La stazione radio esiste ancora (a Glivice, Polonia). È la più alta struttura in legno in Europa
31 agosto 1939– Un commando di sabotatori polacchi sconfina nel Terzo Reich e prende temporaneamente possesso di una stazione radio. Adolf Hitler non ha altra scelta che scatenare la Seconda Guerra Mondiale. Ma andò davvero così? Da settimane tutti i quotidiani del Reich riportavano le inquietanti notizie da Danzica, la città di lingua tedesca che i polacchi avevano avuto in dote come sbocco sul mare al Congresso di Versailles. Persino il fuehrer si era scomodato per denunciare le operazioni di pulizia etnica che i polacchi stavano portando avanti a Danzica. Nel frattempo la situazione alla frontiera stava degenerando – i polacchi avevano già ordinato la mobilitazione generale. Francesi e inglesi, sbigottiti, non si erano ancora del tutto resi conto che il verbale della Conferenza di Monaco era carta straccia. In questa situazione, alle otto di sera di 75 anni fa, migliaia di radioascoltatori tedeschi delle regioni orientali sperimentarono uno choc in diretta. Il programma che stavano ascoltando fu all’improvviso interrotto da grida e rumori frastornanti che i reduci riconobbero subito come spari. Poi si sentì una voce slavofona. Chi masticava un po’ di polacco spiegò che qualcuno stava usando una radioemittente tedesca per invitare tutti gli slavi del Reich a ribellarsi dal giogo nazista. Mein Gott, i polacchi ci hanno invaso! Possibile?
I giornali dicevano di sì. C’erano stati altri sconfinamenti, da ambo le parti: ma stavolta era diverso. Stavolta i tedeschi avevano reagito al fuoco e avevano lasciato a terra almeno un invasore. Un polacco, vestito in uniforme polacca. Lo mostrarono anche ai corrispondenti americani (che rimasero scettici). Dunque era così. I polacchi avevano invaso il Reich. Non restava che trarne le conclusioni.
Com’era andata davvero lo si seppe soltanto al processo di Norimberga. Si era inventato tutto Himmler. Il 22 agosto il fuehrer aveva annunciato in Stato maggiore che avrebbe fornito un “casus belli propagandistico”. “Non è importante quanto sia credibile. Nessuno domanderà al vincitore se ha detto o no la verità”.
Il commando “di polacchi” era composto da slavi di nazionalità tedesca agli ordini della Gestapo, indossanti uniforme polacche: espediente vietato dalle convenzioni, ma molto efficace. Con sé avevano un gruppo di prigionieri prelevati dal campo di concentramento di Dachau, anche loro in uniformi polacche, da uccidere sul posto e da fotografare come invasori. Il nome in codice per questa risorsa era “Konserve”, cibo in scatola. In realtà a essere ucciso sul posto fu un oppositore della Slesia arrestato il giorno prima – che per Dachau non aveva fatto nemmeno in tempo a passare. Si chiamava Franciszek Honiok. Gli fecero un’iniezione letale, aspettarono che morisse e gli spararono da lontano. Nessuno se ne rese esattamente conto, ma era il primo caduto della Seconda Guerra Mondiale. A oggi, 31 agosto 2014, la terza non è ancora cominciata, per quel che ne sappiamo.
30 agosto 2008 – un oscuro blog dell’epoca arcaica fa incetta di nomination ai Macchianera Blog Awards, come si chiamavano a quel tempo. Sei anni dopo, c’è ancora qualcuno che lo vota, a dispetto di ogni buon senso e logica commerciale. Ciao, siete meravigliosi. Volevo ringraziare tutti gli affezionati lettori e in particolare le batterie di scimpanzé che Gianluca Neri evidentemente mantiene in cattività in un ambiente cablato (probabilmente spera che scrivano l’Amleto o magari qualcosa di meglio) e che anno dopo anno, quando si tratta di votare per i MIA, continuano a spuntare la voce “leonardo”, probabilmente per inerzia. Anche quest’anno sono in lizza per il “miglior post” – mai meno meritato – e per il “miglior blog di opinione”, inserito in un mazzo di avversari che mi polverizzeranno. Ve li presento qui di seguito, con un’avvertenza: STO SCHERZANDO. In realtà li stimo tutti molto. No, perché c’è chi si è bevuto la storia del critico musicale e quella della Gioconda falsa, e insomma non si mettono mai abbastanza mani avanti.
Licenza Politica è (apre la pagina) un “blog controcorrente, dall’anima liberale, liberista e libertaria”: complimenti, mi sei già salita sulle palle col sottotitolo. E insomma sarà da vent’anni che sfracassate con la trimurti liberali-liberisti-libertari e ogni volta mi verrebbe da chiedervi: ma perché “libertini” no? Cosa v’hanno fatto i libertini, eh? Eh? Restif de la Bretonne non è forse degno di entrare nella vostra accolita di liberti liberati battenti bandiera liberiana? La notizia in homepage è che Stalin è morto. Giuro. No, è un effetto dei layout con le foto immense. Allora io posso anche sbagliarmi, dopotutto sono in giro solo da un milione di anni, però più grosse ci mettete le foto, più piccole sembrano le vostre opinioni. La più recente è sul fallimento dell’Unità, che sarebbe un “fallimento di mercato”. Uhm, se ne può discut– NO. Che altro c’è? Un endorsement a Forza Italia perché a inizio luglio devono aver aperto alle coppie gay – me n’ero già dimenticato, per fortuna che c’è Licenza Politica che va controcorrente e mi ricorda queste verità scomode. “Quindi, chapeau Francesca e chapeau Cav. Se questo è il nuovo inizio di Forza Italia, forse la vera rivoluzione liberale non è ancora perduta“. Qualcuno ha visto la salma di Gobetti di recente? Mi saprebbe dire quante rotazioni riesce a compiere nel minuto-secondo? No perché io ho questa idea che se riuscissimo ad attaccare una dinamo alla salma di Gobetti avremmo risolto il fabbisogno energetico di una popolosa provincia italiana. È pur vero che le hanno abolite. E poi lui è al Père-Lachaise direi. E coi francesi non si ragiona, loro hanno il nucleare da rivenderci. Les salauds. Stavamo dicendo?
Ora se ne va in giro per le capitali europee a spese nostre, ma c’è stato un periodo, ve lo giuro, in cui Claudio Messora sembrava più sfigato di me. Lo so che appare impossibile. Ricordo quando l’ho visto per la prima volta risalire le classifiche, e mi domandavo: ma chi è questo sconosciuto, ma cosa fa nella vita a parte dire di aver vinto il festival di Castrocaro? Niente. Aveva scoperto i blog (nel 2007, quando erano già stati dati per morti cinque o sei volte) e aveva mollato tutto per mettere su un videoblog. Pazzo! Avrei voluto dirglielo in faccia. Folle sconsiderato, torna subito a fare il compositore “con all’attivo molti dischi venduti in numerosi paesi del mondo”, o il “Project Manager e Amministratore Delegato in start-up di innovazione tecnologica”, qualunque cosa, ma lascia queste acque melmose. Non hai capito che uno su mille ce la fa, ed è comunque Beppe Grillo? Non so se fosse già infeudato con la Casaleggio. So che non se la passava bene e non ne faceva mistero:
Quanto tempo dedichi al blog? Per lungo tempo ho passato anche 2 o 3 giorni senza dormire. Questo è un videoblog e, a parte adesso che sto lavorando al Documentario INTERNET FOR GIULIANI, l’editing video, tra la registrazione, il montaggio, la conversione e via dicendo, è un lavoro massacrante. […] Quindi la risposta finale è: 24 ore al giorno. Ma solo perché non ce ne sono di più. Vedo che hai anche pubblicità nel blog e … quanto ti rende? Domanda ambigua cui, per i motivi che spiegavo prima, non credo di essere costretto a rispondere. Però, siccome non ho nulla da temere, ti allego questa immagine, uno screenshot delle entrate AdSense di oggi: click per scaricare. Potrai e potrete constatare che l’incasso di oggi, per il momento (ma la giornata volge al termine) ammonta a € 5,22, di cui €1,78 da proventi dei banner sul blog, e €3,44 da proventi dei banner sui video di YouTube. Non mi sembra una gran fortuna, soprattutto considerato che solo il server (macchina dedicata su Aruba) costa 1600€ all’anno, altri 1000€ se ne vanno per la connessione domestica alla rete, altri 240€ per quella mobile (se mi sposto, devo lavorare), 1500€ costa la videocamera, 500€ tra luci e cose varie, 600€ di microfoni, 2000€ tra Adobe Premiere e vari altri softare di montaggio video, un qualsiasi spostamento per raggiungere un evento o una persona da intervistare significa altre centinaia di euro, più altre spese che sto tralasciando. In più devi considerare che questo è il mio lavoro – non posso e non ho tempo di farne un altro, per cui ho smesso di fare l’informatico, che mi faceva guadagnare bene – per cui oltre alle spese vive dovrei anche riuscire a guadagnare per pagare il mutuo, la macchina, la scuola di mio figlio, la spese, le bollette, l’amministrazione del condominio e… devo continuare? 🙂
Era una domanda retorica, vero? No, cristiddio, non devi continuare. Ti sei pure fatto lo spazio su Aruba, seicento euro di microfoni, sei matto da legare. Hai un figlio, una macchina, un mutuo, le spese condominiali, qualcuno faccia qualcosa. Ero veramente preoccupato. Adesso non sono più così preoccupato. So che di recente ha lasciato il ruolo di responsabile della comunicazione del Gruppo Parlamentare del M5S al Senato della Repubblica per assumere il ruolo di responsabile della comunicazione del M5S al Parlamento Europeo. Insomma direi che alla fine i microfoni li ha ampiamente ammortizzati.
Il cuore del mondo (blog.ilgiornale.it/foa/) Marcello Foa ha un blog d’opinione. Lo sapevate? Io non sapevo nemmeno che avesse delle opinioni. Sono un po’ in imbarazzo perché è del Giornale e quindi dovrebbe essere facile spernacchiarlo; e invece il layout è elegante, il tono è amabile (né compagnone né snob), e ho già letto cinque post senza trovare una vera cazzata. Le origini qataresche dell’ISIS. Dubbi sul disastro aereo in Ucraina. Risate per l’inglese di Renzi. Complimenti alla Merkel che bacchetta Obama sull’NSA. Cosa diamine sta succedendo? Se avessi Marcello Foa nei miei feed, rischierei fortemente di confonderlo con Gilioli e viceversa. Bisogna fare qualcosa. Ripristinare le distanze. Mi tocca scrivere “Berlusconi” e premere il tasto cerca. Scopro che è ancora un martire della magistratura e delle “lobby finanziarie europeiste”. Whew .
Ma siete sicuri? Con appena quattro fotoritratti di Berlinguer in homepage, dico, siete davvero sicuri di essere Qualcosa di Sinistra? Io nel dubbio ne aggiungerei almeno un altro paio, dai. Dopotutto che gusto c’è ad avere un layout a quattro colonne, se non puoi infilarci qualche altra foto di Berlinguer sorridente. Di questo ha bisogno non solo la sinistra, ma il mondo in generale: non dell’amore, ma di FOTTUTI FOTORITRATTI DI ENRICO BERLINGUER. E allora sapete che vi dico? Il mio è più grosso. Intendo naturalmente il mio fotoritratto di Enrico Berlinguer.
Libernazione è una pregevole webzine di opinioni pret-à-épater l’anima de staminchia, che si tiene a galla lanciando su facebook acchiappaclic virali che sfruttano il dirompente effetto liberatorio del predicato verbale preferito da grandi e piccini, ovvero, “HA ROTTO IL CAZZO”. Cosa? Ma la qualunque, ovvio. I tatuaggi. L’erasmus. Gli ombrelli, le macchine da cucire, tua nonna in carriola, ha rotto il cazzo un po’ tutto: compresa, purtroppo, la rottura di cazzo. È strano che Capriccioli non ci abbia già fatto un generatore casuale. Ultimamente ci ho anche letto che se critichi Israele sei antisemita. NO MA GIURA. L’HAI BREVETTATA QUESTA? CORRI SUBITO ALL’UFFICIO, UNO SPUNTO COSì ORIGINALE FANNO IN FRETTA A COPIARTELO.
Non c’è dubbio che Gilioli sia un faro per tutti noi. Che da lungo ci stia guidando in questa lunga attraversata nel deserto, da una sinistra antiberlusconiana a una sinistra sempre antiberlusconiana ma anche antigrillina e antivendoliana e antiingroiana e antispinelliana e e e e.
Ma.
No, niente, è solo che dopo aver letto un migliaio di post di Gilioli mi sono accorto di come gli piaccia piazzare un’avversativa a metà post, è un suo tic retorico ma è anche qualcosa che lo descrive. Un’obiezione vivente, che si aggira per le sconfinate praterie dove una volta pascolava la sinistra e si domanda: dove sono tutti? perché scappano a ondate centrifughe? Ma ci sarà pure lo spazio per una sinistra che non sia né giustizialista né populista né complottista né vetero né nuovista né salottiera né troppo identitaria né troppo poco né settaria né né. È pur sempre affascinante la descrizione di una malattia dal punto di vista del virus.
Ma ci mancherebbe, vogliamo tutti bene a Zoro e gli auguriamo di vincere qualsiasi altro premio – il Leone d’oro, l’Oscar, il Telegatto, lo Strega, il Nobel per la Pace (ma ci accontenteremmo anche di quello all’economia). E allo stesso tempo non possiamo esimerci dal constatare come l’ultimo post della Z di Zoro risalga al 4 agosto 2013. È un anno che non ci scrive più niente. Più che comprensibile – mi sembra, fuor d’ironia uno che si sbatte davvero – ma se votate Zoro come miglior blog di opinione mi sa che non v’interessano troppo le opinioni in generale. State sacrificando a un Dio assente – no, per carità, c’è chi lo fa da migliaia di anni e si trova benissimo, chi sono io per. A proposito, avete notato quanti post ho scritto io quest’anno? Con questo fanno centosettantuno. No, così tanto per dire.
I blog, come le persone, sono quasi sempre migliori della prima impressione che ti hanno fatto. Il mio problema con Phessimismo-e-Phastidio risale ai tempi della seconda guerra del Golfo, quando si parlava di esportare la democrazia e lui pubblicava quelle lunghe e accorate partiture per trombone di Glucksmann. Era facile confonderlo con tutta una pletora di blog filoamericani che a un certo punto sono misteriosamente evaporati. Lui era di ben altro peso specifico, ma ci ho messo quasi dieci anni a farci caso. Ora è uno dei pochi blogger di cui mi interessi il parere, anche e soprattutto quando non si sovrappone al mio. Il che succede purtroppo sempre meno – dico purtroppo perché Seminerio è il profeta dell’Andrà molto peggio. Mi piace raffigurarmelo su un pulpito con una cuffietta da quacchero, anche se in realtà non sono molto sicuro che i predicatori quaccheri portino le cuffiette. Ma insomma un tizio che annuncia piaghe d’Egitto e dà per scontato che ce le meritiamo. Tanto più insopportabile in quanto non si riesce in nessun modo a dargli torto.
Beppe Grillo (www.beppegrillo.it)
Io Beppe a un certo punto l’ho messo nei feed. Sapete cos’è avere Beppe nei feed? Siccome Casaleggio la sa lunga, il feed contiene solo titolo e fotomontaggio. Quindi ogni giorno mi arrivano nei feed due o tre o quattro orrendi fotomontaggi accompagnati da titoli che vorrebbero essere divertenti e sono più spesso incomprensibili. È come avere un ubriaco sul tuo portatile di prima mattina. Come direbbero quelli di Libernazione: non ci si capisce un cazzo. Ma è il progetto beppegrillo.it, nel complesso, a sfidare tutto quello che noi sappiamo sul www. Se non l’avessi mai visto in vita mia, se improvvisamente me lo mostrassero, io scuoterei la testa e spiegherei: questa roba non potrà mai funzionare. Invece ci hanno quasi vinto le elezioni. La gente è strana.
Leonardo (www.leonardo.blogspot.com)
Leonardo è un grafomane che da 13 anni ammorba la rete in lingua italiana con opinioni non richieste su qualsiasi cosa. Fatti venire una qualsiasi idea del menga, e sta sicuro che lui l’ha già formulata nell’aprile del 2004 o nel settembre 2009. Aboliamo le vacanze di Pasqua. Isoradio programma troppa musica italiana. Come i bachi che passano la vita a sbavare per costruirsi un bozzolo, questo tizio sta costruendo un enorme monumento di parole alla sua supponenza e ignoranza, una piramide di opinioni gratuite che nessun diritto all’oblio riuscirà mai a occultare del tutto. Di lui hanno detto (continua…)
(Potete votare anche qui sotto. Ricordate che Enrico vi guarda. Voi non volete davvero far piangere Enrico).
29 agosto 1966 – I Beatles terminano il loro tour americano con una data al Candlestick Park di San Francisco. Nemmeno loro lo sanno, ma è il loro penultimo concerto. L’ultimo si terrà tre anni dopo, su un tetto di Londra, ma nessuno lo ricorda davvero volentieri. Nemmeno il nostro beniamino, Sir Perceval R. Deafon, Esq., celebre per aver salutato tutti i loro dischi con abominevoli stroncature che oggi terminiamo di pubblicare (le prime sono qui). Ci tengo comunque a far presente che a me invece i Beatles piacciono.
Abbey Road (Apple Music, 1969)
Quando l’anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell’album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l’agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall’inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento – il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione – il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure – è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po’ di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l’unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.
La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c’è anche l’ora dell’eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c’è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l’irritante Maxwell’s Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All’eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa – l’uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient’altro che “I want you so bad it’s driving me mad” per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.
E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall’ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell’originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d’aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c’è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock’n’roll scatenava l’isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio – impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà – dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l’agonia è finita.
Let It Be (Apple Music, 1970).
E così sia. Constatata finalmente l’impossibilità di proseguire come gruppo, John Paul George e Ringo hanno sciolto la società per avviarsi serenamente verso tre o quattro carriere soliste che – non lo dubitiamo – ci regaleranno finalmente quei risultati concreti che da sempre ci aspettavamo da musicisti dotati come loro: senza più la necessità di lottare per il lato A di un 45 giri, o per il privilegio di cantare una canzone in più su un 33, avranno finalmente tutto lo spazio che serve a un artista per esprimersi al meglio, e ci regaleranno canzoni che faranno impallidire gli incerti ectoplasmi musicali composti e registrati negli ultimi due anni.
Ora che il divorzio si è celebrato – e chi segue questa rubrica sa da quanto tempo lo caldeggiavo – lasciatemi confessare una speranza di diverso tenore. Possibile che la storia finisca qui davvero? Quattro musicisti cresciuti assieme, ancora così giovani, al culmine delle loro potenzialità, potranno davvero resistere per molto senza incrociarsi di nuovo, per amore e per convenienza? Mi sembra straordinariamente implausibile. Abbiamo tutti litigato coi nostri amici dei vent’anni. Ma dopo tanti anni ancora, a sopravvivere quasi sempre è l’amicizia, non il rancore. Perché non dovrebbe essere così anche per loro? È più che un auspicio.
Persino un disco come Let It Be, senz’altro inferiore agli standard a cui ci hanno abituato, sembra già contenere le premesse di una nuova alba, contrastata ma promettente. I brani sono scelti tra quelli composti e incisi durante le famigerate sessioni agli Apple Studios, nel gennaio del ’69, e il concerto sul tetto della Apple in Saville Row. Si tratta insomma di materiale scartato in un primo momento dagli stessi Beatles, con tre eccezioni: Across the Universe, la cantilena regalata da John al WWF, Get Back, il rock’n’roll spensierato e un po’ insipido già apparso su singolo l’anno scorso, e l’inno svergognatamente patetico che dà il titolo all’album. The One After 909, un vecchio ballabile in scaletta ai tempi del Cavern Club, sembra voler chiudere il cerchio e dimostrare che il r’n’r è più forte di qualsiasi dissidio. È stato un anno difficile per tutti, ma ho una sensazione: sotto quelle zazzere incolte, sotto le pretese da artisti concettuali, le pose da rivoluzionari, le dispute societarie e i cattivi investimenti, sotto tutta la patina di stronzate che si è deposta in questi anni di beatlemania, c’è ancora la grinta di quei quattro teddy boys sguaiati che appena sette anni fa ci spalancarono un mondo. Per ritrovare la loro quintessenza forse avrebbero bisogno di una guida che scrolli via tutto quello che li ha appesantiti, e forse l’hanno trovata: Phil Spector, il grande produttore che con il materiale di partenza ha davvero fatto i miracoli. Anche uno scarto innocuo, messo nelle sue mani può trasformarsi in una ballata struggente, come quella The Long and Winding Road, che – è il mio augurio – un giorno ricorderemo non come il canto del cigno, ma come l’annuncio di un nuovo, meraviglioso inizio. Coraggio allora: ognuno per la propria strada, e arrivederci al primo incrocio.
28 agosto 1955– Emmett Till viene seviziato, ucciso, gettato come un rifiuto nelle acque limacciose del fiume Tallahatchie. I suoi assassini, subito arrestati, non saranno mai puniti. A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c’era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C’erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po’ di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l’avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c’era comunque rischio che si perdesse.
Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l’idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto. Gli aveva pur detto la mamma che in Mississippi i bianchi e i neri non si comportano nello stesso modo che a Chicago, e di stare attento – ma niente da fare. Avrebbe dovuto farsela sotto e implorare pietà, questo è il modo in cui ci si salva da un linciaggio. Invece continuava a fare il bullo e a incassare i colpi con una flemma che Roy e JW non avevano mai visto in un nero, un’arroganza insopportabile, il modo di fare dei neri di città che non sanno stare al loro posto. Bastardi, li chiamava. Forse davvero non negò di essere stato con donne bianche. I due non potevano sapere che quattro anni prima Emmett aveva puntato una pistola a un ex della madre che continuava a stalkerarla. Se ti rivedo da queste parti ti sparo, le aveva detto una cosa del genere. A dieci anni, con una pistola in mano. Dunque se questi due bifolchi avevano intenzione di picchiarlo, non poteva evitarlo: ma abbassare lo sguardo davanti a loro era fuori discussione.
E questo era un problema. Man mano che il pick-up proseguiva nella notte, e il ragazzo si ammaccava sempre di più, anche il problema diventava più grosso, e la prospettiva di lasciarlo vivo si allontanava. Il vecchio Mose Wright non li avrebbe mai denunciati, ma il ragazzo? Li aveva visti in faccia e non se li sarebbe scordati. Tra qualche giorno se ne sarebbe tornato a Chicago, dov’è pieno di giornalisti e altri impiccioni. L’alternativa era tirargli un colpo in testa e disfarsi del corpo. La notte cominciava a ritirarsi e in breve l’alternativa non fu più un’alternativa. Quando lo tirarono fuori, anche Emmett capì. A quel punto forse gli avevano già cavato un occhio. Albeggiava e qualcuno sentì gridare, Signore, Pietà – poi uno sparo. Ora bisognava trovare qualcosa di pesante, che se lo portasse nel fondo del fiume e non lo restituisse più. Fino a quel momento non ci avevano pensato. Entrarono in un qualche magazzino, frugarono tra le cianfrusaglie e alla fine svitarono la ruota metallica di un macchinario per sgranare il cotone. Fu l’unico momento in cui temettero davvero di finire nei guai: non per l’omicidio, ma per il furto di una ruota metallica. La legarono al cadavere col filo spinato.
Il giorno dopo lo sceriffo venne a prenderli. Mose Wright non aveva avuto il coraggio, ma uno dei ragazzi di Chicago, Curtis Jones, lo aveva chiamato. Non potevano negare di aver prelevato Emmett, ma raccontarono di averlo mollato nottetempo, nei pressi del negozio di Roy. Volevano solo dargli una lezione per quello che era successo quattro giorni prima. Che cos’era successo? Tutti sapevano cos’era successo.
Il giorno prima Emmett aveva rivolto la parola alla moglie di Roy, Carolyn.
Aveva 21 anni, il marito 24. Era sola nel negozio; Emmett era entrato coi suoi amichetti della villeggiatura e le aveva detto “bye, baby”. Forse. Il ragazzino per la verità soffriva di una lieve balbuzie, soprattutto quando si trattava di far uscire la lettera “b”. La mascherava fischiettando. Magari aveva solo chiesto del bubble gum, e gli era partito un fischio. In seguito la versione di Carolyn, cambiò, e al processo il quattordicenne balbuziente di Chicago si ritrovò in bocca cose irriferibili: ehi baby, che ne dici se usciamo assieme? Che ti succede, non ce la fai? Non ti preoccupare [omissis], sono già stato con altre bianche. Le avrebbe preso la mano, cercando poi di cingerle i fianchi. Carolyn, terrorizzata, corse fuori dal negozio, a prendere la pistola che teneva sotto il sedile della macchina. A quel punto Emmett e gli altri ragazzi si dileguarono. Non prima che Emmett lanciasse un altro fischio. Ma forse non stava più fischiando a Carolyn; dall’altra parte della strada qualcuno giocava a dama.
Quel mattino, lui e i cugini erano sgattaiolati fuori dalla chiesa mentre zio Wright officiava. Si erano messi a chiacchierare coi coetanei, braccianti figli di braccianti, raccontando di com’era la vita su a Chicago. Là le cose erano molto diverse, neri e bianchi andavano a scuola assieme. Ma dai. Chi volete prendere in giro. Emmett però aveva con sé qualche foto. Visto? Qui siamo a scuola. Questo sono io. E questa è la mia ragazza. È bianca, sì. Non ci credi? Credi che io non abbia il coraggio di parlare a una bianca? Ti faccio vedere.
Roy era fuori città per affari. Tornò solo il 27, quando ormai la storia la sapevano anche i muri. Che altro poteva fare? Così spiegò a un giornalista l’anno dopo – era appena stato assolto per l’omicidio di Emmett Till.
Non avevo mai fatto male a un negro in vita mia. Mi piacciono i negri – quando stanno al loro posto – so come ci si comporta con loro. Avevo solo deciso che era il momento di mandare un segnale a un po’ di gente. Finché sarò vivo e potrò farci qualcosa, i negri dovranno restare al loro posto. Dove vivo io i negri non voteranno mai. Se lo facessero, controllerebbero il governo. Non andranno mai a scuola coi miei figli. Quando un negro arriva al punto di parlare di sesso con una donna bianca, è segno che è stanco di vivere. Sono pronto ad ammazzarlo. Io e i miei compaesani abbiamo combattuto per questo paese, e abbiamo ottenuto qualche diritto. Stavo lì in quella baracca ad ascoltare quel negro sibilarmi il suo veleno in faccia, e alla fine mi sono deciso. Ragazzo di Chicago, ne ho abbastanza di quelli che vi mandano qui da noi a fare casino. Al diavolo, farò di te un esempio per tutti, giusto perché capiscano come ci regoliamo qui da noi.
Bryant e il fratellastro furono trattenuti con l’accusa di rapimento. Sui giornali non si escludeva ancora la possibilità che il ragazzino fosse fuggito, o che qualcuno di famiglia lo avesse nascosto. Tre giorni dopo due ragazzini a pesca nel Tallahatchie trovarono il corpo. Per quanto il volto fosse sfigurato, fu subito chiaro che si trattava di un ragazzo di colore, che non era annegato e che prima di essere ucciso era stato percosso. Comunque non ci fu un’autopsia: lo chiusero in una cassa di pino e stavano per seppellirlo. La madre si mise in mezzo. Si impuntò: voleva che lo riportassero a Chicago (continua…)
27 agosto 1967– I Beatles vengono ricevuti dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Nel frattempo il loro manager, Brian Epstein, muore per overdose di carbamazepina. L’evento tragico segna l’inizio della fine per il gruppo (che si scioglierà ufficialmente due anni dopo), almeno a detta di alcuni critici. Tra costoro non manca, come avrete indovinato, Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., il critico che tra il 1963 e il 1970 stroncò tutti i dischi dei Beatles. Proseguiamo la pubblicazione delle sue recensioni (le prime sono qui).
Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967) Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell’assurdo formato di doppio EP – sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest’anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po’ raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l’occasione per abbaiare all’ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po’ meno ambizioso. Rimane in chi scrive l’impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock’n’roll (non c’è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell’avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l’unico a poter trarre qualche soddisfazione dall’ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po’ avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante – riguardo a quest’ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l’inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle – pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.
The Beatles (Apple Music, 1968) Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato ‘capolavoro’ dell’anno scorso, dove la frattura tra l’eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già ‘strano’ sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre – facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d’ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All’interno c’è un’interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l’una contro l’altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l’incisione di brani dall’alto contenuto di saccarina come Mother’s Nature Sun o Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I’m so Tired o Happiness Is a Warm Gun. Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz’altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody’s Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock’n’roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell’accrocchio rumorista di I Am the Walrus?Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C’è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna…) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l’idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l’entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in… niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L’unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient’altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare – ce lo auguriamo – le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua…)
26 agosto 2004 – Enzo Baldoni viene ucciso in Iraq.
Dieci anni prima io ero uno studente sbarbato senza gusto né cultura. Come tutti i miei coetanei guardavo molti spot, dicevo di preferirli ai programmi ma mentivo. Cercavo di capire come funzionavano, persino di apprezzarli, ma la maggior parte era già copie di copie di copie. A metà ’90 ormai di spot che mi facessero alzare dal divano non ne trovavo più, a parte uno.
È stato forse davvero l’ultimo spot che mi è piaciuto. Non avevo naturalmente la minima idea di chi l’avesse inventato; magari un americano o un francese, era difficile imparare certe cose a quei tempi. Non si sapeva davvero a chi chiedere. Valeva per la pubblicità e per tantissime cose che non si trovavano né sui quotidiani né sui libri di scuola.
Un sistema era leggere le riviste – su una di cui non ricordo nemmeno più il nome una volta lessi di un disegnatore americano che aveva completamente stravolto Batman, facendogli fare cose assurde e criminali in un contesto realistico. Bisognava anche avere una memoria particolare, perché lì per lì la cosa non mi disse niente; fu solo una manciata d’anni dopo che passeggiando per l’ala dei fumetti della biblioteca trovai questo enorme tomo su Batman e mi dissi: ne ho sentito parlare, dev’essere interessante. Non leggevo di supereroi da quando ero bambino. Però era chiaro sin dall’inizio che quella non era una storia per bambini. Era narrata con un ritmo che oggi è diventato uno standard anche al cinema, ma allora era diverso da tutto quello che avevi letto o guardato. Una specie di monologo d’azione, scandito in frasi laconiche commentate da disegni volutamente tirati via. Questo, nelle prime pagine. Poi il monologo si intrecciava con altri monologhi – ognuno colorato in un modo diverso, per aiutare il lettore – e la voce dei presentatori televisivi assumeva la funzione del coro tragico. Doveva essere stata un’impresa, tradurre un libro così. Questo sicuramente lo pensai, ma non mi affaticai a cercare il nome del traduttore: sicuramente era stato bravo, ma a quel tempo ero convinto che essere bravo non fosse niente di eccezionale: che ci fossero tantissimi traduttori bravi in circolazione; che il mondo dell’editoria traboccasse di professionisti bravi ed entusiasti che ci avrebbero sempre dato il meglio. E poi alla fine era solo un fumetto di Batman, chissà quante cose avevo per la testa ritenendole più importanti.
I fumetti – come la pubblicità – sono una cosa che ho voluto sempre capire, ma senza impegnarmici veramente troppo. Alla fine non sono tantissimi quelli che mi sono piaciuti davvero. Per qualche mese m’innamorai dell’opera di un vignettista francese, Gérard Lauzier, dal tratto elementare – sembra che tutti i suoi personaggi sorridano – eppure dopo un po’ ti rendi conto che sono espressivissimi, ogni sorriso è inclinato nel modo giusto per esprimere, a seconda della situazione: cinismo, invidia, disperazione, rabbia, rassegnazione, eccetera. Questione di millimetri, o di autosuggestione indotta nel lettore, non saprei. Lauzier era il feroce fustigatore di una società e di una cultura che non erano decisamente le mie, ma non mi ci voleva molto impegno per riuscire a sentirmi fustigato lo stesso. Non è solo l’ironia contro la gauche-caviar – sono tutti buoni a prendersela con quella, ma la versione provinciale della gauche-caviar, quella è tutt’un’altra cose che pochi conoscono davvero: così come il contraltare, la destra dei reduci d’Algeria. Anche in questo caso, ci voleva del fegato e della bravura a tradurre quei mondi lontani, nuvoletta per nuvoletta, riuscendo a dare un ritmo italiano a personaggi così irrimediabilmente francesi. Anche in questo caso, non mi diedi pena di conoscere il nome del traduttore.
I novanta intanto volgevano al termine e tutti parlavamo di internet. Ne parlavamo tra di noi, perché su internet non è che ci stessimo parecchio: si teneva occupato il telefono per vedere, nella maggior parte dei casi, un quadratino, un cerchio e un triangolo. Se volevamo sapere qualcosa di più su cosa stesse succedendo, per dire, in America, era davvero meglio leggersi Colombo o Zucconi. Se già allora avevamo il sospetto che tutto fosse un po’ troppo italianizzato per i gusti del lettore medio, al massimo c’erano le strisce di Doonesbury su Linus – che sarebbero risultate incomprensibili, in realtà, se il traduttore non fosse stato così gentile da corredarle di commenti esplicativi che ci permettevano di capire di cosa stessero parlando i personaggi il più del tempo. Grazie a lui tutto assumeva un senso. Doonesbury poi era una vera lezione di leggerezza – il modo con cui affronta qualsiasi argomento, in modo anche spietato, ma senza mai alzare la voce, senza mai perdere il ritmo. Il nome del traduttore e curatore di Doonesbury lo avevo senz’altro letto su Linus, ma nella mia testa non c’era lo spazio per troppe nozioni: credo che per me – e per molti altri – si chiamasse Zonker, punto.
A un certo punto lo spazio di Zonker divenne una vera e propria rubrica, ma io già avevo smesso di leggere Linus così assiduamente. Ne avevo meno bisogno, su internet cominciavo davvero a trovare più cose interessanti, e stavo pure cominciando a scriverne io. Scoppiò all’improvviso una stagione molto intensa: il g8 di Genova e poi l’11 settembre. Leggevo molto e litigavo con un sacco di gente. Ieri ho recuperato un pezzo in cui me la prendo con un giornalista per il modo in cui traduceva un pezzo del Boston Globe. Il giornalista stava affannosamente cercando di dimostrare che a Guantanamo tutti i detenuti stavano bene, che lo dicevano nelle interviste e di quel che dicevano nelle interviste c’era da fidarsi. E crescevano anche di peso. Fu una sua ossessione per alcuni anni, il peso forma dei detenuti. Ha fatto peraltro un’invidiabile carriera.
Comunque, mentre io usavo internet per azzuffarmi, percuotermi il torso e tutte le altre cose che fanno i primati quando cercano un partner, altri stavano iniziando ad aprire blog davvero interessanti. Il segreto era avere anche una vita interessante. Enzo Baldoni ad esempio viaggiava molto, scansando i posti meno pericolosi. Dieci anni fa discutevamo tutti di Iraq al punto da poterci scambiare per esperti di geografia mesopotamica; sapevamo dov’erano Mosul e Bassora, la differenza tra sciiti e sunniti. Avevamo opinioni smaliziate persino sui tesori perduti del museo di Bagdad, che non c’è mai venuto in mente poi di andare a visitare. Ma in sostanza tutte le chiacchiere che sviluppavamo nascevano intorno a due o tre fonti di informazione. Di gente così curiosa da voler andare in Iraq davvero, a rischio della vita, ce n’era già poca allora: e parecchi nel frattempo sono morti.
Morì anche Baldoni, dieci anni fa oggi. Ci rimasi un po’ male, come di qualcuno che si ammira ma non si conosce. Poi Luca Sofri pubblicò una sua lunga chiacchierata radiofonica – di cui stasera trovo solo un breve ritaglio. Nel giro di poche ore scoprii che oltre ad aver tradotto e curato l’edizione italiana di Doonesbury, Baldoni era stato anche il primo traduttore del Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller; che gli era stato proposto (mi par di ricordare) da Oreste Del Buono, quando Baldoni era andato a proporgli di tradurre un francese che amava alla follia, un tale Lauzier sconosciuto in Italia. Che oltre a tradurre faceva il pubblicitario; per esempio era suo lo spot dei palloncini che si rasano.
Sono passati dieci anni. Ho sempre saputo che non sarebbero stati interessanti come i dieci precedenti – però, davvero, passarli senza nemmeno un fumetto seriamente caustico, senza che passi mai alla tv uno spot veramente geniale, possibile? Cosa accidenti è successo da un certo punto in poi? Quel mondo pieno di professionisti entusiasti in grado di apparecchiarti le cose che ti interessano davvero, non lo so, forse non è mai esistito nella realtà; forse era grande non più dell’ufficio di Del Buono. Persino Frank Miller nel frattempo si è un po’ bevuto il cervello, ma è una di quelle cose che ti capitano a invecchiare discutendo di guerre, di quanto siano giuste o ingiuste, senza però combatterle mai. Sta capitando probabilmente anche a me. A Enzo Baldoni non poteva capitare.
PS: ieri su twitter è scoppiato un pollaio. Un giornalista importante (quel giornalista importante) si è molto risentito perché qualcuno gli ha fatto le pulci su una traduzione.
25 agosto 1835 – Sul quotidiano “Sun” di New York appare la prima puntata di un lungo resoconto delle ultime scoperte lunari effettuate dal celebre astronomo e chimico John Herschel, con un nuovo potentissimo telescopio di sua invenzione. Herschel (coniatore, tra l’altro, del termine “fotografia”) ha trovato sul satellite tracce di vita – anzi, ben più che tracce: fiori, alberi, bestie più o meno mostruose, tra i quali l’interessantissimo animale sociale battezzato vespertilio homo, l’uomo pipistrello (riportiamo dalla più antica traduzione del reportage, pubblicata a Napoli già nel 1836):
Noi li scorgemmo sul lido d’un laghetto o gran fiume, che scorreva verso la valle del gran lago, ed aveva sulle sue sponde orientali un ameno boschetto. Alcuni di quegli esseri avevano attraversato dall’una sponda all’altra, e vi stavano distesi come aquile. Ci venne dato allora d’osservar, che le loro ali avevano una distesa enorme, e parevano per la struttura simili a quelle del pipistrello. Erano desse formate d’una membrana semitrasparente, che si dispiegava in divisioni curve col mezzo di raggi diritti legati al dorso con tegumenti dorsali. Ma ci maravigliò sovratutto il vedere, come quella membrana si stendesse dalle spalle sino alle gambe legata al corpo, e diminuisse gradatamente di larghezza. Quelle ali sembravano pienamente sottoposte al volere di quegli esseri, poichè li vedemmo tuffarsi nell’acqua, e quindi stenderle subito per tutta la loro dimensione, e scuoterle dopo essere usciti dall’onda alla guisa delle anitre, e racchiuderle tantosto in forma compatta. Le osservazioni fatte sulle abitudini di quelle creature, che erano dei due sessi, ci condussero a sì notevoli risultamenti, che amerò a vederli fatti di pubblica ragione coll’opera del dottore Herschel, dove so di positivo, che vi stanno descritti con verità conscienziosa, qualunque sia per essere l’incredulità con cui saranno lette. Alcuni istanti dopo le tre famiglie stesero le ali loro, quasi ad un tempo, e si perdettero fra gli oscuri confini del canovaccio, prima che ci rilevassimo dalla nostra sorpresa. Quegli esseri furono da noi appellati scientificamente uomini pipistrelli (vespertilio homo). Ei sono certamente esseri innocenti e felici. Nomammo la valle, in cui vivono, il coliseo di rubini, a motivo de’ magnifici monti da cui è attorniata. La notte essendosi fatta tardissima rimandammo l’esame di Petarius (n. 20) ad altra occasione. Giova il confessare, che quest’ultima parte del maraviglioso racconto, che abbiamo ora letto, risvegliò appieno l’incredulità nostra; uomini, i quali abbiano аd un tempo e braccia ed ali ci pajono impossibili conciossiache siansi veduti colà dei castori, delle gazzelle, delle cicogne, e dei montoni. Al pipistrello le ali servono di piedi, all’uccello di braccia, ma un apparato locomotore, che parta dalle vertebre, è tal particolarità difficilissima a comprendersi.
Ci vorrà qualche tempo perché i lettori si rendano conto che è tutta una bufala, organizzata probabilmente da un reporter del giornale, Richard Adams Locke, al solo scopo di aumentare le vendite. Scopo più che raggiunto: la tiratura fu quintuplicata, il numero del 26 agosto sfiorò le ventimila copie vendute, un record. Quando il reportage completo fu raccolto a parte, vendette altre sessantamila copie. Il povero Herschel dovette affannarsi a spiegare per anni che non c’entrava, che il suo autorevole nome era stato utilizzato senza il suo permesso, e soprattutto che sulla Luna non c’erano, a quanto gli risultava, uomini pipistrello: e se anche ci fossero stati, i suoi telescopi non gli consentivano di osservarli.
C’erano stati altri resoconti immaginari prima di quello del Sun: nel giugno precedente ci si era cimentato anche Edgar Allan Poe, narrando il resoconto del viaggio in mongolfiera sulla luna di Hans Pfaall. Ma Poe aveva mantenuto un registro letterario che consentiva ai lettori di riconoscere in Hans un personaggio finzionale. Locke riesce viceversa a ingannarli con alcuni trucchi da giornalista consumato: comincia con una lunga digressione sugli strumenti ottici adoperati da Herschel che rischia di ammazzare il lettore di noia, ma crea una sensazione di autorevolezza e plausibilità. Il primo articolo è un esempio precocissimo di hard science fiction, quella rigorosamente basata su speculazioni di carattere tecnico-scientifico. Il 25 agosto 1835 non è la data di nascita né della fantascienza né del giornalismo pseudoscientifico e cialtrone; forse possiamo considerarla l’ultima occasione in cui sono stati visti assieme.
L’unico ordine scritto di Hitler riguardo l’Aktion T4: Al capo della Cancelleria del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa.
24 agosto 1941 – Adolf Hitler ordina (forse) di interrompere l’Aktion T4, il programma di soppressione delle persone affette da malformazioni e malattie incurabili più o meno genetiche. Si stimano tra le sessanta e le centomila vittime in quattro anni. Ma la cosa più incredibile non è nemmeno questa. La cosa incredibile è che si interruppe. Hitler si fermò. Forse. Non ne siamo sicuri. Non esistono ordini scritti, un documento in cui si possa leggere “sospendete l’Aktion fino a nuovo ordine”. Peraltro la strage continuò, in cliniche e ambulatori dove la cigolante catena di comando tedesca lasciava evidentemente a medici e funzionari un ampio margini di discrezionalità; alla fine della guerra le vittime erano intorno alle duecentomila unità, e crebbero ancora per un po’. Il fuehrer non amava lasciare tracce troppo evidenti che collegassero il governo a un programma che pure era stato preso per sua diretta iniziativa, e affidato a collaboratori fidati che scavalcarono il ministero della sanità. Non firmò neppure una delle bozze di legge che gli proposero sulla cosiddetta eutanasia di Stato. Eppure era una sua idea; l’aveva messa nera su bianco nel Mein Kampf; non aveva esitato a metterla in pratica appena le circostanze gli erano sembrate favorevoli; ma sapeva di non poterne andare fiero, almeno per una generazione.
La purificazione della razza ariana necessitava di una buona dose di lavoro sporco che si poteva svolgere soltanto durante una guerra: i dettagli più repellenti sarebbero stati occultati dopo la vittoria. Hitler era probabilmente pronto a sterminare milioni di connazionali imperfetti, ma non intendeva passare alla Storia per averlo fatto. Persino la “Soluzione finale della questione ebraica” (stabilita nei dettagli a quanto pare solo a Wannsee, qualche mese dopo l’archiviazione dell’Aktion T4) sarebbe stata, per quanto possibile, occultata agli storici. I tedeschi del futuro di Adolf Hitler avrebbero vissuto in una grande e purificata Germania, e non avrebbero mai saputo quali crimini erano stati necessari per forgiarla. Poi le cose hanno preso una piega diversa, lo stato di guerra totale necessario alla realizzazione di questi e altri progetti si è dimostrato un po’ difficile da proseguire nel lungo periodo; Hitler si è sparato e col suo cognome oggi si spacciano le obiezioni più banali nei dibattiti sulla bioetica: ah, tu vorresti che qualcuno avesse il diritto di decidere fino a che punto è ammissibile soffrire; vorresti che nascessero meno persone affette da malattie genetiche? Sai chi la pensava come te? Adolf Hitler. E magari ti piacciono pure le verdure.
C’è naturalmente, in questo tipo di scambi, un equivoco immenso. Chi oggi lotta per legalizzare l’eutanasia, sta chiedendo più diritti per l’individuo. La cosiddetta eutanasia nazista partiva da premesse molto diverse; l’individuo non è che la cellula imperfetta, incosciente, di un grande organismo statale a cui non può sfuggire nulla. Sarà lo Stato a decidere quali cellule siano meritorie di vivere e quali no; quali abbiano il diritto di trasmettere i propri geni e quali no. Lo Stato poi si troverà spesso in situazioni di emergenza, durante le quali è necessario tagliare di netto senza troppa pietà. È stato ipotizzato che l’eugenetica nazista si sia imposta nella mentalità di migliaia di tedeschi (medici compresi) durante l’orrore della prima guerra mondiale, che la Germania combatté con tutte le sue forze giovani – mentre nelle retrovie i deboli e i malati si ritrovavano, paradossalmente, protetti dalla loro stessa infermità. Non rischiava la guerra di invertire l’ordine darwiniano delle cose? Di complicare la sopravvivenza e la riproduzione dei più forti, e di peggiorare il pool genetico della nazione? Quando Hitler si mette a scrivere di queste cose, trova subito un terreno fertile: migliaia di connazionali di ogni ceto e cultura, persuasi che certe vite non fossero “degne di essere vissute” (lebensunwertes Leben).
Si cominciò con la sterilizzazione coatta – molto presto, già nel ’33. La Germania non era nemmeno all’avanguardia, analoghi programmi erano operativi in Svezia, Svizzera, USA. Non erano degni di riprodursi gli affetti da malattie genetiche, il che poneva al tribunale specifico il problema non semplice di stabilire quale malattia si possa definire genetica e quale no. Il margine era molto elastico: furono sterilizzati anche alcolisti, prostitute, oppositori del regime. Il passo successivo è la soppressione dei bambini affetti da gravi malformazioni. Una celebre lettera inviata da una famiglia che non riusciva più a sopportare la sofferenza del figlio toglie l’ultima sicura a un meccanismo burocratico che porterà all’uccisione non sollecitata di moltissimi altri bambini. Questo è più o meno lo scenario di molti pro-life di oggi, in buona o (più spesso) cattiva fede: hanno paura che se ti conquisti il diritto a morire, poi lo userai per ammazzare anche i loro figli. Non distinguono un malato terminale da uno Stato totalitario. Spesso avversano anche i matrimoni gay, poiché temono che un gay si introduca in casa loro e li sposi contro la loro volontà.
L’operazione incontra delle difficoltà forse impreviste: tanto per cominciare, è impossibile condurla in quel regime di riservatezza auspicato. Se chiudi un ospizio cattolico, suore e preti cominceranno a farsi delle domande; se l’ospizio nazionalizzato vede subito un aumento della mortalità del 30%, è statisticamente impossibile che nessuno si metta a mormorare. Se nel certificato di morte c’è scritto sempre “polmonite”, qualcuno penserà che il Terzo Reich non può permettersi di scaldare i malati (ed è proprio così); se nei centri predisposti fai entrare i malati in corriera, e dopo un po’ nessuno li vede più, ma il forno crematorio comincia a disperdere polvere mista a capelli, perfino i bambini della zona cominceranno a parlare di camere a gas. E sì che la gassazione col monossido di carbonio era ancora a livello sperimentale. Ma insomma, tutti chiacchierano e il risultato è che un sacco di gente comincia a ritirare i propri famigliari da ospizi e case di cura. I primi a farlo ovviamente sono quelli che se lo possono permettere: è ancora un po’ presto per chiudere d’ufficio anche le cliniche di lusso. I ricchi credono in Darwin solo finché non li riguarda.
Nel frattempo tra i soldati al fronte circolano battutacce che non fanno bene al morale della truppa, ma esorcizzano una paura reale: anche i valorosi difensori del Reich rischiano ogni giorno di tornare a casa invalidi. Nessuno dei collaboratori di Hitler pensò mai a estendere l’Aktion ai reduci, e tuttavia le leggende metropolitane le puoi contrastare fino a un certo punto. Nel frattempo al cinema arrivavano film struggenti in cui malati orribili o devastati dal dolore implorano una dolce morte da un protagonista che deve trionfare sui suoi dubbi borghesi.
La nostra idea della società tedesca durante il Reich è in fondo quella che Hitler voleva darci: in questo almeno i filmati delle adunate di Norimberga hanno funzionato. Ein Volk, Ein Reich, Ein Fuehrer: Hitler comanda e tutti dietro col passo dell’oca. Sorprende perciò scoprire che, nel 1941, ci fossero manifestazioni di protesta davanti agli ospizi; e membri dello stesso partito nazionalsocialista scrivessero alla Cancelleria del Reich, per protestare. Un giudice scrisse al guardiasigilli che l’Aktion era illegale, e peraltro come abbiamo visto aveva ragione: nessuna legge scritta e firmata dal fuehrer l’autorizzava. Il guardiasigilli lo sollevò dall’incarico, con la motivazione che non aveva saputo riconoscere “la volontà del fuehrer come origine di legge”. Eppure lo stesso Hitler evitava per quanto possibile di apparire coinvolto con l’Aktion, nel tentativo di non perdere l’appoggio di molti tedeschi – tra cui, non secondari, i sacerdoti. L’Aktion fu severamente criticata da diversi pastori protestanti, ma l’opposizione più forte arrivò naturalmente dal clero cattolico, che dopo l’annessione all’Austria era numericamente il più rilevante, e che si permise di mettere nero su bianco la propria contrarietà in una lettera pastorale. Levare gli infermi ai cattolici è come togliere i pesci ai marinai: non è che sia la loro sola ragione di vita, ma senz’altro è un core business. Il 3 agosto il cardinale von Galen scrisse un’omelia in cui chiedeva allo stesso fuehrer di intervenire contro gli eccessi dei suoi subordinati: gli accenti erano così duri che i bombardieri della RAF ci fecero i volantini e li lanciavano sulle città tedesche. Per von Galen gli stessi bombardamenti inglesi erano un segno della collera divina. Hitler non lo fece nemmeno arrestare.
Qualche giorno dopo sarebbe avvenuto un episodio leggendario: Hitler sarebbe di ritorno a Berlino da un viaggio in Baviera. Quando il suo treno si ferma inaspettatamente nella città di Hof, il fuehrer mette il naso fuori dal finestrino. Nessuno si aspetta di trovarlo lì: nessun gerarca del paese si è preoccupato di organizzare un comitato di benvenuto. Sotto la pensilina invece c’è un po’ di gente che sta salutando i propri malati mentre salgono su un treno per il nulla. Qualcuno a un certo punto alza la testa e vede il fuehrer. E comincia a insultarlo. Prende forma qualcosa di inaudito, inimmaginabile: una manifestazione spontanea di protesta contro Adolf Hitler, il conquistatore di Parigi e Varsavia, trionfatore per terra, per cielo, per mare, ma messo in difficoltà in una stazioncina ferroviaria nella sua Baviera.
Pochi giorni dopo l’Aktion viene (forse) formalmente sospesa. Hitler ha fatto un passo indietro. Siamo abituati a immaginarci i tedeschi del 1941 come un popolo di volenterosi esecutori degli ordini del loro fuehrer, ma le cose forse non stanno esattamente così. C’è un limite a quello che il popolo poteva eseguire. Un limite a quello che il fuehrer poteva loro ordinare. È un pensiero consolante? No. L’esatto contrario.
Sei mesi dopo viene messa ufficialmente in cantiere l’Endlösung der Judenfrage, la “soluzione finale alla questione ebraica”. Maestranze e procedure sperimentate con l’Aktion verranno impiegate in un progetto molto più massiccio: la cancellazione di milioni di persone. Alcuni tedeschi seppero dire di no. Ma non ci fu nessun movimento spontaneo di protesta simile a quello stimolato dall’Aktion. I cardinali mantennero un profilo più basso.
Non si dovrebbe mai accusare il prossimo di pensarla come Hitler. Oltre a essere una mossa scontata e banale, si corre il rischio di addomesticare lo stesso Hitler, di trasformarlo in un argomento come un altro, declinabile a piacere. Non ridurrò mai nessuno a Hitler, lo prometto. Però, se guardo un po’ più in basso ai tedeschi che lo votarono; che combatterono per lui; che ebbero qualche obiezione quando cominciò a gasare gli infermi e gli handicappati, e le accantonarono quando smise di prendersela con loro e si rivolse agli ebrei, ecco.
Questo tipo di tedeschi io li riconosco in giro, e in Germania non ci vado praticamente mai. Mi basta dare un’occhiata a un giornale, prestare orecchio a una conversazione in tv; percepire lo sconfinato amore che hanno per chi è malato, per chi soffre, per chi addirittura è congelato in uno stadio embrionale e attende inutilmente una provetta. Purché sia bianco il malato, bianco l’embrione. Chi bianco non è può benissimo marcire in mezzo al mare, o sui campi che avevamo appaltato a Gheddafi nel deserto, e che probabilmente qualcuno avrà rilevato – non lo so, anch’io ormai preferisco pensare ad altro, a guerra finita avrò qualche imbarazzo. Ma non siamo più in quel tipo di guerra che dopo un po’ finisce.
23 agosto 1927 – A Boston, Massachusetts, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono giustiziati per aver ammazzato un contabile e una guardia giurata. Esattamente 50 anni dopo (23 agosto 1977) il governatore del Massachusetts, li proclama innocenti. Meglio tardi che mai. Ma c’è ancora chi non si rassegna…
Alle 23,40 (ora americana) i personaggi ufficiali ed i testimoni sono entrati nella parte del carcere riservata ai condannati a morte. Poco dopo, la triplice esecuzione aveva luogo. Alle 0,9 minuti (ora americana) Madeiros, che aveva preso posto per primo sulla sedia elettrica, è stato dichiarato morto. Alle 0,19 Sacco era a sua volta giustiziato; e per ultimo Vanzetti, alle 0,26. La tragedia è compiuta. Dopo sette anni dalla sentenza di condanna a morte, pronunziata senza che la loro colpevolezza, nel delitto a essi ascritto, fosse menomamente provata, Sacco e Vanzetti sono stati elettresecutati. La barbarie della parola s’adegua alla barbarie del tatto. E la nostra coscienza di uomini civili, la nostra coscienza romana e cristiana ed europea, ha avuto un sussulto, ha subito un’offesa non facilmente dimenticabile. (“La Stampa”, 23 agosto 1927).
Se fosse un agosto qualsiasi – se non ci fosse una guerra in Europa e un’altra guerra in Medio Oriente che parla fin troppo europeo – e il cambiamento climatico – e la mancata ripresa – se insomma fosse uno di quegli agosti in cui il problema dei redattori è come riempire una dozzina di pagine senza annoiar troppo il lettore sotto l’ombrellone – potremmo facilmente scommettere sulla riapertura del caso Sacco-Vanzetti da parte di qualche testata di centrodestra.
I dettagli sono sempre gli stessi: malgrado lo Stato del Massachusetts abbia formalmente e solennemente scagionato i due italiani (cinquant’anni dopo averli inceneriti), qualche indizio di colpevolezza continua a trascinarsi. La confidenza raccolta da Carlo Tresca, uno dei promotori delle manifestazioni pro-Sacco-e-Vanzetti, che riteneva in cuor suo che il primo fosse colpevole e il secondo complice. E la perizia balistica del 1961, che afferma che fu la colt di Sacco a sparare il colpo che uccise il custode Alessandro Berardelli. Storie arcinote che possono vivacizzare una discussione da spiaggia ma non sarebbero sufficienti a riaprire un processo: la versione di Tresca è solo una delle tante che fornì, quando aveva preso le distanze dalla frazione anarchica in cui avevano militato i due martiri; la stessa “colt di Sacco” potrebbe anche non essere davvero quella di Sacco (la polizia ebbe molto tempo a disposizione per sostituirla).
In questa situazione – in cui Sacco e Vanzetti sono contesi da avverse tifoserie, interessate più a manifestare le proprie convinzioni immutabili che a sapere come siano andate davvero le nude cose – può essere spiazzante rileggersi i fascistissimi quotidiani del tempo e scoprire che i due anarchici erano visti come martiri. Forse non tutti sanno che… Mussolini aveva iniziato a chiedere alle autorità USA una revisione del processo sin dal 1923, quando era ancora un presidente del Consiglio con la bombetta. Quattro anni dopo – in luglio – ancora scriveva all’ambasciatore americano di intercedere presso il governatore del Massachusetts. Può darsi che nei due espatriati nei guai, Mussolini riconoscesse una copia sfortunata di sé stesso, socialista rivoluzionario spiantato in Isvizzera. Ma la posta in gioco era più alta: recuperare il rispetto e la fiducia degli italiani nel mondo, anarchici compresi. Distogliendo l’attenzione da chi stava espatriando proprio per fuggire dal fascismo e dai suoi manganelli, additando un nuovo avversario contro cui fare fronte comune: un’America meccanica, brutale torturatrice:
C’è un immenso mare tra noi e l’America, un oceano d’abissali profondità e con procelloso cielo: quell’oceano che hanno varcato, iniziando un’era nuova all’umanità, le tre caravelle di Colombo; quel cielo che hanno rivarcato le sportive ali di Lindbergh. Ma tra noi e giustizieri del Massaciussetts c’è anche qualche cosa di più di quel mare, e col suo cielo, che ci separa, che ci distacca: ci sono i millenni di civiltà, di esperienza storica, di raffinamento etico e di ascensione spirituale, che noi portiamo, glorioso carico di memorie e nobiltà collettiva, che noi abbiamo infusi nel sangue azzurro delle nostre pure razze, e che mancano totalmente alla gente dell’altra sponda, gente nuova, di varie origini, che nella gara del progresso si scaglia come a un arrembaggio. Tra noi e loro quindi permane — e non potrebb’essere diversamente — un’incomprensione fondamentale. Questo di Sacco e Vanzetti, non è che un episodio, orrendo ma limitato: al di là dell’episodio, e che di tanto lo sopravanza, il dissidio, tra la civiltà morale della vecchia Europa e la civiltà prevalentemente meccanica della giovine America, spalanca voragini, che ci paiono incolmabili. Le due vittime d’oggi sono, in fondo, vittime di tale incomprensione, di tale stato di cose. A noi Europei, a questo nostro ancestrale e sperimentato senso giuridico e sociale, è parso enorme, inammissibile, perché contrastante con l’elementarità del diritto penale, quale noi l’intendiamo, il supplizio inaudito inflitto a due uomini, di tenerli di fronte alla condanna capitale per sette anni di sèguito, di fare a essi, per sette anni, d’ogni giorno la vigilia mortale. Poiché la pena non è, e non può essere, se civilmente intesa, una tortura per il condannato, in espiazione della sua colpa, sibbene deve costituire un ammonimento e un preservamento sociale; s’intende che essa mantenga sempre, pur nelle sue forme di massima severità, nelle graduazioni estreme, e in quella stessa, oltre la quale più nulla si concepisce, dell’esecuzione capitale, mantenga carattere e aspetto di ineccepibile, superiore equanimità, e che nulla mostri di spietato o di feroce; e s’intende insieme che essa, qualsisia, segua immediatamente la sentenza che la decreta: che, se no, perde d’efficacia educativa, o, come nel caso presente, si trasforma in una altrettanto vana quanto feroce rappresaglia, e diventa quindi altrettanto immorale, altrettanto antigiuridica e antisociale, che il delitto. Noi Europei inoltre siamo troppo saturati d’esperienza troppe volte secolare, per non temere, raccapricciando, degli errori, cosi facili alla pratica umana della giustizia; ed escludiamo in modo assoluto che sia applicabile l’irreparabilità d’una condanna capitale in ogni caso in cui la colpevolezza dell’imputato non sia più che convincentemente, esaurientemente provata. (“La Stampa”, 23 agosto 1927).
Che belle parole. Nella stessa prima pagina si informa il lettore che “dopo l’esame e l’approvazione da parte del Capo del Governo del testo del progetto del nuovo Codice penale[…] È punito, secondo la legge italiana, il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico che sia contro la personalità dello Stato. Agli effetti di questa disposizione è delitto politico ciò che offende un diritto o interesse pollice dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. Nei titolo 2.0 sono contemplate le pene, che sono distinte in principali e ‘accessorie. Le pene principali stabilite per i delitti sono: la morte, l’ergastolo, la reclusione, la multa. Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto e l’ammenda. La pena di morte si esegue menante fucilazione nell’interno di uno stabilimento penitenziario o in altro luogo designato dal giudice”. E ancora: In conformità con queste leggi il nuovo Codine stabilisce la pena di morte per chiunque commetta un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato: per chiunque commetto un fatto diretto a disciogliere l’unità dello Stato o a di staccare dalla madre patria una colonia o parte del territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità; per chiunque attenti alla vita o alla incolumità o alla libertà persona le del Re o del reggente, della Regina e del Principe Ereditari; per chiunque attenti alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Capo del Governo. È anche punito colla pena di morte il cittadino che, rivestendo un comando superiore o una funzione direttiva nell’Esercito Italiano, porti le armi contro lo Stato o presti servizio nell’esercito di uno Stato in guerra con lo Stato Italiano.
Quest’ultimo comma credo si sarebbe ritorto su Mussolini una volta che provò a camuffarsi da tedesco (nella stessa pagina scopriamo tra l’altro che “chi inciti a pratiche contro la procreazione” sarebbe stato punito con un anno di reclusione; cinque anni invece a “chiunque si renda colpevole di relazioni omosessuali”).
I ladri fotografati mente si portano via l’Urlo in pieno sole.
22 agosto 2004 –falsi pompieri rubano una versione dell’Urlo di Munch da un museo di Oslo. Non è neanche la prima volta. Sarà ritrovato due anni più tardi.
Definito da Arthur Lubow “la Gioconda dei nostri tempi”, l’Urlo di Munch ha in comune anche la complicata questione dell’originalità: non esiste ‘un’ Urlo, ma almeno quattro versioni d’autore, tutte considerate originali. Persino il furto dell’Urlo, dieci anni fa, non è originale: nel ’94 un’altra copia era sparita dieci anni prima, sostituita da un biglietto in cui si ringraziava la galleria nazionale di Oslo per la scarsa sorveglianza. Due anni fa una versione a pastello è stata battuta da Sotheby’s per 119 milioni di dollari; solo un Francis Bacon è stato venduto a un prezzo più alto. Attualmente quell’Urlo è la decima opera d’arte al mondo per quotazione, in una classifica guidata dai giocatori di carte di Cézanne, dove la Gioconda neanche compare (non c’è più nessun maestro del Rinascimento: tutti spodestati a partire dagli anni ’80). A proposito, quanto costa la Gioconda?
Difficile dirlo. L’ultima volta fu assicurata per cento milioni di dollari (durante il tour americano del 1962, in cui incontrò anche Kennedy – i Beatles due anni dopo non fecero in tempo). Tenuto conto dell’inflazione, oggi sarebbero 780 milioni, più del doppio del quadro di Cézanne. Ma è una cifra senza senso: l’assicurazione non è stata rinnovata. Il Louvre ha ritenuto preferibile investire in sicurezza. Peraltro, a questo punto l’oggetto è diventato talmente iconico che persino un mitomane, un terrorista o qualsiasi Etostrato non potrebbe che distruggerne l’involucro esteriore, quella fragile tavola di legno che è destinata a deteriorarsi comunque nel giro di qualche secolo. L’immaginario collettivo non ci perderebbe nulla: l’immagine ormai è fissata in miliardi di terabyte che saranno nella nuvola finché ci sarà un’umanità interessata a questo tipo di cose. Anzi, una fine tragica renderebbe l’icona ancora più indelebile nelle nostre coscienze. Anche il Louvre in realtà non avrebbe che da perdere un quadro molto complicato da gestire e custodire: la fila che oggi si forma davanti al capolavoro si sbrigherebbe a trovare qualche altra opera-feticcio; non è che la gente abbia smesso di andare a NY perché non ci sono le due torri (tutto il contrario, direi). Insomma Monna Lisa a levarsi di mezzo ci farebbe quasi un piacere.
E poi magari a quel punto salterebbe fuori l’originale.
“30 are better than one” (Andy Warhol)
D’accordo, ormai si è convenuto che non esiste un ‘originale’. Esiste un’idea nella testa di un artista perennemente insoddisfatto, che si porta con sé un quadro per molti anni modificandolo in continuazione: non per arrivare a un risultato finito, ma perché l’opera deve rimanere aperta come la vita. Poi l’artista muore, e l’opera non-finita diventa quella che tutti conosciamo come originale. Non corrisponde necessariamente all’ultima idea di Leonardo sulla Gioconda – sempre ammesso che l’ultima sua idea ci debba interessare più di quelle che aveva da giovane: coi musicisti e gli scrittori non funziona così, spesso preferiamo le versioni giovanili. Senz’altro se confrontiamo una dozzina di copie d’autore, la Gioconda del Louvre spicca: non per la conservazione (molti dettagli sono spariti, ad es. le sopracciglia che Vasari aveva pur visto), non per la finitezza, e allora per cosa? Siamo completamente sicuri di preferire la Gioconda del Louvre perché è migliore di quella del Prado o di Baltimora, e non perché corrisponde alla nostra idea interiore di Gioconda – che perlappunto è modellata sulla Gioconda del Louvre? Cosa vogliamo vedere quando vediamo Monna Lisa Gherardini del Giocondo? Un ritratto enigmatico su uno sfondo etereo e straordinario, o più semplicemente una faccia nota che ci conforti, che ci faccia sentire a casa anche quando ci avventuriamo nelle foreste sconosciute delle gallerie d’arte?
E se Peruggia avesse cambiato le carte in tavola, esibendo agli esperti fiorentini una copia d’autore diversa da quella che aveva trafugato al Louvre? Se i due anni tra il furto e l’arresto non li avesse trascorsi in cenette romantiche con la Gherardini, ma in attesa di contattare un collezionista in grado di fare uno scambio del genere? Qualcuno già in possesso di una copia molto buona della Gioconda, tuttavia ritenuta imperfetta perché… mal conservata, senza sopracciglia, senza balaustra e colonne. E’ un’ipotesi da blog d’agosto, e però pensateci: questo spiegherebbe l’apparente dabbenaggine con cui Peruggia si fa arrestare: i soldi veri non sperava certo di farli a Firenze; magari li aveva già messi da parte in Svizzera per la famiglia. Non restava che fare il matto patriottico e portar pazienza un paio d’anni.
Geri e Poggi si rendono conto subito di avere per le mani un’opera eccezionale: ma possono essere sicuri che sia davvero quella trafugata al Louvre due anni prima? Le foto in bianco e nero e i quadri a colori ci mostrano un dipinto che potrebbe essere una qualsiasi delle Gioconde disseminate nelle collezioni d’Europa e America. Non è nemmeno facile capire se ci fossero le colonne o no. Alcune Gioconde (come quella del Prado) le mostrano ai bordi estremi del quadro. La Gioconda ritrovata a Firenze proprio non le ha, né è possibile che siano state tagliate in un secondo momento.Però le aveva la Gioconda di Reynolds, quella che dovrebbe essere stata dipinta a Parigi. Perché aggiungere le colonne, se l’originale del Louvre non le ha?
A meno che… a Parigi non fosse esposta un’altra Gioconda. Quella versione sulla quale già il segretario dell’Académie aveva espresso i suoi dubbi a Reynolds – e non sono considerazioni che si buttano lì a cuor leggero. Forse Peruggia trafugò quella, e poi la scambiò col collezionista che possedeva la versione mal conservata, senza sopracciglia, che oggi è diventata la Gioconda iconica che tutti riconosciamo. Quel collezionista avrebbe fatto l’affare peggior della Storia – e Peruggia sarebbe il più grande ladro di tutti i tempi.
E poi ovviamente c’è lo scenario “inside job”. Possibile che Peruggia riesca a uscire dal Louvre con un capolavoro in un cappotto senza che nessuno sospetti di nulla? Svegliaaaa! Metti che al Louvre avessero due versioni. E’ uno spreco, no? Si inscena il furto, si mette in commercio una delle due versioni (magari è una delle copie spuntate qua e là nel corso del secolo), e dopo un paio d’anni si ritrova l’altra – per il rocambolesco avvenimento, quale scenario migliore di Firenze? Risultato: tanta pubblicità, e qualche milione di franchi in cambio di un quadro che a Parigi sarebbe stato soltanto un doppione – mentre i visitatori vogliono l’Esperienza Unica. Non era ancora arrivato Andy Warhol a spiegarci che 30 gioconde “are better than one”…
La prima reazione è uno choc. La Gherardini ringiovanita sembra uscire da una copertina di Visto: come se, esasperata da un secolo di speculazioni sul suo stato di salute (alta glicemia, bruxismo, ecc.) avesse optato per una plastica facciale. Salvo che nessuno riesce a farle così bene. La seconda è un tentativo di esorcizzare un’idea che stravolge tutto quello che sai di un’opera che credi di riconoscere: chi è il folle collezionista che a un certo punto ha deciso di commissionare la versione ringiovanita di un capolavoro? E, viste le premesse di dubbio gusto, com’è possibile che il risultato sia così convincente?
La chiave sta nei dettagli – le colonne, in questo caso. Un falsario non le mette: un allievo di Leonardo sì, perché anche Leonardo in un primo momento ce le aveva messe (Vasari vide colonne e balaustra in una delle versioni più antiche). Le mani sono leggermente più scure del volto, come capita spesso nei suoi ritratti. Anche a non voler dare troppo credito alla perizia di parte che afferma che la tavola è del primo Cinquecento, rimane l’evidenza: la Mona Lisa ritrovata nel primo dopoguerra da un collezionista inglese in una placida villa del Somerset non è un tentativo meccanico di ringiovanire un soggetto adulto. L’ipotesi inversa – che Leonardo abbia cominciato il ritratto molto presto, e lo abbia sottoposto a continue modifiche – combacia viceversa con alcune cose che sappiamo di lui (la sua abitudine a non lasciare mai nulla di finito) e altre che abbiamo cominciato a raccontarci: la Gioconda come ritratto della madre o addirittura autoritratto dell’autore. Forse, più semplicemente, Leonardo sentiva il quadro talmente suo che decise che sarebbero invecchiati assieme. Questo spiegherebbe anche l’evanescenza del velo nella versione del Louvre, dove se non state attenti nemmeno lo notate: nella Gioconda giovane non c’è, ma se decidi di farla crescere devi mettercelo per forza: solo le donne di malaffare posano coi capelli sciolti e scoperti (e senza un anello al dito).
Ce l’ho mica scritto in fronte
2. Gioconda del Prado.
Se ne stava placida da secoli in uno scantinato del museo di Madrid, la classica copia d’autore di fattura pregevole ma di scarso interesse. Finché qualche anno fa qualcuno ha pensato di dare un’occhiata seria sotto lo sfondo nero, che fino ad allora sembrava l’ammissione di inferiorità di un falsario negato coi paesaggi. E’ saltato fuori che sotto la mano settecentesca di nero c’era un paesaggio straordinario, non del livello dell’originale, ma meglio conservato: e databile nel primo Cinquecento (le colonne ci sono ancora, benché relegate all’estremità della tela). E’ di Leonardo? La pennellata ci dice di no, manca lo sfumato. La riflessografia però ci dice che il pittore, che lavorava su tela, ebbe fino a un certo punto gli stessi ripensamenti che Leonardo nascose nella tavola. La Gioconda del Prado dunque sarebbe stata dipinta in contemporanea con l’originale – qualcuno si è anche ingegnato a calcolare l’angolo tra i due pittori, rispetto al soggetto. Forse l’unico modo di non rinunciare all’originale era lasciare dietro di sé qualche buona copia che testimoniasse una o più tappe del work in progress (e che si poteva anche smerciare facilmente). Il sorriso della Gioconda del Prado ha una sfumatura ironica che risalta se la accosti all’originale. Sembra dire: io? La Gioconda? Ma figurati.
21 agosto 1911– Vincenzo Peruggia, se gli vogliamo credere, esce dal Louvre dove ha passato la nottata. Sotto il cappotto porta una tavola di Leonardo da Vinci che non è ancora il dipinto più famoso del mondo, ma grazie a lui lo diventerà. E se non fosse, davvero, l’originale di Leonardo da Vinci? Due anni dopo l’affare era ormai archiviato. Poliziotti e gendarmi avevano interrogato chiunque, perquisito dappertutto. Era stato sospettato persino il giovane Pablo Picasso; si era fatto una notte in cella anche il povero Apollinaire per quella sua tirata futurista sui musei da sventrare – ma anche per le accuse di un’ex, mitomane e piuttosto vendicativa. Niente, nessuno ne sapeva davvero niente, e la Gioconda non c’era più. Chissà dove se n’era volata. Che dire: cose che capitano – no, in realtà no, c’è una prima volta di qualsiasi cosa, e il furto della Gioconda fu il primo grande colpo in un museo pubblico. Evidentemente la sicurezza era un po’ da ripensare. Fino a quel momento si era probabilmente pensato che certe opere si difendessero da sole: chi mai avrebbe pensato di procurarsi illegalmente un Leonardo originale? Erano ancora begli oggetti che meritavano di essere visti anche a costo di lunghi viaggi e costosi – tanto più che le riproduzioni stampate non potevano assolutamente reggere il confronto con l’originale. Proprio per questo motivo, non c’era ancora la necessità di trasformarli in qualcos’altro: in simboli, cifre, capolavori ineffabili.
Non c’era nemmeno bisogno di esorcizzare il senso di delusione che provi quando arrivi lì e scopri che l’opera è esattamente come l’hai vista su un buon libro – e dunque qual è il senso di tutto il tuo viaggio? Il senso è che ora, davanti all’originale, stipato con centinaia di altre persone sbuffanti e sudanti e probabilmente altrettanto deluse, tu dovresti provare una qualche straordinaria emozione che valga il biglietto dell’aeroplano e l’albergo e tutto quanto. Qualcosa di sovrumano che se spingi magari sentirai davvero – dipende anche da cos’hai mangiato e quando, e da quanto tempo sei in fila e se fa caldo. La sindrome di Stendhal non era ancora stata diagnosticata – l’omonimo scrittore in fin dei conti accennava solo a un vago batticuore che può venire a chiunque, non a uno stato di alterazione della coscienza descritta dalla psichiatra Graziella Magherini nel 1979. La Gioconda era già riconosciuta come un capolavoro (“la miglior opera di Leonardo al Louvre”, secondo qualche guida ottocentesca), ma non era protetta da un vetro anti-esplosioni in una stanzetta tutta sua. Un quadro di qualche anno prima ce la mostra in fila in mezzo ad altre opere pregevoli, che accostate in poco spazio suggeriscono quella sensazione di angoscia che rende faticosi ancora oggi tanti altri corridoi del Louvre: troppa arte, troppa bellezza e tu non hai abbastanza tempo, abbastanza spazio, abbastanza gusto. In quel corridoio si era fermato anche Coupeau, il personaggio dell’Assommoir di Zola che trovava Monna Lisa somigliante a una sua zia.
A un certo punto misero una cornice vuota (la vide Kafka in gita).
A strappare la Gioconda dal suo rango di capolavoro tra capolavori, a trasformarla nella prima superstar dell’arte-nell’era-della-sua-riproducibilità-tecnica, fu Vincenzo Peruggia. Un artista anche lui, a suo modo – qualcuno l’avrà già scritto. Due anni dopo, quando ormai il posto vuoto della Gioconda era stato preso dal Baldassar Castiglione di Raffaello, a Firenze il collezionista Alfredo Geri riceve una lettera firmata da un misterioso “Monsieur Léonard V”, che sostiene il quadro è nelle sue mani, ma non gli appartiene: infatti “appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano“. Léonard è pronto a cederlo a un museo italiano: si accontenterebbe di cinquecentomila lire (cifra abbastanza considerevole ai tempi) per “le spese”. Incuriosito, Geri fissa un appuntamento in un albergo e si porta con se Poggi, il direttore degli Uffizi. Mal che vada smaschereranno un falsario. Invece si ritrovano davanti la tavola originale. Chiedono a Peruggia di aspettare fuori, e Peruggia esce a spasso. Questo è l’unico dettaglio che mi fa sospettare davvero che non fosse del tutto a posto: lo arrestano poco dopo. Confesserà subito. E’ un decoratore di Luino, affetto da saturnismo, malattia professionale di chi lavora a contatto con vernici a base di piombo. Due anni prima aveva lavorato in un cantiere del Louvre: una sera aveva deciso di nascondersi in uno sgabuzzino. Sapeva come smontare la teca della Gioconda perché l’aveva montata lui stesso. Era già stato indagato, e la sua casa perquisita: ma la police non aveva trovato il cassetto segreto della sua tavola di cucina, costruito appositamente per nascondere il capolavoro. Racconterà di aver passato serate assai “romantiche”, cenando tête-à-tête con Monna Lisa Gherardini. Alla lunga tuttavia il suo sorriso sfuggente doveva essergli venuto a noia – esattamente com’è successo a noi, dopo averlo visto migliaia di volte e sempre di sfuggita. Ma Peruggia è stato all’avanguardia anche in questo: nell’annoiarsi di un capolavoro. Divenne una celebrità, il che forse non aveva previsto. Al processo fu ben consigliato: cercò di coprire la sua richiesta di riscatto sotto il movente patriottico. Raccontò la sua rabbia nell’aver letto su un opuscolo quante e quali opere del Louvre erano bottino di guerra di Napoleone; da cui la decisione di riportarne a casa almeno una. In realtà la Gioconda non era stata sottratta da Napoleone (che tuttavia per un periodo se l’era fatta mettere in salotto; poi forse si era annoiato anche lui). In Francia, molto prima della rivoluzione, l’aveva portata Leonardo stesso, invitato a corte da Francesco I. Non importa: Peruggia aveva scelto la Gioconda perché era comoda, gli entrava nel cappotto. Diventò per la stampa italiana una specie di eroe, proprio mentre si fingeva matto, e uno psichiatra piuttosto accomodante lo metteva nero su bianco in una perizia per il processo.
Psichiatra: Su un albero ci sono due uccelli. Se un cacciatore spara ad uno di essi, quanti ne rimangono sull’albero? Peruggia: Uno! Psichiatra: Deficiente! [l’altro sarebbe scappato, ndb].
La sigla in francese sta per “Ha caldo al culo”.
Persino l’opinione pubblica francese guardò al matto italiano con una certa simpatia – i francesi sono incredibili in questo, sessant’anni prima erano riusciti a riconoscere l’eroismo nelle bombe di Felice Orsini – e poi quel che importava è che la Gioconda fosse salva. Il Louvre acconsentì addirittura a un tour italiano, prima agli Uffizi, poi a Palazzo Farnese, poi alla Galleria Borghese. Infine un bel viaggio in treno via Modane: e una volta a Parigi, un ricevimento nel salon carré col Presidente e tutti i membri del governo. Un simile trattamento non era mai stato riservato a nessun quadro. La Gioconda era diventato il primo feticcio dell’era moderna – come capì al volo Marcel Duchamp pochi anni dopo, esponendo una cartolina con pizzo e baffetti. Non era stato il primo a giocare col quadro (anche Peruggia a suo modo era stato un precursore), ma il modo in cui gioca con l’immagine tradisce una consapevolezza nuova: la Gioconda non è più semplicemente un bellissimo quadro: è un’immagine nota e arcinota, il frammento di qualcosa che appena vent’anni prima ancora non esisteva: un immaginario collettivo fatto di riproduzioni in bianco e nero o a colori, cartoline, illustrazioni, vignette. Qualcosa che tutto il mondo conosce anche se non si ferma mai ad ammirarlo davvero – al punto che è disposto a pagare un biglietto costoso, e fare una lunga fila inutile, per togliersi dagli occhi il cliché arcinoto e cercare di recuperare la sensazione del viaggiatore pre-moderno, che apre gli occhi su qualcosa di mai visto prima.
Rimane un dubbio estivo.
Quella che tutti andiamo a vedere al Louvre – perché non ci fidiamo delle nostre sensazioni quando la troviamo su un catalogo o in un video sul rinascimento – è la Gioconda originale. Non nel senso che l’ha dipinta Leonardo – potrebbe aver messo mano anche ad altre versioni dello stesso soggetto – ma nel senso che è proprio quella che ha rubato Vincenzo Peruggia: quella che di conseguenza è diventata più famosa di qualsiasi altra, e riprodotta in centinaia di foto a colori che conosciamo a memoria e che ci confermeranno, una volta al Louvre, di trovarci di fronte all’originale. Dunque è così: Peruggia è il vero autore postmoderno di quel meta-oggetto che chiamiamo Gioconda e che sta al Louvre (e dentro di noi, nel nostro inconscio collettivo nutrito di immagini sin dalla più tenera età).
Ma se ci sbagliassimo tutti? Se la Gioconda che conosciamo noi non fosse la ‘vera’ Gioconda? (continua…)
20 agosto 1940 – Lo zio di Christian De Sica rompe la testa di Leo Trotsky con una picozza. Per quanto tu ti possa abituare all’idea – e hai una vita intera per abituartici – alla fine la morte sa sempre sorprenderti. Il caso di Trotsky ha dell’incredibile. Nella primavera del 1940 era persuaso di non avere più molto tempo davanti a sé. A impensierirlo, ancor più degli agenti di Stalin, era la pressione alta. In febbraio aveva scritto un bel testamento, insolitamente stringato, a cui a marzo volle aggiungere un poscritto meno famoso ma suggestivo:
La natura della mia malattia (una pressione alta e in costante aumento) è tale – per quel che ho capito – che la fine verrà molto probabilmente (ancora una volta, questa è la mia ipotesi personale) attraverso un’emorragia cerebrale. Questa è la fine migliore che mi possa augurare. È possibile, tuttavia, che io sia in errore (non ho alcun desiderio di leggere libri sull’argomento e, naturalmente, gli specialisti non mi direbbero la verità). Se la sclerosi dovesse assumere un carattere prolungato e fossi minacciato da una lunga invalidità (al momento sento, al contrario, un impulso di energia spirituale, a causa della pressione alta, ma questo non durerà a lungo), mi riservo il diritto di stabilire il tempo della mia morte. Il ‘suicidio’ (se tale termine è appropriato in questo contesto) non sarà in alcun modo l’espressione di uno sfogo di sconforto o disperazione. Natascia e io ci siamo detti più di una volta che si può arrivare ad una condizione fisica tale che sarebbe meglio tagliare corto con la la propria vita o, più correttamente, con un processo di morte troppo lento… Ma qualunque siano le circostanze della mia morte, morirò con la fede incrollabile nel futuro comunista. Questa fede nell’uomo e nel suo futuro mi dà già ora una forza di resistenza che non può essere data da qualsiasi religione.
Quest’ultima frase stonerebbe in bocca a chiunque non fosse resistito a tre confini, decine di detenzioni, al comando supremo dell’Armata Rossa durante la guerra civile, al fallimento della rivoluzione permanente e alle epurazioni di Stalin. E però con tutta la sua forza di resistenza, Trotsky non poteva impedirsi di constatare il proprio decadimento fisico. Determinare in modo razionale il tempo della propria morte sarebbe stato un altro successo organizzativo – ma sul piano della propaganda si rischiava di lasciare un brutto messaggio, quasi come darla vinta a Stalin. L’esitazione di Trotsky assomiglia alla nostra ogni volta che ci poniamo il problema: è un diritto togliersi la vita? Ogni volta che succede a una persona che ammiravamo siamo tentati di scrivere da qualche parte di sì: certo che è un diritto. Inalienabile. E poi ci viene in mente che rischiamo di incitare indirettamente qualcun altro a prenderselo, quel diritto. E non vorremmo proprio. E allora cambiamo argomento. Al Trotsky sull’orlo del suicidio – ma non della disperazione, come ci teneva a farci presente – la primavera sta apparecchiando sorprese non buone. In una notte di maggio un commando circonda il suo compound messicano sforacchiandolo con centinaia di proiettili. Per puro caso nessuno della famiglia riporta ferite serie. Sparisce però un uomo della sua affezionata guardia del corpo, l’americano Robert Sheldon Harte. Troveranno il suo corpo qualche miglia più in là, sul sentiero del deserto, freddato da un colpo alla testa. Sulla sua targa commemorativa Trotsky farà scrivere “ucciso da Stalin”. Ma Harte probabilmente era il doppiogiochista che aveva mostrato all’agente sovietico Iosif Grigulevich e al pittore David Alfaro Siqueiros la strada per il compound di Trotsky. Poi qualcosa era andato storto, Harte forse si era illuso che Siqueiros e il russo non intendessero davvero ammazzare Trotsky; forse aveva dato indicazioni imprecise – grazie alle quali sia Trotsky che il suo prezioso archivio si erano salvati – ma il commando aveva preso la decisione di giustiziare Harte.
Due settimane dopo Trotsky pubblicò la sua prolissa versione dei fatti con un titolo che non voleva lasciare il minimo spazio all’interpretazione: STALIN MI VUOLE MORTO. E a Stalin questa soddisfazione Trotsky non intendeva darla. Il guaio è che continuava a fidarsi di troppa gente. Non poteva evitarlo; era sempre stato un solitario, per temperamento e per la tendenza inveterata a farsi espellere o internare, ma non poteva sottrarsi più di tanto a quella rete di contatti che stava nascendo intorno alla sua neonata e fragile Quarta Internazionale. Il ragazzo che 74 anni oggi gli spacca la testa con una picozza gli è stato presentato da un’amica di Parigi, Sylvia Ageloff. Questa lo ha conosciuto alla Sorbona: si chiama Tony Babich, ma anche Frank Jackson, ma anche Jacques Mornard. A Sylvia – con cui ha una storia da due anni – ha spiegato di essere figlio di un diplomatico belga, e che i passaporti contraffatti canadesi gli servono per evitare il servizio militare. Nel 1939 si trasferisce per affari a Città del Messico con la mamma, e invita Sylvia a raggiungerlo là. Poi la convince a farsi presentare il grande Trotsky – dai, tu lo hai conosciuto, no? Per favore, quando mi ricapita, scrivigli che c’è un belga canadese che ha una grande stima di lui e vorrebbe stringergli la mano. Nel giro di poche settimane Tony riesce a entrare nelle grazie di Trotsky – quel che basta per poter penetrare nella sua residenza senza che nessuno gli trovi una picozza da alpinismo nella tasca della giacca. Succede il 20 agosto: la leggenda vivente sta leggendo il giornale nel suo studio. Tony prende l’arma impropria, si avvicina, chiude gli occhi e lo colpisce più forte che può.
Trotsky non muore.
Si avventa sul suo assassino, urla, chiama rinforzi. Fa ancora in tempo a dire che vuole Tony vivo, vuole interrogarlo. Poi si lascia portare in ospedale. Morirà il giorno dopo. Non prima di aver dettato al segretario del Partito Socialista Operaio Americano le ultime parole, accuratamente scelte: “Non sopravviverò a questo attacco. Stalin ha infine ottenuto il risultato già fallito in precedenza”.
Trotsky che si aspettava da un momento all’altro un esplosione di sangue nel cervello, e si era preparato, di fronte a una picozza salta e strepita e combatte. La morte in un qualche modo ti sorprende sempre.
Tony-Frank-Jacques passerà molte anni nelle carceri messicane, sostenendo di chiamarsi Jacques Mornard e di aver ucciso Trotsky perché non gli permetteva di sposare la povera Sylvia (quest’ultima sarà completamente scagionata). Ci vorrà un po’ di tempo per identificarlo: si chiamava Jaime Ramón Mercader del Río, era un agente spagnolo dell’NKVD sovietico. Sua madre – l’attrice Eustaquia María Caridad – aveva praticato prima di lui un po’ di spionaggio durante la guerra civile spagnola. Poco dopo l’assassinio di Trotsky, Stalin l’avrebbe insignita dell’Ordine di Lenin. La sorellastra di Ramón, anch’essa attrice, due anni dopo avrebbe incontrato Vittorio De Sica. Si sarebbero sposati soltanto nel 1959. Ramón uscirà di prigione l’anno successivo, per riparare a Cuba. Nel 1961 gli sarà riconosciuto il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica.
19 agosto 1964– muore Ardengo Soffici, pittore, scrittore, futurista, fascista, e tante altre persone. Soffici ci lasciava 50 anni fa, troppo presto sia per far dimenticare il suo fascismo seminale, sia per cogliere i frutti della rivalutazione del futurismo. Come pittore poi si è difeso bene, i suoi papier collés e le sue angurie sono passaggi obbligati in qualsiasi mostra futurista che si rispetti. Molto meno conosciuto resta il Soffici scrittore, ma se in generale abbiamo smesso di leggere non è proprio colpa sua. Lui in effetti ha precorso i tempi anche in questo, scrivendo testi leggerissimi che sembrano pensati per il lettore svagato e distratto del secolo XXI. Figlio di borghesi rovinati, scappato a Parigi a vent’anni, Soffici si ritrova quasi per caso al centro dell’esplosione artistica che inaugura il secolo. Tra i primi italiani a leggere Rimbaud, a scambiare due chiacchiere con Picasso o Apollinaire, Soffici torna nella casa materna di Poggio a Caiano (FI) nel 1907. L’intuizione è buona: in Francia era un illustratore tra tanti, in Italia è in anticipo di una generazione – al punto che nel 1911 si permette di stroncare la prima esposizione futurista: “sciocche e laide smargiassate di poco scrupolosi messeri”.
Il seguito è noto: Marinetti, Carrà, Russolo e Boccioni prendono un treno per Firenze apposta per andare a picchiarlo. Lo trovano alle Giubbe Rosse (se lo fanno indicare dal subdolo Palazzeschi), e restano piacevolmente sorpresi dal fatto che Soffici risponda a pugni e schiaffi roteando il suo bastone da passeggio. Il giorno dopo addirittura si prende con sé Slataper e Prezzolini e li va ad aspettare in stazione. Nuova scazzottata, e poi tutti assieme in commissariato a firmare il verbale e discutere d’arte d’avanguardia. Sta per nascere il primo futurismo fiorentino, l’unico a non dipendere economicamente dalle ampie tasche del mecenate Marinetti. Il vero battesimo sarà Lacerba, la rivista che Soffici avvia all’inizio del 1913 in collaborazione con l’amico e provocatore Giovanni Papini – in sostanza è uno spin-off della Voce, l’amichevole scissione dei due vociani meno allineati al serioso verbo idealista. Mettendosi d’impegno a stroncare Croce, e con Croce tutti i filosofi, e gli scrittori, e i pittori – Papini e Soffici ottengono perfino un certo successo editoriale, conquistato a base di titoli roboanti (Contro la scuola! Amiamo la guerra!) e oltraggi al pudore e un insistito snobismo. Lacerba è la nonna di tutti i fogli di satira italiani. Gramsci nota che lo sfogliano persino gli operai torinesi, con un interesse non ricambiato.
Nel ’13 Soffici non è uno scrittore esordiente: tra le altre cose ha già dato alle stampe un torvo romanzo incompleto (Lemmonio Boreo) che comincia col racconto autobiografico del ritorno a casa dalla Francia e passa poi a descrivere un’esperienza di Strapaese con vent’anni di anticipo, seminando nel lettore il sospetto che il fascismo nasca proprio così, un virus francese apparentemente innocuo che a contatto col sottosviluppo culturale della provincia italiana si trasforma in qualcosa di micidiale. Ma è sulle colonne di Lacerba che Soffici, liberandosi di ogni preoccupazione sovrastrutturale, si reinventa scrittore en plein air: pubblica i suoi taccuini così come sono, un blogger nel secolo sbagliato. Ci lascia pagine ingiallite e piene di una vita che ci sembra più contemporanea della nostra.
Ormai è diventato famoso – e già lo accusano di far parte di una di quelle cricche o camorre culturali che qualche mese prima combatteva. Cominciano a piovere manoscritti di poeti che si ritengono geniali e si aspettano pronte risposte. Uno di questi lo perde tra altre scartoffie, tanto meglio, anzi no: era il primo manoscritto dei Canti Orfici.
Passa una stagione, passa un anno, ed è il 1914. Quando sparano all’arciduca e Austria e Germania fanno la prima mossa, Soffici non ha la minima esitazione. Il pittore che tutto deve ai francesi non può che schierarsi con la seconda patria attaccata a tradimento. L’artista che disprezza sia i filosofi tedeschi che la vecchia retorica dei socialisti non può che chiedere l’intervento contro gli imperi centrali. Lacerba diventa l’organo dell’interventismo più snob – è anche un modo per prendere le distanze da Marinetti, che vorrebbe usarla per pubblicare tutte quelle tavole parolibere illeggibili che impensieriscono di molto il tipografo Vallecchi. Alla fine Soffici e Papini (e Palazzeschi) si prenderanno il lusso di attaccare il futurismo da sinistra, accusando Marinetti di non essere futurista abbastanza. Nel mentre Soffici si sta improvvisando Apollinaire italiano, con un certo successo. Si permette persino di scippare a Marinetti le parole in libertà, scrivendo alcune delle più belle in assoluto nel leggendario volumetto Bïf§zf+18, (il titolo è affidato al caso: il sorteggio dei caratteri mobili che lo compongono è affidato alla linotype di Vallecchi. In anticipo su Dada, sul surrealismo, sulle poesie scritte al computer, sui generatori automatici e qualsiasi altra cazzata). Soffici è il primo a inserire veri e propri inserti pubblicitari nelle sue poesie – Palazzeschi nella Passeggiata gli aveva mostrato la via, ma Soffici li ritaglia e li appiccica sul foglio. Nemmeno i futuristi sono ancora pronti a tanto. Andy Warhol nascerà 13 anni dopo.
Siamo al ’15, la guerra comincia davvero. Altri ne approfitteranno per mettere in discussione le premesse dei loro entusiasmi giovanili. Soffici no. Per lui, come per il quasi coetaneo Marinetti, trovarsi in trincea a quasi 40 anni è un trucco per darla a bere all’anagrafe, una seconda giovinezza concessa agli audaci. I suoi taccuini al fronte (Kobilek, La ritirata del Friuli) sono pieni di voglia di vivere e vincere. “Se un giorno io dovessi ricevere un premio attestante il mio coraggio, vorrei che nella motivazione non si parlasse né di fatiche, né di pericoli affrontati, ma si scrivesse solo questo: «Fu allegro nella trincea del Kobilek».
A guerra finita – e non bene – Soffici non poteva che diventare fascista. In un certo senso lo era stato ben prima di conoscere Mussolini, col quale peraltro riuscì ad andare sempre d’accordo. In Friuli si era trovato una moglie; fece anche un po’ di carriera nei quotidiani importanti. Verso gli anni Quaranta covava ormai una certa disillusione, non nei confronti dell’ideale fascista, ma di come si stava realizzando nella prosa quotidiana. All’arrivo degli Alleati fu internato, prima di essere riconosciuto come un anziano pittore inoffensivo. Senz’altro ci sono scrittori meno imbarazzanti da ricordare. Ma Soffici, ogni volta che lo riapri, ti dà l’impressione di un parente lontano che al telefono sembra conoscerti in ogni tua cellula. La stessa velleità di mandare al macero l’Italia e rifarla in un fine settimana, di liquidare Croce e sostituirlo con due pensierini scritti in treno tra una galleria e l’altra. L’allegria con cui si va a morire – poi muoiono gli altri e tu torni a casa ti sposi e racconti che dai, poteva andare molto peggio. Soffici ci ha lasciato 50 anni fa. Non si direbbe.
(Continua la pubblicazione delle recensioni di Perceval Reginald Deafon, Esq (qui la prima parte), il prestigioso critico che per i tipi della blasonata Montly British Music Magazine ebbe il privilegio di recensire in anteprima tutti i dischi dei Beatles – stroncandoli uno per uno).
Revolver (Parlophone, 1966) Ed è giunto il momento di parlare di Beatles. Fosse per me avrei aspettato – avevo anche una scusa perfetta: per un disguido l’etichetta discografica mi ha consegnato una copia del loro nuovo album evidentemente non definitiva, con colpi di tosse, nastri montati al contrario e altri disturbi. Ma il direttore insiste, e d’altro canto è difficile immaginare che la versione definitiva sia molto migliore: magari bastasse togliere due colpi di tosse o un paio di nastri fuori posto per migliorare la situazione. So che qualche lettore non condivide il mio punto di vista, ma è un fatto che i Beatles non siano più rilevanti almeno da un paio d’anni. Ora che finalmente si interrompe il tour infinito che li ha trasformati in un prodotto di esportazione – a spese della genuinità – e si dirada la nebbia caotica della beatlemania, è facile accorgersi che quello che hanno iniziato nel ’62, oggi qualcun altro lo sta portando avanti con più coerenza e più ispirazione. Nell’anno in cui i Rolling Stones ci hanno regalato Aftermath, e oltreoceano i Beach Boys di Brian Wilson ci hanno sbalordito con Pet Sounds, che cosa ci offrono i quattro nuovi Membri dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico? Altre quattordici canzonette in cerca di interpreti più convincenti. La crisi d’ispirazione della premiata ditta Lennon/McCartney è tale che il pezzo d’esordio è del loro sodale, il giovane George Harrison: il quale purtroppo ha difficoltà a inserire più di un accordo nelle sue composizioni, e non sempre gli riesce di trovarne uno non dissonante. Il suo assolo di chitarra – se davvero è quello che ho sentito sulla mia copia del disco – sembra l’esercizio di un bambino con un elastico. A sua discolpa, Harrison sta raccontando l’episodio più traumatico della sua vita: la scoperta che anche i milionari pagano le tasse. Il resto del disco è meno inquietante; ci troviamo un po’ tutte le cose che ormai siamo abituati a trovare in un disco dei Beatles: il numero di McCartney coi violini (Eleanor Rigby), il numero di Harrison con il sitar (Love You To), quello di Lennon contro le donne che non lo apprezzano (And Your Bird Can Sing), la canzoncina su due note per il povero Ringo (Yellow Submarine) – sia detto fra noi, un onesto musicista che non meritava questo destino da clown (ma neanche i milioni di sterline che gli auguriamo di mettere da parte). È difficile stabilire se risulti più irritante la svogliatezza di John Lennon, incapace in certi casi persino di mantenere i quattro quarti in un brano di tre minuti, o la pretesa di McCartney di essere un autore poliedrico: ovvero di saper copiare nello stesso disco un po’ di Brian Wilson (Here, There and Everywhere), un po’ di Vivaldi, un po’ la Motown (Got to Get You Into My Life), un po’ l’ultimo successo che ha sentito in radio (l’avvocato dei Lovin’ Spoonful dovrebbe ascoltare con attenzione almeno Good Day Sunshine). Sospendo il giudizio sull’ultimo brano, che non ho potuto ascoltare: nella versione che mi è stata consegnata c’è solo una sequenza di rumori, alcuni dei quali registrati al contrario, e la voce drogata di John Lennon che mi propone di espandere la mia coscienza. Per quanto ne so la versione definitiva di Tomorrow Never Knows potrebbe anche essere un capolavoro, ma sarebbe l’unico dell’album. L’unico da due anni a questa parte. Non me ne vogliano i lettori se resto scettico.
The Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band (Parlophone, 1967) Come avrà intuito facilmente il lettore dalla siepe fiorita, i membri del gruppo del club dei cuori solitari del Sergente Pepper altri non sono che i quattro Beatles, reduci dalla loro prima debacle discografica (il singolo Penny Lane – Strawberry Fields Forever non è neanche arrivato primo in classifica), che con questo espediente pubblicano un disco minore, nel quale probabilmente sono i primi a creder poco – certo, l’idea di mascherarsi sarebbe venuta persino al sottoscritto, se avessi dei fans e se li avessi trattati male come hanno fatto i Beatles con le loro ultime uscite. I quattro ne approfittano per improvvisarsi orchestrina di vaudeville, con esiti che oscillano tra il fastidioso (il valzer di Lucy in the Sky), l’irrilevante (With a Little Help of my Friends) e lo stucchevole (When I’m 64). E poi che altro dobbiamo aspettarci? C’è il pezzo coi violini? C’è, più noioso del solito. C’è il numero col sitar? C’è, e non finisce mai. Prosegue nel frattempo la guerra tra John Lennon e i Quattro Quarti – questi ultimi ormai soccombenti in Good Morning. Il pezzo con cui termina l’album è uno strano patchwork di canzoni, cantato per lo più da un Lennon mai così lagnoso, costretto forse per mancanza di tempo a improvvisarsi un testo nonsense su una melodia insolitamente lugubre. Con questo piccolo disco di trovate che qualcuno definirà sperimentali, o come si dice adesso, ‘psichedeliche’, i Beatles si propongono a un pubblico che quest’anno ha già potuto ascoltare il capolavoro degli Stones (Between the Buttons), l’ottimo lavoro dei Kinks, (Face to Face); un pubblico che se avesse un po’ di curiosità potrebbe tuffarsi nell’incredibile Freak Out! dei Mothers of Invention. Un pubblico che invece ha deciso di accontentarsi di qualsiasi cosa gli preparino i Beatles, e che confidiamo riuscirà a mandare giù anche questo polpettone di avanzi. Tanto può il ricordo di quello che sapevano fare fino a qualche anno fa, prima di lasciare le scene e nascondersi dietro a maschere di cartone, o alle proprie statue di cera che Madame Tussaud ha graziosamente concesso per le foto di copertina (continua…)
18 agosto 1969 – Joni Mitchell partecipa a un programma televisivo, il Dick Cavett Show. Per andare in tv aveva rinunciato a partecipare nei tre giorni precedenti a un certo festival di Woodstock che poi, si scoprì, sarebbe diventato il concerto più famoso del secolo. Se ne pentì. Poi si pentì di essersene pentita.
(La sublime ironia di accettare un cachet per cantare For Free)
(Segue vecchio pezzo) Se c’è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l’evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D’altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell’universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d’oro… no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d’altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock’n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.
Ma non ci ha creduto a lungo. Due anni dopo, all’isola di Wight, un fricchettone sale sul palco e la interrompe proprio mentre canta We are stardust. Il manager lo prende a calci – il pubblico fischia Joni. Joni chiede il rispetto per l’artista, cioè per sé stessa. Non ci si bagna più nello stesso fango del pubblico, non gli si insegnano più i ritornelli. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. La versione di Matthews scala le classifiche nello stesso periodo.
La distanza tra le versioni di CYSN e della Mitchell è di pochi mesi. Eppure Matthews ha saputo metterci qualcosa che interpreti più conosciuti di lui non avevano ancora trovato. La pedal steel, direte voi. Bravi. In realtà io intendevo la nostalgia. La Mitchell non aveva nostalgia per Woodstock; solo un po’ di rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Iain Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze. In quegli anni le fotografie ingiallivano in fretta, le speranze duravano un paio d’estati e poi finivano, e anche le canzoni migliori dopo venti mesi erano roba vecchia. D’altro canto nascevano continuamente nuove speranze e nuove canzoni, per cui la nostalgia restava un prodotto di nicchia.
Oggi tutto quel passato è stato surgelato, per la comodità degli utenti: quando ne vuoi un pezzo lo scongeli e lo consumi in pochi minuti. Così ogni estate ci si mette a parlare di Woodstock, il grande evento che ha cambiato la storia della musica eccetera. Anche la nostalgia sa un po’ di precotto. Del resto è tutta gente che a Woodstock non c’era, non era nata o ascoltava Gianni Morandi. Per quelli che c’erano passati, Woodstock era probabilmente roba vecchia già nel 1970. Ne sfogliavano le foto, e cominciavano a non riconoscersi più. Siamo polvere. Di stelle, ma pur sempre polvere.
17 agosto 2010– ci lascia Francesco Cossiga, il ragazzo terribile della politica italiana.
Guardando un po’ più da vicino la traiettoria di Cossiga, si ha l’impressione che il secondo dopoguerra italiano sia un frattale. Cossiga lo contiene tutto in piccolo: la DC di sinistra, la strategia della tensione, il pentapartito, la crisi degli anni ’90 e la nascita di un nuovo linguaggio politico che è poi lo stesso che oggi trovi in bocca a qualsiasi coglione si ritrovi a scrivere su beppegrillo.it. Cossiga è passato per tutte le svolte della storia d’Italia: in alcune occasioni le ha anticipate, di modo che ai suoi contemporanei sembrava che facesse strani slalom a vuoto come un mezzo scemo.
La storia di come ha preso a picconate non soltanto la politica, ma soprattutto il linguaggio politico, è affascinante ma oggi è domenica 17 agosto e non ho voglia di scriverla: incollo un vecchissimo pezzo di Alberto Sobrero e buonanotte.
Da quasi due anni il ‘fenomeno Cossiga’ è osservato sotto diverse angolazioni: politica, partitica, etnologica, dietrologica, psichiatrica… Poco si è detto del suo modo di parlare, o meglio di comunicare. Strano, visto che si tratta di un Grande Comunicatore. E tuttavia, un’occhiata al suo comportamento linguistico offre chiavi di lettura interessanti.
Tanto per cominciare, consente una sistemazione “storica” del personaggio. Com’erano i primi messaggi del Presidente Cossiga? Una noia mortale. Scorro qualche appunto preso al messaggio del Capodanno 1987 e trovo: massima austerità formale, immobilità solenne, dizione ben scandita e controllata, attenuazione delle caratteristiche sarde del parlato. Il discorso è costituito da una lunga esortazione seguita da un frammento di lezione universitaria, con i suoi bravi distinguo, i termini tecnici al posto giusto, e un gioco fine di argomentazioni e contro-argomentazioni. Argomento: la responsabilità. Taglio: tipico dell’uomo di potere. Il discorso non tratta della responsabilità di amministratori e politici (già allora la carne al fuoco non sarebbe mancata), ma del cittadino qualunque, perché “alla gestione della cosa pubblica nessun cittadino è estraneo”. Il tono generale è predicatorio: i verbi dovere, occorrere, impegnarsi ricorrono ben 29 volte in 15 minuti, senza contare i verbi al futuro con valore imperativo. La lingua, infine, offre tutti i suoi strumenti per innalzare una cortina di fumo davanti al messaggio. Cossiga si rivela abilissimo nell’esprimere i concetti semplici in modo difficile: ad esempio, per dire che bisogna dare fiducia allo Stato come garante della sicurezza dei cittadini dice che bisogna avere “consapevolezza che soltanto lo Stato, nelle sue articolazioni democratiche, e non l’assenza dello Stato, la carenza dello Stato, può garantire il quadro di riferimento, di sicurezza nel quale la società e i singoli soggetti possono esprimere ogni giorno la loro peculiare vitalità e la loro personale responsabilità”.
Il messaggio del Capodanno 1987 è un po’ il simbolo di quello che possiamo chiamare il Cossiga I, il cui regno dura circa 5 anni. Anni iniziati con Capodanni tutti uguali: prosa paludata e surreale, discrezione e ufficialità. Noia. Quei discorsi allusivi destinati al Palazzo e dintorni Poi svolta. Il I gennaio 1991 il Presidente, nel bel mezzo del solito discorso auspicante e rassicurante, lascia il discorso ufficiale e apre una parentesi di veemente, appassionata, quasi rabbiosa difesa di Gladio, un’invettiva un po’ cifrata destinata al Palazzo ma esibita davanti a milioni di telespettatori. È nato il Cossiga II, quello dei messaggi mandati a nuora perché suocera intenda, delle minacce a uomini e partiti, quello che sostituisce l’imparzialità con lo schieramento aperto, che esalta gli amici e offende i nemici.
Infine, l’ultimo – per ora – Capodanno con Cossiga: 1992. Uno show da grande maestro della comunicazione: tutti aspettano il messaggio, c’è chi spera in grandi picconate e c’è chi spera nell’annuncio delle dimissioni. Il nostro spiazza tutti, mette da parte i molti fogli scritti e rinuncia, in pratica, al messaggio. Tanti auguri, e via. È ormai il Cossiga III, la star della Tv. Questa messa in onda del Grande Silenzio è il trionfo del nuovo stile Advertising: nell’immaginario italiano si allinea tranquillamente – e trionfalmente – fra uno spot della pasta Agnesi e i Nuovi Aeroplani. Ecco, questi tre flash televisivi ci danno i caratteri essenziali delle “tre fasi”.
I segnali linguistici del cambiamento sono vistosissimi. Fra il ’90 e il ’91 Cossiga abbandona i rotondi giri di frase dell’oratoria solenne, prudente, aristocratica, un po’ demodée usata negli anni precedenti, per adottare un linguaggio aggressivo, fortemente “popolare”, con punte plebee di grande espressività: alterna l’ironia al sarcasmo e all’insulto. Per l’insulto, in particolare, dispone di una tastiera ricchissima: c’è quello colto, che capiscono solo i cinquantenni acculturati (piccolo Wisinskij), quello semi-colto (velinaro e libellista, riferiti a Pasquale Nonno), e quello popolare: pataccaro (Onorato), ma ci sono soprattutto quelli triviali: cretino (il sindaco di Bari), imbecille, pagliaccio, sino a figlio di… La conversione è totale, e mostra un’incredibile capacità del linguaggio cossighiano di cambiare registro e di adeguarsi a pubblici, stili, gusti diversi.
Ci sono le espressioni e i modi di dire “forti” che per consolidata tradizione ci si immagina di sentire sulla bocca della “gente” (parola assai cara al Presidente): carabinieri e guardie di finanza “s’incazzano”, “Moro si rese conto che non erano dei ladri di polli”, “mi fischiano. E chi se ne frega, se non controfirma, ciccia!”. Ma c’è anche l’imitazione perfetta di ben altri modelli. Il passo che segue ricalca in modo stupefacente – nella scelta delle parole e dei gergalismi, nei giri di frase, nella struttura argomentativa – la prosa degli “storici” documenti delle Br: “più che di terrorismo si dovrebbe parlare di sovversivismo di sinistra, di un movimento cioè che assumeva quale scenario obiettivo della propria azione e fine mediato della propria iniziativa, quella rivoluzione per la conquista del potere e il rovesciamento delle istituzioni borghesi che erano stati rappresentati come ‘oggetti politici definiti’, di cui la pratica terrorista doveva costituire l’innesco della rivoluzione di massa a livello di ‘movimento'”. Una mimesi perfetta.
Con Cossiga II e III non cambiano solo le parole, cambia anche la gestualità. Il Presidente lascia in soffitta la divisa in pompa magna, indossa la maglietta Lacoste e improvvisa dichiarazioni a braccio, urla col volto congestionato, gesticola ricorrendo a tutta la mimica dei popoli mediterranei. L’autocontrollo, in queste condizioni, si attenua, e oltre a piccoli lapsus (un pares inter pares in luogo di par inter pares può essere, oggi, peccato veniale), tornano ad affiorare antiche caratteristiche sarde: le consonanti doppie, le vocali chiuse, persino gesti tipici come la cosiddetta “borsa”. La borsa è un gesto che consiste nel riuniore le dita di una mano a cono, con la punta rivolta verso l’alto, avvicinando e allontanando rapidamente la mano dal petto. Tutti lo usiamo, ma con sfumature diverse nelle diverse regioni: in sardo il significato, dispregiativo, è “Beh, che vuoi?”, e non è propriamente un gesto elegante.
La gesticolazione e la mobilità facciale che accompagnano l’ira presidenziale sono perfettamente aderenti al messaggio: persino un fremito ricorrente al labbro superiore sembra più un optional stilistico che un tic nervoso. È questo il periodo della gloria televisiva, il trionfo del “personaggio”, che fa audience: pur di violare il sistema delle attese il già correttissimo Cossiga non disdegna neppure la scorrettezza, come quando non mantiene l’impegno dell’intervista con Enzo Biagi. Stella televisiva, non si sottrae né al pettegolezzo da Novella 2000 né al battibecco in diretta. E come accade ai grandi personaggi dell’effimero televisivo, anche lui lascia la sua impronta linguistica: la metafora del piccone – di cui rivendica con civetteria la paternità – diventa prima il tormentone di mille comici-imitatori poi, addirittura, lo slogan elettorale del Msi. Per non parlare dell’esternazione, parola che nel Lessico di Frequenza della lingua italiana contemporanea di Bortolini, Tagliavini e Zampolli, basato su uno spoglio di 500.000 parole (appartenenti a testi diversi) non compare nemmeno: dal tassista al ragazzino delle scuole medie oggi tutti esternano. Anche in documenti ufficiali: a Milano “il Consiglio di quartiere ha voluto esternare la sua insoddisfazione per la mancata soluzione del problema dei cani randagi” […]
16 agosto 1938 – a Greenwood, Mississippi, un musicista di strada muore in circostanze non chiare. Diventerà una leggenda molti anni dopo, per una serie di equivoci.
Di lui non si sa praticamente nulla. I testimoni orali, i tizi che si sono intascati qualche soldo per raccontare qualcosa ai documentaristi, sono gente che per cento dollari ti suona quel che vuoi ascoltare – vuoi il patto col diavolo? Ti racconto il patto col diavolo. Vuoi il drama? Gli morì la moglie di parto. Anzi era una fidanzata. Minorenne ovviamente. Anzi erano due. Due minorenni entrambe morte di parto. Vuoi il mistero? con la chitarra era una schiappa, ti giuro, l’ho sentito. Poi gli muore la fidanzata incinta e lui scompare per un anno, e quando si rifa vivo suona come un dio. No. Dio decisamente non suona così. Dio non vuole sentire i lamenti d’amore uscirti dallo stomaco come i crampi, Dio non vuole sentire che hai un limone da spremere nel bassovita, Dio in questa storia non c’entra nulla. Decisamente.
La storia che si impone sulle altre, in queste situazioni, è quella più romanzesca. È un musicista girovago, quando arriva in città mette il cappello sul marciapiede e suona quel che vuoi sentire. È abbastanza eclettico, ma ha una sua personalità. In breve riesce sempre a farsi invitare a suonare in un locale. Bisogna avere una voce squillante e un gran repertorio – lui peraltro sembra in grado di riprodurre qualsiasi canzone a comando. Se non sa il testo se lo inventa, e in breve ha inventato una nuova canzone. Alle donne piace. Di solito ne sceglie una – o si lascia scegliere – e quando il locale chiude, lui dorme da lei. Una diversa per ogni città. A Greenwood sta dalla moglie del gestore. Non è una grande idea. Con lui c’è un suonatore di armonica che diventerà famoso come Sonny Boy Williamson. A un certo punto Sonny Boy si accorge che all’amico hanno passato una bottiglia di whisky aperta. Gliela sfila di mano, la bottiglia si rompe, che cazzo fai? “Amico, non farlo mai più. Non bere mai più da una bottiglia che non hai visto aprire”. “Amico, non levarmi mai più una bottiglia dalla mano, hai capito?” “Ho capito”.
Pochi minuti dopo, il tizio ha di nuovo una bottiglia aperta in mano. Pochi minuti dopo, quand’è ora di rimettersi a cantare, il tizio non riesce più a spiaccicare una parola. Farfuglia. Sta male. Lo portano via. Non lo curano come si deve – è un vagabondo, chi lo conosce dopotutto. Muore dopo un paio di giorni d’agonia, settantasei anni fa oggi. La data probabilmente è l’unica cosa sicura di tutta la storia.
Non sappiamo nemmeno dove sia sepolto – tre cimiteri si contendono il privilegio, ma le tre tombe sono state rimesse a posto molti anni dopo, quando Robert Johnson – si chiamava così – diventa improvvisamente famoso, di una fama che mai si sarebbe sognato. I nastri che aveva inciso in una camera d’albergo a San Antonio, e più tardi in un piccolo studio di registrazione a Dallas, vengono ristampati su album e diventano l’opera omnia del più grande bluesman di tutti i tempi. 29 canzoni, alcune registrate persino un paio di volte, in fretta, da un tizio che non aveva mai inciso nulla e avrebbe potuto suonare centinaia di pezzi in stili molto diversi, ma gli avevano chiesto un certo tipo di blues e, perdio, pagavano.
Robert Johnson nella sua vita ha probabilmente ascoltato solo un paio delle sue canzoni incise a 78 giri. Non sappiamo nemmeno se si sia piaciuto, ma è facile immaginare che si sia sentito a disagio, di fronte a una voce più stridula, e una chitarra più svelta. L’etichetta per cui incideva era solita accelerare i nastri anche del 20%. Così l’indiscussa bravura di Johnson alla chitarra diventa qualcosa di disumano. Quando Keith Richards l’ascolta per la prima volta a casa di Brian Johnson, si domanda chi sia l’altro chitarrista. “Robert Johnson”. “Sì, ma chi è l’altro che suona con lui?”
Il vero Robert Johnson probabilmente suonava più piano, e aveva una voce più bassa, simile agli altri bluesmen del tempo. Non suonava soltanto blues – l’unico ragtime che ha inciso è assolutamente brillante, non l’esercizio di un dilettante – e non era necessariamente malinconico o dannato come ci piace sentir raccontare. Ma il vero Robert non esiste più. Quello che abbiamo è stridulo e dannato, e non c’è filologia musicale che ci possa convincere a farne a meno.
La leggenda del patto col diavolo a un incrocio è probabilmente soltanto una bella storia. Chi ha studiato un po’ più la vicenda sostiene che l’apprendistato musicale di Johnson sia durato almeno due anni. Sappiamo persino il nome all’anagrafe del suo maestro, non il diavolo, ma un tal Ike Zimmerman. Pare che sia vero che suonasse nei cimiteri – sono posti tranquilli dopo l’ora di chiusura, nessuno ti disturba e puoi esercitarti. Ike Zimmerman non ha mai inciso niente. Volendo possiamo tranquillamente immaginarcelo come il più grande genio musicale del Novecento.
5. Madonna con tre mani (o Tricherusa). Se vi capita di vederla in un’icona, non scappate terrorizzati. È una tipologia mediamente diffusa in ambito ortodosso. Non è che le sia spuntata una mano in più – la terza mano in origine era staccata. È la mano che ha fatto spuntare al teologo San Giovanni Damasceno, al secolo Mansour Ibn Sarjun, dopo che il califfo gliel’aveva fatta tagliare. Il califfo in realtà aveva avuto un’alta considerazione di Mansour, ma era stato manipolato dall’imperatore bizantino Leone III, che stava mettendo in giro idee false e tendenziose su quel teologo siriano che difendeva apertamente l’iconodulia (la venerazione delle icone). Leone era invece fieramente iconoclasta. La Madonna che apparì da un’icona dopo la mutilazione esortò Mansour a non mollare la sua lotta per la libertà delle icone, e gli promise una mano nuova entro il mattino. Così fu, e Mansour per ringraziarla appese una mano d’oro all’icona stessa. Nasce così la simpatica abitudine di ritrarla con tre mani, una delle quali è sempre pronta per te se ne hai bisogno.
4. Madonna di Zaro Alcune madonne moderne sono particolarmente assidue. Quella di Zaro, nell’isola di Ischia, appare ogni 8 e 26 del mese dal 1994 – vent’anni! E siccome i messaggi vengono pubblicati con regolarità sul suo sito, direi che abbiamo trovato la Madonna dei blogger. Che ne avevano bisogno. Tante cose ha detto la Madonna di Zaro ai suoi ragazzi (ormai ne sono rimasti soltanto due in contatto con la vergine), che gli stessi veggenti ormai hanno difficoltà a ricordarsi le profezie e a verificare se per caso si siano esaudite. Furono ad esempio i giornalisti nel 2001 a ricordare a Simona di aver raccontato in un’intervista di sette anni prima una visione in cui le crollavano le Twin Towers (ma anche la Statua della Libertà). Particolarmente suggestiva è la visione che qualche anno dopo è stata interpretata come una profezia delle dimissioni di Benedetto XVI (ma quelle le avevo previste persino io, senza aiutini dall’alto):
Ho visto il Vaticano, il grande piazzale, l’obelisco, l’intero colonnato. Tutto era come in una grande cartolina che lo rappresentava nella sua immensa bellezza. Poi mi sono trovata all’interno della chiesa, ero come sospesa e guardavo tutto dall’alto. Il Santo Padre Benedetto sedicesimo presiedeva la celebrazione, era circondato da vescovi e cardinali, non c’erano altre persone. Il Papa ad un certo punto ha lavato le sue mani in una bacinella d’oro. All’improvviso gli si è sfilato l’anello dal dito ed è caduto nell’acqua, quindi ha rimesso le mani nella bacinella e quando le ha rialzate erano piene di sangue, ma l’anello non lo ha ritrovato. Poi ha alzato le braccia al cielo come per mostrarle a tutti; lui non sembrava stupito di tutto questo.
14 agosto 1861 – I bersaglieri entrano a Pontelandolfo (oggi provincia di Benevento). L’ordine del generale Cialdini è di non lasciare “pietra su pietra”. Lo eseguono.
Il bersagliere Margiolfo Carlo, inquietante esempio di stragista simpatico
Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po’ prima di arrivare al paese incontrammo i briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi. Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione! Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare? Non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore: quattordicesima tappa. Fu successo tutto questo in seguito a diverse barbarie commesse dal paese di Pontelandolfo: sentirete, un nido di briganti, e la posta la svaligiava ed ammazzava la scorta, fra i quali l’ultima volta che svaligiarono la posta era scortata da 8 uomini, e pure perirono i 8 soldati, lo stesso fu per il postione e conduttore, e lasciarono in balia cavalli e legno. Prima di questo poi era successo un caso molto strano al paese: essendo di passaggio in perlustrazione, una compagnia ha pernottato in una chiesa, ed era piena di paglia; i soldati molto contenti col dire: “Questa notte riposeremo un poco”. Come sia stato, i paesani volerono la sentinella senza il minimo rumore, e l’hanno squartata, tagliata a pezzi, e diedero fuoco alla paglia da un buco di loro conoscenza, quindi che hanno fatto questi poveri soldati? la figura precisamente che facevano adesso loro: abbrustolire dentro. Proprio quale barbaro paese fu questo Pontelandolfo, ma ora si è domesticato per bene. (Episodi della vita militare del bersagliere Margolfo Carlo).
Mai io potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata… vie abbandonate, a destra e a sinistra le case erano vuote e annerite : si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti. Dalle finestre vedevasi il cielo… Poi mi fu vietato di progredire : gli edifici, puntellati, minacciavano di cadere ad ogni istante. Soltanto tre case furono risparmiate per ordine superiore; soltanto tre case in una città di cinquemila abitanti! Chi può dire il dolore di quella città?» Poi la voce dell’oratore si fa più calda e ammonitrice e prosegue impavida mentre il Primo Ministro, oscuro come la notte, continua a prendere appunti: « Mi trassero innanzi un gentiluomo, il Signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto, ma gli occhi spenti lo rivelavano colpito da una calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena, appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italica. Nulla chiedo, egli disse. E ammutolimmo tutti. Avevo due figli, il primo avvocato e l’altro negoziante. Entrambi quei giovani avevano vagheggiato di lottare per la libertà del Piemonte, e all’udire che approssimavansi i Piemontesi, cosi si chiama nel paese la truppa italiana, correvano festosi ad incontrarli. Ma la truppa procede militarmente. E i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi. Poi, tolto loro il danaro, sono condannati a immediata fucilazione. L’uno cadde subito morto, l’altro viveva ancora con nove pallottole nel corpo. L’infelice perì sotto il decimo colpo tirato alla baionetta (moto di orrore in aula). Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e, gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano davanti a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene di orrore! Qua due vecchie periscono nell’incendio, là alcuni sono fucilati. Gli orecchini sono strappati alle donne. I saccomanni frugano in ogni angolo.. Da lontano si vede l’incendio di Casalduni come se l’esterminazione non dovesse avere limite alcuno […] Mai non dimenticherò il 14 agosto, mi diceva un garibaldino di Pontelandolfo. Sul limitare di una delle tre case eccettuate dall’incendio, egli gridava ai villici di accorrere, li nascondeva nelle cantine, e mentre si affannava per sottrarre i conterranei alla morte, vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui, fucilata nella spalla, perché aveva voluto salvare l’onore, e quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre (discorso del deputato Giuseppe Ferrari nella seduta parlamentare del 2/12/1861, in Rocco Boccaccino, Pontelandolfo. Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861).
Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue. (De Jaco, Il brigantaggio meridionale).
Cosimo Giordano (primo a sinistra), il capobanda che promosse la rivolta e scappò appena arrivarono i bersaglieri per la rappresaglia.
L’antefatto. Era costume secolare che ogni anno il 7 di agosto il clero coi fedeli si portasse in solenne processione dalla Chiesa Madre fino alla suddetta cappella per celebrarvi i vespri in onore del Santo. Così avvenne anche il 7 agosto del 1861 […] In questo momento una quarantina di briganti, ingrossati da reazionari, da borbonici, da molti popolani si fanno avanti minacciosi agitando una bandiera bianca, obbligano a gridare «Viva Francesco II» e costringono il clero a cantare un Te Deum di ringraziamento con l’intenzione di dimostrare la restaurazione del regno dei Borboni […] Riporto testualmente dalla sentenza della Sezione di accusa della Corte di Appello di Napoli del 7-6-1864: «Si univano, ad essi (i briganti) nelle clamorose dimostrazioni di festa quelli che nel paese avevano intelligenza della cosa, e quelli che anche ignari dei precedenti concerti la credettero di facile riuscita, e gravida di bei risultamenti. Preso così importanza il movimento, si diedero i sediziosi a consumare, una serie di atti che stabiliscono nettamente il carattere dell’attentato alla distruzione dell’attuale governo. Il posto di guardia disarmato; le bandiere nazionali calpestate; lo stemma Sabaudo a colpi di fucile abbattuto e infranto; gli archivi della Giudicatura e del Municipio incendiati, il botteghino dei generi di privativa forzato distraendovi il danaro trovato e le merci, in danno dello Stato, il traino del procaccia arrestato appropriandosi del danaro che trasportava, la carrozza postale danneggiata distruggendovi il Regio Stemma scolpitovi, i cavalli sottrattine, forzate le prigioni e liberati i detenuti». Nelle imputazioni, che seguono, vengono classificati i vari delitti e non manca l’elenco di tutti i fatti rivoluzionari: saccheggi, distruzioni, incendi, estorsioni e vari omicidi volontari, consumati contro persone ben specificate, come ad esempio: Agostino Vitale, Angelo Tedeschi, Libero D’Occhio. A tutto questo bisogna aggiungere l’efferato delitto compiuto nell’Esattoria comunale, dove insieme con le carte di ufficio fu bruciato vivo l’esattore Michelangelo Perugini. Il 7 agosto si chiuse con le tenebre e la follia omicida e devastatrice degli insorti. Anche oggi quella data è proverbiale nel popolo, quando si vuole accennare a un fatto straordinario e travolgente. Il giorno seguente «si costituì un nuovo governo che mandò subito messaggi nei paesi intorno`invitando tutti alla rivolta » (A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale). L’appello non rimase inascoltato: una specie di frenesia generale invase anche le popolazioni vicine e il 9 agosto si diedero convegno a Pontelandolfo reazionari provenienti da Casalduni e Campolattaro, che, sventolando bandiera bianca e osannando a Francesco II, si accamparono in Piazza Tiglio e sulle Campetelle, ormai scomparse. Al calar della sera però, temendo l’arrivo di soldati impegnati nella lotta contro i briganti, se ne andarono e tutto piombò nel silenzio profondo, foriero di più funeste sciagure. […] La reazione fu sollecita, ma bisogna riconoscerlo, impari alla gravità dei fatti e al numero delle persone da affrontare, favorite dalle armi, dall’omertà e dalla familiarità dei luoghi. Così fu deciso di inviare a Pontelandolfo un drappello di 45 soldati al comando del tenente Luigi Augusto Bracci e 4 carabinieri. L’intenzione era quella di sedare i disordini, calmare la popolazione, restaurare l’ordine e tenere a bada le orde brigantesche. Questi giovani furono inconsapevolmente votati alla morte. Giunsero a Pontelandolfo l’11 agosto e in prossimità dell’abitato cominciarono a sventolare fazzoletti bianchi dimostrando lo scopo pacifico della loro venuta. Molti cittadini, appena li scorsero, fuggirono rifugiandosi lontano o andando a riferire alle varie bande di briganti, sparse nelle contrade di montagna, la novità dell’arrivo. Il paese sembrava completamente immerso nell’abbandono; solo alcune persone, rinchiuse nelle case, attendevano la fine di quell’intervento. Questo contegno circospetto impensierì i militari tanto più che da qualcuno, che coraggiosamente si era fatto vedere, avevano ricevuto un inaspettato rifiuto di cibo e l’assicurazione della fuga delle autorità; il che confermò il convincimento che tutti o avessero paura dei briganti o ne fossero conniventi. Lentamente dal Piano della Croce si avviarono nell’interno del paese e trovarono la migliore soluzione nel rinchiudersi nel giardino della Torre per consumare un po’ di pane e di vino, che alla fine erano riusciti a raccogliere, e attendere il momento opportuno per ritornarsene. L’ambiente appariva afoso e minaccioso. Improvvisamente si udirono colpi di fucile e le sentinelle diedero l’allarme: si scorgevano masse di uomini, contadini e briganti accompagnati anche da donne forsennate, che si avvicinavano armati con l’intento, evidente di accerchiare la Torre. Fu quello però un atto di provocazione a uscire allo scoperto per rendere più facile la soppressione del drappello. I soldati, infatti, uscirono e, sparando senza colpire nessuno, si diressero attraverso le Càmpetelle verso la strada maestra preoccupati di non venire accerchiati e di raggiungere S. Lupo, dove risiedeva il Comandante della Guardia nazionale. Disgraziatamente la manovra non riuscì. Le masnade dei briganti si richiamavano con forti grida d’intesa così che da ogni parte della zona si addensò sul «toppo» di S. Nicola un numero schiacciante superiore ai Piemontesi, che si videro perduti. Non potendo avanzare, presero la via sottostante per Casalduni dove, forse, ritenevano di sfuggire al sicuro massacro. Ma le campane di Casalduni suonarono funebremente a stormo e numerosi ribelli e briganti, comandati dal loro capo «generale» Angelo Pica, un massaro del luogo e principale fomentatore della strage, completarono l’accerchiamento dei bersaglieri. È indescrivibile l’eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono. I 50 uomini si difesero disperatamente, ma alla fine prevalse la turba sanguinaria: furono disarmati, spogliati della divisa, attaccati agli alberi, trucidati. Alcuni furono trasportati a Casalduni, dove subirono la stessa sorte col consenso del locale Sindaco Luigi Orsini; uno solo fu condotto a Pontelandolfo e rinchiuso nella Torre. (Boccaccino)
Feci sparare qualche colpo, ma poi feci battere ritirata. I soldati entrarono e cominciarono a bruciare le case ed io non volli più saperne di quel paese (dichiarazione del “capo brigante” Cosimo Giordano al presidente della Corte di Assise di Benevento, 23/4/1884) (Boccaccino).
Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora (telegramma al generale Cialdini, attribuito a Pier Eleonoro Negri, medaglia d’oro e d’argento al valor militare).
13 agosto 1942 – prima mondiale di Bambi Settantadue anni fa stasera, centinaia di bambini entrano accompagnati dalle loro mamme e dai loro papà nei cinema in cui si proietta il quinto lungometraggio animato della Disney. Non sanno ancora che mamma cervo muore. Lo impareranno all’improvviso durante il film. Una corsa affannosa nella neve, una fucilata – ma Bambi è salvo. “Ce l’abbiamo fatta. Che corsa, eh, mamma?” Mamma?
Bambi non è solo al terzo posto nella top10 delle pellicole d’animazione secondo l’American Fim Institute (dietro Biancaneve e Pinocchio; ma Shrek arriva misteriosamente settimo). Bambi è anche ventunesimo nella top25 dei film horror di tutti i tempi secondo Time), per “lo shock primario che ancora affligge gli anziani che lo videro quaranta, cinquanta, sessantacinque anni fa”. E pensare che Disney stavolta si era pure autocensurato.
Tutti i primi lungometraggi disneyani hanno un lato inquietante e orrorifico: la matrigna che si trasforma in strega, Pinocchio e Lucignolo in somari, il terrificante viaggio psichedelico di Dumbo. Anche in Bambi la mamma doveva morire davanti agli occhi degli spettatori – poi Disney in sede di montaggio decise che la cosa era un po’ troppo forte. L’orrore di Bambi è più sottile e profondo. La mamma non c’è più. Un momento prima c’era. Un momento dopo non risponde più. Non risponderà mai più. È stato l’uomo.
Anche l’uomo fu tagliato in sede di montaggio. All’inizio si pensava di mostrarne due: l’assassino della mamma e il piromane nell’ultima sequenza. Quest’ultimo doveva bruciare vivo. Alla fine si decise di farne a meno. Era soprattutto una questione di coerenza stilistica. Bambi era un progetto che si trascinava da più di cinque anni – Disney aveva acquistato i diritti del romanzo di Felix Salten nel 1937, e aveva iniziato a lavorarci immediatamente dopo Biancaneve. L’idea originale era forse quella di un film adulto, realistico, con gli animali meno antropomorfi mai visti in scena: la sfida dell’animazione in technicolor ai documentari. D’altro canto bisognava anche far cassetta, e così – tentativo dopo tentativo – gli occhioni di Bambi e dei suoi amici divennero sempre più grandi, e nacque Tippete, forse l’animale più pucci di tutto l’universo Disney. Ma per quanto deformato in senso cartonesco, il bosco di Bambi rimane un luogo radicalmente non-umano. Il nemico viene da fuori e sa soltanto uccidere e distruggere l’equilibrio perfetto della natura.
Il film sarà criticato, per le ambizioni e la crudezza, e non riempirà le sale come previsto: l’incasso della prima uscita sarà inferiore al budget di sessantamila dollari (la guerra era un grosso ostacolo, specie per il mercato europeo). Disney si rifarà ampiamente con le uscite successive – ancor più importante, anche se non monetizzabile, sarà l’esperienza maturata dagli animatori durante la realizzazione del film: un nuovo modo di realizzare la natura e di dare sentimenti agli animali. Bambi permetterà a Disney di realizzare film sempre migliori. Ma Disney non realizzerà più un film come Bambi. Se l’horror tornerà, saltuariamente, molto più edulcorato (Sleepy Hollow), i personaggi importanti non moriranno mai più così all’improvviso. Bambi è l’ultima pellicola di una trilogia del cinismo partita con Pinocchio e proseguita con Dumbo. L’umanità di questi film, che mamma Dumbo non aveva tutti i torti a voler schiacciare, è naturalmente ipocrita e crudele; una tribù malvagia da cui gli eroi di cartone coi grandi occhi dovrebbero tenersi il più lontano possibile.
Nel giro di un anno questa misantropia sarà un ricordo lontano. La guerra interrompe la produzione di lungometraggi e porta molti disegnatori sul fronte della propaganda. Il lungometraggio Disney del 1943 è un docufilm, Victory Through Air Power, la trasposizione su pellicola di un best seller che stava cambiando la prospettiva degli americani su come si vince una guerra mondiale: conquistando lo spazio aereo e bombardando a tappeto. Era stato lo stesso Disney a comprarsi i diritti del libro e a decidere di usare tutta la sapienza dei propri studios per trasformarlo in un pamphlet di immagini. La guerra lo aveva fatto passare dalla parte degli uomini: quelli che uccidono, che bruciano, che distruggono, per motivi solo a loro comprensibili.
L’unico quagga mai fotografato è allo zoo di Londra. (C’è dibattito sulle strisce, che sembrano diverse da quelle del nuovo quagga).
12 agosto 1883– muore nello zoo di Amsterdam l’ultimo quagga
Il quagga, l’avessi visto impagliato in un museo a Basilea o Berlino, lo descriverei come uno strano somaro marroncino che ha provato a truccarsi da zebra, ma non aveva abbastanza strisce per coprirsi il sedere. Un ibrido insomma, un cavallo inzebrato. Invece era una sottospecie di zebra a tutti gli effetti, lo abbiamo capito finalmente esaminando il dna preso da un esemplare impagliato. La forma di questi ultimi aveva messo fuori strada gli studiosi, forse a causa dell’abitudine dei vecchi tassidermisti a usare ossa di altri equini per riempire le lacune. Il quagga viveva nelle praterie della provincia del Capo e del Libero Stato di Orange, quello fondato dai boeri di origine olandese che cercavano terra libera alla larga dei nuovi coloni inglesi. Lo sterminio dei quagga è probabilmente opera loro. Qualche migliaio di chilometri più a est, alle Mauritius, un paio di secoli prima, i marinai olandesi si erano anche cucinati le ultime uova del dodo. Si potrebbe qui giocare sulla singolare coincidenza, e buttar lì la considerazione che se gli olandesi avessero più considerazione per la natura, non esisterebbero nemmeno: al posto dei loro bei campi di tulipani ci sarebbe un mare grigio e inutile. Se il dodo ci teneva a sopravvivere poteva anche imparare a nascondere le uova.
Quanto ai quagga, boh, chi l’aveva capito che fossero così pochi. E poi non è che si sono estinti davvero. Sono zebre. Le zebre non si sono estinte. Più a sud vai, più il loro manto tende a perdere le strisce. I quagga erano le zebre più meridionali di tutte. Rimasero isolate dalle altre zebre durante una glaciazione del Pleistocene, e forse adattarono il loro manto al paesaggio. Per quanto possa essere controintuitivo, le strisce bianche e nere della zebra hanno probabilmente una funzione mimetica. Ogni zebra si è adattata a un paesaggio lievemente diverso.
Che verso faceva? “Quagga quagga”, esatto. Perlomeno nella lingua khoikhoi (ottentotti, anche loro quasi estinti nelle lotte ingaggiate tra inglesi, boeri e tedeschi): come è noto ogni lingua descrive i versi degli animali con parole anche molto diverse. Oggi in sudafrica pronunciano quahha quahha. Ci possono sembrare sillabe strane in bocca a un equino, ma chissà che il latino “equus” non abbia una radice simile. Magari alle orecchie dei nostri antenati i cavalli facevano un verso quacqueggiante. I khoikhoi peraltro chiamavano “quagga” ogni tipo di zebra. Il nome scientifico dell’animale, “Equus Quagga Quagga”, mette insieme sillabe di lingue lontanissime che non suonano poi tanto diverse. Convergenza evolutiva o traccia di una lingua antichissima? Più facile che sia la prima, più bello raccontare la seconda.
Il quagga non è soltanto il primo animale estinto di cui abbiamo il dna: è anche la prima specie selvatica (pardon, sottospecie) che stiamo resuscitando con un certo successo – no, senza usare il dna, niente jurassic park con quagga impazziti che scalciano sui visitatori. Poiché si tratta in fin dei conti di una zebra con poche strisce, in un parco del Sudafrica hanno provato a selezionare le zebre con meno strisce e a tenerle isolate dalle altre. È il quagga project. È partito nel 1987 con nove zebre. Nel 2004 ce n’erano 83. L’anno dopo è nato il primo esemplare che ha veramente l’aria di un quagga. Ma non è un quagga vero; il pool genetico è smarrito per sempre. Però ci assomiglia. Un po’. Nelle foto a dire il vero le strisce sembravano più bianche su campo scuro che viceversa – ma sono foto vecchie, in bianco e nero, vatti a fidare. Gli esemplari impagliati sembrano più tozzi, ma non possiamo fidarci dei tassidermisti che in mancanza di ossi e mascelle usavano cavalli o somari.
Metti che un giorno gli italiani scompaiono totalmente – sterminati da una calamità, rapiti in cielo, quel che vuoi. Si prendono un po’ di esemplari di francesi ai confini, si isolano nell’habitat a sud delle Alpi, si attende qualche millennio… uhm, che idea malata. Però con le zebre si può fare. È strano.
Giovanni Pascoli (in basso a destra) col papà e i due fratelli.
10 agosto 1867– Ruggero Pascoli, amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, viene assassinato mentre ritorna da Cesena in calesse a San Mauro. Suo figlio Giovanni non se ne darà mai pace. A tutt’oggi il caso è insoluto.
Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini: ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini.
Quando si legge Pascoli, quando lo si legge davvero – no, aspetta, mettiamo i punti interrogativi: quando si legge Pascoli? Quando lo si legge davvero? Senza incombenze connesse, senza doverlo imparare a memoria per un’interrogazione o per una tesi; quand’è che uno si mette lì a leggere, poniamo, i Poemetti o i Canti di Castelvecchio invece di qualsiasi altro libro? Vi siete mai portati Pascoli in treno? In spiaggia? Pascoli non si legge mai davvero. È uno di quei poeti famosi che tutti conoscono e a cui nessuno vuole più veramente bene. Come le statue in mezzo alle piazze, non danno nemmeno fastidio, stanno lì come un punto di riferimento, un segnale stradale. (“Scusi, sto cercando il Novecento”. “Prosegua dritto finché trova la statua di Giovanni Pascoli”).
Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono…
Ma quando leggi Pascoli, quando per qualche motivo lo leggi davvero, ti viene il dubbio che se ne rendesse conto lui per primo; che questa fosse l’immortalità che si aspettava. I critici lo deridevano per i suoi bamboleggiamenti, ma lui se ne fregava. Aveva colto molto prima degli altri le implicazioni culturali della legge Casati: milioni di piccoli italiani sarebbero entrati per la prima volta in una scuola elementare, e cosa vi avrebbero trovato? Le pose auliche di Foscolo? Peraltro, non proprio un esempio da imitare per la gioventù. Gli inni sacri che lo stesso Manzoni si annoiava a comporre? Eh no, serviva qualcosa di più laico. La disperazione leopardiana? Nah, al massimo si poteva ritagliare qualche idillio qua e là, ma è comunque roba poco cantabile. Neanche Carducci: troppa politica, troppa – No, agli studenti elementari d’Italia servivano filastrocche. Ma scritte con mirabile perizia prosodica. Con tanta natura e poca politica – parliamo del tempo piuttosto, i temporali, le nubi, i tramonti, questo tipo di cose. Ai fanciulli serviva un fanciullino, e lascia che gli adulti ridano. Tanto gli adulti ormai di poesia non ne compreranno più. Ma i libri di lettura, quelli andranno sempre. E una strofetta di Pascoli su una nube, o su un tramonto, o su un assiolo, non mancherà mai. Al limite andranno bene anche le strofette sul babbo morto.
Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano.
Ecco, quando leggi Pascoli per davvero, questa cosa che hai sempre saputo ti si ripropone con violenza: ma sul serio ha potuto rivendersi così il babbo morto, sul serio ha potuto scrivere il X agosto? Cioè, certo che lo ha fatto, lo sai benissimo, però accidenti, riflettici: sparano a suo padre. Una cosa orribile – se lo vedono arrivare in casa con una pallottola in corpo – uno choc che cambierà l’esistenza sua e di tutta la famiglia. Un caso intricato, un’inchiesta infinita, con Pascoli arcisicuro di sapere chi è stato ma incapace di trovare la pistola fumante, eccetera. E su questa cosa, il poeta laureato Giovanni Pascoli, professore cattedratico, personaggio pubblico, scrive una filastrocca (dalla prosodia complicatissima e rivoluzionaria, con l’alternanza oltraggiosa di versi pari e dispari) con la rondine in croce che piigola piiigola sempre più piano, e l’insetto nel becco, e le bambole additate al cielo, e il cielo che piange! Nel 1896. Stavamo cominciando ad avvistare i satelliti di Nettuno, e Pascoli si prende una pagina del libro di lettura per raccontare ai bambini che il 10 agosto il cielo piange perché hanno ucciso suo papà. Una regressione allo stato infantile dell’umanità.
Uno alle elementari non ci riflette, è un bambino. Anche Pascoli finge di essere un bambino, lo sappiamo tutti, abbiamo tutti sostenuto almeno un’interrogazione sul Fanciullino ecc. ecc. E allo stesso tempo se ci rifletti – se rifletti all’idea di tornare alla tua scuola elementare e immaginarti al tuo fianco un professore cattedratico col grembiulino, che finge d’essere un bambino come te – ti rendi conto che Pascoli è il più osceno di tutti.
9 agosto – Richard Milhous Nixon si dimette dall’incarico di Presidente degli Stati Uniti d’America, in seguito agli sviluppi dello scandalo Watergate. È la prima volta che succede in duecento anni; l’unica, fin qui.
C’è un contrappasso incredibilmente ironico, nella vicenda di Nixon, che altri meglio di me avranno già fatto notare: il presidente che voleva intercettare i suoi avversari finì intercettato. Il Watergate comincia con una maldestra squadra di spioni repubblicani che cercano di incidere su nastro le conversazioni dei democratici, e finisce con Nixon costretto a divulgare i nastri delle proprie conversazioni alla Casa Bianca. A rileggerlo, uno non ci crede. I passi falsi che condussero l’uomo più potente del mondo verso l’uscita di scena sono di una goffaggine oggi implausibile.
I guai veri per Nixon cominciano nel luglio dell’anno precedente, quando un membro del suo staff ammette di fronte alla commissione d’inchiesta del Senato che sì, tutto quello che si dice nello Studio Ovale è registrato. C’è una specie di streaming, una monumentale opera di archiviazione su nastro che va avanti dal 1972! Il procuratore Archibald Cox chiede a Nixon di consegnare i nastri; Nixon non vuole saperne. Propone di consegnare un riassunto delle conversazioni a cura di un senatore (John C. Stennis) che è notoriamente duro d’orecchi. Cox si impunta: vuole i nastri. Nixon decide di silurarlo. Ma non è così facile. Il superiore di Cox è il procuratore generale Elliot Richardson. Quando Nixon domanda a Richardson di sollevare Cox dall’incarico, Richardson si dimette. Nixon si rivolge immediatamente al suo vice, William Ruckelshaus, e gli rinnova la richiesta di far fuori Cox. Si dimette anche Ruckelshaus. È il famoso “massacro del sabato sera”, dato che tutto avviene nella sera del 20/10/1973. Termina con Nixon che si fa portare in limousine alla Casa Bianca Robert Bork (dall’avvocatura di Stato), lo nomina procuratore generale e gli mette in mano la penna per firmare la rimozione di Cox. Il Congresso monta su tutte le furie, i cittadini cominciano a mandare telegrammi di protesta, i sondaggi danno gli elettori favorevoli all’impeachment al 44% (i contrari al 43%) e alla fine il successore di Cox non potrà non richiedere gli stessi nastri. Molto prima di poterli ascoltare, parlamentari e cittadini sono ormai sicuri che contengano cose incriminanti. Ma in realtà il primo nastro a far davvero parlare di sé contiene soprattutto silenzio.
Diciotto interminabili minuti di silenzio, là dove doveva esserci stata una conversazione. Chi ha cancellato quel nastro, che non era mai uscito dalla Casa Bianca? Il capro espiatorio porta il gentile nome di Rose Mary Woods, segretaria personale del presidente, che ammette di aver danneggiato il nastro premendo il pedale sbagliato durante una chiamata telefonica. Rec invece che Stop. Sono incidenti che succedono. Però Rose Mary dovrebbe aver premuto il pedale per almeno diciotto minuti. Lei si ritiene responsabile soltanto dei primi cinque. Ma era così facile sbagliarsi? Quando le chiedono di ripetere l’errore nel suo ufficio, Rose Mary diventa la protagonista di uno scatto famoso, battezzato “The Rose Mary Stretch”. È il momento in cui Nixon comincia a diventare ridicolo. Nel frattempo i tecnici a cui viene sottoposto il nastro scoprono che non è stato cancellato una volta, bensì nove. Il peggio comunque deve ancora arrivare.
Arriva a fine luglio ’74, quando viene divulgato il nastro noto come la “pistola fumante”. È una conversazione di due anni prima in cui Nixon propone di contattare la dirigenza della CIA per forzare l’FBI a cessare le indagini sul Watergate, per motivi di sicurezza nazionale. Il contenuto è sufficiente per accusare Nixon di aver ostacolato un’inchiesta federale. Ormai le dimissioni sono una scelta obbligata. Dopo aver ottenuto la grazia dal suo successore, Nixon continuerà a lottare per riottenere il possesso dei nastri, appellandosi al primo emendamento e lamentando l’intrusione della sua privacy. Dopo varie sconfitte, 25 anni dopo una corte gli darà ragione. I nastri e le trascrizioni oggi sono custoditi presso il Richard Nixon Presidential Library and Museum.
Oggi si registra ancora ogni conversazione nello Studio Ovale? Non saprei. In compenso so che cinque anni di mie conversazioni private sono state messe da Google a disposizione di un’agenzia di intelligence degli Stati Uniti. Google stessa mi ha di recente fatto sapere che ha intenzione di controllare sistematicamente quel che scrivo, dato che potrei pur sempre essere un orribile criminale. Il terminale su cui sto scrivendo ha una webcam che si può attivare a distanza, identificarmi e segnalare la mia presenza. Da questa distanza, l’imperatore Nixon scompare come un ladro di polli.
Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., è il critico musicale che durante il suo quarantennale servizio presso il blasonato Montly British Music Magazine conseguì un singolare record: riuscì a stroncare tutti i dischi dei Beatles. Pubblichiamo per la prima volta tradotte in italiano le sue brevi recensioni, che ci offrono un altro punto di vista su una delle più importanti avventure musicali del secolo scorso.
1963 – Please Please Me (Parlophone) Nella mia onorata carriera di recensore credevo di aver ormai frequentato ogni tipo di abominio musicale. A smentirmi sono accorsi questi quattro teddy boys di Liverpool, curiosamente ancora ignoti – per quel che ne sappiamo – al casellario giudiziale, ma purtroppo non alle classifiche. Si fanno chiamare “Beatles” (sic – l’ortografia non è il loro forte) e, in attesa di trovare un cantante, si arrangiano alternandosi al microfono con risultati che oscillano tra il patetico e l’agghiacciante. Il loro recente 45 giri non è soltanto balzato di recente al primo posto, ma ha anche trovato il punto di raro equilibrio tra stucchevolezza e sguaiataggine. Il 33 giri omonimo comincia con un ammicco alla pederastia (“She was just 17, you know what I mean”, santi numi) e si conclude con le urla beluine di un chitarrista in delirio alcolico od ormonale, non si capisce bene. In mezzo ci sono trenta interminabili minuti, scanditi tra rock’n’roll prevedibili e strani accrocchi di canzoni che qualcuno avrà pur scritto, ma nessuno si è preso la responsabilità di firmare – così che l’onere è stato assunto in persona da due componenti del gruppo – Oh, please, please, Mr Martin, questi hanno problemi con l’ortografia elementare, come possiamo figurarceli davanti a uno spartito?
1963 – With the Beatles (Parlophone) Che dire. Almeno il primo album aveva il vantaggio della novità. Ora che ormai li conosciamo bene – fin troppo bene – l’idea di trascorrere altro tempo ad ascoltarli risulta ancor meno sopportabile. Se almeno si limitassero a riciclare i soliti rock’n’roll di Chuck Berry o John Lee Hooker – ma no, loro devono spaziare. Dal bubblegum delle Marvelettes al rythm and blues di Smokey Robinson, gli Scarafaggi di Liverpool non disdegnano nessuna pietanza, purché sia già stata abbondantemente rimasticata da artisti dotati di maggior carattere e responsabilità. Tutto quello che Mr Lennon e Mr McCartney sanno aggiungere è qualche “whoa yeah”, per la gioia delle fan che, temiamo, stanno già stancandosi.
1964 – A Hard Day’s Night (Parlophone) Se il barile non era mai sembrato particolarmente ricco, non c’è dubbio che i Beatles ormai lo stiano raschiando. Al vertice della popolarità, con un film nelle sale e una ricca agenda di concerti e apparizioni televisive, ai “fantastici quattro” manca soltanto una cosa: nuove canzoni. Finito il vecchio repertorio delle taverne di Liverpool, Mr Lennon e Mr McCartney si ingegnano, per quanto è loro concesso, nel limitato ambito delle loro conoscenze lessicali e armoniche. Quando proprio non sanno che fare, cambiano testo a una vecchia canzone e la reincidono da capo (è il caso, in questo disco, di Any Time at All): colpa loro o di un pubblico di scarsa memoria e cultura musicale? Anche la sconfortante banalità dei testi non lascia immaginare nessuna possibile evoluzione. È triste constatare come le promesse del primo disco – sguaiato, sì, ma vitale – si siano infrante contro le dure necessità della promozione commerciale: e ci rimane il rimpianto di immaginare cosa sarebbero potuti diventare i quattro Beatles se il successo non li avesse incontrati troppo presto, cristallizzandoli prima della loro maturità e costringendoli a recitare – ora anche sul grande schermo – la parte degli allegri cafoncelli di Liverpool. (Continua…)
Non è questa – questa fu scartata (ma la preferisco).
8 agosto 1969 – Quattro Beatles attraversano una strada, un fotografo li immortala in una delle copertine più famose di tutti i tempi.
Abbey Road non è probabilmente il miglior disco dei Beatles. Non è il più conosciuto: soltanto i due capolavori di Harrison e Come Together sono noti al pubblico dei non appassionati. Non è l’ultimo – anche se fu l’ultimo a essere registrato, ma Let It Be suona molto più postumo. Non è il più allegro e non è il più triste. Abbey Road è semplicemente l’album più venduto dei Beatles: record imprevedibile che deve in parte alla sua copertina, e alla buffa leggenda che ne nacque immediatamente (la morte di Paul), procurando al disco una dose supplementare di pubblicità. Le voci di un probabile scioglimento fecero il resto (ma Let It Be, l’anno seguente, non vendette altrettanto bene). L’ironia è che si tratta di una delle copertine meno studiate di tutta la storia dei Beatles.
Nulla di paragonabile alla posa ‘esistenziale’ di Freeman per With the Beatles; alla composizione di Voormann per Revolver; allo spericolato patchwork di Sgt Pepper’s che mobilitò i legali della EMI; al minimalismo estremo del Disco Bianco. La copertina di Abbey Road è un’idea dell’art director della Apple, che ebbe il semaforo verde probabilmente perché richiedeva il minimo coinvolgimento possibile da parte dei quattro musicisti: pochi minuti di posa, sette scatti, fine. È difficile rendersene conto, dopo averla vista riprodotta e parodiata in centinaia di situazioni – dai Red Hot Chili Pepper nudi al quartetto vocale dei Simpson – ma quella di Abbey Road è una copertina tirata via. È persino goffa, come è sempre goffo chi cammina di profilo in un fermo immagine. La scelta di usare lo scatto più simmetrico contribuisce a dare una sensazione di impostura. La gente non cammina così. Neanche i Beatles camminano così. C’è qualcosa che non va. Qualcosa che non volete dirci. Forse dando un’occhiata ai dettagli – le targhe, il colore delle auto…
Nello scatto finale (che non è neanche questo), I Beatles non vanno verso gli studi di Abbey Road, ma provengono da lì (e se ne stanno andando).
L’ipotesi è che dietro ogni leggenda urbana vi sia una percezione di inquietudine. A volte è una nozione che non si vuole accettare, un concetto che si vuole correggere con l’immaginazione. Le scie chimiche sono probabilmente il modo in cui una piccola parte dell’umanità sta reagendo alla nozione di riscaldamento globale. Se il clima cambia, sarà colpa di un complotto malvagio; e la soluzione sarà semplice e immediata come spruzzare un po’ d’aceto. La leggenda della morte di Paul nasce nel tentativo di superare irrazionalmente una consapevolezza ormai diffusa: i Beatles non esistevano più. Era chiaro per chiunque avesse ascoltato il disco bianco – cioè per tutti – che i quattro musicisti milionari stavano prendendo vie diverse e inconciliabili. Era una nozione che doveva ormai aver raggiunto la pre-razionalità di milioni di ascoltatori. Un’idea fastidiosa da scacciare in un qualche modo – ed ecco nascere la leggenda: non sono i Beatles a morire, è solo Paul. Un freudiano potrebbe divertirsi a invertire: se Paul morisse, forse i Beatles potrebbero ancora vivere…
I Beatles si sono sciolti per tanti motivi: uno di questi è il tentativo di Paul McCartney di dare al gruppo una direzione, sia a livello artistico che di management. Tentativo che aveva senso, in un momento in cui Lennon era diviso tra Yoko Ono e l’eroina. Ma che non poteva non infrangersi contro la diffidenza degli altri tre. Lennon e Harrison stavano tutto sommato seguendo l’evoluzione del rock britannico di quegli anni: c’era stata la fase psichedelica, l’infatuazione per l’oriente, il ritorno al blues. McCartney, per contro, da Sgt. Pepper in poi aveva autonomamente stabilito che il destino dei Beatles sarebbe stato l’eclettismo. Nessun tipo di musica doveva restare fuori dai loro dischi: da cui classici per banda d’ottoni (When I’m 64), vaudeville anni Venti (Honey Pie), e altre musichette irritanti (Obladì, Obladà) che nessun gruppo di ventenni avrebbe mai avuto il coraggio di registrare. Su Abbey Road è la volta di Maxwell’s Silver Hammer, un altro brano estremamente cantabile su cui McCartney – nel tentativo forse di suonare meno stucchevole – monta un testo bislacco e violento. L’altra sua canzone ‘intera’, sul primo lato, è un pastiche di Fats Domino (Oh! Darling). Il vero contributo di McCartney al disco è la struttura del secondo lato, il mini musical che comincia al termine di Here Comes the Sun, qualcosa di simile alla scarica finale dei fuochi artificiali. Alla fine di otto anni di collaborazione, in capo a dieci dischi pieni zeppi di successi, i Beatles salutano il pubblico con venti minuti di canzoni ininterrotte, nessuna particolarmente riuscita: ma l’effetto complessivo strappa comunque l’applauso. A seconda di come la pensi sui Beatles può essere la cosa migliore o peggiore che abbiano fatto. Per Lennon era “spazzatura”: eppure suoi sono alcuni dei momenti più divertenti. Ma l’idea era chiaramente di Paul.
Un bus a due piani in effetti ci sarebbe stato bene (immaginate la faccia del conducente).
Anche stavolta, il concetto del musical aveva un senso: altri modi per riempire quel lato probabilmente non c’erano. Il gruppo aveva iniziato le sessioni di registrazione sapendo già che era l’ultima avventura – il che aveva paradossalmente calmato gli animi. Ma è la calma dei divorziandi, quando ormai sai che certe discussioni non devi semplicemente farle. Schiacciare undici canzoni in una facciata era probabilmente l’espediente migliore per evitare di mettersi a discutere su cosa tenere e cosa buttare: stringiamo un po’ e ci sta tutto. L’idea di lasciare la maggior parte delle canzoni in uno stato larvale era già operativa dai tempi del disco bianco: qui, semplicemente, tutto è compresso perché c’è meno spazio, c’è meno tempo, c’è una sensazione di fine imminente a cui McCartney cerca persino di dare un’espressione musicale, e la sua idea è di chiudere con una gara di assoli. Poi, alla fine di un primo missaggio spunta, dopo qualche secondo di silenzio, quel che resta di un aborto di canzone – trenta secondi in cui Paul esprime il proposito di farsi Sua Maestà – e Paul decide di includere anche quei trenta secondi. I Beatles finiscono così, con uno scherzo. Lennon avrebbe voluto finire con un taglio netto alla fine dell’incedere funebre di I Want You. Phil Spector opterà, l’anno seguente, per la più ottimistica Get Back. Ma Her Majesty è forse il finale più sensato: qualcosa di buttato lì in fretta, che comunque piacerà a milioni di persone – tra cui il sottoscritto – da parte di un gruppo che ormai incideva nell’inconscio collettivo anche soltanto attraversando una strada. Come fecero in un giorno d’agosto di esattamente 45 anni fa.
Quella notte, Charles Manson e i suoi accoliti si introducono nella villa di Roman Polanski e accoltellano Sharon Tate, al nono mese di gravidanza, e quattro amici che le tenevano compagnia. Manson dirà di aver ricevuto istruzioni dai Beatles, attraverso Helter Skelter.
7 agosto 1974 – Philippe Petit lancia un filo da una Twin Tower all’altra e ci cammina sopra.
Le twin towers non sono probabilmente mai esistite; ma se lo fossero, quarant’anni fa Philippe Petit si sarebbe introdotto in una delle due, e avrebbe mosso un passo dal cornicione al vuoto; e dopo quel passo un altro, verso il niente, cinquanta chili sospesi a quattrocento metri d’altezza, a disposizione dei venti.
6 agosto 1996 – La NASA annuncia di aver trovato tracce di vita marziana in Antartide
Diciotto anni fa ero da qualche parte in montagna quando lessi che non eravamo soli. Avevamo trovato gli alieni. Senza neanche troppo cercarli: li avevamo trovati in Antartide. Ed erano, pensate, marziani. Non per modo di dire. Erano davvero creature vissute sul pianeta Marte. Minuscole, invisibili – nanobatteri. Non erano giunti sulla Terra per loro volontà. Probabilmente non erano nemmeno arrivati vivi. Un impatto con un asteroide avrebbe staccato la roccia marziana su cui avevano lasciato minuscole tracce di vita e l’avrebbe trasformata in un meteorite, precipitato in seguito nel continente più misterioso della Terra. Era una storia incredibile, ma anche un po’ deprimente. Come scrisse Michel Houellebecq in un celebre libro che sarebbe uscito due anni dopo (non mi era mai capitato di sentirmi contemporaneo di un personaggio letterario):
Nel corso del telegiornale delle 20, Bruno Masure annunciò che una sonda americana aveva rinvenuto tracce di vita fossile su Marte. Si trattava di forme batteriche, verosimilmente archeo-methanobacterium. Dunque, su un pianeta prossimo alla Terra, alcune macromolecole erano riuscite a organizzarsi, a elaborare vaghe strutture autoriproducibili, composte da un nucleo primitivo e da una membrana sconosciuta; poi tutto si era bloccato, sicuramente per effetto di una variazione climatica: la riproduzione era diventata sempre più difficile, poi si era interrotta del tutto. La storia della vita su Marte si rivelava assai modesta. Frattanto (e Bruno Masure non sembrava averne piena coscienza), quel miniracconto di un fallimento un po’ ridicolo contraddiceva violentemente tutte le costruzioni mitiche o religiose che tradizionalmente fanno la gioia dell’umanità. Non c’era nessuna azione unica, grandiosa e creatrice; non c’era nessun popolo eletto, né c’erano specie o pianeti eletti. C’erano soltanto, un po’ dappertutto nell’universo, tentativi incerti e in genere poco convincenti. Tutto ciò era, fra l’altro, di una monotona spossante. Il DNA dei batteri marziani sembrava perfettamente identico al DNA dei batteri terrestri. Quest’ultima considerazione in particolare lo riempì di una lieve tristezza, già di per sé segno di depressione. Un ricercatore in condizioni normali, un ricercatore in buone condizioni di funzionamento, avrebbe dovuto invece compiacersi per quella identità, vedervi la promessa di sintesi unificanti. Se il DNA era dappertutto identico, dovevano per forza esserci ragioni profonde legate alla struttura molecolare dei peptidi, o magari alle condizioni topologiche dell’autoriproduzione. Tali ragioni profonde doveva esser possibile scoprirle; da giovane, pensò Michel, una siffatta prospettiva l’avrebbe riempito di entusiasmo. In seguito la storia dei nanobatteri – divulgata dalla Nasa, annunciata in pompa magna dal presidente Clinton – fu completamente smontata, come quella dei neutrini che dal Gran Sasso a Ginevra trovavano una scorciatoia più veloce della luce. Un gruppo di scienziati in laboratorio riuscì a creare le stesse tracce senza ausilio di nanobatteri. Siamo ancora soli, per adesso.
La notte tra il 4 e il 5 agosto del 352, il ricco patrizio Giovanni riceve una visita in sogno della vergine Maria, che si congratula con lui per il proposito recentemente espresso di finanziare una chiesa in suo onore, e gli suggerisce di erigerla nel luogo che il mattino dopo sarà ritrovato ricoperto di neve. La mattina dopo la moglie gli riferisce di aver fatto un sogno molto simile. Vanno immediatamente a raccontarlo a Papa Liberio (siamo tra l’Editto di Milano e quello di Tessalonica, la Chiesa non è più clandestina ma non è ancora Chiesa di Stato, e anche i papi sono ancora tizi alla buona che ti ricevono in giornata, specie se sei patrizio). Il quale papa Liberio risponde: ma sapete che credo di aver fatto lo stesso sogno anch’io? Proprio in quel momento irrompe in scena un figurante: Santità, sull’Esquilino è successa una cosa molto singolare. È nevicato. Non dappertutto, no. Solo in uno spiazzo. Uno spiazzo a forma di basilica. Chissà cosa vuol dire.
La basilica liberina, o “Ad nives”, è il primo nucleo di Santa Maria Maggiore, la più antica delle quattro basiliche papali di Roma. In realtà la parte più antica della costruzione dovrebbe risalire al papato di Sisto III, nel secolo successivo – poi rimaneggiata e ingrandita più volte nel corso dei secoli. Prima di questa doveva esserci una chiesa ancora più antica, consacrata però al Credo niceano. Quella di Sisto è invece dedicata alla Madonna, che era stata da poco proclamata “madre di Dio” durante il concilio di Efeso (i nestoriani, che la ritenevano soltanto madre della parte umana di Cristo, furono contestualmente dichiarati eretici). Il nome di Madonna delle Nevi fu progressivamente accantonato, specie a partire dalla Controriforma, quando l’antico miracolo delle nevi fu accantonato in quanto privo di fonti serie. La festa del 5 agosto divenne, ufficialmente, la “dedica della basilica di Santa Maria Maggiore”. Ma ancora viene ricordata con un lancio di petali di rosa dalla cupola. (Continua sul Post…)
4 agosto 2005– Il diciannovenne israeliano Eden Natan-Zada fa fuoco in una corriera, uccidendo quattro connazionali arabi e ferendone altri dodici, prima di essere linciato. Eden Natan-Zada oggi avrebbe ventotto anni, magari sarebbe in spiaggia con una moglie giovane e una bambina. Invece è morto linciato da una folla di gente che avrebbe voluto uccidere, a uno a uno, con una pistola a ripetizione. Eden Natan-Zada nasce nel 1986, da una famiglia giunta in Israele dall’Iran. I famigliari lo descrivono come un bravo ragazzo studioso che avrebbe conosciuto il kahanismo attraverso internet. Il kahanismo è l’ideologia sviluppata da Meir Kahan, il fondatore della Jewish Defense League, riconosciuta come organizzazione terroristica da Israele, USA e UE.
Per Kahan lo Stato di Israele, centro universale dell’ebraismo, è minacciato nella sua stessa esistenza da nemici arabi che non si arrenderanno mai; l’unica soluzione è la guerra – esatto, sì, questo progetto in Israele è considerato terroristico, non so se sia il caso di avvisare Rondolino. L’obiettivo della guerra dovrebbe essere un grande Israele teocratico comprendente Gaza, Cisgiordania e anche un po’ di tutti i Paesi confinanti, incluso l’Iraq. Agli arabi residenti sarebbero tolti i diritti civili – solo gli ebrei avrebbero diritto di voto.
Un vero e proprio contatto coi kahanisti, Natan-Zada potrebbe averlo avuto nell’insediamento di Kfar Tapuach, in Cisgiordania, dove passava spesso i fine settimana e dove infine si rifugiò per evitare il servizio militare. Secondo Matthew Gutman, del Jerusalem Post, a Kfar Tapuach era presente una cellula di kahanisti.
È l’estate del 2005. Il piano di sgombero degli insediamenti di Gaza, annunciato da Sharon sin dall’anno scorso, sta per diventare operativo. I coloni di Gaza si stanno preparando, chi al trasloco, chi all’assedio. Alcuni aspetteranno l’esercito israeliano con il filo spinato, e rovesceranno acido sui ragazzi di leva venuti a sgomberarli. Ma Eden Natan-Zada non sarà tra quei ragazzi. Qualche giorno prima ha scritto: “come non potrei mai eseguire un ordine che dissacrasse il Sabato, così non posso essere parte di un’organizzazione che espelle gli ebrei”. L’organizzazione in questione può essere l’esercito di Israele, o Israele tout court. La famiglia ha già denunciato la scomparsa del figlio, facendo presente che ha ancora con sé parte del suo equipaggiamento militare.
Shefa Amr è una cittadina di trentamila abitanti nel nord di Israele, per la maggioranza arabi, musulmani cristiani e drusi. È arabo Michel Bahus, l’autista del bus che quando vede salire a bordo un soldato IDF con la kippah, la barba e i ricciolini, gli chiede se è sicuro di non aver sbagliato destinazione. Sono arabi tutti i passeggeri. Quando il bus arriva nel quartiere druso, Natan raggiunge il conducente, attende che abbia aperto lo sportello, e gli spara. Poi spara a Nader Hayek, che sedeva dietro il conducente. Poi spara verso il resto dei passeggeri e riesce ad ammazzare due ragazze, due sorelle ventenni: Hazar Turki e Dina Turki. Poi si ferma a ricaricare, e in quel momento un passeggero gli afferra la canna della pistola, ustionandosi. È un attimo: chi non si è ferito gli arriva addosso. Lo portano fuori, lo ammazzano a mani nude. Nove poliziotti si feriscono nel tentativo di impedire il linciaggio. Dopo una lunga inchiesta, un processo nel 2013 riconoscerà tra la folla sei colpevoli di omicidio. Un loro avvocato mostrerà un filmato preso da un drone durante l’attentato: la tesi (spericolata) è che Eden fu lasciato libero di agire. Già in precedenza serpeggiava una teoria del complotto presso gli attivisti del movimento contro lo sgombero degli insediamenti: Eden sarebbe stato usato per screditare tutto il movimento. In ogni caso Sharon si precipitò a definirlo un “terrorista israeliano assetato di sangue”.
Bahus e Hayek furono sepolti in un cimitero cristiano; le sorelle Turki in un cimitero musulmano. Nessun cimitero ebraico era pronto per accogliere Eden Natan-Zada. In particolare la comunità di Kfar Tapuach non voleva saperne, lo sconfessò apertamente. Alla fine si riuscì a trovare un posto in un cimitero civile, ma ci vollero due giorni.
In un primo momento i famigliari delle vittime e i feriti non ebbero gli indennizzi previsti dalle leggi sul terrorismo, perché Eden Natan-Zada non era ufficialmente affiliato a nessuna organizzazione terrorista. Un matto, non un terrorista. La legge – veramente molto discutibile – fu modificata l’anno successivo.
Il ritiro da Gaza proseguì più o meno secondo il piano previsto. Già l’anno prima uno stretto collaboratore di Sharon, Dov Weisglass, aveva spiegato con molta franchezza ad Haaretz come questo ritiro non significava il riconoscimento di una Palestina indipendente, ma preparava uno scenario di piccola-guerra-infinita che è più o meno quello in cui vivono e crescono oggi israeliani e palestinesi. IDF e Hamas li armano, e su internet trovi tutta l’ideologia che ti serve. Buon 4 agosto, Shalom.