – nelle foto non si capisce se sta scappando o inseguendo un celerino. L’anno dopo entra in Lotta Continua, nel servizio d’ordine. Propugna la tesi dello scontro generale contro la borghesia e lo Stato, litigando con tutti al primo congresso, quando passa la decisione di votare PCI alle regionali (1975). Accusa gli ex compagni di anteporre i tatticismi all’ideologia. Altri colleghi del servizio d’ordine passano alla lotta armata con Prima Linea: lui, ufficialmente, no. Passa allo spontaneismo, e si ritrova due anni dopo a Bologna.

A partire dal sequestro Moro, comincia ad avvicinarsi al PSI di Craxi, di cui apprezza il piglio volitivo e l’allergia al veterocomunismo – aria fresca dopo gli anni di piombo. I fischi a Berlinguer al congresso PSI del 1984 lo commuovono. Dopo la strage di Sabra e Chatila, intensifica il suo impegno filopalestinese. Milita brevemente nei Verdi, litigando coi Verdi Arcobaleno, coi Verdi Sole Che Ride e con altri Verdi che troverò su wikipedia. La fine del governo Craxi lo convince vieppiù che il nemico che si frappone tra la vecchia Italia e la modernità è l’asse cattocomunista, la sinistra DC e il PCI – e che il pentapartito di Andreotti e Forlani il male minore; e le tv di Berlusconi una risorsa preziosa.

L’inchiesta Mani Pulite lo destabilizza; in un primo momento appoggia Martelli contro Craxi, poi cade anche Martelli e lo ritroviamo in Alleanza Democratica, quindi nel Patto Segni. La discesa in campo di Berlusconi non lo trova entusiasta, ma dopo il flop elettorale di Segni prova a bazzicare i leghisti. Plaude alla decisione di Bossi di silurare il primo governo Berlusconi; due anni dopo il centrodestra perde le elezioni, ma la Lega vola al 10%. Pandolfo è ormai un fervente autonomista, se non proprio indipendentista. Su un giornale locale scrive vibranti editoriali sull’emergenza criminalità, l’emergenza immigrazione, l’emergenza emergenze. Non fa in tempo a festeggiare la rivincita del Popolo della Libertà (aprile ’01), che il mondo sembra impazzire; durante il g8 di Genova stigmatizza duramente i manifestanti che danno fuoco alle camionette dei veri proletari, i poliziotti.

L’11 settembre apre gli occhi sugli orrori del fanatismo islamico. Chiede a gran voce l’intervento italiano in Afganistan, e naturalmente in Iraq, dove Saddam Hussein sta ammucchiando armi di distruzione di massa da usare senz’altro contro Israele. A proposito di Israele, ne sventola coraggioso la bandierina in favore di telecamera durante la contromanifestazione antipacifinta. Data da questo periodo il suo riavvicinamento al cristianesimo, e il suo crescente interesse per i cosiddetti valori non negoziabili: la vita umana in tutte le sue forme, contro aborto eutanasia matrimonio gay e altri falsi miti di progresso. Accusa i vescovi di anteporre i tatticismi ai dettami della vera fede. Assiste un po’ imbarazzato alla deriva senile di Berlusconi, tradendo qualche simpatia per la fronda di Fini; gli scandali che colpiscono la Lega invece lo inducono a una riflessione più amara. Ma ha già iniziato a frequentare la Leopolda. Eccetera.

Pandolfo è senza età – secondo alcuni si nutre di scazzi, quindi è immortale. Altri pensano che ci siano più pandolfi che si danno il turno. A volte si sovrappongono addirittura. Se vuoi saperne di più, è tempo di votare per Le avventure di Pandolfo, che oggi se la gioca contro Redenzione, di Michel Houellebecq. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

1500 caratteri, fascismo, memoria del 900

Mussolini era una zecca

Al ragazzino che oggi prova a rimpiangerlo direi: ma lo sai chi era davvero Benito Mussolini, morto oggi 70 anni fa?

Perché se hai fatto i compiti a questo punto dovresti saperlo. Una zecca. Nei vari e non simpatici sensi del termine. Socialista, per esempio; e figlio di socialisti. Porta il nome di un rivoluzionario messicano. Da giovane scappò in Svizzera per non fare il militare. Ateo e mangiapreti, e quando in Libia c’era da difendere il sacro nome della patria, lui andò a mettersi sui binari per non far passare i treni.

Poi, certo, ha cambiato idee. Quando scoppiò la Grande Guerra cominciò a parlare di Patria e Valori. Ma prendeva ancora i soldi dai socialisti francesi, che speravano di portare dalla loro gli italiani. Poi dagli industriali che annusavano l’affare. Cominciava a metter pancia. Succhiando un po’ qui, un po’ là, mandando avanti bravi reduci e ragazzini in camicia nera, eccolo a Roma. Da lì in poi, naturalmente, tutto Dio Patria e Famiglia: anche nel senso che succhiò da tutte e tre. Il primo s’accontentò di un quartierino sul Tevere, la seconda tra Etiopia e leggi razziali si ritrovò il nome infangato per sempre. Alla terza prese pure le fedi nuziali.

Non ci credi? Giusto. Non fidarti di nessuno: studia. A De Felice puoi dar retta? Rimpiangilo pure se vuoi, ma ricordati da dove veniva. Era un maestro di scuola, pensa: e socialista. Vi ha succhiato per vent’anni e vi ha lasciato gusci vuoti. Dimmi che lo rivorresti indietro, dimmi che ne vorresti un altro.

1500 caratteri, 25 aprili, memoria del 900

Il Piave mormorò: Meloni, Salvini, ripassate il sussidiario

70 anni di pace oggi, almeno qui da noi. Non è straordinario? E se non lo festeggiamo, che altro dovremmo festeggiare? Giorgia Meloni, cui la comprensibile stizza per non essere mai stata invitata non perturba il volto ormai splendente di luce propria, ci avvisa che lei sarà sul Piave il 24 maggio, e che bisognerebbe destinare altrettante risorse a celebrare “gli italiani che si sacrificarono sul Piave”, 100 anni fa.

Il 24 maggio?

La pensa così anche Salvini: “Non vogliamo lezioni da nessuno. Io festeggerò il 24 di maggio quando sul Piave morirono i nostri nonni per non far passare lo straniero”.

Il 24 maggio.

Cari Meloni e Salvini: capisco che la carriera politica intrapresa in giovane età può non aver lasciato molto tempo per ripassare nozioni da V elementare, ma è grave che nessun sottoposto vi abbia informato che il 24/5/1915, sul Piave, non morì nessun nonno. È il giorno in cui più a nord attaccammo l’Austria, nostra alleata fino a qualche mese prima, sperando di approfittare del suo impegno su altri fronti. Eravamo noi gli “stranieri” che attaccavano, il 24 maggio.

Le cose non andarono per il verso giusto e due anni dopo arretrammo fino al Piave, nell’autunno ‘17. Fu il momento più tragico della guerra, per cui preferiamo festeggiare la vittoria che arrivò l’anno seguente, il 4 novembre. La celebriamo tutti gli anni, ma le scuole non chiudono e così non ve ne siete mai accorti. Questa cosa di non voler mai lezioni da nessuno, siete sicuri? Perché prima o poi gli esami arrivano.

ebraismo, Israele-Palestina, memoria del 900

Non parlerai di Gaza il 27

27 gennaio – Giorno della memoria, “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” (legge 211/2000).

Aveva le orecchie a sventola.
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest’anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo “Shoah di ieri shoah di oggi” è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare “confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.

Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva “un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi”. Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.

Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni ‘attualizzanti’. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che “i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni”, è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: “Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione”. 

È un’opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e “di dimensione”: ma è un paragone inevitabile, com’è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell’altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, “parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno”. Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.

Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l’etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l’immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C’è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l’ebraismo, cos’è esattamente questo “antisemitismo” che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, memoria del 900

Turing: uomo o computer?

NON LO CAPISCONO PERCHE’ È DIVERSO
 (un altro episodio completamente inventato).


The Imitation Game (Morten Tyldum)

Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L’anno in cui Alan Turing – morto da 40, forse suicida – cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l’intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l’omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.

Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l’enorme “computatore” che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il  mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o “narrazione”, come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un “inventore del computer”, nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo – specie se l’alternativa vulgata è Steve Jobs.

In futuro magari rideranno anche della convenzione narrativa
per cui l’unica matematica del mazzo dev’essere
per forza una strafica.


Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent’anni potrebbe non reggere più – l’Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l’omosessualità vent’anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un’occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull’innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?

Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia).

La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay (continua su +eventi!)

Leonardo sells out, memoria del 900, vita e morte

Chi ha ucciso il grande rivoluzionario del Novecento?

20 agosto 1940Lo zio di Christian De Sica rompe la testa di Leo Trotsky con una picozza. 

Per quanto tu ti possa abituare all’idea – e hai una vita intera per abituartici – alla fine la morte sa sempre sorprenderti. Il caso di Trotsky ha dell’incredibile. Nella primavera del 1940 era persuaso di non avere più molto tempo davanti a sé. A impensierirlo, ancor più degli agenti di Stalin, era la pressione alta. In febbraio aveva scritto un bel testamento, insolitamente stringato, a cui a marzo volle aggiungere un poscritto meno famoso ma suggestivo:

La natura della mia malattia (una pressione alta e in costante aumento) è tale – per quel che ho capito – che la fine verrà molto probabilmente (ancora una volta, questa è la mia ipotesi personale) attraverso un’emorragia cerebrale. Questa è la fine migliore che mi possa augurare. È possibile, tuttavia, che io sia in errore (non ho alcun desiderio di leggere libri sull’argomento e, naturalmente, gli specialisti non mi direbbero la verità). Se la sclerosi dovesse assumere un carattere prolungato e fossi minacciato da una lunga invalidità (al momento sento, al contrario, un impulso di energia spirituale, a causa della pressione alta, ma questo non durerà a lungo), mi riservo il diritto di stabilire il tempo della mia morte. Il ‘suicidio’ (se tale termine è appropriato in questo contesto) non sarà in alcun modo l’espressione di uno sfogo di sconforto o disperazione. Natascia e io ci siamo detti più di una volta che si può arrivare ad una condizione fisica tale che sarebbe meglio tagliare corto con la la propria vita o, più correttamente, con un processo di morte troppo lento… Ma qualunque siano le circostanze della mia morte, morirò con la fede incrollabile nel futuro comunista. Questa fede nell’uomo e nel suo futuro mi dà già ora una forza di resistenza che non può essere data da qualsiasi religione.

Quest’ultima frase stonerebbe in bocca a chiunque non fosse resistito a tre confini, decine di detenzioni, al comando supremo dell’Armata Rossa durante la guerra civile, al fallimento della rivoluzione permanente e alle epurazioni di Stalin. E però con tutta la sua forza di resistenza, Trotsky non poteva impedirsi di constatare il proprio decadimento fisico. Determinare in modo razionale il tempo della propria morte sarebbe stato un altro successo organizzativo – ma sul piano della propaganda si rischiava di lasciare un brutto messaggio, quasi come darla vinta a Stalin. L’esitazione di Trotsky assomiglia alla nostra ogni volta che ci poniamo il problema: è un diritto togliersi la vita? Ogni volta che succede a una persona che ammiravamo siamo tentati di scrivere da qualche parte di sì: certo che è un diritto. Inalienabile. E poi ci viene in mente che rischiamo di incitare indirettamente qualcun altro a prenderselo, quel diritto. E non vorremmo proprio. E allora cambiamo argomento.

Al Trotsky sull’orlo del suicidio – ma non della disperazione, come ci teneva a farci presente – la primavera sta apparecchiando sorprese non buone. In una notte di maggio un commando circonda il suo compound messicano sforacchiandolo con centinaia di proiettili. Per puro caso nessuno della famiglia riporta ferite serie. Sparisce però un uomo della sua affezionata guardia del corpo, l’americano Robert Sheldon Harte. Troveranno il suo corpo qualche miglia più in là, sul sentiero del deserto, freddato da un colpo alla testa. Sulla sua targa commemorativa Trotsky farà scrivere “ucciso da Stalin”. Ma Harte probabilmente era il doppiogiochista che aveva mostrato all’agente sovietico Iosif Grigulevich e al pittore David Alfaro Siqueiros la strada per il compound di Trotsky. Poi qualcosa era andato storto, Harte forse si era illuso che Siqueiros e il russo non intendessero davvero ammazzare Trotsky; forse aveva dato indicazioni imprecise – grazie alle quali sia Trotsky che il suo prezioso archivio si erano salvati – ma il commando aveva preso la decisione di giustiziare Harte.

Due settimane dopo Trotsky pubblicò la sua prolissa versione dei fatti con un titolo che non voleva lasciare il minimo spazio all’interpretazione: STALIN MI VUOLE MORTO. E a Stalin questa soddisfazione Trotsky non intendeva darla. Il guaio è che continuava a fidarsi di troppa gente. Non poteva evitarlo; era sempre stato un solitario, per temperamento e per la tendenza inveterata a farsi espellere o internare, ma non poteva sottrarsi più di tanto a quella rete di contatti che stava nascendo intorno alla sua neonata e fragile Quarta Internazionale. Il ragazzo che 74 anni oggi gli spacca la testa con una picozza gli è stato presentato da un’amica di Parigi, Sylvia Ageloff. Questa lo ha conosciuto alla Sorbona: si chiama Tony Babich, ma anche Frank Jackson, ma anche Jacques Mornard. A Sylvia – con cui ha una storia da due anni – ha spiegato di essere figlio di un diplomatico belga, e che i passaporti contraffatti canadesi gli servono per evitare il servizio militare. Nel 1939 si trasferisce per affari a Città del Messico con la mamma, e invita Sylvia a raggiungerlo là. Poi la convince a farsi presentare il grande Trotsky – dai, tu lo hai conosciuto, no? Per favore, quando mi ricapita, scrivigli che c’è un belga canadese che ha una grande stima di lui e vorrebbe stringergli la mano. Nel giro di poche settimane Tony riesce a entrare nelle grazie di Trotsky – quel che basta per poter penetrare nella sua residenza senza che nessuno gli trovi una picozza da alpinismo nella tasca della giacca. Succede il 20 agosto: la leggenda vivente sta leggendo il giornale nel suo studio. Tony prende l’arma impropria, si avvicina, chiude gli occhi e lo colpisce più forte che può.

Trotsky non muore.

Si avventa sul suo assassino, urla, chiama rinforzi. Fa ancora in tempo a dire che vuole Tony vivo, vuole interrogarlo. Poi si lascia portare in ospedale. Morirà il giorno dopo. Non prima di aver dettato al segretario del Partito Socialista Operaio Americano le ultime parole, accuratamente scelte: “Non sopravviverò a questo attacco. Stalin ha infine ottenuto il risultato già fallito in precedenza”.

Trotsky che si aspettava da un momento all’altro un esplosione di sangue nel cervello, e si era preparato, di fronte a una picozza salta e strepita e combatte. La morte in un qualche modo ti sorprende sempre.

Tony-Frank-Jacques passerà molte anni nelle carceri messicane, sostenendo di chiamarsi Jacques Mornard e di aver ucciso Trotsky perché non gli permetteva di sposare la povera Sylvia (quest’ultima sarà completamente scagionata). Ci vorrà un po’ di tempo per identificarlo: si chiamava Jaime Ramón Mercader del Río, era un agente spagnolo dell’NKVD sovietico. Sua madre – l’attrice Eustaquia María Caridad – aveva praticato prima di lui un po’ di spionaggio durante la guerra civile spagnola. Poco dopo l’assassinio di Trotsky, Stalin l’avrebbe insignita dell’Ordine di Lenin. La sorellastra di Ramón, anch’essa attrice, due anni dopo avrebbe incontrato Vittorio De Sica. Si sarebbero sposati soltanto nel 1959. Ramón uscirà di prigione l’anno successivo, per riparare a Cuba. Nel 1961 gli sarà riconosciuto il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica.

Almanacco, Leonardo sells out, memoria del 900, terrorismo

Una cosa, una roba senza senso o forma

2 agosto 1980Esplode una bomba alla stazione dei treni di Bologna. 85 morti, 218 feriti.

Andrea Pazienza via Paz-tastic

…La storia della caldaia resse sino a sera, ma già intorno a mezzogiorno le cose erano chiare. Nella squadretta di Scialoja c’era un sottufficiale che da soldato era stato artificiere. Gli era bastata un’occhiata alla voragine per scuotere la testa e sentenziare:
“Gas un cazzo. Questa è una bomba”.
La stazione era sventrata. Le sirene ululavano. Militari e volontari, fianco a fianco con le mascherine sul naso, scavavano le macerie in cerca di un segno di vita. Qualcuno piangeva, i più moltiplicavano gli sforzi per rimandare l’appuntamento con la rabbia e lo sgomento. Arrivarono le troupe televisive. Una folla di parenti angosciati assiepava i binari. Circolava una parola maledetta e rivelatrice: strage. Le lancette del grande orologio del piazzale Ovest erano ferme sulle 10 e 25. […] Scialoja s’era concesso una sigaretta. Una giornalista impicciona gli fu subito addosso. La mandò a quel paese e si rimise la mascherina. Dal profondo di due travi squarciate che si erano miracolosamente incastrate a formare una sorta di cavità naturale proveniva un flebile lamento. Scialoja si avventò. Vide una piccola mano coperta di graffi, la strinse, tirò. Le travi ressero. La bambina era sotto choc. Ma respirava. Lo guardava con i suoi enormi occhi stupiti e respirava. La prese in bracciò e la consegnò a un’infermiera. La bambina era biondissima e non capiva l’italiano. Un ufficiale dei carabinieri in alta uniforme lo bloccò al volo.
“Lei! Vada immediatamente al binario uno. Bisogna organizzare un servizio di scorta per le autorità!”
Scialoja mandò anche lui a quel paese e tornò al lavoro. Era lacero, era sudato, puzzava. Ma non sentiva la fatica, non sentiva il disagio. Aveva dormito troppo a lungo. Il letargo era finito… (Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, 2002).


…Definiamo quindi “neosensibilismo” il nostro modo di essere sensibili. Che in tutto si distacca dalle ambiguità di Francesca Mambro; da cui ci dissociamo anche per l’uso sconsiderato e irresponsabile del vocabolario. (Offlaga Disco Pax, Sensibile)

ebraismo, memoria del 900, nazismo, ucronie

Il negazionismo non è un’opinione

Il negazionismo è un dubbio. Deve diventare un reato?


By this weekend, those six centuries,
they're a rumor. They never happened.
Today is history.

I nazisti probabilmente non potevano vincere. A forzarli a un continuo rialzo contro il resto dell’umanità non era la follia di un leader, ma le premesse ideologiche del nazismo stesso, e una strategia a medio-lungo termine basata sul saccheggio. I nazisti potevano soltanto andare a sbattere, e infatti è andata così: e da quando è successa ci sembra la cosa più logica. Ma può essere estremamente utile tentare qualche volta l’esercizio mentale di immaginare come sarebbe il mondo se i nazisti avessero vinto, un eventuale 2013 che fosse anche l’anno 80 dal cancellierato di Adolf Hitler. È un’esperienza che può mettere a disagio, immaginare un mondo che per molti di noi sarebbe semplicemente inabitabile: un mondo nazista è un mondo che ci avrebbe quasi sicuramente impedito di nascere, e di crescere come siamo cresciuti, in ambiti sociali che il nazismo avrebbe smantellato.

Non è facile immedesimarsi in un abitante di quel mondo: ci sembra più facile calarci nei panni di un contadino dell’anno Mille, o un sanculotto alla Rivoluzione. Con quei personaggi condividiamo un passato – crediamo di condividerlo (il contadino dell’anno Mille non sapeva di vivere nel medioevo, né probabilmente nell’anno Mille). Ma con un nazista del 2013 non abbiamo in comune nemmeno quello: il suo passato non è il nostro. È stato completamente riscritto, in fondo è quello che fanno tutti i vincitori. Il nazista del 2013, per fare l’esempio più semplice, non avrebbe mai sentito parlare di ebrei fuori dai corsi di storia medievale, o di geografia del Medio Oriente. I nazisti vincitori a metà Novecento avrebbero avuto tutto il tempo per cancellare qualsiasi evidenza di una presenza ebraica in Europa negli ultimi secoli. Anche i ricordi dei nonni si sarebbero adeguati a questa opera di re-iscrizione della memoria collettiva. Se vi sembra impossibile, pensate a cosa hanno fatto i nostri nonni ai loro ricordi: cresciuti in un ambiente in cui il fascismo sembrava buono e giusto, con gli anni e con la necessità si sono presto o tardi quasi tutti convinti che in realtà il fascismo era stato un sistema di potere rovinoso e criminale. Ma se i criminali avessero vinto, i nonni sopravvissuti (e ariani) avrebbero continuato a stramaledire gli inglesi; a guardare cinegiornali e poi fiction in cui le plutocrazie occidentali massacravano vittime inermi, i poveri indù o i pellerossa o i fieri resistenti indocinesi.

Qualche dubbio qua e là sarebbe serpeggiato come oggi serpeggiano le leggende metropolitane: gli ebrei in Europa come le scie chimiche. Forse al di fuori dell’Europa si sarebbero conservate narrazioni diverse, ma liquidate come invenzioni di nemici degli ariani, subumani in cattiva fede. I nazisti del 2013, nipoti dei trionfatori del 1950, forse avrebbero perso del tutto la nozione di quello che noi ogni tanto chiamiamo “Male assoluto”. Al passato caotico e promiscuo – quel passato in cui un afroamericano aveva vinto quattro medaglie di atletica leggera ai giochi olimpici di Berlino – non avrebbero potuto guardare che con orrore e un misto di attrazione perversa (nel modo uguale e contrario con cui gli accessori del nazismo diventarono feticci erotici nel secondo dopoguerra). I loro studenti sarebbero molto più informati di noi sugli orrori coloniali di Francia, Regno Unito, USA e sulle miserie dell’URSS: forse qualche episodio sarebbe stato esagerato ad arte, ma in effetti non ci sarebbe nemmeno bisogno di truccare le carte più di tanto, ogni potenza ha armadi pieni di scheletri. I nipoti dei nazisti non avrebbero il minimo dubbio di vivere nel migliore dei dopoguerra possibili, dopo che i nonni hanno vinto una guerra in cui la posta in gioco era la sopravvivenza dell’umanità ariana; e reagirebbero disgustati a chi proponesse loro l’esercizio speculare: come si può immaginare un mondo in cui americani e i russi si spartiscono l’Europa, un melting-pot irrimediabilmente contaminato e devastato da comunismo e liberismo selvaggio? Un mondo del genere non avrebbe sopravvissuto per più di una generazione…

Ora che siamo arrivati a questo punto, ora che abbiamo immaginato un mondo in cui il passato è stato totalmente riscritto fino a diventare credibile – e quindi ebrei e zingari d’Europa non sono stati sterminati, non sono mai esistiti – facciamo un passo indietro, ma cercando di mantenere quel senso di vertigine. Siamo nel nostro 2013. I nazisti hanno perso, non prima di aver massacrato sei milioni di ebrei. Come facciamo a saperlo? Come possiamo essere sicuri che non sia un’invenzione dei vincitori, una re-iscrizione del passato? Magari gli Alleati avevano cose terribili da farsi perdonare, e hanno reagito fabbricando un passato in cui sono i buoni, i salvatori dell’umanità. Questo peraltro spiegherebbe come mai la Seconda Guerra Mondiale è l’unica che riusciamo a leggere con le lenti che uno storico dovrebbe buttare via alle elementari, i Buoni contro i Cattivi: onestamente, com’è possibile? Che nella Storia degli adulti ci sia ancora spazio per un conflitto in cui i Cattivi vogliono conquistare il mondo e sterminare i nemici, e i Buoni riescono a costo di uno sforzo inaudito a impedirglielo? Non assomiglia più a una fiaba che al modo in cui vanno le cose nella vita vera? E quindi? Come lo risolve, ognuno di noi, questo dubbio di vivere all’indomani di un passato cancellato e riscritto da un ufficio propaganda?

Dico come l’ho risolto io: non con la rimozione. Non mi sono turato le orecchie, non ho gridato LA LA LA LA NON TI SENTO ai negazionisti che venivano a mettere in dubbio le cose che mi sono state insegnate fin da piccolo. Ho ascoltato un po’ di quel che dicevano; poi ho letto altri che rispondevano, e ho risolto che per quanto posso capirne io, nello spazio limitato della mia esistenza e del mio cervello, i negazionisti si sbagliano. Il loro passato è meno credibile del passato che insegniamo a scuola. Ci sono prove che li smentiscono; certo, col tempo le prove si possono falsificare, ma tra loro e il consenso scientifico io continuo a fidarmi del consenso scientifico, che non è univoco: si dibatte ancora sul numero, sull’uso delle camere a gas; e questo più di ogni altra cosa mi convince: il fatto che esista un dibattito e non una verità assoluta; che i negazionisti non siano arrestati, ma contestati con argomenti e con prove.

Viceversa, se il negazionismo diventasse un reato; se bastasse negare il passato per essere portati via e processati; se io vedessi accanto a me persone che vengono portate via e processate per il solo motivo di pensare che le cose siano andate in un modo diverso, ecco, a quel punto il dubbio comincerebbe a ripresentarsi anche alla mia porta: perché non avrei il diritto di avere, tra tante, proprio quell’opinione? Probabilmente in un mondo in cui i nazisti avessero vinto, chiunque si ostinasse a portare prove di una presenza ebraica in Europa centrale verrebbe arrestato e imprigionato (magari proprio in alcuni campi in Europa centrale). Voi invece volete arrestare e sanzionare chi nega la Shoah o la ridimensiona. Un po’ lo capisco. Dopo decenni di dibattito storico, non è che puoi venirtene a dire che la Shoah non c’è stata: non è un’opinione, è una negazione di evidenze, di prove; è presentarsi a un convegno di paleontologia con la Bibbia in mano e affermare che i dinosauri sono tutti falsi perché sulla Bibbia non ci sono. E infatti io non invoco la libertà di opinione; peraltro non sono sicuro che tutte le opinioni la meritino. Preferisco pensare a un dovere, per ogni opinione condivisa e credibile, di difendersi da qualsiasi obiezione possibile senza chiamare la psicopolizia. Altrimenti la tua opinione non è più davvero condivisa e credibile: è soltanto difesa con la forza da un dubbio che evidentemente fa paura. E perché dovrebbe fare paura?

Uno dei motivi per cui sappiamo tante cose sulla Shoah, e tante altre continuiamo a impararne, è proprio la necessità che hanno avuto i superstiti di misurarsi col negazionismo, portando prove e testimonianze: nessuna delle quali magari per sé è definitiva – ma quando hai migliaia di persone che ti raccontano la stessa cosa, il negazionismo è sconfitto. Questo enorme e prezioso lavoro ci ha reso un servizio migliore di qualsiasi legge contro un’opinione. Anzi. Se avessimo iniziato a negare il negazionismo da subito, oggi non avremmo forse strumenti oggettivi per contrastarlo razionalmente. L’abitudine a procedere per dogmi ci avrebbe reso insensibili alla necessità di trovare prove documentarie. Il negazionismo ci serve a tenerci in allenamento, a non ripiegarci mai sulla risposta più semplice: “le cose sono andate così e basta”. No. Noi avevamo bisogno di dimostrare che le cose erano andate nel modo pazzesco in cui erano andate. Abbiamo scavato, abbiamo domandato, abbiamo ascoltato, abbiamo tratto delle conclusioni (non univoche); e così i nazisti hanno perso. Come faccio a sapere che hanno perso? Come faccio a sapere che non hanno vinto, e hanno riscritto la storia assegnando i loro crimini agli sconfitti?

Io so che hanno perso perché sono qui, adesso, e mi posso immaginare la loro vittoria senza che nessuno mi denunci o voglia portarmi via. Si chiama libertà di opinione, credo. Preferirei chiamarla necessità di dubbio. Lo “scuoter del capo su verità incontestabili” è bello – lo diceva un tizio a cui i nazisti davano la caccia. Aveva in effetti idee discutibili. Ma i suoi dubbi sono ancora meravigliosi.

memoria del 900, nazismo, santi

Le due corone di Massimiliano

Nel 1939.
14 agosto – San Maksymilian Kolbe (1894-1941), missionario, radioamatore, vergine e martire.

Da bambino ti raccontano tante storie, però tu sei sempre libero di capirle a modo tuo. Ieri sera ho scoperto che la leggenda delle due corone di San Massimiliano l’avevo sempre fraintesa. Nella versione che rammentavo, il giovane non ancora Massimiliano (al secolo si chiamava Raimondo) riceveva nottetempo la visita di una misteriosa signora che gli mostrava due corone, una bianca e una rossa. I colori della Polonia, e i miei.

La signora gli diceva “Scegline una”, e Raimondo, come fanno i bambini, rifiuta la contrattazione: “Perché? Mi piacciono tutte e due”. Va bene, fa la signora: allora avrai tutte e due. Raimondino non lo sapeva, ma aveva appena scelto la VERGINITÀ e il MARTIRIO. Avevo sempre trovato un po’ scorretto questo modo della madonna di strappare contratti di santità a bambini inconsapevoli. In effetti ho scoperto che la versione ufficiale è ben diversa: è la donna stessa presentarsi come Maria Immacolata e a spiegare a Raimondo cosa implichi scegliere una delle due corone, o entrambe. D’altro canto è pur sempre un bambino, quante volte da bambini abbiamo sognato di morire morti eroiche, generose e piene di significati, ma questo non autorizza la madonna a comparire proprio in quel momento e dire firma qui – e trent’anni dopo ci ritroviamo ad Auschwitz in una camera della morte ingombra di cadaveri. Insomma, io da bambino l’unica morale che riuscivo a trarre dalla leggenda è: non accettare i regali dagli sconosciuti in sogno, neanche dalla madonna. Soprattutto dalla madonna. Massimiliano Maria Kolbe però ha pensato diversamente, ha avuto una vita intensa e breve, piena di soddisfazioni e malattia, ed è morto da eroe. Da martire?

Padre Kolbe è anche il santo meglio onorato dai fumettisti italiani. Questo è Dino Battaglia nel 1962.
Non è stato subito così chiaro. Paolo VI, che lo beatificò, si contentò di definirlo “confessore” e “martire della carità”, che non è proprio un martire al 100%, un martire in nome della fede. Massimiliano non era morto per difendere la fede cristiana, ma più prosaicamente per salvare la vita di un uomo: il soldato Franciszek Gajowniczek, compagno di prigionia e padre di famiglia. Scambiare la propria vita con quella di qualcun altro, morire al suo posto in uno dei modi più penosi possibile è cosa molto nobile, ma ancora negli anni Settanta non rientrava nella definizione compiuta di martirio. Per cambiare questa impostazione ci volle l’interessamento molto attivo di un papa compatriota, Giovanni Paolo II, che nel 1982 lo promosse non solo santo, ma martire a tutti gli effetti. Scegliendo di morire al posto del soldato Gajowniczek, Massimiliano avrebbe infatti combattuto il nazismo, ideologia anti-umana e… anti-cristiana. In un colpo solo Wojtyla procurava alla Polonia un santo recente e lo metteva in prima fila nella lotta contro il nazismo, che già negli anni Ottanta stava perdendo i suoi contorni storici per trasformarsi nel cosiddetto Male Assoluto. Trovare cattolici che invece di collaborare vi si fossero opposti apertamente diventava una priorità (continua sul Post…)

Emilia paranoica, memoria del 900, Modena, Mondo Carpi, santi

Il soviet in provincia di Grosseto

Lo so, lo so, ma Castellitto
aveva già fatto sia don Milani che padre Pio.

15 gennaio – Don Zeno Saltini (1900-1981), sovversivo, nomadelfo

Zeno Saltini non è per ora un santo, nemmeno un beato – sua sorella Marianna, lei sì; ma nel suo caso ci sono miracoli documentati. Zeno in compenso ha già avuto la sua fiction, e il processo di beatificazione comunque dovrebbe essere iniziato nel ’09, campa cavallo. In realtà non dovrebbe essere così difficile trovare dei miracoli, ma non è probabilmente quel genere di miracoli che interessa al giorno d’oggi. Prendi Nomadelfia. Per come si sono messe le cose dagli anni Cinquanta in poi, il solo fatto che in Italia esista ancora un luogo come Nomadelfia, in cui “tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata, non circola denaro, si lavora solo all’interno e non si è pagati” è un discreto miracolo. Siamo nel 2013, i kolchoz sono stati tutti privatizzati, la comunione dei beni è un’eresia persino in Cina, e Cuba fa tristezza; ma Nomadelfia resiste, quattro km quadrati per 270 abitanti in provincia di Grosseto, se siete curiosi andateci, è gente ospitale. Io non sono stato in molti posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato. È stato tantissimo tempo fa, l’Unione Sovietica era ancora al suo posto nelle cartine. Ma ho la presunzione che non sia quasi cambiato niente, che i villaggi di prefabbricati siano ancora al loro posto, sulla collina sormontata da un’antenna. Se penso a Nomadelfia la prima cosa che mi viene in mente è un’antenna. C’è un motivo.

San Giacomo Roncole, 2012.

Un’altra cosa che ricordo è il vento battente, una cosa poco familiare qui da noi, che ti spazzava appena mettevi il naso fuori dai prefabbricati. Un vento che “ti mette appetito”, dicevano i locali. Era vero, avevo sempre una fame nervosa, per la verità non insolita nelle settimane a cavallo tra dicembre e gennaio. Di solito la combattevo frugando nella mia dispensa, concedendomi generose merende a base di avanzi di pandoro, ma a Nomadelfia si cenava sempre in lunghe tavolate, nei gruppi familiari, e mi vergognavo a chiedere che mi si riempisse di nuovo il piatto. Alla fine circolava questo panforte in fettine sottilissime; fino a quel momento ero stato piuttosto diffidente verso i dolci a base di frutta secca, ma quel panforte mi faceva impazzire. Avrei voluto mangiare tutte le fette dei miei commensali, avrei voluto scappare in cucina e mangiare tutta la scorta di panforte. Fino a quel momento il comunismo era stato per me un orizzonte teorico, non l’avevo mai immaginato in modo concreto, un posto dove anche se hai fame devi aspettare che mangino gli altri. Concettualmente ci arrivavo, ci ero sempre arrivato; ma il mio stomaco, scoprii allora, era un maledetto capitalista.

Danilo “Barile”

Don Zeno non parlava di capitalismo, né di comunismo. Un po’ forse nel tentativo (vano) di risparmiarsi qualche guaio con le varie autorità che gli complicarono la vita, un po’ perché erano paroloni, lui quando faceva le prediche a metà film amava tenere un registro più basso. Ai tempi in cui mio nonno lo sentiva comiziare a San Giacomo Roncole, lo slogan del suo Movimento per la Fraternità Umana era Fev do mòcc’, “fate due mucchi”: i poveri da una parte e i ricchi dall’altra, chiaro? Altro che capitalismo: i rècc’, i ricchi. Altro che classi sociali: i mucchi. A differenza di altri preti rivoluzionari, che sotto la tonaca nascondevano una formazione classica persin troppo raffinata, Zeno non diede mai nella sua vita l’impressione di semplificare le sue idee per il volgo incolto: le idee di Zeno erano già semplici, e il volgo incolto era quello da cui proveniva lui, che aveva abbandonato la scuola a 14 anni, per poi vergognarsene. Quattro anni più tardi, arruolato alla Grande Guerra, sperimenta lo choc che gli cambia per sempre la vita. Niente bombardamenti, una semplice discussione di politica nelle retrovie con un compagno di branda, un amico anarchico. L’eloquenza di quest’ultimo lo annienta, lo umilia di fronte ai camerati. “Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi, sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio”. Perché non è riuscito a difendere le sue idee di bravo cattolico? Perché non è istruito, l’anarchico sì. Al ritorno dal fronte Zeno informa il suo prete che ha intenzione di studiare teologia e diritto, da privatista. Le prime pagelle saranno agghiaccianti, ma Zeno è determinato: vuole diventare l’avvocato dei poveri. Riesce effettivamente a laurearsi alla Cattolica, ma poi preferisce farsi prete, convinto che i poveri si difendano meglio così. Nel ’31, durante la stessa cerimonia prende i voti e adotta il suo primo figlio, “Barile”, un giovane ladro di polli molto promettente che era andato a prelevare direttamente alla caserma dei Regi Carabinieri. Il primo di quattromila, dice la biografia ufficiale. Per tenere occupati i suoi piccoli apostoli, Zeno si affida alle sue passioni: il circo e il cinema. Trasforma gli orfani in saltimbanchi e gli affida la spericolata gestione delle sale parrocchiali. Gli porta fortuna la passione per i film americani, boicottati dal circuito delle sale ufficiali fasciste: noleggiarli costa poco, e le sale alla domenica sono sempre piene. A metà spettacolo i ragazzi accendono le luci e don Zeno fa la predica per quelli che a messa al mattino non c’erano, la maggior parte. Però chi a messa ci è venuto entra gratis: fuori dalla chiesa i Piccoli Apostoli ti timbrano il polso, come in disco.

A metà anni Trenta, nella Bassa modenese, i double feature dei Piccoli Apostoli, film+predica, sono lo show più trasgressivo consentito dal regime. Zeno riuscirebbe anche a guadagnarci, se non avesse una famiglia sempre più numerosa e se non reinvestisse parte del ricavato in una tipografia e in una bicicletta di corsa, poi in una moto, poi in una Balilla Torpedo, nel tentativo di simulare l’ubiquità in quello che ormai è un circuito alternativo, cinque sale diverse nel giro di 70 chilometri, in cui si proietta roba americana introvabile (continua sul Post…)

memoria del 900, santi

Nel convento c’è un cappuccino

Cattelan, non sei nessuno

23 settembre – San Pio da Pietrelcina, 1887-1968, taumaturgo.

Giovanni XXIII non aveva mai potuto soffrire Padre Pio. Già da monsignore era riuscito a evitarlo, anche quando batteva la campagna pugliese come responsabile della Propaganda Fide. Una volta divenuto Papa doveva considerare quel cappuccino sanguinante e odoroso di acido fenico, con la sua corte di faccendieri e isteriche, un esempio di ciò che la Chiesa conciliare doveva lasciarsi alle spalle. Tutto questo anche prima di ricevere da qualche volenteroso spione una bobina di intercettazioni ambientali in cui la voce del frate e delle sue più zelanti devote era frammista al rumore di sbaciucchiamenti. Senza essere stata particolarmente sollecitata, la bobina sembrava concepita appositamente per turbare un pontefice refrattario alla sola idea del contatto fisico con individui dell’altro sesso. “L’accaduto”, scrive, “…fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente…”

“Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili”.

Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI – quest’ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l’umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell’ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant’Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall’attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.


L’ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell’organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun “immenso inganno”, come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po’ astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l’arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l’animo del pontefice:

“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!

Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po’ credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D’altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull’erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.

Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita (continua ovviamente sul Post…)

cristianesimo, memoria del 900, miti, nazismo, santi

Crocifissi contro il Nazismo (1x)

“Tu sei il Male, io sono l’Anestesista”

30 marzo – Beata Restituta Kafka (Brno 1890 – Vienna 1943), martire antinazista

Uno potrebbe anche pensare che i tempi ruggenti dell’agiografia siano finiti per sempre – quei secoli, hai presente, in cui c’eri solo tu, in un monastero perso nel nulla, con un po’ d’inchiostro e della vecchia cartapecora raschiata, e ti chiedevano: “Oggi è Sant’Albano d’Ungheria, dai raccontaci la storia di Sant’Albano d’Ungheria“. “Ma io mica la so, manco so cosa sia, l’Ungheria”. “E inventa”. Al limite si poteva sempre scrivere: martire sotto Diocleziano (Diocleziano andava sempre bene, Diocleziano li aveva fatti fuori tutti, Diocleziano pasteggiava a carne di martiri e brindava a sangue di vergini, Diocleziano probabilmente in certi eremi andava forte anche come criptobestemmia: ma Dio cleziano! Quel porco! E il priore non poteva dirti nulla).

Oggi ci sono biblioteche in ogni piazza, mal che vada c’è google, oggi non puoi più inventarti niente, o no? Per esempio il 30 marzo si celebra tra le altre la memoria di una Beata novecentesca, Maria Restituta. Su di lei ci sarà ben poco da inventare, penserai. In effetti ci sono i documenti. Sappiamo che è nata Helen Kafka, nel 1890 a Brno, prima impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia, poi Terzo Reich, poi di nuovo Cecoslovacchia, oggi Rep. Ceca. Che prese i voti nell’ordine delle francescane della Carità, diventando suor Maria Restituta (detta “Resoluta” per i modi spicci) e che si distinse per la dedizione e la professionalità con cui esercitò la professione di infermiera e anestesista. Sappiamo che è morta a Vienna nel 1943, decapitata dai nazisti per alto tradimento. L’ha beatificata Giovanni Paolo II nel 1998, che l’unica suora decollata dai nazisti non poteva proprio perdersela. E tutto questo è Storia, voglio dire, abbiamo pure le foto. Non ci puoi ricamare, su Helen Kafka: con tutte le monografie che si saranno su di lei, nelle biblioteche, su internet, insomma, se improvvisi ti sgamano. O no?

Ecco, no. Una delle cose fantastiche che scopri studiando i santi è che il medioevo, quello fiabesco delle leggende dipinte sulle vetrate, è a portata di clic. Me ne stavo infatti leggendo la scheda di Famiglia Cristiana, quando mi capita di inciampare sulle ultime due righe. Leggi anche tu:

E in faccia agli assassini, prima che il carnefice alzi la mannaia, suor Restituta dice al cappellano: “Padre, mi faccia sulla fronte il segno della Croce”.

Tutto abbastanza verosimile tranne… la mannaia? Va bene, lo abbiamo visto, dei nazisti si può raccontare tutto e nessuno si lamenterà – i nazisti sono un po’ il nostro Diocleziano moderno. Ma ce le vedete le SS che tagliano la testa di una suora con la mannaia? Non suona un po’ anacronistico? In effetti basta sfogliare un po’ di Internet in altre lingue per rendersi conto che suo Maria fu decapitata, sì, ma mediante ghigliottina: il vecchio trabiccolo illuminista che gli Asburgo, per altri versi così diffidenti, avevano importato a Vienna, e che nel 1943 era ancora il supplizio ufficiale per i colpevoli di Alto Tradimento. E la mannaia? Un ricamo di Famiglia Cristiana. Uno solo? Vien voglia di dare un’occhiata più da vicino. (Continua sul Post)

1977, Br, manifestaiolismi, memoria del 900, terrorismo

Perché non fanno le BR?

Alla guerra globale con le fionde

L’insurrezionalismo dei cappuccetti neri non è un fenomeno così nuovo e originale come Maroni & co. vorrebbero. È comunque qualcosa che cronisti e commentatori, non necessariamente superficiali, stanno ancora cercando di mettere a fuoco. Si procede per aggiustamenti: abbiamo accettato che non sono tutti infiltrati (ma sono infiltrabili), non sono tutti fascisti (ma fascisti ce n’è) e che i black bloc internazionali, quelli che sconfinavano ai tempi dei grandi vertici, ormai hanno meglio da fare. Ogni tanto però partono ancora riferimenti storici alla c* di cane, ad esempio c’è chi parla di BR. È un passato che riemerge più per mancanza di fantasia che per altro: non penso che nemmeno i leghisti ci credano, a questa cosa delle nuove BR. È una specie di termine per assurdo, come quando si dice “uscire dall’euro” o “secessione”: se scenari del genere si concretizzassero, sarebbero i primi a sbalordirsi. In cuor loro sanno, come lo sappiamo un po’ tutti, che i cappucci neri non rifonderanno le BR, che non ne sarebbero capaci e comunque manco ci tengono: tanto è stridente il contrasto tra il loro movimento e i brigatisti di 40 anni prima (quaranta!) Ne siamo tutti così sicuri che forse vale la pena ridiscuterla, questa sicurezza: capire su quali fondamenti si posa.

Perché i cappuccetti non rifaranno le BR? In fondo brigatisti e cappucci condividono una premessa simile: l’insurrezionalismo. Le azioni di guerriglia urbana, siano sequestri o rapine o vandalismi, sono sempre concepiti come la premessa di una rivoluzione che è possibile: basta solo mostrare alla massa che si può, che la cosa è fattibile.

La differenza sta nel metodo. I cappucci sono vandali, devastatori, e lo rivendicano con orgoglio. Ogni manifestazione è una dimostrazione che la rivoluzione si può fare, anche se probabilmente l’unica idea di rivoluzione rimasta è una piazza ancora più grossa che brucia, con più camionette, più spranghe, più poliziotti da menare di più, in pratica il livello successivo del videogioco.

I brigatisti i videogiochi non li avevano. Erano sicari. I loro metodi consistevano per esempio nell’intimidazione a mezzo ciclostile, nel sequestro, nella gambizzazione, nell’omicidio politico. In ogni caso, si tratta sempre di fissare il mirino su un individuo, un solo esemplare del nemico: non la casta dei padroni, ma quel padrone, quel caposquadra o giornalista servo del padrone, quel sindacalista venduto, quell’uno da colpire per educarne cento. Col tempo l’orizzonte si estende, le Brigate Rosse alzano i mirini dalle officine al parlamento allo Stato maggiore NATO; teorizzano persino lo Stato Imperialista delle Multinazionali… però continuano a darsi obiettivi incarnati in individui: quel politico, quel segretario di partito, quel generale. Basterebbe questo a farci capire che siamo in un secolo diverso. Gli insurrezionalisti del duemila non sequestrano nessuno, non minacciano nessun Nome e Cognome, al massimo si danno come obiettivo la sede di un’istituzione nazionale o internazionale; ma se non riescono ad arrivarci va bene anche una Qualsiasi Banca. L’omicidio politico o il sequestro sono opzioni mai prese nemmeno lontanamente in considerazione, neppure dal più boccalone dei commentatori di indymedia. Varrebbe la pena di chiedersi il perché.

Un’ipotesi (un po’ subdola): fare i brigatisti è troppo sbattimento. La vita del sicario, spesso ridotto in clandestinità, richiede una disciplina, una professionalità, una capacità organizzativa che il cappuccetto nero non è in grado di reggere. D’altro canto i brigatisti venivano dalle fabbriche, erano abituati alla sveglia alle sei del mattino e a proiettare la fatica quotidiana in un orizzonte progettuale. I cappuccetti neri sono disoccupati  o precari cronici, la sveglia probabilmente la vivono come una costrizione borghese. Sto senz’altro stereotipando, in realtà non credo che i cappuccetti neri siano (tutti) degli allegri cialtroni: di sicuro hanno capito come si sta in piazza e hanno buone competenze tattiche, maturate nei fantomatici campi d’addestramento greci o più probabilmente in Val di Susa. Però alla fine sono vandali organizzati, tutto qui: non è che debbano gestire sequestri o reti di covi e arsenali in tutta la penisola. Gestire sequestri, soprattutto, richiede un’organizzazione infinitamente più complessa e professionale: e poi servono fondi. È noto il modo in cui i brigatisti si autofinanziavano: rapine.

Ecco, chiediamoci questa cosa: perché i cappuccetti neri non fanno rapine? Una certa contiguità con la criminalità comune dovrebbero averla, almeno quelli che vengono dalla curve. In ogni caso ormai sanno tutto su come violare la vetrina blindata di una banca: non gli è mai venuta la curiosità di dare un occhiata non dico al caveau, ma ai cassetti degli sportelli? Non è che debbano trasformare l’insurrezione in una forma estrema di shopping, come è successo durante gli ultimi riots di Londra: però il saccheggio è pur sempre parte integrante di una rivoluzione, che non è, mi par di ricordare, un pranzo di gala. Vandalizzare una banca senza rapinarla mi sembra come fumare senza aspirare, un voler peccare per forza senza riuscirne a godere. Oltre al fatto che anche i cappuccetti avranno le loro spese: fionde, bulloni, spranghe, corsi di aggiornamento in Grecia in tariffa economica, d’accordo, ma è pur sempre un traghetto andata e ritorno. Cari cronisti, magari la prossima volta che trovate un ragazzo così chiacchierino, fategli la domanda: ma chi finanzia? Perché all’esercito di pancabbestia figli di papà io non ci credo; ce ne saranno senz’altro, ma non possono essere la maggioranza. E quindi? I centri sociali producono davvero tutto questo plusvalore?

Insomma paragonare BR e insurrezionalisti contemporanei è quasi un esercizio di stile. Un discorso diverso meritano le analogie con Autonomia Operaia, sempre dagli anni di piombo, ma quelli dopo il ’77. Perché lo spartiacque è quello: chi tira fuori le BR si classifica immediatamente come un barbogio che parla a casaccio e probabilmente tiene ancora in casa 33 giri di prog italiano, la Premiata Forneria Marconi eccetera. Chi parla di Autonomia Operaia ha in mente il punk, e di punk ai cortei insurrezionalisti se ne ascolta ancora. Come dire che gli anni Settanta hanno due lati, il primo è suonato da musicisti professionali e molto tecnici e nessuno osa più passarlo per radio; dall’altra c’è già lo stesso rumore sguaiato che ascoltiamo tutti i giorni. In ogni caso no anche qui è opportuno rimarcare le differenze, non teoriche ma tecniche: nel ’77 negli spezzoni di AutOp si vedevano le P38. Gli insurrezionalisti prevedono una rivoluzione globale non molto pacifica, ma per ora l’idea di sporcarsi le mani con armi non anticonvenzionali non li sfiora. Eppure noi non viviamo in un mondo meno armato di quello del ’77. La criminalità organizzata controlla interi distretti della penisola: un gruppo insurrezionalista determinato non dovrebbe avere difficoltà ad equipaggiare gruppi di fuoco, in luogo delle falangi con le fionde che saranno anche efficaci a intrappolare le camionette, ma fanno comunque Ragazzi della via Pal. Se non stanno alzando il livello dello scontro alla fase sparatoria, se per lo meno non danno impressione di volerlo fare, neanche a livello di minaccia deterrente, vale anche qui la pena di chiedersi il perché. Va bene essere l’avanguardia della rivoluzione: ma pensate di farla tutta a spranghe e a estintori? In un certo senso sì, perché alle capacità devastatrici (modeste) di spranga ed estintore si aggiunge la potenza della vera arma del cappuccetto nero: il video. La rivolta è più un happening, una liturgia che un effettiva battaglia; tenere una piazza italiana per mezza giornata può considerarsi una vittoria solo se nel frattempo filmi tutto e lo condividi con gli amici. Le pistole in tutto questo non avrebbero senso: molto più fotogenico è l’estintore strappato al nemico, la fionda con tutto il sottointeso biblico (hai un bel da frantumare madonne, alla fine la Bibbia ti prende alle spalle). Sono armi che ti lasciano innocenti: quando si impugneranno i calci delle pistole l’innocenza sarà finita per sempre, ma chissà se succederà mai.

Chissà se ci credono davvero, è la domanda che mi resta in mente. Già qualche dubbio doveva serpeggiare sotto i passamontagna dell’Autonomia, che negli anni Ottanta approdarono ai centri sociali delle grandi città come a un rifugio sicuro. Lì dentro, per vent’anni, l’utopia rivoluzionaria ha ceduto il passo a una proiezione molto più ristretta, quella delle Zone Temporaneamente Autonome, la riserva indiana dell’utopia. Verso la fine degli anni Novanta i centri sociali che non erano diventati semplici discoteche o circoli ricreativi erano incartati in discorsi talmente autoreferenziali da riuscire incomprensibili anche a chi veniva dentro a ballare o a cercare sostanze (solidarietà ai compagni imprigionati durante manifestazioni di solidarietà ad altri compagni imprigionati durante gli sgomberi di centri sociali occupati in seguito agli sgomberi di altri centri sociali). Il movimento antiglobalista internazionale fu una boccata d’aria salutare, di cui alcuni seppero profittare, altri no. Dopo il forum di Firenze la spirale autoreferenziale ha ripreso il sopravvento. Forse l’episodio che ha scompaginato le carte stavolta è stato molto più locale: la guerriglia in Val di Susa. Lì i militanti dei centri sociali non hanno soltanto trovato nuove tattiche. Può darsi che abbiano trovato quello che più di tutto serve a un combattente: un motivo concreto per combattere. Non l’insurrezione globale, ma la difesa di quella valle, quel ruscello, quella gente (che non ha fatto mancare la solidarietà). Forse questo ha reso i cappucci molto più determinati. A Roma hanno portato un’organizzazione più efficace del solito. Ma a Roma c’è anche chi ha tutto l’interesse a usarli da utili idioti, e questo forse se l’erano dimenticato. Su in montagna probabilmente era tutto più chiaro: una linea da tenere, un nemico da punzecchiare, tanti amici pronti a nasconderti… Ehi, un attimo. Anch’io ho poca fantasia: sto ricascando negli anni Quaranta. Meglio finirla qui.

11/9, memoria del 900

Il temino sull’11/9

Io l’11 settembre 2001 ero

[inserire il luogo in cui dov’ero]

e stavo facendo

[descrivere brevemente la mia occupazione in quel momento]

quando all’improvviso [in tv / alla radio / al telefono un amico / su internet, perché modestamente io la usavo già] ho scoperto quello che stava succedendo; ho visto coi miei occhi

[spazio per inserire due o tre immagini toccanti che tutti si ricordano: torri che fumano, persone che precipitano]

e ho pensato: niente sarà più come prima.

Poi ci sono state alcune guerre, ma insomma, i dieci anni sono passati e io sono ancora qua, Bin Laden invece è morto, salire sugli aeroplani è più difficile, però tutto sommato poteva andarci peggio, dai. Ma non dimenticherò, perché chi non ha memoria non ha futuro. Questa è più o meno la traccia tipica del temino sull’11 settembre, purtroppo non a scuola ma sui nostri quotidiani (e sui blog, certo), dove abbiamo cominciato a leggerne già il 12 settembre 2001. A distanza di dieci anni, sarebbe interessante prendere i giornali di domattina e contare quanti pezzi saranno composti ancora con una traccia del genere. Magari neanche uno, chissà, magari si sono stancati di scriverli, come noi (da un pezzo) di leggerli. Sì, appunto, magari.

Chi sa dov’è il Wendy’s più vicino?

Tra qualche ora vedremo. Nel frattempo vorrei fermare qui un appunto, una cosa che mi è venuta in mente, da raccontare a chi non c’era. Ma, appunto, il problema con l’11 settembre è che c’eravamo tutti, sicché questa mania di continuare a raccontarcela a vicenda è un po’ stucchevole. Tra l’altro, più ce la raccontiamo, più rimescoliamo le nostre memorie, e alla fine sembra davvero che tutti ci ricordiamo le stesse cose.

L’unica speranza risiede nelle giovani generazioni – sperando che non si siano sciroppate troppi documentari e docufiction negli ultimi dieci anni, altrimenti rischiano di avere una memoria a posteriori migliore della nostra (quel fenomeno per cui io mi ricordo la formazione di Italia Germania 4-3). Comunque io quest’anno avrò una classe di ragazzi del Duemila, ormai ci siamo. Anche se è ancora un po’ troppo presto per spiegar loro questa cosa che mi è venuta in mente.

Mi è venuta in mente guardando la controversa foto qui sopra (via il Post) che ritrae alcuni giovani in una posa apparentemente spensierata sulla sponda sicura dell’East River, con Manhattan affumicata sullo sfondo. Dico apparentemente perché, quando la foto è diventata famosa, le persone catturate dal fotografo si sono difese spiegando che in realtà erano tutte piuttosto sconvolte. Anche se dallo scatto non appare. Il che potrebbe sembrare strano, a chi l’11 settembre non fosse lì, di fronte a Manhattan. (Ma c’eravamo tutti).

Allora bambini quello che dovrei dirvi, non oggi ma tra qualche anno, è che in realtà non è affatto strano. È la differenza tra fotografia e fiction, forse. Un regista di fiction, se dovesse immaginare un set così, chiederebbe agli attori di assumere espressioni di incredulità, impotenza, rabbia, disperazione, sgomento, panico, insomma una bella spadellata di Urli di Munch. E se gli attori non fossero dei cani, potremmo trovare la scena verosimile. Questa foto però non ha nessuna pretesa di essere verosimile, perché è vera. Io lo posso dire perché ero lì, cioè non proprio lì; a sei fusi orari di distanza, ma avevo davvero davanti la stessa scena: e benché mi sentissi anch’io sconvolto, impotente, incredulo, probabilmente sul viso non avevo un’espressione molto diversa da quella di quei cinque ragazzi. Potrei essermi stiracchiato anch’io, a un certo punto, sul terrazzino che dava sul mio ufficio. Avrò anche sorriso un po’, per cortesia o addirittura ascoltando una battuta – sì, ci raccontavamo addirittura le battute. Perché è vero che eravamo preoccupati. Eravamo preoccupatissimi. Ma per il momento eravamo sulla sponda sicura. Nessuno poteva ancora sapere cosa sarebbe successo il 12 settembre 2001: parlare di Terza Guerra Mondiale, in quel momento, non suonava affatto fuori luogo. Nulla sarebbe stato come prima, davvero, nulla, ma nel frattempo eravamo ancora in quel “prima”, non sapevamo bene da che parte quel “prima” avrebbe cominciato a franarci addosso, e più che rabbiosi, più che impotenti, più che sgomenti, io credo di aver trovato la parola che potrebbe definirci.

Eravamo euforici. Nell’occhio del ciclone di un grande cambiamento storico. Comparse di un action movie che non sarebbe finito senza qualche milione di morti. Ma era il nostro film, finalmente. Riguardava noi, e l’unica cosa sicura era che ci avrebbe cambiato la vita. In un modo o nell’altro. E dovete capire, bambini, che la maggior parte di noi faceva già una vita abbastanza di merda. Dicevamo “nulla sarà come prima” e intanto pensavamo “magari”.

Poi la sera arrivò Vespa, Scajola disse che c’erano stati venti, trentamila morti, gliel’avevano detto gli americani, arrivavano agenzie di bombardamenti di Afganistan, Massoud era morto ammazzato, io mi addormentai sul divano davanti a RaiNews.

No, aspetta. Non potevo captare RaiNews.
Ecco, sta succedendo. Sto ricordando quello che è successo a qualcun altro.

cinema, le 21 notti, memoria del 900, racconti, scuola

Il futuro di chi ha memoria

(2008-11)

La Storia, ho studiato, si ripete in farsa. Anche se stanotte non riesco a rammentare il perché: e non saprei a chi chiedere qui. E dire che dalla quantità di triangolini rossi ricamati dovremmo essere tutti mezzi intellettuali.
In realtà passiamo il tempo a rubarci le patate. La Storia si ripete in farsa, ma io non ci trovo molto da ridere, francamente. Può darsi che qualcun altro da fuori stia ridendo di me, di noi, ecco, questo avrebbe un senso. La fuori, nell’urlo del vento, Qualcuno ride. Io sto qui abbracciato a un deportato rumeno che trema più di me, e penso a Enea, alla prima volta che l’ho incontrato.

Non insegnavo nella sua classe, quindi ha del miracoloso che si ricordi di me. Ero lì di passaggio, sostituivo un collega con le piattole. No. Mi confondo. Le piattole ce le ha il mio collega di adesso, quello che trema, ed è pur sempre un segno di vitalità, di solito a un certo punto ti abbandonano anche loro. Il mio collega di allora era una collega, in realtà, una filologa molto brava che si fece venire un esaurimento nervoso e così la classe restò abbandonata a sé stessa per più di una settimana prima che mi mandassero a tamponare. Quando arrivai mi scambiarono per l’ennesimo supplente, avevano già predisposto il lettore dvd. I dvd!
Ma pensa cosa mi metto a ricordare.
I dvd. Che tecnologia insulsa. I lettori si rompevano a guardarli. I dischi si segnavano a sfiorarli. Specie quelli educativi. Invece le minchiate che portavano a scuola i ragazzi, quelle funzionavano sempre.

“Sentiamo, cosa vorreste guardare”.
“Alien vs Predator 2”.
“Non se ne parla”.
“Ma abbiamo visto il primo, vogliamo sapere come va a finire”.
“Sentite, ce l’ho io un buon film”. (Probabilmente in quegli anni me lo portavo sempre addosso). Ed è anche nel programma di Storia di quest’anno, così uniamo all’utile il d…
“È in bianco e nero, vero?”
“Sì, ma vedrete che è appassionante, e soprattutto è un film che parla di cose reali, cose che anche se vi appariranno mostruose, ben più mostruose di un Alien o di un Predator, sono successe realmente, nel nostro mondo, ai nostri nonni”.
“I nonni?”
“Facciamo bisnonni, ormai, e sapete cosa significa? Quando guardate Alien, per quanto possa spaventarvi, siete sempre sicuri dall’altra parte dello schermo. Ma l’orrore di questo film è ancora tra noi, da qualche parte, che incuba…”
“Incuba?”
“Aspetta soltanto il momento adatto per schiudersi e crescere, prolificare, riprendere il controllo… non vale la pena dargli un’occhiata, studiarlo, capire come abbiamo fatto a sconfiggerlo?”
“Cazzo, sì!”
“Ehi ehi ehi, tu… come ti chiami?”
“Galavotti”.
“Di nome?”
“Enea”.
“Che bel nome. Enea, niente parolacce qui dentro, d’accordo?”
“Sì, prof, mi è scappata, ma lo guardiamo questo film di mostri veri, o no?”
“Certo, certo, guarda, comincia adesso, attento alla candela”.

Un idiota ha aperto la porta.
Una folata di vento gelido mi spazza i ricordi dalla testa, sembra voglia gonfiare la baracca e portarsela via. Qualcuno si sta alzando, cerca di mettersi sull’attenti. Quindi l’idiota che ha aperto la porta è il comandante.
“Il professore è ancora qui?”
Mi libero dalla stretta del mio collega, che forze per alzarsi non ne ha.
“Sono qui, comandante Galavotti”.
“Facciamo due passi”.

Appena fuori dalla baracca mi getta una giacca sulle spalle. Ma io forse non sto tremando di freddo. Anche se non avevo scelta, non mi è piaciuto seguirlo. I miei colleghi penseranno che sono una spia. O forse è troppo tardi per preoccuparsene? Mi vuole liberare, qui in mezzo al nulla? O ammazzarmi? Mi accorgo senza stupore che la seconda opzione mi angoscia meno della prima.

“Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”.
Siamo al discorso d’addio, dunque. “Ah, sì, beh…”
“Vede, ne ho discusso anche con i miei camerati, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”.
“Però. Chi se l’aspettava”.
“Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore… come dire… teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare persone come lei”.
“Ma davvero?”
“Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film… a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Siamo venuti a sgomberare il campo”.
“Bene. Cioè… È una notizia buona, no?”
“No. Ora dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
“Ma perc…”
“Poi vi portano nel piazzale, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza anche altri quattro, ma a volte l’ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”.
“Ma farà freddo!”
“I cadaveri scaldano”.
“Enea, perdonami, posso farti una domanda seria?”
“Dica pure, prof”.
“Perché tutto questo orrore, perché?”
“Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”.
“Ma…”
“E lo abbiamo preso da un film, sa? Quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”.
“Sì, però…”
“Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tanto. Ora, se non le spiace, devo procedere allo sgombero. In bocca al lupo, professore”.
“In bocca al lupo, Enea, e grazie”.
“Ma grazie a lei. E mi raccomando. Sempre in fondo alla fila. Si ricordi”.

*******

“Oh, finalmente un genocidio”, sospirò la paziente Verola. “Il modo migliore per festeggiare la fine del primo turno. Non resta che procedere all’eliminazione di uno di voi…”

ho una teoria, memoria del 900

Un popolo di eroi

Siamo noi, ovviamente, gli eroi che salveranno la baracca anche stavolta. Fosse la volta buona, almeno (H1t#82 sull’unita.it, si commenta laggiù).

Ho trovato questo messaggio, che volentieri pubblico:

“Buongiorno, Presidente. Chi le scrive non ha nessuna importanza. Diciamo che sono uno dei milioni di contribuenti onesti di questo Paese.
Uno di quelli che lavora – finché lavoro ce n’è – senza lamentarsi troppo, e non evade le tasse, perché non può, o magari non vuole: pensi che c’è gente che paga ancora persino il canone Rai; ecco, io sono tra questi. Non creda che io lo faccia perché mi piace la Rai. Non so nemmeno io più perché lo faccio. Forse perché quando si è eroi, bisogna esserlo fino in fondo, e Presidente, in questi giorni ho finalmente compreso questa semplice verità: io sono un eroe. Sono il cavaliere senza macchia e senza paura che anche stavolta salverà l’Italia, salverà la moneta unica europea, salverà la faccia ai miei rappresentanti: sono io.

Pagherò tutto io, per gli anni di vacche grasse che ho visto molto da lontano; pagherò ticket e superbolli mentre metto da parte per le vacche magre che invece all’orizzonte si distinguono già benissimo; ma non importa, tanto ci penso io. Sono il nuovo Robin Hood che ruba a sé stesso per dare ai poveri, ma anche ai ricchi che hanno paura di rimetterci qualcosina del loro; senza dimenticare una mancia generosa per lo sceriffo di Nottingham che senza di me non saprebbe dove sbattere la testa. Faccio tutto io, come mio padre vent’anni fa, come suo nonno che si cavò il sangue con la quota novanta. Come vede vengo da una stirpe di eroi. Tutti ignoti, come me.

In cambio non chiedo certo un monumento. L’unica cosa che pretendo, Presidente, è che tra dieci, tra vent’anni, a mio figlio non sia chiesto lo stesso sacrificio. A lui almeno vorrei fosse concesso il diritto di scegliere, se essere eroe o vivere una vita normale in un Paese non più sull’orlo del baratro. Ma affinché questo succeda, Presidente, occorre che Lei e i suoi uomini si levino di mezzo. Mi spiace, perché Lei mi sembra una brava persona e onesta; ma il sistema politico che rappresenta è marcio alle radici, e probabilmente lo sa. Come sa che noi eroi ignoti non sopporteremo un solo giorno di più lo spettacolo dei privilegi di cui gode la casta dei governanti che ha portato il Paese allo sfascio.
Sciolga le camere, Presidente, indica le elezioni, e lasci che noi eroi ignoti completiamo l’opera – abbiamo salvato il bilancio, salveremo anche la democrazia, se merita d’essere salvata. Ma bisogna farla finita con la politica, con questa politica. Non abbia paura del caos: qualsiasi caos è preferibile agli uomini che ci hanno portato a questo ennesimo disastro. Chiunque verrà dopo di loro, non potrà che essere migliore – persino quell’Umberto Bossi, con quel piglio barbarico, se andasse al potere non potrebbe che fare del bene. Certo, taglierebbe molti uffici inutili, molti enti assurdi, molte teste; tanto meglio. Ma ancora meglio di lui potrebbe fare un imprenditore, uno dei pochi che dal niente è riuscito a mettere insieme un solido impero economico: uno come il cavaliere Silvio Berlusconi, insomma, il fondatore della Fininvest. Se solo accettasse di candidarsi…”
(Fax trovato in una bottiglia al largo di Marina di Ravenna, domenica 17 luglio. Anche se manca la data, tutto lascia supporre che sia stato scritto 19 anni fa, nell’autunno del 1992, mentre il governo presieduto da Giuliano Amato fronteggiava la svalutazione della lira varando la finanziaria “lacrime e sangue” da 93.000 miliardi di lire. Onore all’eroe ignoto, a tutti gli eroi ignoti. Ma beati anche i Paesi che sanno farne a meno). http://leonardo.blogspot.com
Berlusconi, calcio, fascismo, memoria del 900

Ovunque (è piazzale Loreto)

Non dico dagli anni Ottanta, non credo che ce la faremo mai, ma sarebbe bellissimo cercare di uscire vivi almeno dai Quaranta – da questa fiction sugli anni Quaranta in cui viviamo da vent’anni, con finiture di cartapesta sempre più slabbrate. Non dico per sempre, magari giusto qualche mese per vedere se funziona, come le coppie rodate quando vanno in vacanza: io e te, proviamo a vedere se litighiamo anche, boh, alle isole Marchesi. Ecco, allo stesso modo io e voi potremmo passare questo giugno 2011 nel Secolo XXI parlando di calcio-scommesse o questione palestinese o crisi di Berlusconi senza mai nominare (neanche quando ne avremmo tanta voglia): Hitler, il nazismo, l’Olocausto, la conferenza di Monaco, Mussolini, il fascismo, le leggi razziali, Piazzale Loreto, eccetera. Non perché ce ne vogliamo dimenticare, tutt’altro: proprio perché vogliamo conservarli come ricordi preziosi, importanti, da tirar fuori soltanto quando ne vale la pena e non, capitano Buffon, al primo scandaletto che arriva.

Anche perché il fascismo, quel fascismo ruspante che ti abbiamo sempre perdonato finché ci paravi i rigori, Capitano, non è che può trasformarsi in un’enciclopedia buona a tutti gli usi, come accade a quelli che a furia di lamentarsi che a scuola non si insegnano le foibe, e le stragi del triangolo rosso, e a pretendere nei programmi di tutte le scuole le foibe (e il triangolo rosso), dopo un po’ l’unica cosa che sanno dirti di tutto il Novecento è che ci sono state delle foibe e un triangolo (rosso). Non dico che non siano storie importanti, ma impariamone altre. Perché non è vero che tutto intorno a noi ci parla di Mussolini. Siamo noi che abbiamo questa fissa per Mussolini e lo vediamo in qualsiasi uomo di potere, da quando Forattini infilava Craxi nello stivale e anche prima.

Altrimenti continuiamo la solita recita: il calciatore fascistone che tira fuori Piazzale Loreto, il blog sinistroide che risponde Ma-gari, sarebbe ora di appendere tutti i disonesti e intrallazzoni eccetera eccetera. Come se fosse una fune che ognuno può tirare dalla sua parte, Piazzale Loreto, mentre invece è un simbolo che dovrebbe unirci, fascisti e antifascisti, nella vergogna. Se ne abbiamo studiato quel poco per sapere che non ci fu nessuna gloria nello sparacchiare e sputacchiare sui cadaveri; che Pertini se ne andò disgustato, che il CLN deplorò immediatamente e unanimemente la “macelleria messicana“, e che a tutt’oggi non si è ancora capito chi abbia dato l’ordine di portare lì le salme e appenderle alla tettoia della pompa di benzina. Nulla di cui andare fieri, davvero: Mussolini avrebbe potuto morire da combattente, e si fece catturare travestito mentre fuggiva; quanto agli italiani, Capitano, non ha tutti i torti: hanno questo vizio di tenersi tutta la saliva per quando i potenti cadono in disgrazia. Lei poi stava semplicemente pensando a quella banda un po’ sgangherata di calciatori pizzicati a truccare le partite, ma forse nelle ossa ammaccate ha sentito lo Zeitgeist: c’è un’aria strana in questi giorni, a Roma hanno perfino messo in scena una farsa di Gran Consiglio. Poi magari non succederà nulla, come non è successo nulla tante altre volte, ma a Piazzale Loreto in questi giorni ci stanno pensando in tanti: più per mancanza di fantasia che per reale attinenza.

Tanto che io, solito bastianino, sento qui di dover lasciare un piccolo voto: il giorno che Silvio sarà caduto – ma caduto sul serio – domani o tra vent’anni, prometto che non sprecherò una sola cattiva parola, un solo sputo per lui; e ne rispetterò la salma. Magari dagli anni Quaranta si può uscire anche così.

ho una teoria, memoria del 900, razzismi, scuola

Ricordare stanca?

Stavo per scordarmi. La classe ariana per un giorno è on line sull’Unita.it e si commenta qui.

(È un racconto di invenzione, non esiste nessuna terza zeta, qualsiasi riferimento alle scuole dell’obbligo dei vostri figli è assolutamente casuale).
“Collega, devo chiederti un favore. Tu insegni nel corso Z, vero?”
“Certo”.
“Senti, devi darmi una mano per la Giornata della memoria, perché non ne posso più. Tu quest’anno cos’hai fatto?”
“Il 27 gennaio? Mah, di solito cerco di proiettare un film, sai, una lettura di Primo Levi, le solite cose…
“Ecco, appunto, io dopo dieci anni di La vita è bella non ne posso più, mi esce dalle occhi”.
“Vabbe’, ma scusa, è come se la prof di matematica si stancasse del teorema di Pitagora”.
“Guarda, non so come funzioni con Pitagora, ma Auschwitz dopo un po’… non hai letto De Bortoli sul Corriere? Ricordare stanca”.
“Va bene, e quindi? Cosa vorresti fare?”
“Ecco, io stavo pensando di fare qualcosa di coinvolgerli di più, i miei ragazzi… per esempio, so che in una scuola da qualche parte hanno osservato per un giorno le leggi razziali”.
“Le leggi razziali?”
“Ma sì, funziona più o meno così: la prof entra in classe e legge una circolare che impone di separare gli alunni ariani dai semiti, e poi si osserva come reagiscono. Che ne pensi?”
“Guarda, non è una brutta idea”.
“Ecco, però per realizzarla mi servi tu”.
“Io?”
“Ma sì, perché io di alunni semiti nel corso A non ne ho proprio, capisci”.
“Perché invece io?”
“Ma figurati se non ne hai, scusa… tutti i marocchini e i tunisini, sono semiti anche loro”.
“Ah sì?”
“Per la Bibbia sì. Per non parlare dei camiti, le leggi razziali parlavano anche di loro…”
“Perché i camiti chi sarebbero, scusa?”
“I neri”.
“Ah, allora sì, ho due senegalesi un ghanese e una nigeriana. Invece di semiti ho tre marocchini, un’egiziana e… gli albanesi contano?”
“Non saprei”.
“Altrimenti ho due rom”.
“Gli zingari sono perfetti. Vedi? Ne hai fin troppi, prestamene un po’”.
“Per la giornata della memoria?”
“No, facciamo per una settimana… così prima si ambientano in classe, e poi il ventisette arrivo, leggo la circolare e li metto nell’ultima fila… una cosa così”.
“Senti, però, scusa, io capisco il realismo e tutto quanto, ma non ce l’hai nella tua classe un altro studente di una minoranza? Anche se non è africano, voglio dire, è il pensiero che conta…”
“Ho il figlio di un dentista ungherese, è biondo con le lentiggini, dai, non è la stessa cosa. E poi se suo padre non la prende bene finisce che ci denuncia”.
“Ma scusa, e il cinese? Io l’avevo pur visto un cinese nella vostra classe…”
“Ah, sì, poverino… l’avevano messo da noi perché si era iscritto all’ultimo momento… ma non spiccicava una parola e stava sempre nell’ultimo banco…”
“E che fine ha fatto?”
“Ecco, non si sa bene. È scomparso”.
“Come scomparso”.
“Ma infatti in segreteria stanno telefonando, solo che non trovano nessuno che parli italiano… del resto si sa come sono i cinesi”.
“Ma non è vero, io ne ho due, vengono sempre, in bicicletta, con la pioggia e col sereno”.
“Ma sì, ma che c’entra… la tua è una classe multietnica, si trovano meglio… invece in A, sai com’è, tutti bianchi…”
“Ecco, ma infatti, appunto, com’è questa storia? Che io ho quindici stranieri in classe e tu solo uno? La Gelmini non aveva promesso che…”
“Ma sì, la storia della quota. Non se ne sente più molto parlare, ma avrebbe dovuto cominciare lo scorso settembre con le prime elementari… e comunque riguarderebbe soltanto i bambini non nati in Italia, invece scommetto che molti dei tuoi risultano nati qui”.
“Sì, ma che vuol dire, molti di loro fan fatica lo stesso”.
“Però dai, è un ambiente molto stimolante”.
“È faticoso, e siamo sempre indietro col programma… Ma scusa, non potevano dividerli in parti uguali quando hanno fatto le prime? Se ne potevano mettere quattro o cinque in ogni classe, avremmo lavorato tutti meglio e tu avresti i tuoi studenti semiti”.
“Ma lo sai che il corso A è quello di tedesco, no?”
“E che c’entra tedesco, scusa, è la seconda lingua, cosa cambia se fanno due ore di tedesco alla settimana?”
“Cambia tutto, perché i genitori fanno la fila per iscrivere i figli”.
“E i figli degli stranieri vengono esclusi?”
“Ma no, non capisci? Non c’è nessun bisogno di escluderli – infatti per esempio il dentista ungherese ha iscritto suo figlio a tedesco. Ma i genitori degli africani semplicemente non sono informati. Oppure pensano che sarà una classe più difficile e preferiscono iscrivere il figlio al corso Z. È una specie di selezione naturale, capisci”.
“Così nella mia classe ci sono quindici alunni semiti o camiti”.
“Sì”.
“E nella tua neanche uno. Mi ricorda qualcosa”.
“Adesso però non fare il polemico, eh. Se non facessimo così molti genitori iscriverebbero i figli altrove. E se perdessimo delle cattedre, indovina qual è la prima che cade”.
“La Z”.
“Bravo. Allora, mi aiuti o no? Potremmo fare così… tu mi presti quattro studenti semiti e io…”
“E tu mi presti cinque studenti biondi e ariani che parlano tedesco! Ci sto. Sarà una grandissima giornata della memoria. Oppure… senti, ho un’altra idea. Perché non andiamo a vedere il campo di concentramento?”
“Ma è un viaggio lungo, e poi quando arrivi non è che ci sia molto da vedere…”
“Sì, però senti questa: ci andiamo con un treno speciale, chiudiamo la mia classe in un vagone merci e i tuoi ragazzi ogni tanto li sciacquano con la pompa dell’acqua! Urlando in tedesco!Achtung Juden! O qualcosa del genere. Sanno dire Achtung Juden?”
“Sei sempre il solito”.
“Secondo me stanno imparando”.
“È impossibile lavorare con te, non sei mai serio”.
“No, ma scusa eh, passiamo il tempo a ricordare una legge che ha funzionato soltanto per una manciata di anni dopo il ’38, e nel frattempo quanti anni sono che discriminiamo i ragazzi nelle nostre classi? Ho una teoria. Secondo me…”
“Uff, le tue teorie”.
Berlusconi, Dell'Utri, fascismo, ho una teoria, memoria del 900

Lo Pseudobenito

Ok, Marcello, ce l’hai fatta. I ‘tuoi’ diari di Mussolini saranno anche una patacca. 

Ma ormai ci tocca leggerli lo stesso. Ho una teoria #39 è sull’Unita.it, e si commenta qui.

Alla fine Dell’Utri ce l’ha fatta. Ha trovato un editore prestigioso per quei “Diari di Mussolini” che sono il pezzo più importante della sua collezione di bibliofilo. A questo punto non ha più molta importanza che che i diari siano autentici o no: ci toccherà leggerli lo stesso. Non certo per imparare qualcosa di più sul dittatore, dal momento che gli studiosi che li hanno già letti (tra gli altri Denis Mack Smith, Pasquale ChessaEmilio Gentile) non vi hanno trovato fin qui nessuna novità di rilievo; nessuna rivelazione importante, niente che non fosse già noto agli studiosi attraverso altre fonti. Il che è già piuttosto strano: di solito chi tiene un diario vi riversa quello che non può scrivere o dire altrove. Dell’Utri sostiene di avere trovato nelle cinque agendine un Mussolini più “umano”, che avrebbe perso la guerra “perché era troppo buono”. Gli studiosi si sarebbero aspettati di trovarci qualche dettaglio inedito sui suoi rapporti con il Re e con gli altri potenti della terra. Ma il Mussolini dellutriano è uno stranissimo autore di diario, che invece di mettere sulla carta i suoi stati d’animo preferisce soffermarsi lungamente sulle sue uscite pubbliche, ricopiando per pagine e pagine le cronache dei quotidiani. Un dittatore saltuariamente dotato del dono della profezia, che menziona nel 1939 il carro armato tedesco “Tigre”, progettato solo tre anni più tardi. Un ex maestro di scuola, ex giornalista affermato, che commette errori da matita blu, e sbaglia a scrivere “Nietzsche”; il che beninteso può succedere a chiunque, ma più difficilmente a un appassionato lettore di Nietzsche come lui…
Tutti questi dettagli ormai hanno poca importanza. Come ammise lo stesso Dell’Utri qualche mese fa in un’intervista radiofonica, l’importante non è che i diari siano veri o falsi, ma che siano belli, anzi, “bellissimi”: “se fossero falsi, ma bellissimi, chi se ne frega”. Così le agende già rifiutate da Feltrinelli, Mondadori, Times, Sotheby, L’Espresso, saranno pubblicate da Bompiani: e anche se non abbiamo ragione di dubitare delle perizie condotte fin qui dagli esperti, le leggeremo lo stesso. Consapevoli di leggere un probabile falso. Ma a volte un documento falso può diventare più interessante di uno autentico. Anche se non ci dice nulla sull’autore a cui è stato attribuito per errore, può dirci molte cose sugli uomini e le donne che hanno deciso di considerarlo vero. Oggi nessuno può più credere all’autenticità dei Protocolli dei Savi di Sion; eppure essi restano un documento straordinariamente interessante. Non per le cose che affermano su un fantomatico complotto sionista mondiale, ma perché gettano luce sull’antisemitismo di inizio secolo, raccontandoci le superstizioni che sedussero milioni di persone, dai contadini allo zar. Allo stesso modo lo pseudo-Benito che uscirà dai diari sarà interessante in sé, al di là della sua somiglianza al Benito originale. Più che di Mussolini, esso ci parlerà di Dell’Utri, e soprattutto del suo mentore, che a quanto pare i diari ha già potuto leggerli in fotocopia.
C’è infatti un momento preciso in cui il Mussolini taroccato è diventato un oggetto meritevole di studio. Il 27 maggio scorso, durante il vertice OCSE, Berlusconi ha citato una frase di “colui che era ritenuto un grande e potente dittatore, e cioè Benito Mussolini”. “Dicono che ho potere, non è vero, forse ce l’hanno i gerarchi ma non lo so. Io so che posso solo ordinare al mio cavallo di andare a destra o di andare a sinistra e di questo devo essere contento”.
A differenza di altri politici (Veltroni su tutti), Berlusconi non ama infiorettare i suoi discorsi di citazioni storico-letterarie. Un’eccezione importante è costituita da un libro da lui letto in gioventù e molto amato (nel 2001 viene menzionato addirittura nella brochure elettorale Una Storia Italiana): L’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam. Non a caso, quando la passione bibliofila di Dell’Utri lo spinse ad aprire una collana di libri d’arte, il primo volume a uscire per i tipi della “Silvio Berlusconi editore” fu proprio l’Elogio. Nella prefazione, lo stesso Berlusconi confessava di essersi riconosciuto nella tesi centrale “della pazzia come forza vitale creatrice”: “nella mia vita di imprenditore sono stati proprio i progetti a cui più istintivamente mi sono appassionato contro l’opinione di tanti, anche amici cari, i progetti per i quali ho voluto dar retta al cuore più che alla fredda ragione, quelli che hanno poi avuto i maggiori e più decisivi successi”.
Ultimamente però l’Elogio è sparito dai suoi discorsi. Il fatto che all’“eccezionale ricchezza dell’arte della comunicazione” di Erasmo sia subentrata la stanchezza di uno Pseudo-Benito che contempla lo sfascio della sua nazione e non riesce a governare più in là del suo cavallo ci dice molte cose, e nessuna di queste cose riguarda Mussolini. Il duce è ormai un mito, e quel che più importa, un mito tragico: il grande uomo (tanto buono) che si prende sulle spalle la responsabilità di una nazione, ma nonostante i titanici sforzi non riesce a spostarla di un passo. Né lo Pseudo-Benito né il vero Silvio sono verosimili, quando confessano di non riuscire a tenere le redini del Paese: entrambi potevano fare e disfare ministeri, godevano di consenso popolare, controllavano i mezzi d’informazione. Eppure non ce l’hanno fatta: l’Italia è un corpo inerte che non si lascia possedere. Il finto Benito e il vero Silvio la pensano così. Il primo illumina il secondo di una luce crepuscolare: il Berlusconi che legge lo Pseudo-Benito è un potente affaticato, esaurito, che cerca nei fallimenti degli uomini illustri una consolazione ai propri, e forse si domanda cosa resterà di lui. http://leonardo.blogspot.com
25 aprili, ho una teoria, memoria del 900, resistenza, scuola

Per resistere, resiste

“Ma hai sentito che vogliono cancellare la Resistenza?”
“Eh? Cosa?”
“La Resistenza, vogliono cancellarla dalle scuole”.
“Ma chi?”
“Come chi, la Gelmini!”
“Ma è uno scandalo”.
“Ma veramente”.
“Come se… ma tu, scusa, l’hai fatta tu a scuola la Resistenza?”
“Ah, no, io sono arrivato a Caporetto”.
“Io a Sarajevo”.
“Comunque è uno scandalo”.
“Comunque sì”.

Ho una teoria (#21): cancellare la Resistenza dalle scuole non è poi quel dramma… (sull’Unità.it; si commenta qui).

Ma è vero che la Gelmini vuole cancellare la Resistenza dalle scuole? Sì e no. Non è vero che i nuovi programmi ministeriali abbiano eliminato la lotta antifascista. È semplicemente successo che i collaboratori della Gelmini, dovendo sintetizzare il programma di Storia del Novecento in una paginetta, non abbiano usato la parola “Resistenza”. Per loro stessa ammissione, affrontare la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra senza toccare l’argomento è praticamente impossibile. Dipenderà poi da ogni singolo insegnante, che alla paginetta allegata a una circolare darà un’occhiata a settembre, per poi rinchiuderla in un cassetto e non guardarla probabilmente mai più. L’approccio degli insegnanti dipende molto più dai libri di testo, e sui libri per ora la Resistenza resiste.

È curioso che si accusi la Gelmini di questo tipo di revisionismo: si dà per scontato che la Resistenza sia un punto fermo dei programmi di Storia della scuola dell’obbligo. Eppure, se ci pensate bene, fino a poco tempo fa non lo era affatto. Sono piuttosto rari quelli della mia generazione che hanno fatto in tempo a studiare i partigiani a scuola: e questo non a causa del programma: sui foglietti del ministero magari la parola “Resistenza” c’era. Ma poi mancava il tempo, a Pasqua si arrivava a Sarajevo e il fascismo era confinato negli ultimi mesi. Ciononostante in qualche modo ce l’abbiamo fatta anche noi, a crescere antifascisti. Viceversa, oggi i programmi dedicano alla Storia del Novecento un anno intero di scuola dell’obbligo: c’è tutto il tempo per affrontare i totalitarismi e capire l’insidiosa differenza tra repubblichini e repubblicani; ci sono le giornate della Memoria e del Ricordo, da osservare nelle scuole di ogni ordine e grado; in pratica, non abbiamo mai avuto una scuola così antifascista; eppure le svastiche incise nei banchi non sono un granché diminuite.

Forse quello che rende ancora così affascinante quel periodo della nostra Storia recente è proprio il fatto che abbiamo dovuto studiarcelo da soli, con strumenti che la solita scuola gentiliana non ci dava. A differenza della Grande Guerra, con le sue triplici alleanze e le sue battaglie, ridotte a uno sbiadito ricordo scolastico, la Resistenza abbiamo dovuto impararla dai nonni: riuscivamo ancora a leggerla in certe scritte sbiadite sui muri tra i quali siamo cresciuti, e nei rancori di persone che conoscevamo. Se l’avessimo studiata a scuola forse l’avremmo sentita molto meno nostra. È una mia teoria: la scuola rende noioso qualsiasi argomento, e la Resistenza non merita di diventare un argomento noioso. Nessun professore di Storia potrà mai davanti a sé la platea di un concerto di piazza, come è successo ancora una volta al comandante Diavolo a Carpi, lo scorso 25 aprile.

I partigiani non erano soldati come gli altri. Non meritavano i soliti monumenti, e forse ha un senso che non si riesca a confinarli in una paginetta di riassunto del Novecento. Del resto, se negli ultimi anni erano riusciti a entrare a scuola, probabilmente non è lontano il giorno in cui ne usciranno: non a causa di una circolare ministeriale, ma perché di Storia se ne insegnerà sempre meno. Nei licei, ad esempio, le quattro ore di Storia e geografia dovrebbero ridursi a tre. A quel punto probabilmente si tratterà di scegliere se insegnare i partigiani o la Cina, i repubblichini o l’Australia. Non ci sarà nessun bisogno di cancellare la Resistenza dal programma: anzi, sarà facile attribuire la colpa agli insegnanti, che non riescono a procedere spediti lungo il ‘900 con classi di quasi trenta alunni. Insomma, è possibile che i nostri figli dovranno arrangiarsi a impararla in casa o in strada. Come abbiamo fatto noi. E non è detto che sia per forza un male.

futurismi, memoria del 900, scuola, Storia

Il ‘900 è la nuova Bibbia

Nella puntata precedente: a causa di una riforma a caso, nelle scuole italiane si studia parecchio la Storia contemporanea e poco o nulla quella antica. Rimane da stabilire se sia un male.

Col tuo stile Novecento
In questa immagine ho accostato due personaggi che si sono rumorosamente fatti spazio nel nostro immaginario negli ultimi mesi: Emanuele Filiberto Savoia e l’avatar Na’vi di Jake Sully. Uno crede alla sua Cultura, alla sua Religione, l’altro rinnega tutto quanto e si proietta nel futuro. Apparentemente.

In realtà se smonti Jake Sully ci trovi una quantità impressionante di riferimenti storici alla contemporaneità (11/9, Vietnam) e alla Storia ‘antica’ (antica per gli americani: per noi europei Pocahontas è già “moderna”, ma ci siamo capiti). E se smonti Emanuele? Bella domanda, qualcuno dovrebbe provarci… no, seriamente: c’è davvero una Storia, un passato, dietro Emanuele Filiberto? Quando dice che crede nella sua “cultura”, di cosa sta parlando? Della Storia d’Italia, dei Savoia, della tradizione greco-latina, di quella giudaico-cristiana, del cattolicesimo post tridentino, di cosa?
Io ho il sospetto che non stia parlando di niente. Al limite di sé stesso, che è molto poco. Per Emanuele Filiberto, e per quelli come lui, “credere nella propria cultura” è pura tautologia, Racine est Racine. Si crede nella propria cultura perché? Perché è la nostra. E di cosa è fatta? Di noi. Ma noi chi siamo? Quelli che credono. In cosa? Nella nostra cultura. E ci si ferma qui. Se smonti Emanuele Filiberto ci trovi il vuoto che è condizione necessaria di ogni cassa di risonanza. Persino quegli aspetti potenzialmente storici (il cognome “Savoia”) vengono all’istante destoricizzati: fino a dicembre se pensavo “Savoia” immaginavo lo Statuto Albertino, Teano, Vittorio Veneto, l’Impero Etiope, l’otto settembre… adesso mi viene in mente Pupo.

Questi due ritratti però simboleggiano anche le mie idee sull’ora di Storia. Quello che mi ha fatto amare la Storia sin da bambino è lo stesso fascino che soggioga Jake Sully: la scoperta di un mondo diverso. La Storia è la scoperta dell’Altro da sé. E la più bella di tutte è la Storia Antica, perché gli Antichi erano veramente diversi da noi. Non extraterrestri, ma quasi. Diciamo che finché non si potranno studiare forme di vita extraterrestri a scuola, l’ora di Storia Antica sarà la cosa che si avvicina di più al concetto. Gli Antichi si comportavano in modi veramente strani. Non portavano pantaloni, il che a otto anni è già abbastanza sbalorditivo – si può fondare un Impero senza portare i pantaloni? Sacrificavano animali a Dei capricciosi. Non avevano l’alcol per disinfettare ma avevano già la metafisica. Costruivano piramidi e non avevano l’acqua corrente. Il passato è un pianeta stranissimo. La Storia secondo me dovrebbe insegnare soprattutto questo: a mettere da parte il buonsenso, a pensare che le cose sarebbero potute andare in modo molto diverso, a ragionare sull’Altro. A mettere del distacco tra noi e noi, perché questo distacco alla fine ci servirà anche quando vorremo riportare l’obiettivo su di noi – così come Avatar alla fine ci parla più di noi e dei nostri sogni di qualsiasi vacua canzoncina identitaria.

Invece ho paura che la nuova Storia sia un’esperienza culturale nel senso che ha la parola per Emanuele Filiberto: un ragionamento su Sé Stesso che si definisce Sé Stesso in quanto crede in Sé Stesso. La battaglia non è tanto tra Storia Contemporanea e Storia Antica, ma tra una riflessione su di Sé e una riflessione sull’Altro. Oggi vogliamo tutti le radici, siamo maniaci di radici. Però sotto sotto sappiamo quanto sia limitato questo radicamento. Può darsi che ci sia in noi ancora qualcosa di greco-romano, ma le radici più grosse e interessanti sono sempre quelle che affiorano a terra. E quindi siamo molto preoccupati che si studi il Novecento. Chi non conosce il Novecento non avrà futuro. Non se lo merita… Tra i nuovi testi di terza media a cui ho dato un’occhiata ce ne sono alcuni che si rifanno alla definizione hobsbawmiana di Secolo Breve, per cui non partono nemmeno dalla Belle Epoque – quella è roba da tredicenni – ma dal 1914. A questo punto, perché continuiamo a chiamarla ora di Storia? Chiamiamola ora di Novecento. Se a settembre cominci dall’attentato di Sarajevo, a febbraio più o meno sarai negli anni Quaranta, e da lì in poi è persino discutibile che sia ancora Storia.

In effetti potrebbe trattarsi di… geografia! Ed ecco che la bistrattata Cenerentola dell’istruzione media arriva al ballo su un cocchio dorato trainato dai nuovi programmi scolastici. In cosa consiste in fondo la geografia di seconda e terza media? Lo studio dell’Europa e poi dei continenti extraeuropei, e quindi? Per buona metà si tratterà della cara vecchia geografia umana: sarà quindi inevitabile una serie di excursus sui processi di formazione delle nazioni, che risalgano almeno al postcolonialismo e al dopoguerra… bingo! Metà del libro di geografia e di quello di Storia contengono le stesse nozioni. Roba che sui libri c’è sempre stata, ma prima si studiava sincronicamente e si snobbava in quanto “geografia”; ora diventa invece importantissima perché è “Storia del Novecento” – però rischia di finire tutta concentrata negli ultimi mesi, perché prima bisogna fare i lager (e i gulag! Solženicyn obbligatorio!)

Il Novecento è la nuova Bibbia. Perché vogliamo che la Storia non parli degli altri (dell’Impero Ching o Moghul, di Tamerlano o Eliogabalo o Gregorio Nazianzeno), ma soltanto di noi stessi; ed è più facile trovare tracce di noi stessi nel secolo che è appena passato. L’Ottocento ha un senso soltanto perché contiene qualche anticipazione di quello che verrà, Marx e Darwin e poco altro. Ma il Novecento è il romanzo che tutti devono conoscere a memoria per avere qualche straccio di speranza in società – i nuovi Promessi Sposi, il filmone con i titoli in eleganti glifi art-déco, che comincia con una fragorosa scena di guerra di massa, un nucleo centrale imperniato sulla nascita dei totalitarismi, un’altra grande scena bellica piena di imprevisti… e un secondo tempo ricco di suspense, dove si aspetta a occhi sbarrati una terza guerra che non arriva mai (arrivano invece abbracci e strette di mano un po’ deludenti). Ma insomma tutto sembra finire bene… quando sui titoli di coda crollano le torri e tutto si riapre. Il Novecento è questo qui, e ognuno deve rispecchiarcisi, allo stesso modo in cui i Padri Pellegrini si rispecchiavano in Vangelo e Pentateuco, chiamando le figlie Rebecca ed Ester, e sforzandosi di trovare saggezza quotidiana in un libro di Proverbi scritto dall’altra parte del mondo tremila anni prima. Così noi continuiamo a discutere di Muri e Guerre Fredde, a paventare il ’29 e sognare il ’68, a ridurre tutto ad Hitlerum, a fiutare lo Spirito di Monaco ogni volta che non si bombarda con prontezza. Abbiamo la scusante che il Novecento è comunque più vicino a noi. Anche se in fondo, poi.

Se leggete queste righe probabilmente siete nati nel Novecento, anche se ne siete usciti vivi (congratulazioni). Ma ne siete usciti. Non è più il vostro secolo. I bambini che cominciano a studiare la Storia quest’anno (dal Big Bang o dai dinosauri) hanno otto anni. Vuole dire che sono nati nel Due. Il Muro di Berlino non lo hanno mai visto: persino il loro papà ne ha un ricordo molto vago. Ma per un qualche motivo siamo convinti che sia roba loro; che non possano arrivare a 14 anni senza saperne qualcosa; che tra il Muro e il Vallo di Adriano sia quest’ultimo a dover cadere. Chi lo sa. Forse la Guerra Fredda non è poi così importante. C’è stata: ha visto lo scontro di due superpotenze; ha segnato la nostra vita, ma appunto: era la nostra. Ogni anno che passa diventa sempre più difficile spiegare ai nuovi nati cosa fosse la cortina di ferro, perché i missili stessero sottoterra (ci stanno ancora), il senso della lotta tra il mondo libero e il mondo uguale. Si ha la sensazione di annoiare i cuccioli con le vecchie diatribe dei nonni. Tante recriminazioni di vecchi e nessun vero mistero: nessuna piramide, nessuna resurrezione, missili sottoterra e nessuno li tira fuori. Poco spazio da riempire con la fantasia.

Alcuni si rassegnano, e si affezionano ai sogni dei nonni: qualche anno più tardi li vediamo in piazza che hanno imparato a salutare a braccio teso, o pugno chiuso, missione compiuta: il cucciolo è stato novecentizzato.

fumetti, memoria del 900, scuola, Storia

Addio agli antichi

Avrete forse sentito dire che scomparirà la geografia dalle scuole – beh, anche quello è un mezzo bluff. Rassicuratevi, la geo non scomparirà, nella maggior parte dei licei; per il semplice motivo che non vi è comparsa mai. Non solo, ma in un certo senso non abbiamo mai fatto tanta geo come negli ultimi anni. Io però preferirei parlarvi della Storia, l’unica materia che scrivo con la S maiuscola (“storia” con la minuscola può essere sinonimo di menzogna, o di fiction, o semplicemente di fatti tuoi).

La caduta dell’Impero Romano (2010 dC)

In questi giorni le sale insegnanti sono infestate dai rappresentanti delle case editrici. Io cerco quanto possibile di evitarli; sono pessimo nell’arte di giudicare un libro dalla copertina, e poi preferisco sempre un vecchio catorcio che conosco bene al modello fiammante di cui scoprirò le magagne tra sei mesi – in ogni caso ho dato un’occhiata ai corsi di Storia. Ormai si sono tutti allineati alla direttiva di non-so-più-quale riforma (Berlinguer?) che fa partire la terza media dal Novecento. Questa, mi rendo conto, è una delle principali differenze tra la scuola nostra e quella dei ragazzi di adesso. Noi non solo non abbiamo fatto in tempo a studiare la caduta del Muro di Berlino, per intuibili motivi; ma il più delle volte nemmeno la sua erezione. I prof col pallino (di solito ideologico) per il ‘900 arrivavano sì e no alla guerra antifascista, ma era normalissimo anche fermarsi agli anni Trenta o persino alla Grande Guerra. Era Storia, del resto, mica cronaca.

Ecco, questa prospettiva oggi suona quasi eretica. Sarà che nel frattempo il ‘900 è finito, e quindi è più facile considerarlo Storia con la maiuscola. Sarà che sulla maiuscolità del ‘900 si insiste di più, c’è la Giornata della Memoria della Shoah e il quella del Ricordo delle Foibe e tutto il resto. Fatto sta che oggi l’idea di uscire dalle scuole senza aver studiato ben bene almeno la prima metà del ‘900 ha l’aria di un crimine contro l’umanità. Qual è l’insegnante mostro che lascerebbe andare i suoi studenti senza aver loro spiegato cosa sono i nazisti? Se Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, privarti della lezione sull’incendio al Reichstag è rubarti il futuro: inammissibile. Vi si sfaccia la casa. La malattia vi impedisca. Eccetera.

Naturalmente, per poter arrivare così a fondo nel ‘900, bisogna togliere qualcosa da qualche altra parte – il programma di Storia è la classica coperta troppo corta. Si è deciso perciò di coprire il capo novecentesco scoprendo i piedi: via la Storia antica, fino alla caduta dell’Impero e oltre. I riformatori berlingueriani che praticarono questo taglio avevano probabilmente in mente quella chiacchiera da bar (anche da bar degli insegnanti) per cui non aveva senso ripetere sempre la stessa Storia in tre scuole diverse. È un ritornello che sento da quando ero bambino: perché bisogna ogni volta partire da capo? Alle elementari la preistoria, poi l’Egitto, i Greci, i Romani… ricominci alle medie ed ecco di nuovo la preistoria, l’Egitto… arrivi alle superiori e tac! Di nuovo preistoria, Egitto… che solfa. Quelli che si inventarono questo sistema dovevano essere proprio dei noiosi barbogi. Perché non razionalizziamo, non sfoltiamo, non facciamo economia? Per esempio, potremmo confinare la Storia antica alle elementari. Alle medie poi si ripartirebbe dal medioevo, ed ecco che si libera un sacco di spazio per arrivare all’esame con la caduta del Muro di Berlino (e l’11/9, in ogni libro di terza media che si rispetti non può mancare una fotina delle Twin Towers: bisogna tenersi aggiornati).

Con questo sistema, che è andato a rodaggio negli ultimi 3-4 anni (e in qualche scuola non si è ancora imposto, perché i prof, specie quelli navigati, conoscono l’arte di aggirare le direttive ministeriali più o meno dai tempi di Giovanni Gentile) abbiamo un enorme ciclo di sei anni che parte in terza elementare e finisce in terza media. Cosa ci abbiamo guadagnato? A tredici anni i ragazzini sanno cos’è il Muro di Berlino e chi sono i nazisti. Cosa ci abbiamo perso? Spero di sbagliarmi, ma credo di avere assistito alla caduta dell’Impero Romano. No, non quello d’Occidente (476dC). Neanche quello d’Oriente (mille anni più tardi, l’impero più sottovalutato della S). Sto parlando dell’Impero nella fantasia dei ragazzini. Al punto che mi sono ridotto a rivalutare un peplum osceno come il Gladiatore: trama insensata, ma almeno ci sono le bighe e le carrozze, i Barbari e i mirmidoni. Tutte cose i ragazzi si bevono come astronavi, anzi, con gli occhi ancora più sgranati, perché un po’ di astronavi nei film le hanno già viste, ma una biga romana, quando mai? L’Impero Romano è kaputt (per tacere delle polis Greche, o delle piramidi – ma per quelle ci pensa Voyager, no? Grazie, servizio pubblico). Insomma, questi arrivano alle superiori e non hanno la minima idea di chi sia Giulio Cesare, Orazio Flacco, Nerone, com’è possibile? Non glielo hanno spiegato a… otto anni?

Ecco qui il problema. No. La maestra di terza elementare probabilmente non ha spiegato chi fosse Giulio o Tizio o Caio. Neanche doveva. Non avrebbe avuto senso. A otto anni non studi le vite dei Romani illustri, i processi sociali o economici; a 8 anni se va bene fai un cartellone in cui si disegnano gli uomini con le toghe e i sandali, le domus, i gladi, le arene: ed è già grasso che cola. Questo i barbogi gentiliani lo sapevano. Non è che ci volesse molto: prima di crescere lunghe barbe bianche avevano tutti avuto esperienza diretta come giovani maestrini nelle scuole del Regno, e lo sapevano. Sapevano pure che imparare consiste, per lo più, nel ripetere, ripetere, ripetere, fino allo sfinimento: ogni volta integrando un 2% di contenuti in più. Per cui non ci vedevano nulla di male a rifare i Romani a otto, undici e 14 anni: la prima volta mostri un uomo in toga, insegni la filastrocca dei sette Re; la seconda sviluppi la differenza tra Regno e Repubblica, spieghi chi è Cesare e perché l’han pugnalato (si raccomanda l’insistenza sul sangue, i ragazzini van matti). La terza puoi già tirare fuori le classi sociali, la lotta tra patrizi e plebei e poi tra questi e gli equites; però difficilmente riuscirai a fare bene il terzo passo se ti è mancato il primo. O il secondo. E così l’Impero è caduto, come è poi destino di ogni Impero.

E uno potrebbe anche far spallucce. Non è stata una perdita secca: ci abbiamo guadagnato… il muro di Berlino, i Lager e i Gulag (si raccomanda d’insistere sul fatto che ci sono stati anche i Gulag). Non è che un ragazzo cresce più cretino se invece di introiettare la storia di Giulio Cesare si nutre di Lager e Gulag. Tanto più che l’incubo su cui siamo sospesi non è quello di venire pugnalati dai senatori alle calende di marzo, ma di ritrovarci di nuovo in un lager / in un gulag. Quindi cosa sto difendendo, esattamente? Cos’è Giulio Cesare per me, cosa ci trovo di così essenziale? Non è ora che diventi una curiosità antica, un signore che viene studiato soltanto da specialisti adulti? Non è ora che lasci il suo posto nella cultura generale a nozioni più attuali?

Probabilmente sì, sto difendendo la mia infanzia, perché ovviamente è stata La Più Bella Del Mondo. E la Storia era la mia materia preferita. I Romani soprattutto. Non vedevo l’ora di arrivare in terza elementare per snocciolare Romolo-Numapompilio-Tullostilio, e quando finalmente ci fui e mi fecero fare il cartellone con le toghe e le altre palle (pallae) ci rimasi male: le maestre ci prendono per deficienti? Io voglio ragguagli sulla battaglia di Zama. Tutto questo sapete perché? Mi piacevano i fumetti. E tra quelli che avevo in casa, il più bello di tutti si chiamava Asterix e Cleopatra. Aveva colori fantastici, scene faraoniche sul serio, e tutto l’insieme tradiva un’ironia e una sapienza narrativa che non si poteva confrontare col Topolino settimanale.

Si capisce che per me bambino che imparava a leggere nelle nuvolette Asterix non fosse che un omino buffo col nasone; e tuttavia in un qualche modo dovevo imparare chi fosse il suo antagonista, Giulio Cesare; e perché il loro mondo fosse così diverso dal mio. A furia di chiedere e cercare scoprii che erano effettivamente esistiti gli antichi Galli, gli Egizi, e i Romani; che per quanto fossero i cattivi, questi ultimi avevano pure mandato avanti un impero millenario; e così via; e nel giro di pochi anni era cresciuto un piccolo appassionato di Storia. Ma perché proprio di Storia e non di chimica, o fisica o biologia? Perché la Storia è la materia più vicina alle storie con la s minuscola, che erano poi quelle che interessavano a me. Ed è ancora così. La Storia è un serbatoio inesauribile per la fiction. Persino quando fa finta di guardare in avanti: l’80% della fantascienza è rielaborazione del passato. Avrei mille esempi per specialisti, ma in fondo basta Avatar, no? Siccome Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, per immaginare come ci comporteremo quando conosceremo gli extraterrestri non abbiamo che da consultare i vecchi libri, ad es. Pocahontas.

“Va bene, d’accordo, sei diventato un appassionato di Storia perché ti piacevano le storie: ma ammesso che il tuo percorso sia in un qualche modo rappresentativo o consigliabile alle nuove generazioni, comunque, che problema c’è? Se i ragazzini devono crescere facendosi delle storie, se ne faranno meno sui proconsoli togati e più sul Terzo Reich. Non c’è niente di male in questo, anzi magari è meglio, visto che il Terzo Reich è comunque un problema più attuale. O no?”

Ecco, siamo arrivati al punto. Però siamo anche in fondo a due cartelle, per cui per stavolta la smetto qui (ultimamente mi vengono pezzi lunghissimi, perdonatemi. Questi poi sono appunti per una conferenza).

anniversari, coccodrilli, memoria del 900

Vuoi pure queste?

Bettino, vuoi pure queste?

Diro anch’io la mia su Craxi (potevo esimermi?)
Era antipatico.

Tutto qui? Beh, sì. Ma scusate, vi sembra una cosa da poco? Credete che antipatia e simpatia non siano dettagli da tenere in conto quando si formula il giudizio su un leader politico democratico? Barack Obama e Berlusconi non vi hanno insegnato niente.

Non voglio nemmeno dire che la politica consista nel farsi amare dalla gente. Però aiuta. Diciamo che è il 40% del lavoro. L’altro 60 magari consiste nel migliorare il proprio Paese, e da questo punto di vista… cough, sto ancora lavorando per pagare il debito pubblico che questo tizio ha aiutato a quadruplicare, per cui, se non vi spiace, lasciamo perdere (potrei prendere fuoco). Concentriamoci sull’aspetto “piacere alla gente”. Oggi si dà per scontato.

Trent’anni fa era diverso. Si stava passando dal modello in bianco e nero (il politico serioso e autorevole, eloquio soporifero, occhiali da nerd) a quello a colori: il politico pop, che conquista i telespettatori lanciando slogan brevi e a effetto. Craxi rimase incastrato nella fase di transizione. Se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che non funzionava né a colori né in bianco e nero. La sua faccia unticcia e le sue pause imbarazzanti stridevano sul vetro televisivo come i pattini sul ghiaccio della vecchia pubblicità viakal Cif Ammoniacal (si-può-graf-fia-re). Non era necessario essere stati indottrinati dal Kgb per trovarlo immediatamente insopportabile. Fidatevi: veniva spontaneo.

Il dibattito di questi giorni (ammesso che interessi qualcuno) è paradossale. Sembra che su Craxi sia possibile formulare soltanto due ipotesi antitetiche: statista o tangentaro. In mezzo ci sono quelli che, mah, forse non era né un gran statista né un gran tangentaro (mediocre anche in quello? Andiam bene). Nessuno che faccia presente una semplice e banale verità: prima ancora di essere più o meno politico o ladro, Craxi era antipatico come pochi, e questo alla lunga gli rese un pessimo servizio. Anche perché c’era una certa hybris nell’idea di poter governare e addirittura modernizzare l’Italia senza essersi mai fatto votare da più di un italiano su sei. Sulla cresta di un’onda lunga sempre prevista, mai arrivata – oppure era quella che alla fine lo travolse.

Vi è capitato di vedere, negli ultimi giorni, qualche intervista inedita, un filmato di repertorio? (No. Non ve ne poteva fregar di meno. Appunto). Di solito quando una grande uomo muore, gli cresce l’aureola attorno, anche nei documenti video: diventa più bravo, più bello, le sciocchezze che dice sembrano massime di La Rochefoucauld. A Craxi non succede. A distanza di anni la sua voce stentorea continua a urtare l’orecchio come un controsenso. Craxi viveva nei televisivi anni Ottanta, contemporaneo di Jei Ar e del mio amico Arnold, e impostava la voce come in un comizio anni Cinquanta.

Lo so cosa state per dire: anche Pertini. E Pertini era popolarissimo. Sì, perché con quella voce d’altri tempi Pertini impastava discorsi a braccio pazzeschi, prendeva una cerimonia come il Discorso di Fine Anno e lo trasformava nel confessionale del Grande Fratello (Hai sentito come gliele ha cantate a Gheddafi?) Pertini si era ormai incarnato nello stereotipo del nonnetto bizzoso con un passato da romanzo, e ci si divertiva. Craxi invece era il Padre che non torna neanche a cena, ha l’amante e non ti parla da anni, ma ti toglierà il saluto se non ti iscrivi a giurisprudenza. Poi magari il vero Craxi coi figli era tutt’altro (possibile, a giudicare dallo zelo con cui ancora oggi ne difendono la memoria), ma il personaggio-Craxi era quello, e stava sulle palle all’ottanta per cento degli italiani. Non mi sembra un dato politico da sottovalutare.

Non è che i suoi diretti concorrenti non soffrissero dello stesso problema, ed è interessante studiare gli sforzi che fecero per adeguarsi a qualcosa che ancora non si capiva cosa fosse. Berlinguer si fece prendere in braccio da Benigni, fu un momento profetico. Andreotti cercava di spacciarsi per battutista televisivo, funzionò finché resse la claque. Forlani non faceva niente e infatti Forlani è stato risucchiato dal niente. Occhetto sbaciucchiava la moglie davanti ai fotografi. Erano esperimenti un po’ così, ma tutti avevano capito che qualcosa andava fatto. Craxi no. Lui nel frattempo si era sdoppiato in due personalità: lo Statista Di Livello Mondiale e il brigante Ghino di Tacco – ed erano antipatiche entrambe. Probabilmente pensava a sé stesso come una specie di Mitterand italiano, machiavellico ed enigmatico quanto bastava, e credeva che il problema simpatia si risolvesse circondandosi di nani e ballerine (invece riusciva a rendere antipatici anche costoro). Che bisogno c’è di essere simpatico, quando in lista hai Gerry Scotti? Non si faceva molta fatica a capire che il suo personaggio avrebbe finito per restare impregnato di tutta l’arroganza così caratteristica degli anni Ottanta. E che avrebbe fatto la fine triste di un cattivo di Dinasty o di Falcon Crest, di quelli che scompaiono dalla scena senza neanche salutare perché non gli rinnovano il contratto. A volte li si fa esplodere in mille pezzi su un motoscafo. Altre volte partono per un Paese lontano, da cui non si ritorna. Si parla ancora un po’ di loro, di sfuggita: e poi scompaiono, non sono mai esistiti, la vita (finta) va avanti.

Viene il sospetto che Forattini – uno molto più bravo ad annusar l’aria che a far ridere – avesse captato qualcosa di profondo disegnandolo come un piccolo mussolini. La stessa arroganza a doppio taglio: gli italiani per un po’ la sopportano, ma alla prima difficoltà eccoli pronti ad appenderti per i piedi. A Craxi poi non è andata così male: appena un assalto con le monetine. Eppure continuano a farcelo vedere, come se ce ne dovessimo vergognare. Di aver preso a monetine un politico arrogante? Non mi vengono in mente cento lire meglio spese. Ma no, i vedovi Craxi non si danno pace. Probabilmente perché la fede in Craxi Grande Statista ha qualcosa di simile a quella nel Dio del Vecchio Testamento: richiede un investimento emotivo e psichico enorme. Bisogna ricordarsene tutti i giorni e tutte le notti.

E quindi si stracciano le vesti: Perché ha pagato lui per tutti, perché? Semplice: ha rifiutato di farsi processare… No, ci vuole una spiegazione più profonda. Va bene, e allora tenetevi questa: ha pagato più degli altri non perché fosse il più disonesto, ma perché era il meno simpatico. E’ giusto? No, magari no. Ma è giusto giocare a fare i leader carismatici col 15% dei suffragi? Berlusconi, che tanto gli deve, dai suoi errori ha imparato parecchio. Berlusconi, lui, non graffia: va giù liscio come una mousse. Ha il sorriso smagliante, la battuta pronta (magari mediocre, ma pronta), non si blocca ogni cinque secondi per trovare l’espressione più tranchant, che poi tranchant non era mai.

Date un’occhiata a questo grafico sull’affluenza alle urne nei referendum abrogativi. L’ho fatto qualche mese fa, perché m’interessava mostrare che il trend negativo è quasi trentennale. L’unica eccezione è un picco improvviso tra 1991 e 1993 (e dire che l’anno prima per la prima volta il quorum non era stato raggiunto). Cos’era successo nel 1991?
Tante cose, ma secondo me su tutte una: un giornalista aveva intervistato Craxi a tavola. Ricordate, era il momento in cui i politici cercavano di mostrarsi più alla mano, quindi questo giornalista aveva avuto accesso alla tavola di Craxi. E gli aveva chiesto se davvero secondo lui gli italiani dovevano andare al mare, la domenica del referendum. Craxi (che al mare c’era già) dopo la solita pausa, aveva detto: passatemi l’olio.

Ecco chi era Craxi. L’unico politico in grado di riportare gli italiani nelle urne referendarie, invertendo un un trend ventennale. Semplicemente facendo una figura da stronzo per dieci secondi in tv. Altro che monetine. Ringraziate che fosse finita la stagione dei bulloni.

futurismi, memoria del 900

Impiastro del ‘900

(Quella che segue era la scaletta di un libro che si sarebbe potuto fare nel 2009, centenario del Manifesto del Futurismo blablablà: una vita di Marinetti diversa dalle solite vite di Marinetti alla GBGuerri, per capirci, ma mi dicono che ormai è tardi. Mi era restata una mezza voglia di trasformare la vita di Filippo Tommaso Marinetti in un romanzo d’appendice sul presente sito, ma ormai si è capito che che sui blog le storie a puntate non funzionano, a parte quando ci si mette lei. Comunque non dispero, c’è un pubblico per tutto).

1. Premessa: Marinetti, impiastro del Novecento
È da 40 anni che si sente dire “bisogna rivalutare il Futurismo”. In realtà lo stiamo rivalutando da un pezzo. La compenetrazione di Boccioni sta sulla moneta da venti centesimi, il dinamismo di Balla ispira gli stilisti… eppure in mezzo a tanta incessante rivalutazione nessuno riesce a rileggere le opere di Marinetti. Come mai? Un complotto? Non sarà che era proprio uno scrittore mediocre? In effetti sì, ma pieno di sorprese.

2. Prologo: Simultaneità
Sovrapposizione di alcuni episodi decisivi della vita di Marinetti (un incidente automobilistico nei Navigli, l’ultima battaglia a palle di neve col fratello, il ferimento all’inguine durante la guerra, l’agonia sul lago di Como). Oggi li chiamiamo flashback, Marinetti le chiamava simultaneità. Si potrebbe anche attribuirgliene l’invenzione, in anticipo sui qualche cineasta. Ma sì, attribuiamogliela. Tanto non ci costa niente.

3. Il bullo del collegio
Di come il piccolo Filippo Tommaso (che in realtà si chiamava Emilio Angelo Carlo), nato ad Alessandria d’Egitto, cercando un pretesto per scazzottare i suoi compagni di collegio, scoprì l’amore per una Patria che aveva visto soltanto in cartolina. Paralleli coi trascorsi bullistici di Benito Mussolini alle elementari di Predappio (cfr. De Felice).

4. Viva Zola!
Per inventarsi la sua Patria su misura, il piccolo Filippo ha bisogno di un pantheon di Grandi Scrittori: ma ahimè, in quegli anni il panorama italiano era piuttosto deludente. Però in Francia c’è Zola, che è di origini italiane e scrive cose violente e proibite: FTM ne fa la sua bandiera, fino a farsi espellere dal collegio (dice lui: in realtà non riuscì a passare un esame).

5. Fuorisede a Parigi
Spedito dai genitori a diplomarsi a Parigi, FTM si rende conto di essere un figlio di papà e si scatena: festini, duelli, pessimi esami.

6. Senza famiglia
Trasferitosi finalmente in Italia, nel giro di non molti anni FTM perde il fratello maggiore (il prediletto) e i genitori. Resta solo e miliardario, in una casa piena di cimeli africani, incerto se darsi alla poesia o alla rivoluzione. Socialisteggia anche un po’, va ai cortei degli operai che lo prendono per uno sbirro, lui gli risponde in dialetto no, guardate che sono un poeta.

7. Un francese a Milano / un italiano a Parigi
Uno dei problemi di FTM è che non scrive bene in italiano: appunto, con gli operai parla in dialetto; quando si tratta di poesia, scrive in francese. Tanto che quando in Italia ancora nessuno lo conosce, a Parigi è una mezza celebrità.

8. Gli dei se ne vanno, D’Annunzio non schioda
Nella ville lumière il giovane FTM viene considerato, in quanto “italiano” il rivale di D’Annunzio; lui avalla questa definizione diventando addirittura un cronista mondano specializzato in stravaganze dannunziane, e sviluppando un’ossessione: D’Annunzio come spettro del fratello maggiore, sempre più bravo e più apprezzato, mentre lui deve accontentarsi delle briciole di celebrità…

9. Versolibristi vs alessandrini
Alfiere del verso libero, contro la tirannia del verso alessandrino francese, FTM finisce per arruolare anche un gruppetto di poeti italiani intorno a una rivista (ovviamente pagata da lui).

10. Dal grembo melmoso del Naviglio
Il primo Futurismo nasce durante un incidente stradale. FTM si è comprato una delle prime automobili circolanti a Milano ma non ha ancora la padronanza del mezzo, e per schivare due ciclisti sprofonda nel Naviglio. Viene ripescato mentre inneggia alla Velocità… solo trent’anni dopo confesserà di essersi preso un autentico spavento. (Tesi forte: il futurismo come sindrome post traumatica).

11. Nascita di un altro -ismoAl di là della leggenda, comprare uno spazio su un quotidiano per reclamizzare l’ennesimo nuovo movimento poetico dotato del suffisso -ismo era a quei tempi prassi piuttosto comune. La nascita del movimento fu comunque tormentata: a un certo punto ci si mise di mezzo anche il terremoto di Messina.

12. Un fiasco colossale
La prima uscita pubblica del nuovo movimento poetico è la messa in scena di un testo teatrale scritto in gioventù, confusionario e irrappresentabile: una miscuglio tra Ubu Roi e Shakespeare, con principi e re che si mangiano e vomitano a vicenda. Marinetti non bada a spese, prenota l’Opera di Parigi e la stessa compagnia teatrale che aveva portato sulle scene l’Ubu Roi; il risultato è un fiasco talmente smisurato che lo stesso FTM decide di farsi vedere dal palco mentre fischia i suoi attori. Nasce così la “voluttà d’esser fischiati”: da qui in poi i futuristi saranno quelli che vanno in scena a prendersi gli ortaggi. Ma qui bisogna ripristinare la verità storica: all’inizio FTM avrebbe voluto prendersi abbracci e baci, imparare ad afferrare pomodori e arance al volo fu un modo di fare buon viso al cattivo gioco.

13. Attento a quel revolver
Frattanto in Italia i poeti arruolati da FTM dimostrano di non aver capito molto bene quello che il loro caposcuola ha in testa, e di preferire gli ozi della villeggiatura al rombo della macchina da corsa. L’unico un po’ violento è un certo Lucini, autore delle Revolverate, che però ha il torto di voler guadagnare qualcosa con le sue poesie e non capisce il marketing aggressivo di FTM, che regalando il suo volume a destra e manca non ha molte percentuali da corrispondergli a fine mese. Lucini sarà il primo transfuga dal movimento: ce ne saranno molti altri.

14. Mafarka, il pornofuturista
Il secondo tentativo futurista di FTM è un romanzo africano, un fumettone fantascientifico (con inserti pornografici) dove l’autore finisce per uccidere il fratello, giacere con la madre e partorire un uccello dalle ali metalliche (Jodorowsky, nasconditi): il tutto proprio mentre a Vienna Sigmund Freud sta riflettendo sul mito di Edipo. In Francia è un altro flop, ma in Italia offre a FTM un primo quarto d’ora di popolarità grazie a un processo per oltraggio al pudore.

15. In aereo col PapaC’è un altro problema: mentre FTM insisteva con le sue macchine rombanti, in Francia e negli USA hanno inventato l’aeroplano. D’Annunzio l’ha già provato, ma lui no, e la cosa lo tormenta. Per consolarsi scrive L’aeroplano del Papa, dove s’immagina di pilotare un monoplano dall’Etna fino a Trieste, con una tappa al Vaticano, dove con un gancio rapisce il Papa e va a gettarlo contro l’esercito austriaco. È il primo bombardamento aereo della storia della letteratura.

16. Arrivano i pittori
Fino al 1911 il Futurismo non era quell’esplosione di colori che siete abituati a vedere sui cataloghi; si trattava soltanto di un gruppetto di poeti che scriveva volumi di versi liberi. Sono Boccioni, Balla e Carrà ad avvicinare Marinetti, proponendogli di estendere il futurismo alla pittura. FTM accetta, e viene travolto da una rivoluzione che lui stesso fino a quel momento non si era sognato. Di fronte alle sperimentazioni dei pittori, i suoi versi liberi improvvisamente gli sembrano piatti e banali.

17. Il mecenate volante
Per qualche tempo FTM si trasforma nell’agente di Boccioni & co.; percorre tutta l’Europa cercando di imporre i suoi protetti a un pubblico meno provinciale di quello italiano; si misura con cubisti francesi e cubofuturisti russi. Nel frattempo, in Italia, i vecchi poeti versoliberisti si sentono snobbati.

18. L’odore della guerra
Scoppia la guerra di Libia, e mentre Mussolini il pacifista cerca di bloccare i treni, FTM decide di partecipare come reporter. La guerra vera si rivela tutt’altra cosa rispetto a quella immaginata nei poemi; FTM capisce che bisogna cambiare tutto. Il futurismo, almeno quello letterario, va abbattuto e rifatto da capo.

19. Botte a Firenze
Una stroncatura dei quadri futuristi, firmata dal cubista fiorentino Soffici, offre alla nuova gang futurista l’occasione di organizzare la sua prima spedizione punitiva. Grazie alla soffiata del perfido Palazzeschi, Soffici viene bastonato, ma reagisce. Alla fine si metteranno d’accordo, e Marinetti si offrirà perfino di aiutare economicamente una rivistina di Soffici e Papini, Lacerba. Diventerà la più importante rivista d’avanguardia italiana, apprezzata da Gramsci e Mussolini.

20. Nel fondo della polveriera
L’esperienza libica ha lasciato a FTM una gran voglia di emozioni forti; lo ritroviamo di nuovo reporter di guerra nei Balcani. Mentre cerca di tradurre i suoi appunti francesi in quella sintassi italiana che maneggia con fatica, FTM ha un’intuizione: perché darsi tanta pena? Nascono così le Parole in Libertà, slegate da ogni regola sintattica e ortografica. Il suo nuovo libro si chiama Zang Tumb Tumb, ed è uno sputo d’inchiostro contro qualsiasi estetica, anche quella degli amici futuristi. I critici hanno paura a leggerlo, e da cent’anni continuano a parlane più o meno bene citando sempre solo la stessa pagina: sempre più sbiadita, come certe fotocopie che hanno fatto il giro di tutta la scuola.

21. Paroliberi vs versolibristi
In effetti la nuova invenzione marinettiana entusiasma i compagni pittori, ma lascia piuttosto freddi i vecchi futuristi versolibristi. Mentre Palazzeschi esce dal movimento e comincia a tramare contro l’ex amico, Lacerba si riempie di rutilanti parole in libertà, che però affondano la tiratura. Andrà a finire che Soffici e Marinetti litigheranno di nuovo, e quest’ultimo dovrà pagarsi un altro gruppo di futuristi fiorentini.

22. La guerra in bicicletta
Le polemiche tra fiorentini e milanesi si spengono all’improvviso con l’entrata in guerra: FTM anima da subito il movimento interventista, con parole d’ordine sinistramente simili a quelle usate dai neocon un secolo dopo. Nel mirino, la vecchia sinistra socialista e pacifisteggiante della generazione precedente. (Nel frattempo, nella redazione dell’Avanti, il direttore di belle speranze si strugge: restare coi vecchi arnesi o passare al nuovo che avanza?) Quando la guerra finalmente scoppia, FTM si arruola nel corpo dei volontari ciclisti con Boccioni, che muore quasi subito. Viene ferito, decorato e congedato. Si arruola di nuovo.

23. Futurista e gentiluomo

Durante una degenza in un ospedale da campo, detta un librettino dal titolo Come si seducono le donne che costituisce l’ennesima svolta futurista: dalle parole in libertà ai manualetti di seduzione. Il fatto è che l’ufficiale Marinetti non pensa più a un pubblico di artisti d’avanguardia, ma ai fantaccini delle trincee che tra un’offensiva e l’altra vorrebbero leggere qualcosa di piccante. Il futurismo esce dalla storia della letteratura ed entra nella storia del costume: a Napoli i giovinastri scapestrati si fanno chiamare “futuristi”, sono i paninari del 1916.

24. La guerra dei cannoni
Diventa un provetto artigliere e partecipa a qualche offensiva sull’Isonzo, ma c’è qualcosa che non va. Scrive appunti deliranti sul pene di Rasputin e sulle proprietà afrodisiache della radioattività. Durante le licenze ha un’attività sessuale parossistica, con veri e propri casi di esibizionismo dai palchi dei teatri. Nello zaino tiene un enorme fallo di legno che un amico ha rubato per lui in un bordello. La rotta di Caporetto lo ferisce come una mutilazione. Mentre i suoi appunti si riempiono di fantasie di tortura, a Vienna il solito Freud sta riflettendo su coazione a ripetere e principio di morte.

25. La guerra in autoblindo
Dopo Caporetto diventa pilota. Nella notte di Vittorio Veneto sogna di giacere con l’Italia unita nell’alcova d’acciaio della sua autoblindo. Nel frattempo nei porti le chiglie delle navi vengono decorate da linee mimetiche di gusto futurista, mentre gli studiosi austriaci, analizzando le lettere dei prigionieri italiani, vi trovano gran copia di errori di sintassi ed espressioni futuriste. Che la guerra abbia davvero trasformato futuristicamente l’Italia?

26. Marinetti il picchiatore
Nel dubbio, FTM pensa di poter fare la rivoluzione. Trasforma il futurismo in partito e scrive un trattato politico rivoluzionario, Democrazia futurista. In attesa di una svolta futuristica punta nei tempi brevi su Benito Mussolini, l’ex socialista del Popolo d’Italia con una malcelata invidia per gli eleganti cappotti di FTM. Per tutto il 1919 si dedica a disturbare le manifestazioni socialiste e popolari. Partecipando al rogo della sede dell’Avanti, inventa nientemeno che lo squadrismo! Arriva a Fiume pochi giorni dopo D’Annunzio (cappottando ancora una volta in macchina), ma se ne va, dice lui, per non mettere in ombra il Comandante (che non sapeva cosa fargli fare). In piazza San Sepolcro il minuscolo Partito Futurista si fonde coi Fasci di Combattimento; FTM si candida con Mussolini e Toscanini nella prima lista fascista milanese, prendendosi una solenne trombata.

27. “Politica un c.”
La notte delle elezioni vengono ad arrestare lui e Mussolini per possesso di armi da fuoco. Mussolini viene scarcerato in 24 ore; FTM resta in cella e comincia a temere che vogliano fargli la pelle. Lo liberano dopo tre settimane e lui decide di mollare la politica e rimettersi a scriver libri e organizzare mostre. Costringe i redattori del quotidiano romano pagato da lui a sospendere “il monotono e abbruttente rubinetto di articoli politici”. “Nello stesso periodo comincia a uscire con una ragazza, Benedetta. La sposa in tempi brevi.

28. L’assemblea tumultuosa
Nel 1919 esce il suo ultimo grande volume di Parole in libertà, ritenuto da molti critici incomprensibili un capolavoro. Si tratta per lo più di macchie d’inchiostro, un test di Rorschach nel quale varie generazioni di critici hanno voluto riconoscere quello che stavano cercando in quel momento. È abbastanza divertente per esempio andarsi a rileggere le analisi che strutturalisti e post si facevano negli anni Settanta sulle suddette macchie: FTM diventava un anticipatore dell’informale, della pop art, di qualunque cosa tirasse in quel momento. In realtà, a guardarli con occhi di bambino, le macchie non sono così enigmatiche: per esempio, L’assemblea tumultuosa, una pagina piena di zeri in coda davanti a qualche grande “IO”, è un’istantanea tipografica di quello che stava succedendo nelle piazze italiane.

29. Benedetta e la stagione della bontà
Quando da Mosca Trotsky chiede a Gramsci un rapporto dettagliato sui futuristi italiani, lui risponde che è ormai è roba vecchia, e che FTM si è rincitrullito e preferisce passare il tempo con la moglie. C’è del vero: proprio negli anni in cui tutti i vecchi compagni reduci dalla guerra riscoprivano la famiglia e i valori (e si davano al neogotico o riscoprivano i lirici greci) Benedetta porta una relativa serenità nella vita impetuosa del marito. Insieme i due sposini inventano l’ennesima svolta improvvisa del futurismo: il tattilismo, una nuova dimensione artistica che privilegia il senso del tatto, ed esprime sentimenti fino a quel momento poco condivisi dai futuristi, come la “bontà”.

30. All’ombra delle bandiere rosse
Il fatto è che dopo la sconfitta del 1919 FTM sembra persuaso che i bolscevichi vinceranno anche in Italia; questo sembrano suggerire le bandiere rosse che incombono nel manifesto del Tattilismo e nel romanzo Gli indomabili (dove Marinetti si sfoga delle sue frustrazioni politiche sgozzando un personaggio sinistramente simile a Mussolini). Di conseguenza cerca di coprirsi a sinistra; al secondo congresso dei Fasci presenta una mozione ‘suicida’, contro la monarchia e il Vaticano, e appena viene sconfitto abbandona il partito. Nei taccuini ne parla in modo sprezzante. (Mussolini dal canto suo lo considera un “buffone”). La marcia su Roma lo coglie piuttosto impreparato.

31. L’ultimo fiasco a Parigi
Non importa, tanto ormai la politica non lo interessa più, lui è un grande artista di respiro europeo, l’inventore del Tattilismo. Prova a esportarlo in Francia, ma rischia che un controllore gli getti le tavole tattili dal treno. A Parigi poi il futurismo è roba vecchia, non si porta più: la nuova parola d’ordine è Dada… ma del resto, quando non aveva rimediato figuracce, a Parigi, Marinetti? Divenuto ambasciatore ufficioso della cultura fascista all’estero, Marinetti continuerà a rimediare fiaschi e gaffes in Europa per tutti gli anni Venti, prima di chiudersi in una sdegnosa autarchia.

32. Incompreso
Altro che rivalutare Marinetti nel 2009: negli anni Venti il poeta era molto meno stimato di oggi, non solo all’estero. Anche a Roma, dove si è trasferito, FTM non incassa il premio del suo frettoloso riallineamento al fascismo. In Italia ora è di moda il “Novecentismo”, una corrente di artisti e architetti d’interni promossa dall’attuale amante di Mussolini, la Sarfatti, FTM (molto meno sdegnoso del ritratto che ne fanno) ci prova anche, a fare del novecentismo, ma come al solito non ci riesce; alla fine gli “zang tumb” sono l’unica cosa che gli viene bene.

33. Il Duce di latta
Non gli resta che riorganizzare il movimento futurista accanto ai pochi discepoli rimasti: accanto ad alcuni geni (Depero), un’accozzaglia di terze file, hobbisti, avventurieri, tutti uniti nel culto del loro piccolo duce Marinetti, a cui a un certo punto (ed è solo una tra le varie, buffissime iniziative del periodo), erigono un monumento… in latta. Nella nuova lega finto-metallica viene anche pubblicata un’antologia degli immortali “aeropoemi” di Marinetti: qualcosa che sarebbe durato nei secoli, ben più dei polverosi libri di carta. Quel che è successo, è che le “lito-latte” futuriste si sono sbiadite e arrugginite molto prima dei volumi dell’eterno nemico, Benedetto Croce.

34. Un tram chiamato Marinetti
L’unica vera soddisfazione di quegli anni gliela dà l’America: non il Nordamerica industriale, da cui si tiene sempre a rispettosa distanza, ma il Sudamerica arretrato in cui durante una missione culturale viene finalmente salutato come il messia della modernità: assalti agli alberghi dove pernotta, calche nei teatri, e daranno il suo nome ai tram. Il segreto del futurismo del resto è tutto qui: è una scimmiottatura del futuro prodotta e apprezzata nei Paesi in via di sviluppo.

35. Accademico d’Italia
Proprio mentre FTM è ormai rassegnato a sopravvivere al suo mito (e anche al suo patrimonio, che comincia a esaurirsi), verso l’inizio degli anni Trenta accade qualcosa d’imprevisto: Mussolini si ricorda di lui. Negli anni romani il pragmatico ex socialista in bombetta si è trasformato: ora sogna di riplasmare il popolo italiano attraverso la guerra, trasformare Roma in una metropoli moderna e geometrica… man mano che si allontana dal contatto con gli italiani, comincia a ragionare sempre più da artista futurista; e quando si tratta di fondare l’Accademia d’Italia, ha in mente un solo nome: FTM.

36. Leopardi futurista (e maestro d’ottimismo)
Felice di poter finalmente essere utile a qualcuno, FTM dimentica in un istante le vecchie ruggini, indossa la feluca di Accademico e decide di rivisitare futuristicamente tutto la tradizione letteraria e artistica italiana: una contraddizione in termini, ma chi se frega? Ariosto diventa maestro di futurismo, Leopardi maestro d’ottimismo, e poi Leonardo, Piero della Francesca, Dante… ma FTM si rivolge anche ai suoi contemporanei, lanciando un’iniziativa che di recente è stata riscoperta: Lo Zar non è morto, un romanzo collettivo, scritto da dieci grandi scrittori (un capitolo ciascuno, e un concorso a premi per chi riusciva ad azzeccare gli autori di ogni capitolo). Di recente Mozzi lo ha trovato su una bancarella e lo ha fatto ristampare: pare che sia un precursore dei Wu Ming. Beh, perché no, se Leopardi è un maestro d’ottimismo.

37. Il richiamo della Savana
Quando Mussolini dichiara guerra al Negus, FTM ha sessant’anni, ma si offre volontario: è l’occasione per ricongiungersi al continente madre, e violentarlo. Cercano di metterlo nelle retrovie, ma si ritrova ugualmente assediato a passo Uarieu. La vittoria gli toglie vent’anni di vita: torna in Italia ringalluzzito e annuncia che Joyce e Proust, coi loro monologhi indiretti liberi, hanno soltanto copiato i suoi vecchi manifesti. Si fa dare un programma radiofonico, e diventa la barzelletta dell’Eiar. Si crea dei nemici: Starace lo fa silurare.

38. La lista di Marinetti
Le leggi razziali sono l’ultima occasione per dimostrarsi un gentiluomo. FTM le avversa apertamente, dando voce a un dissenso che solo personaggi nella sua posizione potevano permettersi. Più tardi, dopo l’otto settembre, farà qualche suo tentativo di imboscare oppositori ed ebrei.

39. Disperso in Russia
Sempre più fascista e mussoliniano (proprio quando gli italiani si stanno rapidamente stancando), riesce a partire volontario anche per la Russia. Stavolta però non vede il fronte: smarrito nelle retrovie, si aggrega a un ospedale da campo, non racconta più di esplosioni ma di paesaggi e crocerossine. Sta diventando umano, fuori tempo massimo.

40. L’ultimo quarto d’ora
Torna in Italia in fin di vita, e ha il tempo di assistere al crollo dell’Italia a cui aveva creduto, e di preoccuparsi per la sorte di moglie e tre figlie. Non abbandona Mussolini a Salò (anzi lo assilla), e muore affaticato una mattina dopo aver dettato la sua ultima poesia, il Quarto d’ora di poesia per la X Mas: giusto per ribadire, con l’ultimo fiato, da che parte stava. Dopo la liberazione qualcuno scrive sull’Unità che era stato ‘il più simpatico dei gerarchi’: potremmo ricordarlo anche così. Ma alla fine su tutte le immagini prevale quella del buffone: un buffone serissimo, alla Buster Keaton, smarrito tra ingranaggi e impalcature moderne che lo attirano, ma di cui non è che capisse poi molto.