santi, Storia

Che farai, Pier da Morrone?

19 maggio – San Celestino V, al secolo Pietro Angelario, il papa che abdicò.

Che farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone. Ogni tanto capita, in Italia più spesso che altrove, che un ruolo di grande responsabilità sia affidato a un individuo senza esperienza, una persona universalmente riconosciuta e stimata per i suoi ideali, a volte anche per la coerenza con cui li persegue – ma digiuna di politica. Il che a volte è considerato un valore, e in Italia più che altrove: se non capisci niente di politica è meglio, è una cosa sporca, fidati, magari ci firmi due carte e ci pensiamo noi. Può essere un sovrano, un dittatore, un ministro, anche solo un sindaco. Capitò anche a qualche papa. E ogni volta sembra di risentire la strofetta sardonica di fra Jacopone, poeta-frate-combattente contemporaneo di Dante, meno raffinato ma altrettanto italiano: che farai, Pier da Morrone? Vederimo el lavorato che in cella hai contemplato. Vedremo come si realizza nella pratica quello contemplavi nella tua povera cella. Ma s’è ’l monno de te engannato, séquita maledezzone!

Pier da Morrone, lo sanno tutti, non avrebbe davvero voluto fare il Papa. Era un anziano eremita, senza esperienza di politica, né di liturgia. Non parlava neanche bene il latino, in un secolo e in una situazione in cui gli sarebbe davvero servito. Nel suo volgare molisano (Isernia e Sant’Angelo Limosano se ne disputano la paternità), Pier da Morrone avrebbe potuto rispondere subito “No” ai messaggeri che gli portavano la notizia: dopo 27 mesi di stallo, i dodici cardinali in conclave avrebbero scelto te. Te la senti? Bastava un no. Pietro non lo disse. Secondo Petrarca cercò addirittura di fuggire; secondo i suoi biografi fu un po’ tirato per il saio dai monaci dell’ordine che aveva fondato, e che in suo onore si sarebbero poi chiamati celestini. Fratel Pietro, tu puoi cambiare tutto. Chi altri se non tu. Fratel Pietro, è Dio che lo vuole. Fratel Pietro, tu puoi risolvere i problemi che infangano la Chiesa, con una sola parola, che è il nostro motto: povertà. Povertà. Fratel Pietro, se i cardinali hanno scelto te, un motivo ci sarà.

La tua fama alta è salita,
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.

I cardinali in realtà non sapevano più a che santo votarsi. Era una di quelle elezioni che non finivano mai: situazione molto incresciosa per i fedeli, giacché se da una parte è normale che dodici teste abbiano dodici priorità diverse, non si capisce perché lo Spirito Santo non debba esprimersi chiaramente in tempi brevi. Già in passato, per evitare situazioni del genere, erano state adottate misure estreme: nel 1268 i viterbesi esasperati avevano chiuso a chiave i cardinali nella grande sala del palazzo papale, dando luogo al primo vero “conclave”. E siccome i porporati continuavano a litigare, avevano cominciato a scoperchiare il tetto. Alla fine era stato eletto un buon papa, Gregorio X, che aveva dato disposizioni molto dure onde evitare il ripetersi di un simile scandalo: dopo dieci giorni le porte dovevano essere sbarrate, e la dieta dei principi della Chiesa progressivamente ridotta fino al pane e all’acqua. Questo regolamento era poi caduto in disuso (sarebbe stato proprio Celestino a ripristinarlo), e così prima di eleggere Pietro da Morrone i porporati avevano già passato due anni a litigare, anche solo per decidere dove proseguire la discussione: a Roma, no che c’è la peste, a Rieti, anzi, facciamo a Perugia. Tra i dodici c’erano tre rappresentanti della famiglia Orsini, e due degli eterni avversari, i Colonna. L’equilibrio era quasi perfetto, al punto da suggerire l’idea che tirassero avanti sperando che qualche anziano morisse – un francese effettivamente morì. Nel frattempo i fedeli davano segni di impazienza.

Ma chi me lo fa fare di scendere.
Il segno più evidente lo diede Carlo d’Angiò detto lo Zoppo, re di Sicilia anche se sulla Sicilia propriamente detta non regnava: dal tempo dei Vespri l’isola era passata agli Aragona e Carlo doveva contentarsi della “Sicilia al di qua dello stretto”, quella che oggi chiamiamo Italia meridionale. Da tempo Carlo lavorava a una soluzione diplomatica. Era persino riuscito a dividere il fronte degli aragonesi, alleandosi col fratello maggiore, Giacomo II che regnava a Barcellona, contro il fratellino Federico che era reggente a Palermo e non aveva intenzione di andarsene. Ma per firmare una pace seria aveva bisogno di un pontefice che la suggellasse. Se gli Orsini erano chiaramente dalla sua parte, i Colonna stavano con gli Aragona, forse perché finanziati da Federico o semplicemente per il gusto di mettere i bastoni nelle ruote degli Orsini.

A un certo punto Carlo d’Angiò decise di recarsi a Perugia, col manifesto proposito di metter fretta ai cardinali e allo Spirito Santo. Un gesto di arroganza inaudita. Quando irruppe nel conclave, i cardinali riuscirono a sbatterlo fuori, e pare che nell’occasione il più risoluto si mostrasse il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani: sì, il futuro Bonifacio VIII. La discussione proseguì finché il decano, Latino Malabranca Orsini, non ebbe la pensata di mostrare una lettera che gli avevano recapitato. Il contenuto, una cosa del tipo ‘se non vi sbrigate ci sarà l’apocalisse, sciagure e cavallette, ecc.’ era forse la parte meno interessante. Di lettere così dovevano arrivarne di frequente, a tutti i presuli. Più stuzzicante era l’identità del mittente: Pier da Morrone. Non il solito eremita pazzo. Cioè. Eremita senza dubbio, e mediamente pazzo come tutti, ma universalmente conosciuto e stimato. Molto prima di varcare il Sacro Soglio, fratel Pietro era già una celebrità, un santo in terra, sin dai tempi in cui si era recato a piedi a Lione, per il concilio in cui Gregorio X sperava di sanare lo scisma d’oriente, nel 1273. Pietro poco o nulla sapeva di scismi, ma era preoccupato per la sorte del suo ordine, che come tutti quelli di più recente fondazione rischiava di essere sciolto. Tecnicamente si trattava di un ramo dei monaci benedettini, ma la povertà radicale che predicavano e praticavano li inseriva nel più vasto movimento pauperistico del Duecento.

Como segno a saietta,
tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.

La Chiesa ufficiale non si era mai trovata a suo agio coi pauperisti. Predicare la povertà radicale poteva portare a forme di ribellione contro la proprietà privata e l’ordine costituito – era da secoli che succedeva. Con alcuni pauperisti ci si poteva ragionare: ad esempio Francesco d’Assisi aveva ottenuto il via libera da Innocenzo III, e il suo estremismo iniziale era diventato minoritario nel suo stesso ordine (Francesco probabilmente non era contento della piega che avevano preso gli eventi, ma era morto presto). La differenza tra essere bruciati come eretici e venerati come santi era minima e poteva dipendere da un niente, magari dal sogno di un pontefice che ha fatto indigestione. Gregorio X non solo aveva accolto il povero fratel Pietro con tutti gli onori, ma gli aveva chiesto di celebrare una messa per tutti i padri conciliari. Nessuno ne era più degno di lui, aveva affermato. Gregorio era in contatto diretto con tutti i più grandi personaggi della Chiesa del suo tempo: Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Luigi IX re di Francia: l’Europa brulicava di futuri santi e Gregorio li conosceva tutti. Per cui no, Pietro da Morrone non era il solito eremita convinto che tutti i problemi si possano risolvere digiunando. Perlomeno, era un eremita stimato da papa Gregorio.

MA CHI ME LO FA FARE DI SCENDERE GIU'.
Tutto questo comunque era successo vent’anni prima. Da lì in poi, nulla di particolarmente eclatante era successo nella vita di Pietro: era tornato negli Abruzzi, dove si divideva tra il suo eremo preferito sulla Majella (Santo Spirito) e quello un po’ meno estremo, più accessibile a visitatori e fans: Sant’Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona. A parte digiunare e inviare ai potenti della terra qualche profezia di sventura, Pietro non è che facesse un granché, né nessuno si aspettava molto altro. Era idea corrente che l’uomo più santo e meno corruttibile della terra vivesse una vita di privazioni da qualche parte negli Appennini, pregando per i peccati di tutti. Finché al cardinale decano non viene l’idea: e se incoronassimo lui? Ha più di ottant’anni, che male vuoi che faccia. Monsignor Latino Malabranca aveva più fretta degli altri, forse sapeva che non avrebbe passato l’estate (morì in agosto).

A quel punto a Perugia erano rimasti in sei cardinali: gli altri accorsero quando ormai l’idea si era conquistata un nocciolo duro di sostenitori. Non avendo i verbali possiamo ricamare a piacere: immaginare i cardinali che sbattono il pugno sul tavolo e dicono basta, qui mentre chiacchieriamo i cristiani perdono ogni fiducia nelle istituzioni, è ora di dare un segnale forte. Pensiamo fuori dalla scatola, allarghiamo il quadro, e qualche altra di queste menate da consiglio d’amministrazione che in ogni secolo si scrivono in una lingua diversa senza perdere la loro fumosa consistenza. Bisogna mostrare che recepiamo le istanze della base, insomma, quelli non fanno altro che gridare povertà povertà, credono che sia la chiave di tutti i problemi, e noi diamogliela. Pietro è perfetto, non ha mai scritto o detto nulla di lontanamente eretico, e soprattutto… è anziano. Già, quanti anni ha? Non si sa, ma va per i novanta.

Si se’ auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.

Che si trattasse di una soluzione transitoria, in attesa di mettersi d’accordo su un nome più importante, era forse chiaro allo stesso monaco, che dopo qualche esitazione scelse di ereditare il nome dal titolare di uno dei pontificati più brevi della storia: Celestino IV, nel 1241, aveva regnato per appena 17 giorni. Pietro non si aspettava di durare parecchio di più. Il fatto è che mentre certi pauperisti muoiono molto presto, stroncati dalle privazioni che si autoinfliggono (Francesco d’Assisi, Caterina da Siena), altri viceversa sono molto longevi (Francesco da Paola). Probabilmente azzeccano la dieta giusta, riducono le frustrazioni e passano la novantina in tutta tranquillità. Un papa povero, digiuno di tutto e quindi anche di politica, poteva essere facilmente manovrabile: ma da chi?

Non ci volle molto tempo per scoprirlo. Re Carlo lo Zoppo da Napoli andò a prenderlo direttamente alla Majella, e non lo avrebbe più mollato. Pietro non riuscì nemmeno a raggiungere i cardinali a Perugia: fu probabilmente Carlo a sconsigliarlo di uscire dai confini del suo regno. Papa Celestino V non risedette mai a Roma, né la cosa dovette dispiacergli troppo: c’era stato da giovane, per studiare, e se n’era andato appena aveva potuto. Fu incoronato nella cattedrale più vicina al suo eremo, all’Aquila: quella basilica di Santa Maria di Collemaggio che secondo la leggenda era stata costruita su sua richiesta (quand’era un semplice eremita aveva trovato riparo in una chiesa diroccata, e la Vergine in sogno gli aveva chiesto una Basilica più grande in loco). Celestino entrò all’Aquila come Gesù a Gerusalemme, a dorso di un asino a cui re Carlo teneva le briglie. La metafora si prestava a diversi piani di lettura (continua sul Post)

guerra, La grande gara di spunti, Storia

Fiume 1920, l’immaginazione al potere

Tra un po’ sarà il centenario, forse ne vale la pena. Nel ’19, mentre l’Europa si rigira ancora sbigottita dopo il più grande macello di tutti i tempi, un poeta un po’ fuori moda, autore di best-seller ed eroe di guerra, occupa con un manipolo di reduci fuori di testa la città di Fiume (Rijeka), che i diplomatici seduti al tavolo dei vincitori sono ancora incerti se assegnare al regno d’Italia o a quello appena nato di Slovenia Croazia Serbia e Montenegro (che qualcuno chiama col buffo nome “Jugoslavia”).

Mentre i politici cercano di metterci una pezza, la ridente cittadina adriatica scivola nel delirio liberty del suo improvvisato dittatore, che inventa tante cose destinate a lasciare il segno, ad esempio i discorsi al balcone, il culto della personalità, l’eja eja alalà. D’altro canto Gabriele D’Annunzio, perché è di lui che stiamo parlando, sa che di discorsi alati non si vive, e cerca finanziatori. Li trova tramite quel giornalista ex socialista a cui l’Ansaldo finanzia ancora il quotidiano, Benito Mussolini. Quest’ultimo per copertura organizza una sottoscrizione, ma è scettico, teme di rimanere fregato. D’Annunzio gli propone cose folli, ieri abbiamo marciato su Fiume, domani marceremo su Roma! Seh, su Roma, figurati, ci massacrano ad altezza Orte. Non capisci, ormai lo Stato liberale è disgregato, lo dice anche quel sovietista torinese, come si chiama… Uh, buono quello.  

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

Ma è solo l’inizio. Quando si accorge che i negoziati vanno per le lunghe, e che anche Mussolini è favorevole a una situazione di compromesso, D’Annunzio trasforma Fiume in uno Stato indipendente, comincia a stampare francobolli, legalizza il giuoco d’azzardo e, cosa più sconvolgente di tutte, si butta a sinistra: riconosce, primo stato al mondo, la Russia dei Soviet. Nomina capo del governo un sindacalista rivoluzionario e redige con lui una costituzione che Trotskji trovò interessante. “Fiume è diventato un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high-life” [Turati]” Vi accorrono criminali internazionali e le spie a cui la pace ha tolto il posto di lavoro. Sono tutti variamente impazziti: sono sopravvissuti alla guerra più orribile e non sono nemmeno sicuri che sia finita. La rivoluzione è data per scontata, inevitabile; probabilmente sarà bolscevica ma anche anarchici e legionari l’attendono con trepidazione. D’altronde se D’Annunzio può fondare uno Stato, allora qualunque cosa, no?

Poi se lo volete più Pynchon me lo dite e lo facciamo più Pynchon, si può fare di tutto. Attilio è un ragazzo dello ’00, di quelli che hanno mancato la leva per un pelo, e in pratica hanno solo il rimpianto di essersi persi la gloriosa cavalcata di Vittorio Veneto. In più suo fratello maggiore Bernardo era un Ardito, uno delle truppe speciali che strisciavano nelle trincee dei crucchi e li strangolavano nel sonno, in teoria. Lui sì che è un vero uomo. Ma dopo Vittorio Veneto non si è più fatto vivo a casa. Morto non è, perché continua a spedire le sue cartoline sgrammaticate da Verona, Milano (forse c’era quando hanno dato fuoco alla sede dell’Avanti)… l’ultima cartolina è timbrata Fiume. Attilio, che di suo è già purtroppo un estimatore del Piacere e delle Laudi, decide di raggiungere il fratello.

A Fiume incontrerà gente delle più strana. Sono mutilati, traumatofili, si accoltellano per passarsi il tempo, una marchesa va in giro vestita da Ardito col pugnale. Gira anche un po’ di coca, ma è la guerra la vera droga di cui tutti sono in crisi d’astinenza, la presa di Fiume è solo un succedaneo. A un certo punto arriva Marinetti con un volante in mano – ha cappottato strada facendo, per lui è una cosa naturale. È appena appena un po’ più fuso degli altri, in preda a ossessioni erotiche incontenibili maturate tra fronte e ospedale. Un gran parlare della trincea come di una festa di fine di mondo in cui ogni tanto qualche tuo amico esplodeva. Bei tempi, ma torneranno.

Quando finalmente incontra il fratello, Attilio ne resta turbato. All’apparenza è il più tipico miles gloriosus, la sua guerra sembra consistita nello sfoggiare il fez e sparare su fantaccini in fuga. Ma sotto la maschera si intravede un mostro in preda al panico. Che cosa combinerà nella città dove tutto è possibile? Riuscirà D’Annunzio a finire l’avventura in bellezza senza farsi male? Riuscirà Mussolini a rivendere l’idea della marcia su Roma come sua? Per saperlo non avete che da votare per Fiume 1920! Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che il pezzo vi è piaciuto. Eja ej… ehm… grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto).

La grande gara di spunti, Roma, Storia

Ognibene alla corte di Claudio Augusto

…portentum eum hominis… nec absolutum a natura, sed tantum incohatum.

Ogni uomo si sente capace di giudicare la propria epoca, come se fosse possibile tenersene alla giusta distanza: come se fosse possibile rifiutarla per sostituirla con un’altra qualsiasi.
Ognibene, che è stato in tante epoche, e di tutte conserva il ricordo, lui sì potrebbe prendersi la responsabilità di dare giudizi e di preferirne una all’altra: ed invece più d’ogni altro il nostro eroe sembra trovarsi in difficoltà. I brandelli di storia che pure vive in prima persona, egli non riesce a comporli in un quadro che sia a malapena leggibile. Le cose sembrano accadere indipendentemente dalle cause e dagli effetti che noi uomini attribuiamo loro: o forse esistono queste cause e questi effetti, ed esistono anche precise equazioni: ma sono di quarto o centesimo grado, e Ognibene non può risolverle.

Diciamo allora che il nostro si trova in viaggio sulla via Aurelia, a cavallo del figlio di un senatore romano. È l’autunno dell’anno dei consoli Asinio Marcello e Acinio Avola, in un secolo di autunni miti e dolcissimi. Ognibene sta ritornando a Roma dopo un soggiorno di anni trascorso su un’isola ai bordi del mondo e dell’impero, che sarà magari un giorno il nuovo centro del mondo e dell’impero, ma questo chi potrebbe immaginarlo? È tornato per farsi un bagno decente e un’orgia come si deve, e quattro chiacchiere con qualcuno un po’ civile: per incontrare magari Seneca (non che ci tenga tanto), per piangere di nascosto sulle ceneri disperse della dolce Messalina. Ma soprattutto è tornato per fare rapporto all’Augusto Imperatore sulla nuova provincia di Britannia: e poi – e questo è l’unico vero motivo – per vederlo morire.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

A Roma stavolta Ognibene non ha avuto molta difficoltà ad arrivare. Si è semplicemente messo su una strada, e ha seguito la corrente. All’inizio sembrava difficile: per giorni magari non si vedeva che un carretto, lungo sentieri e mulattiere delle regioni più sperdute. Poi, man mano che ci si avvicinava, il traffico aumentava sempre più. Già a Grosseto la fila dei carri è ininterrotta; ma l’Urbe comincia molto più in là, quando le strade congestionate esplodono, là dove carri e carovane fermi l’uno addosso all’altra, hanno messo le radici: Roma è questo ingorgo colossale.

(Questo devo aver smesso di scriverlo quando ho scoperto che Robert Graves ci aveva già scritto sopra ottocento pagine).

Ognibene non può fare a meno di notare che, se tutte le strade portano a Roma, nessuna sembra uscirne: come se l’Urbe non fosse il punto di partenza dell’impero, ma il punto d’arrivo: non caput ma sfintere, il Foro nel quale precipitano tutte le mercanzie d’oriente ed occidente: dove non si produce più nulla, e tutto deve consumarsi. Salito su un colle in periferia, domandato a un pastore con finta ingenuità di quale dei sette colli si trattasse, si sente rispondere che non è né il settimo né il settantasettesimo, ma solo un mucchio di detriti e cocci rotti sui quali è già cresciuta l’erba. Nelle anfore di tutto il mondo arriva il vino alla Città: ed essa non ne rende nemmeno i vuoti.

(Probabilmente il senso di tutto era il profilo di Claudio, l’imperatore che governò tra il nipote Caligola e il figlioccio Nerone, figura patetica e titanica assieme, un disabile che cerca di tenere assieme un enorme impero perché è sempre meglio lui di certi pazzi che ha visto al governo. Ha davvero fatto finta di essere uno scemo per essere incoronato, o è scemo davvero? O entrambe le cose?)

“E che c’è di nuovo in Città, ditemi.”
“Di nuovo, in città? Mah. Acqua e grano, finché dura, non ne manca: e alle bighe vince parecchio il Verde. C’è stato un grosso temporale nove giorni fa, e un fulmine ha colpito una statua.”
“Una statua?”
La tomba di un uomo importante, un Dio forse: ma non gli sanno dire quale. Le notizie vanno lente e si confondono nella città enorme. Davvero, pensa Ognibene, non lo diresti ma è infinita una città di un milione di abitanti quando ci si può spostare a piedi o – ma la sera soltanto – a cavallo. Quando i palazzi più arditi arrivano al terzo piano, e chiunque tenga alla pelle si cerca un appartamento al piano terra. È un mare, un mare d’argilla e pietra, e ti costa ore attraversarlo… “La Città di marmo” pensa Ognibene: “Il Divo Augusto aveva innalzato una dozzina di tempietti e pensava di aver lasciato la Città di marmo“. Non aveva gli occhi per la città di fango che si ingrossava ad ogni orizzonte. Come sono inadeguati gli uomini, anche i più capaci, anche gli Dei.

(Se ci sono errori storici non prendetevela con me, ormai sono un’altra persona).

Più in là gli sapranno dire che il fulmine ha centrato precisamente un mausoleo di un Cesare: ma quale? Ce n’è tanti. Di Germanico Cesare, si dice: il potente e buon Germanico. E non è stato un temporale, è stato un lampo a ciel sereno: pessimo auspicio! Macché, dicono altri che paiono meglio informati: pioveva come piace a Giove, e il mausoleo è poi l’altare di Tiberio. Oh, perché c’è un altare di Tiberio adesso a Roma? Non aveva la plebe precipitato il cadavere del vecchio bavoso dalla rupe tarpea? Ma già, s’intende, balbettano, noi non parlavamo mica di quel Tiberio lì, ma di coso, di… come si chiama: Druso, ecco. Finché, per farla breve, Ognibene non decide di farsi portare lì a vedere di chi si tratta veramente: siamo nel Centro, ormai.

“Ah, ecco, volevo ben dire: è Druso.”
“Certo che è Druso: non te l’avevamo detto, noi?”
“Sì, ma non Tiberio Druso, che poi è Claudio Cesare Augusto: questo qui è suo padre Germanico.”
“Ah no, questa no. Noi lo conoscevamo il buon Germanico, e non c’entra niente con questo qui.”
“Ma è suo padre, ignoranti. Voi lo confondete col padre di Caio, il fratello maggiore di Claudio Augusto, che poi è Germanico pure lui. Possibile che ne debba sapere più io di voi su queste cose?”

Ma Dei immortali, di chi è mai la colpa? Certo, si sarebbe dovuto organizzare un po’ meglio questa dinastia. È impossibile non fare confusione. “Secondo me quando poi salgono all’Olimpo, nemmeno là ci si raccapezzano più: un altro Cesare? Un altro Tiberio? Un altro Claudio? Sul serio, a pensarci: perché dovrebbe impegnarsi tanto a distinguerli, Giove Padre? E forse gli è già successo di fare qualche confusione. Dice:”Molto bene, è tempo che i romani abbiano un nuovo imperatore. Ma un tipo buono, serio, posato, che c’è n’è gran bisogno. Mercurio, vieni qui. È tempo che venga eletto a Roma Tiberio Claudio Germanico.” E Mercurio: “Ma Giove Padre, sei proprio sicuro?” “Certo che sono sicuro. Un uomo buono, serio, posato: Tiberio Druso Claudio Germanico. O osi discutere i miei ordini? Vuoi assaggiare la mia folgore, dì?” E Mercurio scappa via le ali ai piedi: chi glielo spiega a Giove che si è confuso, che volendo procurare a Roma un buon imperatore, ha nominato per sbaglio un povero fesso?

Diventi empio, Ognibene: bestemmi gli Dei. Non eri così sbarazzino lassù tra i cassivellauni, dove Essi hanno nomi terribili da bisbigliare in segreto, e al legato romano di turno conviene chiudere un occhio o due quando il druido viene ad avvertirlo che al prossimo plenilunio è previsto un sacrificio umano… e certo, bisogna ammettere che Giove Padre è un amicone, dopo anni passati a guardarsi da Belenos. Eppure è preoccupante questa tendenza a non prendere più sul serio l’Olimpo.

(In punto di morte Claudio spiegava che non vale la pena sforzarsi. La gente non vuole governanti ragionevoli, vuole pazzi maniaci e divertenti alla Caligola, alla Nerone. Era tutta una storia su Berlusconi insomma. Se vi interessa ancora potete votare per Ognibene alla corte di Claudio. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto).

fratelli d'I., Leonardo sells out, Storia

Non rimanga pietra su pietra

14 agosto 1861 I bersaglieri entrano a Pontelandolfo (oggi provincia di Benevento). L’ordine del generale Cialdini è di non lasciare “pietra su pietra”. Lo eseguono.

Il bersagliere Margiolfo Carlo,
inquietante esempio di stragista simpatico

Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po’ prima di arrivare al paese incontrammo i briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi. Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione! Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case.
Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare? Non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore: quattordicesima tappa. Fu successo tutto questo in seguito a diverse barbarie commesse dal paese di Pontelandolfo: sentirete, un nido di briganti, e la posta la svaligiava ed ammazzava la scorta, fra i quali l’ultima volta che svaligiarono la posta era scortata da 8 uomini, e pure perirono i 8 soldati, lo stesso fu per il postione e conduttore, e lasciarono in balia cavalli e legno.
Prima di questo poi era successo un caso molto strano al paese: essendo di passaggio in perlustrazione, una compagnia ha pernottato in una chiesa, ed era piena di paglia; i soldati molto contenti col dire: “Questa notte riposeremo un poco”.
Come sia stato, i paesani volerono la sentinella senza il minimo rumore, e l’hanno squartata, tagliata a pezzi, e diedero fuoco alla paglia da un buco di loro conoscenza, quindi che hanno fatto questi poveri soldati? la figura precisamente che facevano adesso loro: abbrustolire dentro. Proprio quale barbaro paese fu questo Pontelandolfo, ma ora si è domesticato per bene. (Episodi della vita militare del bersagliere Margolfo Carlo).

Mai io potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata… vie abbandonate, a destra e a sinistra le case erano vuote e annerite : si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti. Dalle finestre vedevasi il cielo… Poi mi fu vietato di progredire : gli edifici, puntellati, minacciavano di cadere ad ogni istante. Soltanto tre case furono risparmiate per ordine superiore; soltanto tre case in una città di cinquemila abitanti! Chi può dire il dolore di quella città?»
Poi la voce dell’oratore si fa più calda e ammonitrice e prosegue impavida mentre il Primo Ministro, oscuro come la notte, continua a prendere appunti: « Mi trassero innanzi un gentiluomo, il Signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto, ma gli occhi spenti lo rivelavano colpito da una calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena, appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italica. Nulla chiedo, egli disse. E ammutolimmo tutti. Avevo due figli, il primo avvocato e l’altro negoziante. Entrambi quei giovani avevano vagheggiato di lottare per la libertà del Piemonte, e all’udire che approssimavansi i Piemontesi, cosi si chiama nel paese la truppa italiana, correvano festosi ad incontrarli. Ma la truppa procede militarmente. E i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi. Poi, tolto loro il danaro, sono condannati a immediata fucilazione. L’uno cadde subito morto, l’altro viveva ancora con nove pallottole nel corpo. L’infelice perì sotto il decimo colpo tirato alla baionetta (moto di orrore in aula). Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e, gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano davanti a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene di orrore! Qua due vecchie periscono nell’incendio, là alcuni sono fucilati. Gli orecchini sono strappati alle donne. I saccomanni frugano in ogni angolo.. Da lontano si vede l’incendio di Casalduni come se l’esterminazione non dovesse avere limite alcuno […]
Mai non dimenticherò il 14 agosto, mi diceva un garibaldino di Pontelandolfo. Sul limitare di una delle tre case eccettuate dall’incendio, egli gridava ai villici di accorrere, li nascondeva nelle cantine, e mentre si affannava per sottrarre i conterranei alla morte, vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui, fucilata nella spalla, perché aveva voluto salvare l’onore, e quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre (discorso del deputato Giuseppe Ferrari nella seduta parlamentare del 2/12/1861, in Rocco Boccaccino, Pontelandolfo. Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861).

Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue. (De Jaco, Il brigantaggio meridionale).

Cosimo Giordano (primo a sinistra), il capobanda
che promosse la rivolta e scappò appena arrivarono
i bersaglieri per la rappresaglia.

L’antefatto. Era costume secolare che ogni anno il 7 di agosto il clero coi fedeli si portasse in solenne processione dalla Chiesa Madre fino alla suddetta cappella per celebrarvi i vespri in onore del Santo. Così avvenne anche il 7 agosto del 1861 […] In questo momento una quarantina di briganti, ingrossati da reazionari, da borbonici, da molti popolani si fanno avanti minacciosi agitando una bandiera bianca, obbligano a gridare «Viva Francesco II» e costringono il clero a cantare un Te Deum di ringraziamento con l’intenzione di dimostrare la restaurazione del regno dei Borboni […]
Riporto testualmente dalla sentenza della Sezione di accusa della Corte di Appello di Napoli del 7-6-1864: «Si univano, ad essi (i briganti) nelle clamorose dimostrazioni di festa quelli che nel paese avevano intelligenza della cosa, e quelli che anche ignari dei precedenti concerti la credettero di facile riuscita, e gravida di bei risultamenti. Preso così importanza il movimento, si diedero i sediziosi a consumare, una serie di atti che stabiliscono nettamente il carattere dell’attentato alla distruzione dell’attuale governo. Il posto di guardia disarmato; le bandiere nazionali calpestate; lo stemma Sabaudo a colpi di fucile abbattuto e infranto; gli archivi della Giudicatura e del Municipio incendiati, il botteghino dei generi di privativa forzato distraendovi il danaro trovato e le merci, in danno dello Stato, il traino del procaccia arrestato appropriandosi del danaro che trasportava, la carrozza postale danneggiata distruggendovi il Regio Stemma scolpitovi, i cavalli sottrattine, forzate le prigioni e liberati i detenuti». Nelle imputazioni, che seguono, vengono classificati i vari delitti e non manca l’elenco di tutti i fatti rivoluzionari: saccheggi, distruzioni, incendi, estorsioni e vari omicidi volontari, consumati contro persone ben specificate, come ad esempio: Agostino Vitale, Angelo Tedeschi, Libero D’Occhio. A tutto questo bisogna aggiungere l’efferato delitto compiuto nell’Esattoria comunale, dove insieme con le carte di ufficio fu bruciato vivo l’esattore Michelangelo Perugini. Il 7 agosto si chiuse con le tenebre e la follia omicida e devastatrice degli insorti. Anche oggi quella data è proverbiale nel popolo, quando si vuole accennare a un fatto straordinario e travolgente.
Il giorno seguente «si costituì un nuovo governo che mandò subito messaggi nei paesi intorno`invitando tutti alla rivolta » (A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale). L’appello non rimase inascoltato: una specie di frenesia generale invase anche le popolazioni vicine e il 9 agosto si diedero convegno a Pontelandolfo reazionari provenienti da Casalduni e Campolattaro, che, sventolando bandiera bianca e osannando a Francesco II, si accamparono in Piazza Tiglio e sulle Campetelle, ormai scomparse. Al calar della sera però, temendo l’arrivo di soldati impegnati nella lotta contro i briganti, se ne andarono e tutto piombò nel silenzio profondo, foriero di più funeste sciagure.
[…]
La reazione fu sollecita, ma bisogna riconoscerlo, impari alla gravità dei fatti e al numero delle persone da affrontare, favorite dalle armi, dall’omertà e dalla familiarità dei luoghi. Così fu deciso di inviare a Pontelandolfo un drappello di 45 soldati al comando del tenente Luigi Augusto Bracci e 4 carabinieri.
L’intenzione era quella di sedare i disordini, calmare la popolazione, restaurare l’ordine e tenere a bada le orde brigantesche. Questi giovani furono inconsapevolmente votati alla morte.
Giunsero a Pontelandolfo l’11 agosto e in prossimità dell’abitato cominciarono a sventolare fazzoletti bianchi dimostrando lo scopo pacifico della loro venuta. Molti cittadini, appena li scorsero, fuggirono rifugiandosi lontano o andando a riferire alle varie bande di briganti, sparse nelle contrade di montagna, la novità dell’arrivo. Il paese sembrava completamente immerso nell’abbandono; solo alcune persone, rinchiuse nelle case, attendevano la fine di quell’intervento.
Questo contegno circospetto impensierì i militari tanto più che da qualcuno, che coraggiosamente si era fatto vedere, avevano ricevuto un inaspettato rifiuto di cibo e l’assicurazione della fuga delle autorità; il che confermò il convincimento che tutti o avessero paura dei briganti o ne fossero conniventi. Lentamente dal Piano della Croce si avviarono nell’interno del paese e trovarono la migliore soluzione nel rinchiudersi nel giardino della Torre per consumare un po’ di pane e di vino, che alla fine erano riusciti a raccogliere, e attendere il momento opportuno per ritornarsene.
L’ambiente appariva afoso e minaccioso. Improvvisamente si udirono colpi di fucile e le sentinelle diedero l’allarme: si scorgevano masse di uomini, contadini e briganti accompagnati anche da donne forsennate, che si avvicinavano armati con l’intento, evidente di accerchiare la Torre. Fu quello però un atto di provocazione a uscire allo scoperto per rendere più facile la soppressione del drappello. I soldati, infatti, uscirono e, sparando senza colpire nessuno, si diressero attraverso le Càmpetelle verso la strada maestra preoccupati di non venire accerchiati e di raggiungere S. Lupo, dove risiedeva il Comandante della Guardia nazionale. Disgraziatamente la manovra non riuscì. Le masnade dei briganti si richiamavano con forti grida d’intesa così che da ogni parte della zona si addensò sul «toppo» di S. Nicola un numero schiacciante superiore ai Piemontesi, che si videro perduti. Non potendo avanzare, presero la via sottostante per Casalduni dove, forse, ritenevano di sfuggire al sicuro massacro. Ma le campane di Casalduni suonarono  funebremente a stormo e numerosi ribelli e briganti, comandati dal loro capo «generale» Angelo Pica, un massaro del luogo e principale fomentatore della strage, completarono l’accerchiamento dei bersaglieri. È indescrivibile l’eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono. I 50 uomini si difesero disperatamente, ma alla fine prevalse la turba sanguinaria: furono disarmati, spogliati della divisa, attaccati agli alberi, trucidati. Alcuni furono trasportati a Casalduni, dove subirono la stessa sorte col consenso del locale Sindaco Luigi Orsini; uno solo fu condotto a Pontelandolfo e rinchiuso nella Torre. (Boccaccino)

Feci sparare qualche colpo, ma poi feci battere ritirata. I soldati entrarono e cominciarono a bruciare le case ed io non volli più saperne di quel paese (dichiarazione del “capo brigante” Cosimo Giordano al presidente della Corte di Assise di Benevento, 23/4/1884) (Boccaccino).

Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora (telegramma al generale Cialdini, attribuito a Pier Eleonoro Negri, medaglia d’oro e d’argento al valor militare).

lingue morte, santi, Storia

Кѷриллъ и Меѳодїи!


14 febbraio – Santi Cirillo (827-869) e Metodio (815-885), linguisti, missionari, disegnatori di alfabeti

Scusate il ritardo, ero in giro a bullarmi perché sono l’autore del blog che aveva previsto le dimissioni del Papa con 14 mesi d’anticipo. In realtà non ci voleva molto, secondo me lo sapevano un po’ tutti, ma nel giornalismo moderno se non fai la faccia stupita non ti si fila nessuno, un Papa stanco, wow! ma com’è possibile! ha solo millanta anni e bypass dappertutto! Comunque come sapete ieri era San Valentino, e mentre tutto il mondo cattolico e no pensava a scambiarsi sciocchi e futili pegni d’amore, i linguisti ricordavano i loro Santi, i loro eroi. Cirillo e Metodio non inventarono, come dicono in tanti (e l’ho detto tante volte anch’io) l’alfabeto cirillico, il più usato da Belgrado a Vladivostok, il primo a lasciare la Terra con gli Sputnik. Più probabilmente l’alfabeto da loro disegnato è il Glagolitico, che nelle steli più antiche che ci sono rimaste è un bizzarro mosaico di aste e cerchiolini che avrebbe potuto inventarsi un Tolkien ubriaco di sidro. In ogni caso è stato il primo alfabeto slavo (prima forse c’erano delle rune di cui si è persa ogni traccia, scarabocchi da stregoni, niente che valesse veramente la pena). Se l’invenzione della scrittura è il discrimine tra Storia e preistoria, la Storia slava comincia tardissimo, con questi due fratelli linguisti che non erano nemmeno così slavi. Forse da parte di madre (si chiamava Maria). Il padre, Leo, era un graduato dell’esercito bizantino a Tessalonica, oggi Salonicco, Grecia. Non chiedetevi cosa ci facesse una slava a Salonicco. Già da qualche secolo gli slavi erano un po’ dappertutto tra steppe e Balcani. Lo stesso nome, “slavi”, era già un sinonimo per lavoratore di infimo grado, senza diritti, alla mercé del padrone (oggi si dice “precario”): allo stesso modo in cui chiamiamo “polacche” le badanti anche quando sono bielorusse, a quel tempo se la tua matrona si lamentava di non aver tempo per svuotare la fossa biologica le rispondevi “pigliati una sklava, una slava”, poi in italiano è diventata schiava e in inglese slave.  Ora che lo sapete ogni volta che dite “slavo” vi sentirete in imbarazzo, e prima o poi bisognerà porsi il problema di quanto sia poco politically correct chiamarli così, invece di, boh, persone “diversamente europee”? No, ma pensiamoci.


Dei due il primo a far parlare di sé è il secondogenito, Cirillo. Pensate a lui come quel classico compagno di scuola che senza fatica prende tutti i dieci nelle lingue straniere, ogni volta che apre la bocca sembra che qualcuno abbia cambiato la lingua del film col telecomando, è un dono di natura. Cirillo parlava greco e slavo ma questo era il minimo, Cirillo parlava anche correntemente l’arabo e il samaritano. L’ebraico no perché ai suoi tempi era una lingua morta come oggi il latino, usata soltanto nei riti religiosi (nell’uso comune è risuscitata molto più tardi): sapeva comunque leggerlo. Il talento per le lingue gli consentì di viaggiare per una buona parte del mondo conosciuto. In un secolo in cui solo i militari mettevano il naso fuori dai confini del proprio feudo, Cirillo fu inviato dai bizantini presso il califfo al-Mutawakkil: scopo della missione, spiegare la trinità ai teologi islamici (e poi forse c’erano altre questioni diplomatiche che non sappiamo). Possiamo dedurre che fu un buco dell’acqua, da un punto di vista teologico perlomeno: l’Islam continuò a contrapporre il suo monoteismo radicale alle strane derive triangolari degli infedeli. Forse prima di spiegare la trinità ai musulmani avrebbero fatto meglio i teologi del tempo a spiegarsela tra loro, visto che stavano ancora litigando sulla posizione del Figlio rispetto allo Spirito Santo (lite che dura tuttora). In ogni caso Cirillo si difese bene, e qualche tempo dopo fu inviato presso i Khazari, quel popolo di cui nessuno vi ha mai parlato a scuola perché scappa da ridere anche agli insegnanti quando sarebbe ora di parlare dei Khazari; e dire che ci si potrebbe scrivere un post bellissimo solo sui Khazari, il cui khanato si estendeva dalla Crimea al Lago d’Aral: una potenza militare che i bizantini corteggiavano da più di un secolo. Poco tempo prima i clan della classe dirigente khazara avevano preso una decisione singolare: volendo abbandonare la vecchia religione del loro passato nomadico e passare a uno di quei monoteismi moderni che andavano così di moda, avevano optato per… l’ebraismo, il più sfigat diversamente fortunato dei tre. Cirillo era stato inviato forse per invitarli a desistere, a preferire il bel credo niceno-costantinopolitano: anche in questo caso niente da fare, tutti probabilmente lodarono il suo bell’accento khazaro, ma nessuno fece caso ai contenuti.

La conversione dell’ebraismo dei khazari è a tutt’oggi una questione molto controversa, perché anche se oggi sono una curiosità di eruditi, tra il settimo e il decimo secolo i khazari erano una nazione popolosa, o come si diceva nella zona, un’orda. Erano già il risultato di infinite mescolanze euroasiatiche, e tra loro vivevano ebrei sin dai tempi della diaspora e forse anche da prima. Ma è corretto affermare che a un certo punto l’ebraismo divenne la loro religione di Stato? Magari fu solo la mania passeggera di qualche ricca famiglia, come quando Madonna portava i braccialetti della kabbalah, chi lo sa (continua sul Post…)

Roma, santi, Storia

Il santo che salvò il Colosseo, quasi


26 novembre – San Leonardo di Porto Maurizio, inventore della Via Crucis, salvatore del Colosseo.

È inutile che proviate a farmi gli auguri adesso, miei cari lettori ipocriti, fratelli; il mio onomastico era il 6 novembre, San Leonardo abate di Limoges – e non se n’è ricordato nessuno. Questo Leonardo non è meno importante del primo, diciamo che gioca in tutt’altra categoria: è un predicatore francescano del Settecento, secolo finora colpevolmente snobbato da questa rubrica, sembra quasi che per cent’anni non ci siano stati santi interessanti. Non è decisamente così, però riflettete un attimo sul Settecento che conoscete, sul Settecento che avete studiato a scuola, o quello che poi vi è ricapitato sott’occhio al cinema o in tv. Non vi sembra anche voi di avere un buco? Il secolo dei Lumi, vi dicevano gli insegnanti. Sì ma gli illuministi a ben vedere erano una manciata di persone, ok, gli abbonati all’Encyclopédie erano parecchi di più, però il secolo senz’altro non è tutto lì. C’erano i libertini, questa è cosa nota, almeno un film o un libro di libertini lo abbiamo consumato. Poi verso la fine partono le rivoluzioni, e quelle le studiamo già con più interesse, ma fidatevi che se al liceo vi è capitato di saltare una cinquantina di pagine di Storia d’Italia, erano tutte tra Seicento e Settecento.

Soprattutto nella penisola sembra che non succeda nulla. E invece succedono tantissime cose, tra cui parecchie guerre che cambiano un po’ la cartina – tra l’altro è il secolo in cui nasce davvero il Regno di Sardegna – ma alla fine della fiera tutto cambia perché non cambi nulla, siamo in fase Controriforma e ci restiamo più o meno finché non arriva Napoleone. Qualche sovrano effettivamente legge Voltaire e si dà arie di principe illuminato, ma è quella crosta sottile della società che segue le mode: il Paese reale, come si chiama adesso, pende ancora dalle labbra dei predicatori, come ai tempi di Bernardino tre secoli prima. Leonardo di Porto Maurizio è uno di prima scelta, otterrà persino degli incarichi diplomatici. Ma preferiamo ricordarlo per averci dato una grossa mano a salvare il Colosseo, si fa per dire. Diciamo che senza di lui il Colosseo poteva arrivarci in uno stato ancor peggiore.


Un giorno il Colosseo (che poi si chiama Anfiteatro Flavio) andrà rifatto. Lo scrivo così, per abituarmi all’idea. Nulla dura in eterno, nemmeno i luoghi più sacri e appartati, e non è certo il caso di un’arena tirata su nel centro di Roma a scopi propagandistici. C’è chi dice che Vespasiano abbia voluto offrire al popolo quello che il dittatore precedente, Nerone, gli aveva tolto; secondo altri gli fu molto utile il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme; impossibile non ricordare poi che fu lo stesso imperatore che mise una tassa sui gabinetti pubblici, che è poi il motivo per cui il suo nome è ancora sulla bocca di tutti duemila anni dopo. Poteva immaginarselo? Difficile, ai suoi tempi il passato non esisteva nella forma in cui esiste adesso. Esistevano miti, leggende, e pietre vecchie già un po’ dappertutto, ma Roma non aveva nemmeno compiuto mille anni: e 1930 anni dopo il suo anfiteatro è ancora più o meno lì. In ogni caso l’estate scorsa si è saputo che la curva sud pende di 40 cm., quasi quanto la Torre di Pisa. Un giorno o l’altro potrebbe venir giù, non sarebbe la fine del mondo – a meno che non abbia ragione Beda il Venerabile:

Finché starà in piedi il Colosseo, esisterà anche Roma;
quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;
quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.

Al tempo in cui Beda scriveva le sue storie, nell’ottavo secolo in una landa lontana – l’Inghilterra – il Colosseo se la cavava ancora abbastanza bene, era adibito a necropoli o forse a fortezza (come il mausoleo di Adriano, diventato Castel Sant’Angelo). I gladiatori non ci giocavano più dal 400: a rovinare il divertimento era stato l’imperatore Onorio. I combattimenti contro gli animali, ugualmente sanguinosi (leoni e orsi, a volte aizzati contro condannati a morte) erano proseguiti per un altro secolo, poi l’anfiteatro aveva smesso di essere tale. La vera decadenza cominciò a partire dall’847, con un terremoto catastrofico, in seguito al quale il monumento fu declassato a cava di marmo. Seguono secoli oscuri, in cui il Colosseo diventa un palazzo, anzi parte di un palazzo della famiglia Frangipane. Ma anche questo non dura più di tanto, e l’emorragia di blocchi di travertino prosegue per tutto il Cinquecento (un secolo in cui il nuovo amore per la classicità non impedì ai pontefici di saccheggiarla a tutto spiano), e buona parte del Seicento. Poi le cose cominciarono lentamente a cambiare. Forse fu anche merito del turismo. L’unica forma di turismo di massa che esistesse a quel tempo: il pellegrinaggio, soprattutto in occasione dei Giubilei.

Lentamente divenne chiaro che ai pellegrini che arrivavano a Roma per ottenere l’indulgenza plenaria bisognava mostrare pure qualcosa del periodo antico, non si poteva smontare tutto per adornare Palazzo Barberini. Quel poco di anfiteatro rimasto continuava a essere una mole impressionante, bisognava trovare un modo per sfruttarla, però cristianamente. Del resto, se il cristianesimo era fiorito sul sangue dei martiri, quale suolo ne era più pregno che quello dell’anfiteatro, dove a migliaia erano stati sbranati dalle fiere sotto questo o quell’imperatore? (continua sul Post)

cristianesimo, filosofia, santi, Storia

Le pere del male

Sant’Agostino di Ippona (354-430), ladro di pere e dottore della Chiesa.

Eravamo in seconda elementare, quando in mezzo a noi comparve questa bambina nuova, inspiegabile. Perché prima non c’era e adesso sì? Era stata bocciata? Non risultava bocciata. Però a scuola andava male. Da dove veniva, era straniera? Non era straniera, anche se aveva un nome diverso dagli altri. La sua famiglia non la conosceva nessuno, e lei raccontava storie incoerenti, di parenti ricchissimi o poverissimi, a seconda della piega che prendeva la trama di Candy Candy in quella settimana. Io non la sopportavo, per nessun motivo al mondo. Non mi aveva fatto nulla di male, ma per esempio respirava. Durante le lezioni la sentivo respirare con un certo affanno e m’innervosiva, mi distraeva, le dicevo Smettila. Notavo sulle sue guance dei capillari blu, non mi sembravano normali. Un giorno stavamo tutti al nostro posto, aspettando la maestra che aveva avuto un contrattempo. Eravamo una classe tranquilla: per ingannare l’attesa giocavamo a passaparola. Un messaggio passava da orecchio a bocca a orecchio, facendo il giro dell’aula, finché non arrivava a me, che ero il penultimo. Dopo di me c’era la bambina nuova, a cui io avrei dovuto passare il messaggio che mi arrivava. Ma non lo facevo. Ricevevo il messaggio e lo riconsegnavo a un’altra compagna, dall’altra parte dell’aula, e così il giro ricominciava, ignorando la bambina nuova. Nessuno mi aveva detto di fare così, era una mia iniziativa. Nessuno mi aveva corrotto o minacciato, e la bambina non mi aveva mai fatto nulla, salvo respirare. Il male che stavo facendo non aveva nessuna origine al di fuori di me: nasceva in me, e avrebbe causato probabilmente rabbia, dolore, e altro male. Ma a monte di tutto il dolore e la frustrazione c’ero io, un bambino di otto anni a cui nessuno aveva fatto niente.

Scrivere di Sant’Agostino non è come raccontare di un qualsiasi santo tardoantico di cui ci rimane il nome di battesimo e tre dettagli pittoreschi. Non è una leggenda, Agostino: è una delle persone del mondo antico che conosciamo meglio. Forse troppo per affezionarci. Ci si affeziona ai personaggi letterari, che hanno vite avventurose ma comunque ordinate secondo una traiettoria. Che Agostino sia un uomo vero, e non il personaggio di un romanzo, lo si capisce dal racconto della sua conversione, lungo, estenuante, proprio come sono lunghe e tortuose e un po’ insensate le traiettorie delle nostre vere vite, tanto più complesse dei romanzi quanto meno belle da raccontare. Agostino non cade di cavallo, non vede roveti ardenti o segni in cielo, Agostino arriva al cristianesimo (o meglio vi ritorna, visto che aveva lo aveva succhiato col latte materno) al termine di un lungo assedio intellettuale; quando si direbbe che ceda per stanchezza.

E dire che il momento è storico: Agostino è stato uno dei più grandi acquisti della Chiesa. Se fosse rimasto alla concorrenza, se il guru manicheo Fausto di Mileve si fosse impegnato un po’ di più con lui, oggi forse invece che cristiani non potremmo non dirci manichei, o più probabilmente il nostro cristianesimo avrebbe una forte componente manichea. Ma i manichei avevano il difetto tipico di molte dottrine new age, l’ansia di voler riempire i buchi della conoscenza, di spiegare tutto con teorie, magari per pochi iniziati, ma onnicomprensive. Agostino era un intellettuale, competente di Platone e di Aristotele; non poteva mandare giù l’astronomia for dummies degli opuscoli manichei, un cumulo di favolette che non reggevano il confronto con lo sferragliante ma efficace sistema tolomaico. Cominciò a farsi domande, a porle ai correligionari, e l’unica cosa che gli sapevano rispondere è: aspetta Fausto, lui sa tutto. Ti risponderà su tutto. Fausto però era sempre in tournée, Agostino lo attese nove anni, al termine dei quali si rese conto che aveva aspettato un conferenziere amabile ma abbastanza ignorante, che di astronomia nulla sapeva e lo ammetteva con candore. La fede di Agostino si dissolse in quell’esatto momento, di fronte all’inadeguatezza dell’ennesimo maestro. Se mi permettete la psicologia da strapazzo, anche stavolta Agostino non era riuscito a trovarsi un padre all’altezza. Dev’essere dura rendersi conto di essere il tizio più colto e intelligente in circolazione, proprio mentre ti rendi conto che alla fine non sai quasi nulla, e non c’è nessuno in giro in grado di rispondere alle tue domande. L’Impero Romano stava per rovinare, c’era da ripensare tutta la filosofia della Storia, trovare un nuovo modello, un nuovo senso a tutto quello che sarebbe successo di lì in poi, e Agostino non aveva nessuno che gli mostrasse una strada. Solo la madre (Santa Monica) in un angolo a sgranare paternostri (continua sul Post…)

cinema, fratelli d'I., scuola, Storia

Film per adulti

Io davvero credo che si potrebbero riempire molte pagine di complimenti, sinceri, per la riuscita di un film ambizioso come Noi credevamo; un film che ti tiene in sala per tre ore parlandoti di una delle cose meno sexy in assoluto, il Risorgimento italiano; un film che riesce nell’azzardo di riaprire quel baule nascosto nella memoria scolastica di ciascuno di noi, senza farci soffocare di polvere; e senza nemmeno spacciarci quelle decalcomanie di eroi che in tv girano ancora parecchio.
Sul serio, se ne potrebbe scrivere a lungo, e bene, di un film così coraggioso. Ma non lo farò, e un po’ mi dispiace.

Qui sotto invece vorrei spiegare, spero senza offendere nessuno, perché malgrado tutto io a scuola non lo userò. Naturalmente, oltre a non essere un esperto di cinema, non sono nemmeno un luminare di didattica audiovisiva. Sono un praticone, come tutti gli insegnanti italiani: ho avuto parecchie classi, ho proiettato diversi film, e credo di aver capito perché coi miei ragazzi certi film funzionano e altri no. Magari è un discorso che funziona solo al mio paese. Ma potrebbe anche avere qualche utilità per chi i film li fa, o li produce, e non vorrebbe rinunciare al pubblico scolastico; che di sicuro non è quello che riempie le sale i primi giorni, ma che sulla distanza si fa sentire, e magari può trasformare un insuccesso ai botteghini in un long seller tra i dvd. Un film risorgimentale che non funziona a scuola, per quanto pregevole, non è un’occasione sprecata?

Perché Noi credevamo non funzionerebbe nella (mia) scuola media

Premessa: noi il Risorgimento lo facciamo ancora in terza (adesso). Tra un po’ lo sposteremo in seconda, con le semplificazioni del caso. Quindi no, non mi lamenterò perché Mazzini non è filologicamente Mazzini; col poco tempo che abbiamo va già grassa se riusciamo ad abbinare al volto di Mazzini alcuni contenuti basilari (Giovine Italia, Repubblica romana 1848, l’Italia si fa ma lui muore clandestino).

1) Troppo veloce
Lo so, i ragazzini sono tutti iperattivi, nintendo, playstation, ritalin. Sì, ma proprio per questo poi li metti davanti all’Odissea di Rossi e vanno in trip lisergico. Le riprese statiche li ipnotizzano. A essere onesti anche Noi credevamo prende fiato, ogni tanto, soprattutto nella parte carceraria. Ma è già passata un’ora serratissima di gente che va e viene dal Cilento, Parigi, Torino, Ginevra; non c’è il tempo di parlare di un’insurrezione che l’insurrezione si fa e fallisce. In tutta questa cavalcata la narrazione va avanti dando per scontato centinaia di nozioni che lo spettatore medio conosce già (ad es., cos’è un “giacobino”), ma appunto: le conosce perché le ha imparate a scuola. E a scuola, appunto, gliele devi spiegare. Il più delle volte con il fermo immagine (durante il quale c’è sempre qualcuno che sbuffa, la spiega del prof non essendo molto meno indigesta di una televendita). Ecco, il grado di ‘scolasticità’ di un film si potrebbe misurare dalla quantità di fermo immagine a cui ti costringe. Un film che puoi vedere senza telecomando in mano è un film scolastico. Spesso sono film come l’Odissea o Allonsanfan, col fermo immagine incorporato. Noi credevamo è un film che comincia con una corsa a perdifiato, e chiede allo spettatore di inseguirlo. Nel ritmo forsennato della prima parte mi sembra di riconoscere la tipica sintassi del film condensato: quello che era stato progettato per quattro ore e poi è arrivato alle tre della versione nelle sale attraverso una serie di tagli meditati e, immagino, dolorosissimi. Il risultato, a vederlo nelle sale, è più che degno; ma a scuola no. A scuola, più un film è veloce, più ti tocca perdere tempo a spiegarlo. Conosco già l’obiezione: aspetta la versione televisiva, avrà tempi sicuramente più rilassati. E arriviamo al punto (2)

2) Troppo lungo.
Signori, non li faccio io i programmi: quel che vi posso dire è che se parti a settembre con la Restaurazione e a giugno devi far crollare il muro di Berlino, e hai solo due ore alla settimana, 66 ore l’anno; e hai 25 alunni in media; e li devi interrogare – quante volte a quadrimestre? Quanti minuti l’uno? Insomma, fate i vostri conti. Un film di tre-quattro ore è una botta al calendario che non mi posso permettere. Due ore sì, tre no. Anche se…

3) Troppo collaterale.
…anche se in realtà si potrebbe trattare. Dammi un film di tre ore che mi sostituisca efficacemente una trentina di pagine di manuale. Dammi una spolverata di moti carbonari; dammi la vita e le idee di Mazzini con tutte le didascalie al posto giusto;
dammi il ’48 in tutto il suo furore, un bel condensato di Garibaldi, e una mezz’ora onesta con la questione meridionale e il brigantaggio. Se nel finale riesci pure a infilare la breccia a Porta Pia, te lo compro a scatola chiusa. Ma Martone non ha voluto fare un film così (ammesso che sia fattibile). Ha preferito prendere le storie molto personali di due giovani che, per una serie di concause e di sfortune, si perdono tutti gli snodi che stanno sui libri di Storia. Non solo snobba l’impresa dei Mille, ma si sofferma sul suo sequel fallito, la marcia su Roma da sud abortita sul nascere in Aspromonte, che sui manuali occupa giusto due o tre righe imbarazzate. In una prospettiva adulta l’intento è più che lodevole. Mostrare Garibaldi come un’ombra lontana, raccontare l’attentato a Napoleone III che nei manuali di solito non c’è. In questo modo intorno agli schemini memorizzati a scuola prende forma negli spettatori qualcosa di più corposo, la Storia dei libri diventa il groviglio delle storie dei viventi. Tutto molto bello, ma funzionerebbe senza gli schemini che abbiamo imparato da piccoli? Se non sapessimo nulla di Napoleone e di Napoleone III, nulla di Garibaldi e nulla di Francischiello, riusciremmo a orientarci in Noi credevamo? È un film per adulti. Nel più nobile senso del termine.

4) Nessuna qualità agli eroi
Anche nella sua prospettiva totalmente antieroica. È un film senza personaggi simpatici: ce n’è uno che [spoiler] muore dopo mezz’ora, e il resto del film prosegue con adulti sempre più mesti e delusi. Invece ai ragazzi devi dare l’entusiasmo, l’ansia e l’allegria di crescere, la scoperta di sé, almeno un amorazzo decente. Qualcosa del genere c’è nell’ultima parte, dove troviamo finalmente un ragazzo un po’ entusiasta. Però non è uscito molto simpatico, devo dire. Ora io non è che voglio crescere dei piccoli garibaldini, anzi: la retorica risorgimentale è stata uno degli ingredienti che Mussolini ha trovato nei refettori delle scuole del Regno quando si è trattato di impastare il fascismo. Però non puoi mettere i ragazzini davanti a tre ore di disillusioni e fucilazioni, è un crimine contro il futuro. Persino Allonsanfan, col suo umor nero, aveva qualche scorcio di follia vitale che riscattava tutto il pessimismo. Noi credevamo no, è una lunghissima elegia che riesce a non addormentarti per tre ore: onore al merito, ma ai ragazzini no, non hanno fatto niente di male.

5) Poche ragazze
E qui non c’è niente da fare. Le classi sono miste, i ragazzi hanno gli ormoni, le ragazze hanno bisogno di modelli di riferimento; l’Inaudi fa quel che può. Provateci voi a dar vita a un’ereditiera filo-proletaria nei salotti di Parigi, in piena età romantica, con tutte le svenevolezze del caso: poteva essere molto, molto più ridicola di così. Buono, ma non basta: su tre ore, due e mezza sono totalmente occupate da guerre, galere e attentati. Le donne sono comparse, troppo spesso destinate a fini ricreativi (qualcosa del genere accade in un altro film diversissimo che è nelle sale in questo momento, The Social Network: non un buon segno). Per carità, meglio così che inventarsi pasionarie che non ci sono state, però… un bel fumettone Giuseppe & Anita no, eh? Quello lo proietterei.

6) Cose che se me le chiedono, non saprei rispondere nemmeno io.
Il che è sommamente imbarazzante. Come funziona il trucco per alienare l’olio ai contadini? Come esce Lo Cascio di prigione? Quando i piemontesi arrestano i garibaldini, come fanno a riconoscere i disertori? Quella bomba che Orsini regala a Crispi, cosa sta a significare? Ma davvero nel bel mezzo della repressione del brigantaggio puoi andare in giro per la Calabria con un fucile a tracolla e nessuno ti dice niente?

cinema, scuola, Storia

"Cialtroni!"

Prologo: cinema Capitol, un anno fa. Davanti a un pubblico estasiato e accaldato scorrono gli ultimi fotogrammi di Inglorious Basterds. Buio. Titoli. Musica. Dalle file più lontane, qualcuno rompe il silenzio storpiando un nome…
“Allonsanfan!”
“Ssssst!”
“Ma questa è… allonsanfan!”
“Seh, e poi c’è Fratelli d’Italia”
“Ma no, nel senso che…”
“Sssssst”.

Premessa: questa settimana dovrei andare al cinema, se non altro per una questione di aggiornamento professionale, e verificare se Noi credevamo sarà davvero, nei prossimi anni, il miglior film sul risorgimento da proiettare in terza media. Ma nicchio. Tre ore! e se poi dopo dieci minuti salta fuori che è la solita fiction in costume? Tanto vale aspettare che lo diano in tv – il Barbarossa però lo sto aspettando da un anno (ehi, lo sto aspettando sul serio). E poi c’è un altro motivo.

Io ce l’ho già, il film sul Risorgimento.
No, non è il deprimentissimo Bronte. No, niente sceneggiati su Garibaldi, né rosselliniani né d’epoca craxiana. Io tutti gli anni non vedo l’ora che si parli di Restaurazione per proiettare un film incredibile, e pensare che l’ho scoperto proprio a scuola. Dissolvenza incrociata.

Notte uggiosa di qualche autunno fa. Una nera figura si muove nella notte – sono io che sto andando a fare una supplenza alle serali. C’è un guaio, siamo in due e dobbiamo gestire una quarantina di personaggi di classi diverse. Badanti moldave e ragazzi pachistani sono i due gruppi più rappresentativi. Che si fa?
“Ho trovato una videocassetta in sala insegnanti”.
“Beh, se non c’è alternativa… che roba è?”
“Allonsanfan. L’hai mai visto?”
“No. Fratelli Taviani. Boh, brutto non sarà”.

Non è un’esperienza professionale di cui vado particolarmente fiero, però mi ha insegnato qualcosa (ai pachistani probabilmente no). Cos’è un film a scuola? Quali sono i film che funzionano? Ecco, ci potrei scrivere un libro, dal quale magari qualcuno potrebbe trarre un film, che non sarebbe adatto da proiettare a scuola. Ci sono film fatti apposta per la scuola che non funzionano minimamente: magari erano perfetti quando sono stati realizzati, adesso no. Ci sono film che dici: piaceranno! E dopo dieci minuti si stanno cavando gli occhi con gli spigoli dei banchi. Ci sono film che non ti aspetteresti mai, sceneggiati antichi e lentissimi che invece… ci sono pellicole che puoi perfino odiare, ma devi ammettere che a scuola funzionano. E poi ci sono quei film talmente assurdi, talmente fuori da qualsiasi categoria, che funzionano a scuola esattamente come funzionerebbero in qualsiasi altro ambiente: fuoriserie, fuori mercato, fuori tutto. Allonsanfan dei fratelli Taviani è il primo esempio che mi viene.

Dopo un quarto d’ora avrei voluto fermare il vhs: basta, tutto questo non ha senso, mettiamoci a studiare le flessioni verbali (alle 21:30, con due classi di sconosciuti dalle occhiaie stanche di lavoro). Poi Laura Betti, col suo sguardo incestuoso, si mette a cantare l’Uva Fogarina. E succede qualcosa. Trenta pachistani, dieci marocchini (che non sopportano i pachistani) e diversi sfusi si mettono a cantare “diridindindin”. Come se l’avessero sempre saputa. Gli arcani dell’inconscio collettivo. Avrebbero continuato col diridindindin per una settimana. Insomma, il film in un qualche modo stava facendo breccia. E cominciavo ad appassionarmi anch’io, volevo vedere come andava a finire.

In seguito ho avuto altre classi. Più o meno scalcagnate, più o meno galleggianti sulla soglia dell’alfabetizzazione. Non ho mai rinunciato a mostrare Allonsanfan. Col vhs, finché ha tenuto, poi lottai perché la videoteca si dotasse del dvd. Con la lavagna luminosa, con quella interattiva, con o senza sottotitoli. Malgrado quelle due scene di nudo da tagliare (è un film che parla anche di sesso, di quando i rivoluzionari smettono di farlo, di perché ricominciano). Purché ci sia la possibilità del fermo immagine, perché (come non manco di far notare) a ogni fermo immagine, Allonsanfan ti restituisce un affresco sulla parete. È un film fatto con un grande amore, che si vede, pochi soldi (e non si vedono): attori filodrammatici, bambini inquietanti, e Mastroianni immenso, che si regala per cento minuti. E quel motivo di Morricone che Tarantino ha ripreso pari pari, proprio in coda al suo masterpiece.

(“Stiamo facendo il gioco della polizia, spiegalo tu a quest’imbecille!”)

Allonsanfan è un’opera del 1974 che non ci prova nemmeno, a fare il film storico. Per intenderci, nella prima scena Mastroianni, carbonaro, viene liberato dalle carceri di Milano e gli sbirri, tutti vestiti di nero, gli fanno quella cosa che nei centri sociali chiamavano “trenino”: loro tutto intorno coi manganelli, e lui deve passare in mezzo. È una storia di rivoluzioni mancate e cialtroni armati, assolutamente attaccato a quello che stava succedendo in quegli anni; quindi ai ragazzini di oggi non dovrebbe dire niente. È un film sulla stanchezza: cosa vuoi che interessi ai prepuberi la stanchezza, la crisi dei quarant’anni. È un film sul riflusso, sul ritorno al privato; un argomento che in seguito avrebbe stuccato (alla fine ha ispirato più libri e film il riflusso che il ’68)… però, aspetta… è un film sul riflusso nel 1974. Come dire che il ’68 è durato pochissimo, forse solo una mezz’ora (il tempo per prendersi un sei politico), la stanchezza è subentrata immediatamente.

L’atmosfera di Allonsanfan è quella dei gruppetti di extrasinistra di quegli anni. Mastroianni viene liberato, appunto, perché conduca sbirri e spioni nel covo dei congiurati. I congiurati però lo rapiscono, lo scarrozzano per una Milano virata in verde, lo nascondono e cercano di fargli un processo. In realtà è un gruppetto di cialtroni senza un leader, che si è appena impiccato dalla disperazione. Mastroianni li abbandona e torna in campagna, dalla sua famiglia: da suo fratello, che porta ancora il parruccone (la barba incolta e romantica di Mastroianni vicina al parruccone settecentesco del fratello è una delle migliori lezioni di storia del costume che si possano fare). In un primo momento si finge un frate, indulge al melodramma, porta la notizia di sé stesso morto… ma quando vede i fratelli in lacrime si scioglie, li abbraccia, sviene, si fa curare, si rade, canta l’uva fogarina con la sorella. Non pensa più alle rivoluzioni. È felice. Ma gli amici hanno altri piani per lui, e stanno arrivando a riprenderlo. Mastroianni li tradirà più e più volte; li manipolerà, li metterà gli uni contro gli altri, farà il possibile per abbandonarli al loro destino di cialtroni: niente da fare: a un certo punto una barca di camicie rosse salperà da Genova per il sud, e lui senza volere si ritroverà a bordo… è un film comico, a suo modo. Con scene ridicole e altre da incubo, l’apparizione improvvisa di un rospo che gela il sangue nelle vene. Il tutto ambientato a carnevale, perché sia chiaro che mentre i cialtroni programmano la rivoluzioni, la gente là fuori pensa solo a divertirsi. È il Risorgimento più antieroico che si possa immaginare. Non è certo quello vero, ma fosse la prima volta che usiamo la Storia per parlare di noi. Come se la Storia ci servisse ad altro.

(“Fate tacere quel meridionale. Con le sue storie eccita i Fratelli!”)

A volte mi pongo il problema. Forse esagero, con questi antieroi. I ragazzini sono piccoli, prima dell’antieroismo non bisognerebbe dar loro un po’ di eroismo puro e semplice? Prima di mettere in discussione la Storia, bisognerebbe insegnargliela: e a chi tocca, se non a me. È vero.

Però Allonsanfan funziona, più di qualsiasi agiografia. Ha la potenza delle immagini, che sono semplici e universali: c’è poco da spiegare, un rospo è un rospo, un fucile un fucile; una borsa di monete d’oro può servirti per finanziare una missione suicida nel Regno delle Due Sicilie o per rifarti una vita nelle Americhe. E la rivoluzione non è un valore in sé. I sognatori, a una certa età, si ritrovano la testa spaccata. Perché non si danno una calmata? Hanno fretta. Si sentono gli unici svegli in un mondo che dorme, e non lo sopportano. L’idea che il mondo comunque cambierà, ma quando loro saranno vecchi, non li consola: li tormenta. E allora cominciano a frequentare gente poco raccomandabile, mitomani, assassini.

Di film sugli eroi sono pieni i cinema. Magari mi sbaglio, ma credo che non sia grave se a scuola i ragazzini ne vedono uno un po’ diverso. Uno in cui gli eroi invecchiano senza gloria, alcuni mettono le rughe, nessuno mette giudizio, e tutti han fretta che arrivi la fine, non importa quanto sia ridicola. Probabilmente il film di Martone è più adatto, più attuale, più didascalico. Probabilmente. Preferisco far finta di niente, ancora per un po’. Per un po’ voglio ancora sentire, nell’intervallo, qualche tredicenne che canta diridindindin.

Su Youtube c’è poca roba. Praticamente solo la scena finale – non guardatela!

futurismi, memoria del 900, scuola, Storia

Il ‘900 è la nuova Bibbia

Nella puntata precedente: a causa di una riforma a caso, nelle scuole italiane si studia parecchio la Storia contemporanea e poco o nulla quella antica. Rimane da stabilire se sia un male.

Col tuo stile Novecento
In questa immagine ho accostato due personaggi che si sono rumorosamente fatti spazio nel nostro immaginario negli ultimi mesi: Emanuele Filiberto Savoia e l’avatar Na’vi di Jake Sully. Uno crede alla sua Cultura, alla sua Religione, l’altro rinnega tutto quanto e si proietta nel futuro. Apparentemente.

In realtà se smonti Jake Sully ci trovi una quantità impressionante di riferimenti storici alla contemporaneità (11/9, Vietnam) e alla Storia ‘antica’ (antica per gli americani: per noi europei Pocahontas è già “moderna”, ma ci siamo capiti). E se smonti Emanuele? Bella domanda, qualcuno dovrebbe provarci… no, seriamente: c’è davvero una Storia, un passato, dietro Emanuele Filiberto? Quando dice che crede nella sua “cultura”, di cosa sta parlando? Della Storia d’Italia, dei Savoia, della tradizione greco-latina, di quella giudaico-cristiana, del cattolicesimo post tridentino, di cosa?
Io ho il sospetto che non stia parlando di niente. Al limite di sé stesso, che è molto poco. Per Emanuele Filiberto, e per quelli come lui, “credere nella propria cultura” è pura tautologia, Racine est Racine. Si crede nella propria cultura perché? Perché è la nostra. E di cosa è fatta? Di noi. Ma noi chi siamo? Quelli che credono. In cosa? Nella nostra cultura. E ci si ferma qui. Se smonti Emanuele Filiberto ci trovi il vuoto che è condizione necessaria di ogni cassa di risonanza. Persino quegli aspetti potenzialmente storici (il cognome “Savoia”) vengono all’istante destoricizzati: fino a dicembre se pensavo “Savoia” immaginavo lo Statuto Albertino, Teano, Vittorio Veneto, l’Impero Etiope, l’otto settembre… adesso mi viene in mente Pupo.

Questi due ritratti però simboleggiano anche le mie idee sull’ora di Storia. Quello che mi ha fatto amare la Storia sin da bambino è lo stesso fascino che soggioga Jake Sully: la scoperta di un mondo diverso. La Storia è la scoperta dell’Altro da sé. E la più bella di tutte è la Storia Antica, perché gli Antichi erano veramente diversi da noi. Non extraterrestri, ma quasi. Diciamo che finché non si potranno studiare forme di vita extraterrestri a scuola, l’ora di Storia Antica sarà la cosa che si avvicina di più al concetto. Gli Antichi si comportavano in modi veramente strani. Non portavano pantaloni, il che a otto anni è già abbastanza sbalorditivo – si può fondare un Impero senza portare i pantaloni? Sacrificavano animali a Dei capricciosi. Non avevano l’alcol per disinfettare ma avevano già la metafisica. Costruivano piramidi e non avevano l’acqua corrente. Il passato è un pianeta stranissimo. La Storia secondo me dovrebbe insegnare soprattutto questo: a mettere da parte il buonsenso, a pensare che le cose sarebbero potute andare in modo molto diverso, a ragionare sull’Altro. A mettere del distacco tra noi e noi, perché questo distacco alla fine ci servirà anche quando vorremo riportare l’obiettivo su di noi – così come Avatar alla fine ci parla più di noi e dei nostri sogni di qualsiasi vacua canzoncina identitaria.

Invece ho paura che la nuova Storia sia un’esperienza culturale nel senso che ha la parola per Emanuele Filiberto: un ragionamento su Sé Stesso che si definisce Sé Stesso in quanto crede in Sé Stesso. La battaglia non è tanto tra Storia Contemporanea e Storia Antica, ma tra una riflessione su di Sé e una riflessione sull’Altro. Oggi vogliamo tutti le radici, siamo maniaci di radici. Però sotto sotto sappiamo quanto sia limitato questo radicamento. Può darsi che ci sia in noi ancora qualcosa di greco-romano, ma le radici più grosse e interessanti sono sempre quelle che affiorano a terra. E quindi siamo molto preoccupati che si studi il Novecento. Chi non conosce il Novecento non avrà futuro. Non se lo merita… Tra i nuovi testi di terza media a cui ho dato un’occhiata ce ne sono alcuni che si rifanno alla definizione hobsbawmiana di Secolo Breve, per cui non partono nemmeno dalla Belle Epoque – quella è roba da tredicenni – ma dal 1914. A questo punto, perché continuiamo a chiamarla ora di Storia? Chiamiamola ora di Novecento. Se a settembre cominci dall’attentato di Sarajevo, a febbraio più o meno sarai negli anni Quaranta, e da lì in poi è persino discutibile che sia ancora Storia.

In effetti potrebbe trattarsi di… geografia! Ed ecco che la bistrattata Cenerentola dell’istruzione media arriva al ballo su un cocchio dorato trainato dai nuovi programmi scolastici. In cosa consiste in fondo la geografia di seconda e terza media? Lo studio dell’Europa e poi dei continenti extraeuropei, e quindi? Per buona metà si tratterà della cara vecchia geografia umana: sarà quindi inevitabile una serie di excursus sui processi di formazione delle nazioni, che risalgano almeno al postcolonialismo e al dopoguerra… bingo! Metà del libro di geografia e di quello di Storia contengono le stesse nozioni. Roba che sui libri c’è sempre stata, ma prima si studiava sincronicamente e si snobbava in quanto “geografia”; ora diventa invece importantissima perché è “Storia del Novecento” – però rischia di finire tutta concentrata negli ultimi mesi, perché prima bisogna fare i lager (e i gulag! Solženicyn obbligatorio!)

Il Novecento è la nuova Bibbia. Perché vogliamo che la Storia non parli degli altri (dell’Impero Ching o Moghul, di Tamerlano o Eliogabalo o Gregorio Nazianzeno), ma soltanto di noi stessi; ed è più facile trovare tracce di noi stessi nel secolo che è appena passato. L’Ottocento ha un senso soltanto perché contiene qualche anticipazione di quello che verrà, Marx e Darwin e poco altro. Ma il Novecento è il romanzo che tutti devono conoscere a memoria per avere qualche straccio di speranza in società – i nuovi Promessi Sposi, il filmone con i titoli in eleganti glifi art-déco, che comincia con una fragorosa scena di guerra di massa, un nucleo centrale imperniato sulla nascita dei totalitarismi, un’altra grande scena bellica piena di imprevisti… e un secondo tempo ricco di suspense, dove si aspetta a occhi sbarrati una terza guerra che non arriva mai (arrivano invece abbracci e strette di mano un po’ deludenti). Ma insomma tutto sembra finire bene… quando sui titoli di coda crollano le torri e tutto si riapre. Il Novecento è questo qui, e ognuno deve rispecchiarcisi, allo stesso modo in cui i Padri Pellegrini si rispecchiavano in Vangelo e Pentateuco, chiamando le figlie Rebecca ed Ester, e sforzandosi di trovare saggezza quotidiana in un libro di Proverbi scritto dall’altra parte del mondo tremila anni prima. Così noi continuiamo a discutere di Muri e Guerre Fredde, a paventare il ’29 e sognare il ’68, a ridurre tutto ad Hitlerum, a fiutare lo Spirito di Monaco ogni volta che non si bombarda con prontezza. Abbiamo la scusante che il Novecento è comunque più vicino a noi. Anche se in fondo, poi.

Se leggete queste righe probabilmente siete nati nel Novecento, anche se ne siete usciti vivi (congratulazioni). Ma ne siete usciti. Non è più il vostro secolo. I bambini che cominciano a studiare la Storia quest’anno (dal Big Bang o dai dinosauri) hanno otto anni. Vuole dire che sono nati nel Due. Il Muro di Berlino non lo hanno mai visto: persino il loro papà ne ha un ricordo molto vago. Ma per un qualche motivo siamo convinti che sia roba loro; che non possano arrivare a 14 anni senza saperne qualcosa; che tra il Muro e il Vallo di Adriano sia quest’ultimo a dover cadere. Chi lo sa. Forse la Guerra Fredda non è poi così importante. C’è stata: ha visto lo scontro di due superpotenze; ha segnato la nostra vita, ma appunto: era la nostra. Ogni anno che passa diventa sempre più difficile spiegare ai nuovi nati cosa fosse la cortina di ferro, perché i missili stessero sottoterra (ci stanno ancora), il senso della lotta tra il mondo libero e il mondo uguale. Si ha la sensazione di annoiare i cuccioli con le vecchie diatribe dei nonni. Tante recriminazioni di vecchi e nessun vero mistero: nessuna piramide, nessuna resurrezione, missili sottoterra e nessuno li tira fuori. Poco spazio da riempire con la fantasia.

Alcuni si rassegnano, e si affezionano ai sogni dei nonni: qualche anno più tardi li vediamo in piazza che hanno imparato a salutare a braccio teso, o pugno chiuso, missione compiuta: il cucciolo è stato novecentizzato.

fumetti, memoria del 900, scuola, Storia

Addio agli antichi

Avrete forse sentito dire che scomparirà la geografia dalle scuole – beh, anche quello è un mezzo bluff. Rassicuratevi, la geo non scomparirà, nella maggior parte dei licei; per il semplice motivo che non vi è comparsa mai. Non solo, ma in un certo senso non abbiamo mai fatto tanta geo come negli ultimi anni. Io però preferirei parlarvi della Storia, l’unica materia che scrivo con la S maiuscola (“storia” con la minuscola può essere sinonimo di menzogna, o di fiction, o semplicemente di fatti tuoi).

La caduta dell’Impero Romano (2010 dC)

In questi giorni le sale insegnanti sono infestate dai rappresentanti delle case editrici. Io cerco quanto possibile di evitarli; sono pessimo nell’arte di giudicare un libro dalla copertina, e poi preferisco sempre un vecchio catorcio che conosco bene al modello fiammante di cui scoprirò le magagne tra sei mesi – in ogni caso ho dato un’occhiata ai corsi di Storia. Ormai si sono tutti allineati alla direttiva di non-so-più-quale riforma (Berlinguer?) che fa partire la terza media dal Novecento. Questa, mi rendo conto, è una delle principali differenze tra la scuola nostra e quella dei ragazzi di adesso. Noi non solo non abbiamo fatto in tempo a studiare la caduta del Muro di Berlino, per intuibili motivi; ma il più delle volte nemmeno la sua erezione. I prof col pallino (di solito ideologico) per il ‘900 arrivavano sì e no alla guerra antifascista, ma era normalissimo anche fermarsi agli anni Trenta o persino alla Grande Guerra. Era Storia, del resto, mica cronaca.

Ecco, questa prospettiva oggi suona quasi eretica. Sarà che nel frattempo il ‘900 è finito, e quindi è più facile considerarlo Storia con la maiuscola. Sarà che sulla maiuscolità del ‘900 si insiste di più, c’è la Giornata della Memoria della Shoah e il quella del Ricordo delle Foibe e tutto il resto. Fatto sta che oggi l’idea di uscire dalle scuole senza aver studiato ben bene almeno la prima metà del ‘900 ha l’aria di un crimine contro l’umanità. Qual è l’insegnante mostro che lascerebbe andare i suoi studenti senza aver loro spiegato cosa sono i nazisti? Se Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, privarti della lezione sull’incendio al Reichstag è rubarti il futuro: inammissibile. Vi si sfaccia la casa. La malattia vi impedisca. Eccetera.

Naturalmente, per poter arrivare così a fondo nel ‘900, bisogna togliere qualcosa da qualche altra parte – il programma di Storia è la classica coperta troppo corta. Si è deciso perciò di coprire il capo novecentesco scoprendo i piedi: via la Storia antica, fino alla caduta dell’Impero e oltre. I riformatori berlingueriani che praticarono questo taglio avevano probabilmente in mente quella chiacchiera da bar (anche da bar degli insegnanti) per cui non aveva senso ripetere sempre la stessa Storia in tre scuole diverse. È un ritornello che sento da quando ero bambino: perché bisogna ogni volta partire da capo? Alle elementari la preistoria, poi l’Egitto, i Greci, i Romani… ricominci alle medie ed ecco di nuovo la preistoria, l’Egitto… arrivi alle superiori e tac! Di nuovo preistoria, Egitto… che solfa. Quelli che si inventarono questo sistema dovevano essere proprio dei noiosi barbogi. Perché non razionalizziamo, non sfoltiamo, non facciamo economia? Per esempio, potremmo confinare la Storia antica alle elementari. Alle medie poi si ripartirebbe dal medioevo, ed ecco che si libera un sacco di spazio per arrivare all’esame con la caduta del Muro di Berlino (e l’11/9, in ogni libro di terza media che si rispetti non può mancare una fotina delle Twin Towers: bisogna tenersi aggiornati).

Con questo sistema, che è andato a rodaggio negli ultimi 3-4 anni (e in qualche scuola non si è ancora imposto, perché i prof, specie quelli navigati, conoscono l’arte di aggirare le direttive ministeriali più o meno dai tempi di Giovanni Gentile) abbiamo un enorme ciclo di sei anni che parte in terza elementare e finisce in terza media. Cosa ci abbiamo guadagnato? A tredici anni i ragazzini sanno cos’è il Muro di Berlino e chi sono i nazisti. Cosa ci abbiamo perso? Spero di sbagliarmi, ma credo di avere assistito alla caduta dell’Impero Romano. No, non quello d’Occidente (476dC). Neanche quello d’Oriente (mille anni più tardi, l’impero più sottovalutato della S). Sto parlando dell’Impero nella fantasia dei ragazzini. Al punto che mi sono ridotto a rivalutare un peplum osceno come il Gladiatore: trama insensata, ma almeno ci sono le bighe e le carrozze, i Barbari e i mirmidoni. Tutte cose i ragazzi si bevono come astronavi, anzi, con gli occhi ancora più sgranati, perché un po’ di astronavi nei film le hanno già viste, ma una biga romana, quando mai? L’Impero Romano è kaputt (per tacere delle polis Greche, o delle piramidi – ma per quelle ci pensa Voyager, no? Grazie, servizio pubblico). Insomma, questi arrivano alle superiori e non hanno la minima idea di chi sia Giulio Cesare, Orazio Flacco, Nerone, com’è possibile? Non glielo hanno spiegato a… otto anni?

Ecco qui il problema. No. La maestra di terza elementare probabilmente non ha spiegato chi fosse Giulio o Tizio o Caio. Neanche doveva. Non avrebbe avuto senso. A otto anni non studi le vite dei Romani illustri, i processi sociali o economici; a 8 anni se va bene fai un cartellone in cui si disegnano gli uomini con le toghe e i sandali, le domus, i gladi, le arene: ed è già grasso che cola. Questo i barbogi gentiliani lo sapevano. Non è che ci volesse molto: prima di crescere lunghe barbe bianche avevano tutti avuto esperienza diretta come giovani maestrini nelle scuole del Regno, e lo sapevano. Sapevano pure che imparare consiste, per lo più, nel ripetere, ripetere, ripetere, fino allo sfinimento: ogni volta integrando un 2% di contenuti in più. Per cui non ci vedevano nulla di male a rifare i Romani a otto, undici e 14 anni: la prima volta mostri un uomo in toga, insegni la filastrocca dei sette Re; la seconda sviluppi la differenza tra Regno e Repubblica, spieghi chi è Cesare e perché l’han pugnalato (si raccomanda l’insistenza sul sangue, i ragazzini van matti). La terza puoi già tirare fuori le classi sociali, la lotta tra patrizi e plebei e poi tra questi e gli equites; però difficilmente riuscirai a fare bene il terzo passo se ti è mancato il primo. O il secondo. E così l’Impero è caduto, come è poi destino di ogni Impero.

E uno potrebbe anche far spallucce. Non è stata una perdita secca: ci abbiamo guadagnato… il muro di Berlino, i Lager e i Gulag (si raccomanda d’insistere sul fatto che ci sono stati anche i Gulag). Non è che un ragazzo cresce più cretino se invece di introiettare la storia di Giulio Cesare si nutre di Lager e Gulag. Tanto più che l’incubo su cui siamo sospesi non è quello di venire pugnalati dai senatori alle calende di marzo, ma di ritrovarci di nuovo in un lager / in un gulag. Quindi cosa sto difendendo, esattamente? Cos’è Giulio Cesare per me, cosa ci trovo di così essenziale? Non è ora che diventi una curiosità antica, un signore che viene studiato soltanto da specialisti adulti? Non è ora che lasci il suo posto nella cultura generale a nozioni più attuali?

Probabilmente sì, sto difendendo la mia infanzia, perché ovviamente è stata La Più Bella Del Mondo. E la Storia era la mia materia preferita. I Romani soprattutto. Non vedevo l’ora di arrivare in terza elementare per snocciolare Romolo-Numapompilio-Tullostilio, e quando finalmente ci fui e mi fecero fare il cartellone con le toghe e le altre palle (pallae) ci rimasi male: le maestre ci prendono per deficienti? Io voglio ragguagli sulla battaglia di Zama. Tutto questo sapete perché? Mi piacevano i fumetti. E tra quelli che avevo in casa, il più bello di tutti si chiamava Asterix e Cleopatra. Aveva colori fantastici, scene faraoniche sul serio, e tutto l’insieme tradiva un’ironia e una sapienza narrativa che non si poteva confrontare col Topolino settimanale.

Si capisce che per me bambino che imparava a leggere nelle nuvolette Asterix non fosse che un omino buffo col nasone; e tuttavia in un qualche modo dovevo imparare chi fosse il suo antagonista, Giulio Cesare; e perché il loro mondo fosse così diverso dal mio. A furia di chiedere e cercare scoprii che erano effettivamente esistiti gli antichi Galli, gli Egizi, e i Romani; che per quanto fossero i cattivi, questi ultimi avevano pure mandato avanti un impero millenario; e così via; e nel giro di pochi anni era cresciuto un piccolo appassionato di Storia. Ma perché proprio di Storia e non di chimica, o fisica o biologia? Perché la Storia è la materia più vicina alle storie con la s minuscola, che erano poi quelle che interessavano a me. Ed è ancora così. La Storia è un serbatoio inesauribile per la fiction. Persino quando fa finta di guardare in avanti: l’80% della fantascienza è rielaborazione del passato. Avrei mille esempi per specialisti, ma in fondo basta Avatar, no? Siccome Chi Non Ha Memoria Non Ha Futuro, per immaginare come ci comporteremo quando conosceremo gli extraterrestri non abbiamo che da consultare i vecchi libri, ad es. Pocahontas.

“Va bene, d’accordo, sei diventato un appassionato di Storia perché ti piacevano le storie: ma ammesso che il tuo percorso sia in un qualche modo rappresentativo o consigliabile alle nuove generazioni, comunque, che problema c’è? Se i ragazzini devono crescere facendosi delle storie, se ne faranno meno sui proconsoli togati e più sul Terzo Reich. Non c’è niente di male in questo, anzi magari è meglio, visto che il Terzo Reich è comunque un problema più attuale. O no?”

Ecco, siamo arrivati al punto. Però siamo anche in fondo a due cartelle, per cui per stavolta la smetto qui (ultimamente mi vengono pezzi lunghissimi, perdonatemi. Questi poi sono appunti per una conferenza).

futurismi, Storia

Estrazioni del Presidente

La democrazia a premi

ROMA – dal nostro inviato

Confesso, la prima riga di questo pezzo l’avevo in mente quando ero ancora in fila per il check-in, diceva: ROMA – file interminabili davanti alle ricevitorie, una cosa cosi’. Poi arrivo a Roma, mi infilo in un taxi, « Mi porti davanti a una ricevitoria affollata » dico al tassista, lui mi scorrazza per tutta la città eterna senza trovare una sola coda. Insomma, la maledizione dei luoghi comuni ha colpito ancora. La gente gioca, non dico di no, ma ho visto molta più furia davanti a certe slot di Las Vegas.

«La storia degli assalti alle ricevitorie è in gran parte un mito», ammette Giacinto Mariotti, dirigente del movimento Lottomatica Per La Democrazia davanti a un caffè con la schiuma. «Era un sistema per reclamizzare il gioco, nell’epoca pre-istituzionale, quando i cittadini avevano la facoltà di giocare tutte le schedine che volevano. Già allora il Superenalotto era un affare d’oro per le casse dello Stato, e quindi la tv di Stato faceva tutto il possibile per pompare il fenomeno: si inventava le code, intervistava i turisti che giocavano e titolava Vengono in Italia apposta per giocare, roba del genere… che c’è, il suo caffè è troppo caldo? »
«No, mi è andato di traverso»
« Si’, ma perché, forse ho detto qualcosa che non… ah, già, dimenticavo. Lo choc culturale».

Sfido io a non farsi andare di traverso anche il migliore espresso di Via Veneto, mentre vi fate raccontare la storia di uno Stato che incita i suoi cittadini al gioco d’azzardo, attraverso la televisione pagata dai cittadini stessi. «L’Italia è cosi’», si stringe le spalle Mariotti, «Io sono tra quelli che credono che si possa migliorare, ma solo a patto di ammettere che è cosi’, che il punto di partenza è questo… dopo la fine del Berlusconismo si trattava di trovare una via alla democrazia, alla partecipazione, senza pero’ fingere che non fosse successo niente. Non si poteva tornare alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista, semplicemente perché i militanti di quei grandi partiti erano ormai tutti morti o quasi. Bisognava ripartire dalla tabula rasa… che poi cosi’ rasa non era: la strutture, a cercarle, c’erano…»
«Il Superenalotto, per esempio».
«Puo’ suonare eretico, ma è proprio cosi’. Lo si poteva vedere come un sistema per fare cassa, lucrando sulle illusioni della gente… ma anche come un grande momento di comunione popolare, gente di ogni ceto e razza unite dall’abitudine di giocarsi dei numeri. Per molti anni noi abbiamo cercato un minimo comune denominatore per tutti gli italiani, e non riuscivamo a trovarlo, finché…»
«…non siete entrati in ricevitoria».
«Già. E pensare che era appena dall’altra parte della strada».
Prima di fondare LottomaticaXLD, Giacinto militava in un piccolo partito di cui si vergogna persino a fare il nome. «Eravamo quattro gatti », scherza, «senza grosse possibilità di entrare in parlamento. Ma credevamo di possedere l’Arma segreta». L’arma segreta era il Referendum abrogativo, uno strumento previsto dalla Costituzione italiana, che teoricamente consentiva anche ai piccoli partiti di influire sulla vita politica. Bastava (si fa per dire) raccogliere 150mila firme per indire un referendum che permettesse di cambiare un testo di legge. Il primo storico referendum abrogativo fu indetto nel 1974, promosso dai cattolici che volevano revocare la legge sul divorzio appena emanata: la maggioranza degli italiani, contro ogni pronostico, voto’ per mantenere il divorzio. Da allora il referendum divenne una delle forme di partecipazione democratica più apprezzate dagli italiani, che nei vent’anni successivi votarono per decine di quesiti referendari: in quegli anni i raccoglitori di firme esercitavano un vero e proprio contropotere rispetto al Parlamento. Ancora a metà degli anni Novanta un referendum poteva troncare la carriera di un politico, o viceversa farla decollare. Col tempo, tuttavia, subentro’ una certa stanchezza, aggravata dal fatto che i referendum abrogativi italiani (a differenza di quelli svizzeri) per essere validi dovevano portare almeno la maggioranza degli italiani nelle urne. Un risultato sempre più difficile da ottenere, nei lunghi anni dell’ipnosi berlusconiana (non è un caso che uno degli ultimi referndum validi fosse quello che consentiva ai canali di Berlusconi di interrompere i programmi con gli spot).

Nel frattempo, « dall’altra parte della strada », il Superenalotto diventava un fenomeno di costume. Un concorso a premi gestito dallo Stato, basato sui concorsi locali pre-esistenti (le ruote del Lotto), a cui si aggiungeva un’intuizione venuta da lontano: il jackpot. Nel giro di un decennio il superenalotto era diventato il concorso più lucroso del mondo. Oppure, per dirla con Mariotti, un grande momento di comunione popolare. «Senza dubbio il fatto che il concorso fosse gestito dallo Stato fu determinante, quando nel 2014 avanzammo la prima proposta di abbinare un quesito referendario alla schedina. Ci prendevano per matti, ma nessuno riusciva a spiegare esattamente cosa ci fosse di sbagliato nell’idea».

Già, cosa c’è di male? La Costituzione certo non proibisce espressamente di abbinare la scheda elettorale alla schedina del superenalotto. Chi non avrebbe voluto spendere una manciata di euro per esercitare un sacrosanto diritto avrebbe potuto giocare, pardon, usare la scheda semplice, non abbinata al concorso: ma sin dall’inizio fu chiaro che sarebbero stati una minoranza. La prima Estrazione Referendaria ebbe luogo nel 2017: l’argomento era il Nucleare (un vecchio cavallo di battaglia dei referendari). Fu un successo clamoroso. L’argomento non era molto popolare, e il dibattito era stato snobbato dai media: eppure il quorum (che in quegli anni oscillava intorno al 20%) schizzo’ all’80. «Molta gente scopri’ che c’era un referendum direttamente in ricevitoria: mentre giocava voltava la scheda e trovava il quesito: volete i reattori nucleari nelle zone a rischio sismico si’ o no? Naturalmente fummo sommersi dalle critiche, si diceva che in questo modo banalizzavamo l’istituto referendario, lo trasformavamo in una specie di sondaggio… in parte avevano ragione. Pero’ banalizzando lo avevamo rimesso in funzione: la gente si poneva i problemi, anche solo per qualche secondo in tabaccheria, pero’ se li poneva… imparava a valutare i pro e i contro delle sue scelte, ne discuteva…»
«E qualcuno ci vinceva anche qualcosa».
«Non c’è niente di male in questo».
«Ma è sicuro che l’abbinamento al referendum non abbia in qualche modo incentivato il gioco d’azzardo?»
«Credo il contrario».
«Addirittura».
«Il gioco d’azzardo esisteva già, non lo abbiamo certo inventato noi. Prima dell’abbinamento referendario esisteva la possibilità per il singolo di giocare più schede. Capitava ogni tanto che un vecchietto si giocasse la pensione. Questa possibilità è teoricamente svanita da quando il superenalotto è diventato un voto (prima solo referendario, poi anche legislativo e amministrativo). Oggi per giocare occorre fornire il proprio codice fiscale, e nessuno puo’ giocare più di una schedina. Certo, ci si puo’ ancora indebitare coi ‘sistemoni’ [schedine speciali che consentono di giocare piu’ combinazioni], ma è una possibilità che esisteva già prima».
«E il traffico di voti? C’è chi dice…»
L’ennesima scrollata di spalle. «Certo, c’è gente che vende i propri dati, il proprio codice fiscale. Gli stessi che prima vendevano il loro voto. Questi sono difetti della democrazia in generale, non dell’Estrazione democratica in particolare. Esisteranno sempre, forse. O forse troveremo un modo per risolverli, un giorno. Nel frattempo abbiamo risolto altri problemi: abbiamo riportato un popolo nelle urne, non mi sembra un risultato da poco».

La Democrazia a Premi. Un’idea cosi’ semplice: eppure non era venuta in mente a nessuno, da Solone in poi. Forse ci potevano arrivare solo gli italiani, e solo dopo vent’anni di mediacrazia berlusconiana.
A Roma sono le sei del pomeriggio: l’estrazione è precvista tra un’ora. Giacinto mi saluta, si scusa ma deve tornare alla sede del suo partito, dove fervono i preparativi per i festeggiamenti. Oggi si vota per legalizzare l’etaunasia, sancire il diritto all’autodeterminazione dei feti e l’impiccagione per i clandestini in possesso di schedine del superenalotto. «Ho votato rispettivamente si’, no e no», confessa Giacinto, «seguiro’ l’Estrazione sul maxischermo coi miei compagni di partito».
«Ma… siete sicuri che festeggerete?»
«Festeggeremo comunque. Per un sincero democratico ogni voto è una festa».
«Ma mettiamo che vincesse».
«Be’, meglio ancora».
«No, intendo dire: mettiamo che vincesse il Jackpot, col Premio speciale: la Presidenza…»
«…della Repubblica. Mah, so che le leggi della probabilità non sono dalla mia parte. Pero’ non è elettrizzante sapere che stanotte uno qualsiasi di noi, uno su sessanta milioni, potrebbe diventare Presidente? Potrebbe essere una donna di mezz’età, uno spazzino di vent’ anni, una colf regolarizzata…»
«Ma statisticamente sarà un pensionato bianco».
«La statistica non è che ci azzecchi sempre. E comunque, se i pensionati gioc… votano di piu’, è giusto che abbiano piu’ possibilità».
«E pensa che sarà un bravo presidente?»
«Non sarà difficile comportarsi meglio di altri che non sono stati estratti a sorte».
«Ehm, era una frecciata?»
«Ma no, è che non è cosi’ difficile fare il Presidente della nostra Repubblica, dopotutto. Si tratta di farsi bendare, pescare cinque palline, aprirle… un bambino sarebbe capace».
«In effetti, perché non fate giocare anche i bambini?»
«E’ un’ingiustizia, lo so. Ci stiamo lavorando».

cattiva politica, Storia

Nonnumquam frivolus amentique similis

Nemmeno della sua stessa imbecillità volle tacere, affermando in alcuni brevi discorsi di averla simulata di proposito, durante l’impero di Caligola, per sopravvivere e raggiungere la sua presente condizione. Ma non convinse nessuno… (Svetonio, Le vite dei dodici Cesari)

C’è solo un Francesco

No, alla fine a Roma non sono venuto. Il sabato lavoro; e non era il caso di prendersi ferie, con l’aria che tira, e con lo sciopero di giovedì.

Così, quando credevo fosse giunta l’ora, ho acceso la tv, ma sul Tre era troppo presto per Veltroni. Invece sul Due c’era Dj Francesco che presentava un programma musicale contro la camorra.
Su Dj Francesco naturalmente si possono scrivere cose orribili, ma io oggi non voglio farlo. Voglio soltanto chiedervi: che effetto vi fa, nella stessa frase, “Dj Francesco” e “contro la camorra”? A me dà una vertigine particolare, di cui si parlerà più tardi.

Mentre DjF faceva del suo meglio, ho dato un’occhiata al mio sito (questo), dove timidamente stava nascendo un dibattito su Cossiga. La domanda, la solita: ci è o ci fa? Per me – l’ho scritto – si tratta di un vecchietto che sbaglia i dosaggi e straparla. Altri non sono d’accordo: per Non ne so abbastanza (che comunque ne sa a pacchi) Cossiga è sempre stato lucido, e le sue straparole costituiscono un messaggio meditato. Anche questo è possibile: di certo è quello che Cossiga vorrebbe farci credere.

Io resto scettico. Non sono un cossigologo, ma il personaggio un po’ mi ha sempre affascinato. Talvolta l’ho trovato simile a uno dei più ambigui imperatori romani: Claudio. Se i misteri italiani vi snervano, provate a pensare che su Claudio gli storici si dibattono da secoli, e la domanda è la stessa: c’era o ci faceva? Prima che fosse acclamato imperatore, egli era disprezzato da tutti i famigliari: perché? Aveva qualche malformità, un handicap che gli storici non hanno voluto tramandare? Pare che sbavasse molto, e qualcuno ha ipotizzato una polio, o qualche forma di paresi infantile. Comunque, mentre il nipote Caligola dava l’aria di essere un pazzo geniale, Claudio passava per un mediocre deficiente. E in questo modo sopravvisse a tutte le purghe e congiure, dedicandosi ad astrusi studi di Storia.

Però quando i pretoriani ammazzarono Caligola, trovarono Claudio nascosto dietro una tenda, e lo acclamarono imperatore. Da qui la leggenda di Claudio che si finge stupido per ottenere il potere. Ora, senz’altro l’uomo non era l’imbecille che tutti fino a quel momento avevano creduto. Fu persino un discreto imperatore. Ma probabilmente non era nemmeno così furbo come avrebbe voluto far credere: lo provano le disavventure con le due ultime mogli, Messalina che lo tradiva in pubblico e Agrippina, che lo avvelenò. Insomma: genio o idiota? La risposta è probabilmente nel mezzo.
Ma se invece fosse alle estremità? Dopo aver passato i primi cinquant’anni della sua vita a fingersi idiota, Claudio impiegò i successivi quattordici a fingersi un abile politico e stratega. Ecco, credo che Cossiga si trovi in una situazione in qualche modo simile: un mediocre appassionato di Storia che la Storia ha sballottato, premiandolo ben oltre i suoi meriti, ma anche condannandolo in eterno a sembrare più stupido (o più intelligente) di quanto non sia mai effettivamente stato.

Nel suo caso il discrimine non è stato tanto l’arrivo al Quirinale (nei primi cinque anni fu un Presidente assolutamente mediocre, rispettoso dell’etichetta ai limiti dell’immobilità), quanto il fatidico 1989. Le famose “picconate alle istituzioni” cominciano qualche mese dopo. Si tratta di dichiarazioni immaginose e spesso volgari (per l’epoca: Cossiga è stato uno dei principali svecchiatori del linguaggio politico italiano: prima di lui si parlava per “convergenze parallele”, adesso si dice serenamente “papocchio” e “inciucio”). Con le picconate il Presidente, non ancora Emerito, si conquistava la prima pagina dei giornali, dando l’impressione di cercare un consenso popolare al di fuori dal bacino del suo vecchio e rinnegato partito. Sin dall’inizio, l’opinione pubblica si divise in imbecillisti e intelligentisti… In realtà questi termini non furono mai usati, infatti me li sto inventando in questo momento, ma capiamoci: a chi diceva: “è diventato matto” si contrapponevano già allora i subodoratori di chissà quali astuzie e complotti.

In realtà le sue picconate non ebbero esiti pratici paragonabili alle inchieste del pool di Milano; che le istituzioni fossero in crisi ce ne saremmo accorti anche senza le sue esternazioni: e se il fine ultimo era conquistare un bacino elettorale e imbastire un carriera politica post-quirinale, Cossiga lo fallì miseramente, dando vita a effimeri partitini sotto il due per cento. Insomma, la tesi intelligentista non regge alla prova dei fatti. Viceversa, la tesi imbecillista trova qualche riscontro persino in dichiarazioni dell’interessato, che non ha mai negato di avere attraversato periodi di depressione, durante e dopo il Quirinale. E durante le depressioni si può anche straparlare, specie se resti solo davanti ai microfoni. Poi magari ti passa, e cerchi di dimostrare che non hai perso la ragione, e che tutto quello che dici aveva un senso, che insomma, tu sei più intelligente di quello che sembravi. Ma non c’è nessun complotto a questo livello. C’è solo il tentativo – legittimo – di salvare la faccia. Negli ultimi vent’anni Cossiga ha alternato periodi di relativo silenzio a dichiarazioni molto forti – si è persino auto-accusato di avere ucciso Moro, perché? Qual era il messaggio in codice? Posso sbagliarmi, ma il messaggio che ho decrittato io è: “Ascoltatemi. Ho bisogno di attenzione. So molte cose e non sono pazzo”. No, non lo è. Magari è una forma lieve di mitomania, tutto qui.

Cossiga è stato un sobrio servitore dello Stato, di ferrea osservanza atlantica, fino al 1989. Poi ha cominciato a dire molte sciocchezze ai giornalisti. Proprio nell’anno in cui l’Alleanza Atlantica ha perso il suo nemico naturale, il Patto di Varsavia. Non credo sia una coincidenza. Per dirla brutalmente: fino al 1989 Cossiga era un uomo degli americani. Dal 1989 in poi gli americani se ne sono disinteressati, cominciando a flirtare con polacchi e ungheresi. Il suo dramma è quello di tutti noi italiani, che fino al 1989 abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, credendoci simpatici e geniali; e invece no, eravamo semplicemente sponsorizzati dagli USA per motivi geopolitici. Quando il Muro è caduto, la pacchia è finita, e Cossiga si è messo a straparlare per occultare il fatto che non aveva più niente d’interessante da tacere. Quelli che fino a pochi mesi prima erano segreti di Stato (Gladio), Cossiga li ha immediatamente svenduti come argomenti da polemichetta sui giornali, sinceramente stupito e addolorato che ci fossero ancora persone talmente dabbene da prenderlo sul serio, e magari votarne l’impeachment.

Questo non significa che le sue uscite non siano interessanti. Ripeto, l’ultima è stata illuminante. Non escludo nemmeno che possa avere avuto un effetto sul brusco retro-front di Berlusconi sulla polizia nelle scuole. Ma che Cossiga abbia mirato consapevolmente a questo, beh, mi pare forte. Insomma, quante sciocchezze deve dire il vecchietto, prima che gli intelligentisti si rendano conto che sta semplicemente esprimendo un bisogno d’attenzione?

Io credo che dietro all’intelligentismo ci sia un altro problema. Cossiga fa parte, nel bene e nel male, del mondo della nostra infanzia. Lui vegliava su di lui, con metodi discutibilissimi. Ma vegliava su di noi: ci faceva sentire importanti. Non era il grande vecchio, decisamente no. Più simile a una pedina piazzata su una casella strategica. Da giovani fantasticavamo su cosa sarebbe successo nel momento in cui ci saremmo liberati di lui e di tutti quelli come lui. Ma sembrava una prospettiva impossibile. Fantascienza.

E poi un giorno, puf! Lui e i suoi amici hanno davvero smesso di essere importanti. Sarebbe bastato un colpo d’aria per mandarli via. Avremmo potuto prenderne il posto, ma non eravamo preparati. Nessuno ci aveva preparati. La sola idea di fare senza di loro ci dava la vertigine. E così ce li siamo tenuti. Continuiamo a trovarli molto intelligenti, anche se ormai sragionano visibilmente. Continuiamo a odiarli e a ritenerli complici di chissà quali complotti, perché qualsiasi complotto è meglio del Caos. Proprio non ce la facciamo, a sbarazzarci dei vecchietti. E nel frattempo stiamo invecchiando anche noi.

Finché un giorno non cominci a sentire troppa puzza di muffa e ti rendi conto che sarebbe ora di aprire le finestre, affidare l’Italia ai giovani, e cioè… a Dj Francesco. E la sola idea ti dà i brividi. Dj Francesco contro la camorra. No, non ce la faccio, non riesco a crederci, non posso. Rimettiamoci a parlare di Cossiga, subito. Cosa starà complottando? Qualcosa di molto subdolo, spero. Qualunque cosa.

Berlusconi, prostituzione, Storia

Lungo e peripatetico

Che stanno nelle tenebre

Il medioevo non va preso sottogamba. Proprio quando stai per liquidarli come una massa d’ignoranti alla mercé di alluvioni e pestilenze, ti sorprendono. Per esempio, il prete a Pasqua assolveva quasi tutti. Furfanti e prostitute, tutti in fila per ricevere l’eucarestia. Solo una categoria non era ammessa, solo una professione era senza redenzione: quella dei prestatori ad interesse. È chiaro? Puttane dentro, usurai fuori. In un linguaggio più politicamente corretto: le prostitute erano ammesse nel consorzio umano, i banchieri no. Troppo empio era il sistema da loro escogitato per creare soldi non dalla fatica del corpo, ma da altri soldi, dal Tempo, dal nulla. Solo Dio può creare qualcosa dal nulla, l’usuraio può anche esserci utile se dobbiamo rifare il campanile, ma non si consoli: andrà all’inferno. Di qui poi la nota specializzazione professionale di chi in Paradiso non ci sarebbe andato comunque, gli Ebrei insomma, con le disgrazie che ne derivarono.

Noi però non siamo più medievali, siamo moderni. Abbiamo messo le prostitute alla porta e l’abbiamo spalancata ai banchieri. Abbiamo laicamente deciso che mercificare il corpo è peccato, mentre il tempo si può investire in prodotti innovativi e diversificati. E adesso che le unicredit sono carta straccia non possiamo contare neanche su una struttura funzionale dove vendere il culo.

Siamo moderni e razionali, eppure il nostro atteggiamento nei confronti della prostituzione è tutto fuorché ragionevole. Non si riesce nemmeno a capire se prostituirsi sia un reato no. C’è una specie di nuvola normativa intorno, fatta di norme terrorizzanti e lassismo interessato. Qualcuno lo chiama un tabù. Sono d’accordo, purché si accetti che è un tabù nostro contemporaneo. Un secolo fa non esisteva: esistevano strutture riconosciute dalla legge ed esecrate dagli uomini virtuosi. L’igiene era discutibile, la morale netta, la normativa precisa. Poi un bel giorno abbiamo chiuso le case, ma anche gli occhi. E in questo le donne sono state determinanti. La Merlin apparteneva alla prima generazione di donne che in Italia hanno potuto votare ed essere votate. Prima di loro la prostituzione era una categoria professionale, nel bene e nel male: con loro diventa un problema. Nel bene e nel male.

Emarginata dalle donne, la prostituta ha potuto contare su un alleato che in tanti secoli non l’ha mai tradita: il Prete. L’emissario dell’antica civiltà medievale, discutibile sotto molti punti di vista, ma che forse le prostitute le aveva capite (di sicuro aveva capito gli usurai). Prete e prostituta, la coppia impossibile: non possono toccarsi, come Gesù e Maddalena, eppure si completano. Entrambi sono sterili (nel medioevo si credeva – si fingeva di credere – che la specializzazione professionale della prostituta la rendesse incapace di generare); uno raccoglie le confessioni, l’altra gli sfoghi. Entrambi custodiscono la Regola su cui è posata da secoli la civiltà cattolica romana, e che si riassume in una sola magica parola (quella che faceva uscire dai gangheri Lutero): Indulgenza. La Prostituta gestisce il peccato, il Prete amministra il perdono. Siccome ci guadagnano entrambi, il minimo è che si coprano a vicenda.

Per quel che ho potuto capire viaggiando, esistono tuttora due Europe: quella del burro e quella dell’olio, grosso modo. Nell’Europa del burro il puttantur è un’esperienza quasi impossibile. Le prostitute stanno a casa loro, le rare passeggiatrici confinate in quartieri turistici. Nell’Europa dell’olio, invece, ci si prostituisce per strada. Da cinquant’anni. Nel brontolio generale. Brontolano i benpensanti, che magari hanno il solo torto di vivere su una strada con picchi di traffico alle due del mattino. Brontolano le mogli, le madri, le femministe, brontolò solennemente anche Berlusconi II, ma non servì a nulla, ricordate? Andò un prete, con due operatrici, a spiegargli che non se ne poteva fare nulla: le prostitute dovevano restare per strada. E sono rimaste lì.

Finché un giorno, all’improvviso, Mara Carfagna.
La vera rivoluzione antropologica passa da qui, altro che lucciole di Pasolini. Al di là della facile ironia sul suo curriculum, è difficile non interpretare il suo disegno di legge come la rivincita delle escort sulle battone di strada. E sui preti, circostanza che vale la pena di approfondire. Quando Berlusconi III vinse le elezioni, annotai: “sarà uno dei governi più laici della storia della Repubblica, senza Binetti e con un sacco di allegri puttanieri”. Tiravo alla cieca, ma ci ho azzecato. Togliere le prostitute dalle strade significa sottrarle al controllo di tutte le strutture socioassistenziali che in questi anni le hanno monitorate, somministrando preservativi, te’ caldo e test HIV. Strutture laiche e cattoliche che si sono prese cura delle prostitute perché lo Stato aveva deciso di non guardare da quella parte, secondo quel principio di sussidiarietà che è il segreto del successo millenario della Chiesa (e che alcune amministrazioni di sinistra hanno ricalcato con successo). Associazioni e opere pie, i cui meriti sono fuori discussione, che si sono trovate in prima linea quando il problema della prostituzione è diventato, a fine ’80, la moderna tratta delle schiave. Hanno salvato migliaia di vite, raccogliendole per strada. Ma possono funzionare solo se le prostitute in strada ci restano. Questo è probabilmente quello che spiegò Don Benzi a Berlusconi II: se volete continuare a delegarci il problema prostituzione, fate pure. Ma dovete lasciarcele in strada. Mica le possiamo stanare casa per casa.

Da quando da bambino ho imparato a leggere i titoli dei giornali, so che esiste un dibattito sulle Case Chiuse, che si apre in mancanza di argomenti, e di solito si conclude quando un prete, o qualche altro meritevole operatore socioassistenziale, spiega questa franca verità: è meglio lasciarle in strada, così le controlliamo. In casa sarebbero più sfruttate. L’ho sentito dire per anni da uomini ragionevoli e pii, e mi sono fidato, mentre guidavo la mia utilitaria tra file di minorenni in tanga che evidentemente in una casa riscaldata sarebbero state più sfruttate di così. Anche se era difficile da immaginare.

Ecco, i miei dubbi nascono da una carenza di fantasia. Davvero in strada dev’esserci necessariamente più autonomia e solidarietà, e in casa più sfruttamento? Sul serio è più sicuro lavorare in strada, alla mercé di ubriachi al volante e polveri sottili? E quindi nei Paesi non cattolici in cui le strade sono sgombre la condizione delle prostitute sarebbe peggiore che da noi? Possibile? Fino a che punto questi discorsi non sono viziati, da un’ideologia, se non da un semplice ragionamento di sopravvivenza da parte di associazioni che in strada possono funzionare, e in casa no? La prima volta che ho provato a parlarne, qui, ho ricevuto una risposta molto bella di Cragno, che in una di queste strutture ha lavorato. E che sostanzialmente ribadisce quello che sappiamo: le associazioni fanno un lavoro importantissimo, ma lo possono fare soltanto su strada.

Ora, è naturale che difendendo la prostituzione stradale le associazioni (cattoliche o no) difendano anche la loro esistenza. Non mi sento di biasimarle. Quello che vorrei fosse chiaro è che se il nuovo blocco sociale benpensante di Berlusconi III e di Mara Carfagna decide di pulire le strade (effettivamente indecenti), deve avere subito pronto un piano di assistenza per i pianerottoli. E questa non è una battuta, è un discorso maledettamente serio.
Io non sono del tutto convinto che la casa porti a uno sfruttamento peggiore che la strada. L’industria della prostituzione non è una manifattura qualunque, che puoi nascondere in uno scantinato pieno di cinesi alimentati a pane e acqua. La prostituzione è aperta al pubblico, per definizione. Ha bisogno di pubblicità per attirare i clienti. E su cento clienti (i migliori amici delle prostitute, ricorda Cragno) ce ne sarà sempre uno in grado di distinguere una libera professionista da una schiava, e di chiamare un numero verde. Ma dall’altra parte del filo ci vorrà qualcuno in grado di capire il problema. Una persona onesta e indulgente. Sì, più o meno un prete.

Bibliografia:
Autori vari (a cura di Jacques Le Goff), L’uomo medievale.
Paolo Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’impero romano.
Peter Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani.

coccodrilli, fumetti, giornalisti, Storia

se piangi ancora chiamo Enzo Biagi che ti taglia il naso

Mentre tutti pian piano ripiegano i coccodrilli lungamente meditati, e tornano a interessarsi dei vivi (o perlomeno dei morti ammazzati), io resto solo con la mia domanda: ma Enzo Biagi avrà mai letto la Storia d’Italia a fumetti? La sua, intendo.

La carne, la morte ed Enzo Biagi

Non c’è un collega in giro che non abbia voluto ricordare Enzo Biagi come il cronista per eccellenza, il giornalista coi capelli bianchi che si faceva capire da tutti e non cedeva ai ricatti dei potenti, eccetera eccetera eccetera. Va bene. Però non per tutti Enzo Biagi è stato questo. Quando ero bambino, ad esempio, Enzo Biagi era sinonimo di morti violentissime e donne nude. Non è che voglio fare l’originale a tutti i costi: se do una rapida occhiata al mio inconscio è ancora tutto lì. Femmine discinte, frasi memorabili e nasi mozzati: Enzo Biagi presenta la Storia d’Italia a Fumetti.

Questo, ragazzi miei, fu centinaia di anni fa, quando ancora nessuno parlava ancora di “graphic novel”. E anche se ne avesse parlato, nessuno lo avrebbe capito, perché non si trovava qualcuno che capisse l’inglese per miglia e miglia. Sostanzialmente i fumetti erano divisi in tre generi: Topolino, Tex e la robaccia horror-porno che si trovava nei fossati, come Alan Ford e Frigidaire. A parlare bene dei fumetti era solo Gianni Rodari: diceva che i bambini, dovendo collegare una vignetta con l’altra, facessero un utilissimo sforzo di fantasia. Per molti anni, mentre ammucchiavo Topolini in cantina, ho avuto soltanto Rodari dalla mia.

In mezzo a tutto questo stava la monumentale Storia d’Italia a Fumetti di Enzo Biagi, provocatoria e spiazzante fin dal titolo. Quando l’aprivi restavi travolto da un turbine di sesso e violenza. Per intenderci, facevo le elementari. I tre poderosi tomi stavano nella biblioteca della scuola e nessuno, nessuno mi poteva impedire di portarmeli a casa, perché tanto… erano fumetti! Non potevano farmi male i fumetti, vero?

Forse non mi hanno fatto male, ma quel che mi hanno fatto non me lo tolgo più. Tanto che, quando si è trattato di metter giù un libretto tutto mio, e di trovarci un titolo, la citazione di Biagi mi è venuta assolutamente automatica. Da qualche parte dovrebbe esserci un catalogo in cui la Storia d’Italia a Fumetti viene appena prima la Storia d’Italia a Rovescio (tra parentesi, sono stati i 6 euro meglio spesi della vostra vita. Lo hanno già mandato al macero, è introvabile).

Per esempio, in questi giorni a scuola insegno i Longobardi, e guardate che sui Longobardi c’è ben poco da insegnare. Ma ogni volta che parlo di “Editto di Rotari”, nella mia mente appare una fulgida vignetta: un uomo col naso mozzato. Sì, perché Rotari aveva fissato un guidrigildo di tot ducati per ogni naso mozzato, ed Enzo Biagi o chi per lui aveva pensato di illustrare la situazione in una vignetta. Capirete che poi in età adulta Mel Gibson non ha avuto nessun potere su di me. Dei miei ragazzi avrò dimenticato volti e nomi da qui a cinque anni, ma il naso mozzato del longobardo non se ne andrà più via. Con tante altre cose. Il ceffone di Anagni. Teodolinda, bevi, nel cranio di tuo padre. A Barletta Italia batte Francia 13 a 0. Paga la gabella! Tiremm innanz! E tantissime donnine, che lasciavano di stucco. Battezzadomi come l’alunno fissato con la Storia, maestre e compagni non mi avevano spiegato che la materia includesse l’osservazione di tutte quelle donne seminude. So che chi l’ha letta alle medie ne ha tratto tutt’altre sensazioni, ma io ero alle elementari, e prevaleva l’imbarazzo. L’incredulità, anche.

Ora forse ho capito perché la Storia è rimasta per me un affare di polvere e fango impastati con sangue e sudore. Ecco che mi torna in mente il perché non ho mai pensato di mettere la marcia indietro nella macchina del tempo: io so benissimo che nel passato soffocherei subito, di peste polmonare o allergia a qualche bacillo che sulle tavole di Enzo Biagi era visibile a occhio nudo. Non c’è mai stato un medioevo fatato per me, niente castelli e tornei, le armature arrugginivano e acceleravano la cancrena.

Già allora, tuttavia, era molto difficile collegare tutta quella violenza e sporcizia all’ometto con gli occhiali e i capelli bianchi. Sembrava che le donnine fossero spogliate e torturate quasi a sua insaputa. Il fatto è che per illustrare i suoi testi, Biagi adoperava la manovalanza fumettistica italiana. E i disegnatori di quegli anni – anche quelli che in seguito sono diventati venerati Maestri – in quel periodo per mangiare scrivevano soprattutto robaccia horrorporno. (Forse, poi, chissà, mangiare non era tutto questo problema. Forse disegnare robaccia horrorporno era semplicemente divertente). In ogni caso, una Storia d’Italia a fumetti negli anni Settanta non poteva che essere horrorporno, e l’ometto con gli occhiali non mi pare abbia fatto molto per evitarlo.

Da lì in poi il passato sui fumetti e in tv è diventato un parco a tema, tanto che a Gibson basta mostrare un po’ di sangue in più per diventare un oggetto di culto. Viene da pensare che le persone della generazione di Biagi, anche le meno esagitate, come Biagi, avessero una dimestichezza con il sangue, la morte e la malattia che oggi abbiamo perso. Avremo anche guadagnato qualche cosa in cambio, ma francamente non saprei dire cosa.

memoria del 900, Storia, tv

– la Storia non ci insegna nulla, 2

Chi non ha memoria, non ha… non ha… non mi ricordo

Più cresco (più invecchio) più accumulo sospetti sulle cose che mi piacciono.
Per esempio, la Storia. Mi è sempre piaciuta. Come il vino. E proprio come il vino, comincio a diffidarne. Ho il sospetto faccia male. Di sicuro ha fatto male a tanta gente intorno a me, e chi sono io per scamparla? È una malattia, la Storia. Ti impedisce di guardarti attorno.

L’ho capito ieri sera, per l’ennesima volta. Era l’anniversario dei fatti di Budapest. Io so – più o meno – cosa è successo a Budapest nel 1956. Ma se anche non lo sapessi, in questi giorni l’avrei imparato: mi bastava guardare un tg Rai. Per dire che certe volte siamo ingiusti, nei confronti della tv pubblica. In realtà anche i tg (un po’ come me, come noi) hanno un debole per le digressioni storiche. Non vedono l’ora di imbroccarne una. Sul tg1 di ieri sera era tutto un polemizzare con Togliatti, che se ci pensate è fantastico. È morto nel 1964, Togliatti: ma avreste dovuto sentire, ieri sera, Paolo Mieli come gliele cantava.

Gliele ha cantate così bene e così a lungo, che non è rimasto del tempo per spiegare cosa sta succedendo in questo preciso momento a Budapest. Le immagini mostravano manifestanti intorno ai carri armati, fumogeni tirati ad alzo zero. Non erano le solite immagini in bianco e nero: era Budapest Oggi, anzi Ieri, 23 ottobre 2006. Lo speaker parlava di contestazioni violente, senza troppo spiegare da parte di chi e perché. Perché non era così importante, dopotutto. L’importante è che nel 1956 Togliatti aveva torto. Ecco, quando dico che la Storia è pericolosa, penso a questo tipo di cose.

A volte la Storia ci prende talmente la mano, che il nostro presente scompare. Nel 2006 l’Ungheria è nell’Unione Europea; Budapest è praticamente la periferia di Trieste (o se preferite, Trieste è di nuovo il porto di Budapest); una manifestazione repressa coi carri armati in una capitale dell’Unione Europea dovrebbe avere i primi titoli, e ispirare commenti allarmati. I cronisti dovrebbero per prima cosa spiegarci cosa sta succedendo, chi è che protesta e perché. E invece no, non c’è tempo. Il 2006 scompare, di fronte alla necessità di ricordare il 1956. Non è stato nemmeno fatto il nome del premier ungherese – l’oggetto della contestazione – e del movimento che la ha organizzata. Però è stato inquadrato Palmiro Togliatti. Che nel 1956 aveva torto, ormai non c’è dubbio al riguardo.

Vien da pensare. Chi è che nel 1956 minimizzava gli scontri di piazza? Il PCI, il PCUS. E oggi chi li minimizza? Un po’ tutti. E il bello è che lo facciamo proprio mentre stiamo rinfacciando a Palmiro Togliatti (che è morto) i suoi errori. E se gli scontri di piazza di questi giorni fossero il preludio di qualcosa di importante, di qualcosa che non avevamo assolutamente capito? Tanto peggio. Forse ne parleranno i tg Rai del 2056.
Forse i tgRai del 2056 ricorderanno gli errori di… che so, Maurizio Gasparri. Che magari non avrà minimizzato una rivoluzione. Però ieri ha difeso a spada tratta un ex agente KGB che governa da solo una Russia post-sovietica ma ancora molto pre-democratica. Con questi argomenti: “Putin è un amico nostro, un amico di Berlusconi […] Tra lui e Prodi, Putin ha sempre ragione, qualsiasi cosa dica. A prescindere, come diceva Totò”. Per dire che si divertiranno, i nostri nipoti, nel 2056.

Questa nostra ansia di Storia è paradossale: non ha precedenti storici. Nel 1956, giusto per fare un esempio, quando gli ungheresi scesero in piazza, il tg italiano (ce n’era uno solo) si affrettò a parlarne. Gli italiani del 1956 avevano un genuino desiderio di sapere cosa stava succedendo a Budapest nel 1956. Era una città lontana, dall’altra parte di una cortina di ferro: ma era attuale, era importante, era il 1956. Probabilmente i telespettatori non avrebbero gradito una digressione di cinque minuti su quel che era successo nel 1906. Cinquant’anni erano tanti, erano una vita. Adesso un cinquantenario fa notizia.

Adesso passiamo il tempo a litigare – non sulla finanziaria, no, quella riesce a smuoverci appena per una settimana – ma sulla Resistenza. E non parlo di Giampaolo Pansa, che ha trovato la sua miniera d’oro e continua a rivendere più o meno le stesse stragi una volta all’anno, sempre con l’aria di chi scoperchia una tomba fresca. Né dei suoi lettori, che a sessant’anni di distanza ancora non si danno pace. No, io parlo principalmente di quei poveretti che si prendono su da Roma, dico, da Roma, per venire a contestare Pansa a… Reggio Emilia. E sono giovani! E non hanno evidentemente nient’altro di meglio da fare, nessuna lotta un po’ più attuale da portare avanti. No. L’attualità non c’interessa. Il precariato diffuso, lo scontro sociale camuffato da conflitto di civiltà, la mutazione camorristica della società… tutte cose interessanti, ma se permettete, la Storia ci interessa di più. Ci interessa difendere la memoria della Resistenza. Il presente è un dettaglio. Lo difenderanno i nostri figli, se ne avremo.

Una volta ho letto su un libro di un calcolo, secondo il quale questo è il periodo storico in cui il numero dei vivi ha sorpassato quello dei morti. La cosa mi aveva molto impressionato: quindi vivremmo nell’epoca più importante della Storia, quella che le contiene tutte. I drammi del passato sarebbero solo una pallida eco di quelli che viviamo noi – le conquiste del passato, solo un timido abbozzo delle nostre conquiste. Era un’idea che mi piaceva molto, perché mi aiutava a inserire la Storia nel suo giusto contesto. Non voglio dire che non sia importante, la Storia. Esiste. Ci influenza. Ma solo come ci influenzerebbe una vecchia regione inserita in un mondo che cresce ogni giorno. Immaginatele proprio così, come una piccola nazione in bianco e nero, con Togliatti e le foibe (e Napoleone e Tutankamon) circondata da altre nazioni a colori, che ogni giorno spostano i propri confini un po’ più in là. Ecco. Questa è la Storia, questo è il posto che dovremmo darle. Ne avrei scritto prima o poi.

Ma ho controllato su Internet: pare che quel calcolo sia una sciocchezza. I Morti sono ancora di molto superiori ai Vivi. E si sente, lasciatemelo dire.

(E adesso via, largo ai commenti su Togliatti).