arti contemporanee, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo

Poteva andarti peggio, potevi nascere in una famiglia situazionista

La famiglia Fang (The Family Fang, Jason Bateman, 2015).

Sono traumi che uno poi si porta dietro per tutta la vita, capite

Chi ha rovinato i fratelli Fang? Anne è un’attrice già di successo, con problemi di alcol, di casting, di età. Suo fratello Baxter è uno scrittore di successo con problemi di pillole e il terzo libro bloccato al terzo capitolo. Se solo avessero avuto due genitori normali, e non due artisti d’avanguardia che hanno movimentato la loro infanzia rendendoli protagonisti di scherzi cretini… come si dice in italiano First World Problems? Forse è troppo tardi per inventarsi una traduzione, man mano che quel primo mondo scompare all’orizzonte con tutti i suoi conflitti generazionali immaginari.

Interpreta il ruolo di un’attrice che per restare sulla breccia
comincia a concedere scene in topless.
(Ma siccome la vera Kidman non è messa così male,
questo è tutto il topless che vedrete).

Forse non è solo merito di Cristian Mungiu se i problemi di un padre di famiglia nella Romania in sfacelo mi appassionano di più di quelli di due quarantenni wasp di successo, ancora arrabbiati coi genitori che non li hanno portati in gita col camper nel Grand Canyon. Forse Nicole Kidman (che ha fortemente voluto il film, e lo ha prodotto), per quanto credibile nel ruolo di grande attrice perennemente insicura, non lo è altrettanto nel ruolo di orfana irrisolta; forse Jason Bateman, a cui non manca il mestiere, ha perso del tutto di vista l’aspetto comico della situazione (che a un Baumbach, per esempio, non sarebbe sfuggito).

Forse l’autore del libro, Kevin Wilson, è stato abbastanza furbetto da inserirsi nel filone dell’eterna guerra tra la generazione X e i baby-boomers, costruendosi a tavolino l’avversario più facile del mondo: gli artisti concettuali, sempre sui loro piedistalli immaginari, il narcisismo imbastito all’accademia e mai più messo in discussione che si rivela, a una certa età, misantropia bella e buona. Se almeno fossero personaggi realmente esistiti… (continua su +eventi!)

arti contemporanee

Distruggere street-art è cosa buona se

Ieri ho perso il polso della mia generazione. A Bologna due comitati cittadini avevano deciso di distruggere tutti i graffiti di Blu: vent’anni di opere di uno degli street artist più apprezzati in Italia, ma credo anche al mondo. Mentre assistevo da lontano allo scempio, mi aggiravo sui social network e invece dello scroscio di indignazione che mi aspettavo, non trovavo che applausi: ben fatto, bravi. Persino chi quei graffiti li apprezzava, chi ci era affezionato, chi li identificava con la Bologna in cui si svegliava e cercava di parcheggiare ogni mattino, persino loro cercavano di levarsi la lacrima in fretta: ok, è un gesto doloroso, ma necessario, vai col grigio. Ma cosa siamo diventati.

Il Resto del Carlino.
(Notare il dilemma nel volto ansioso dei vigili:
difendere l’arte o l’artista?)

Sì, sto barando. I due “comitati cittadini” in realtà sono due centri sociali di Bologna, e soprattutto la decisione di distruggere i graffiti è stata presa dall’autore stesso, che in quest’occasione almeno svela un’idea della proprietà intellettuale abbastanza radicale: se magari passando davanti a una sua opera per vent’anni qualche abitante si era illuso che la tal parete colorata appartenesse alla città, ne facesse parte, ebbene, non proprio: era più un affitto, o quel tipo di licenza che compri quando credi di comprare certi libri in formato digitale: un bel giorno ti svegli e non c’è più, e non puoi farci niente.

Ecco, più della scelta dell’artista – discutibile e discussa, del resto è un artista – m’interessa la nostra reazione. Se a passare rullate di grigio sui personaggi di Blu fosse stato un comitato di benpensanti, allora sì, avremmo protestato contro l’arretratezza culturale ecc. ecc.. Ma l’ha deciso Blu. Se l’ha deciso Blu diventa una straordinaria e coraggiosa prova di integrità artistica, che è forse la cosa che apprezziamo di lui – molto più dei suoi disegni, dal momento che abbiamo preferito tenerci l’integrità e rinunciare a questi ultimi.

Forse non ho il polso dei miei coetanei perché, davvero, io tendo a ragionare come sopra: non giudico i fatti dalle premesse, ma dalle conseguenze. mi sveglio, vedo muri grigi dove prima c’erano opere straordinarie (e angosciose, va detto), e mi sembra una prepotenza nei confronti dei cittadini che fruivano di quelle opere ogni giorno. Per i più invece è sempre una questione di intenzioni: non importa cosa combini, ma per quale motivo. Ad esempio un eventuale comitato per il decoro e la tristezza urbana avrebbe distrutto le medesime opere ottenendo il medesimo risultato, ma con le intenzioni sbagliate. Invece se è Blu stesso, l’autore! che deve protestare perché Roversi Monaco ha rubacchiato qualche opera – a lui o a un collega, non è chiaro – allora ok, il motivo è coerente con le premesse, e il fatto che centinaia di migliaia di bolognesi si sveglino con qualche parete grigia in più è ininfluente.

Davvero ininfluente, non sono ironico: per molti di quei bolognesi avere un muro grigio è preferibile ad avere uno street-artist incoerente o compromesso col potere. È un’opinione trasversale, che unisce Wu Ming e Philippe Daverio sul Resto del Carlino. I muri grigi stanno per diventare il capolavoro di Blu, il che mi riporta a una domanda precedente: ma le opere di Blu vi piacevano davvero così tanto? Non è che preferite il personaggio, lo street-artist come moderno Robin-Hood che sfida il potere regalando ai poveri un’arte contemporanea che i ricchi se la sognano – e quando i ricchi se ne accorgono e cercano di ritagliarne dei pezzi per metterli nel Museo Borghese, lui, ehm, lui si arrabbia e ritira tutti i regali che aveva fatto ai poveri, ecco, mi è esplosa la metafora in mano.

Scusate, ma la situazione è persino più paradossale del solito. Qualcuno forse ha già denunciato Blu e i suoi fiancheggiatori per vandalismo, il che ci sta, e in alcuni casi sarà anche la prima ammissione che quello che è stato distrutto era arte. Che uno street artist non sia tenuto a rispettare le regole della civile convivenza è una banalità – ma come fare da qui in poi a distinguerli: metti che uno street artist si metta a distruggere le opere di un altro street artist, ne avrà il diritto? – o metti che qualche diabolico comitato di borghesi benpensanti si infiltri in un centro sociale e con due cazzate di Adorno lette al liceo (non c’è niente di più borghese della polemica contro i musei) sobilli i giovani idealisti e li armi di rulli e vernice grigia: chi è che noterà la differenza?

Nel frattempo Blu sarà diventato ancora più importante e quotato di quanto non sia ora: le non rare foto dei suoi graffiti consentiranno magari ai bolognesi della prossima generazione di ridipingerli tali e quali negli stessi luoghi, il che fornirà madeleines incredibili ai trentenni del 2030: “Ci passavo davanti tutti i giorni, che paura mi faceva! Ma quando l’hanno cancellato ho pianto“. Questa cosa potrebbe fare arrabbiare ancora di più lo street-artist, che immagino reclami per sé e sé solo ogni diritto su ogni sua opera… per quanto tempo? Facciamo 70 anni, come il diritto d’autore? Se muori prima passa agli eredi? Come funziona? Forse sarebbe meglio parlarne. Sul serio, non discuto il diritto di Blu a impossessarsi di un muro della collettività e a trattarlo come suo anche dopo quindici, vent’anni: proprio perché preferisco, quando posso, giudicare dai risultati, e i risultati mi sembravano buoni. Fino a che si trattava di una trasgressione variamente tollerata da cittadinanza e amministratori, non creava grossi problemi: ma a questo punto si passa alla fase più delicata, quella in cui l’antipotere si trasforma in potere e si arroga non solo il diritto di creare, ma anche quello di distruggere, secondo leggi che almeno io non ho capito bene.

arti contemporanee, drogarsi, italianistica

Soprattutto non leccare la clessidra

Una nuova rubrica: novità in libreria. Perché ho scoperto che sono ancora aperte, cioè, a parte il reparto infanzia ovviamente.

Rewind, di Federica De Paolis

Zeno è un broker divorziato e determinato che si innamora di Talila, un’addetta stampa con un misterioso passato. Talila ha avuto una figlia da Rocco, pittore tormentato e narciso scomparso nel nulla. Se mi avessero detto: scegli tre personaggi apparentemente antipatici, estraili dai contesti professionali più stronzoidi che riesci a immaginare, non sarei riuscito a individuare un terzetto così: uno speculatore rampante, un’accompagnatrice dei divi, un pittore di quelli che azzeccano una personale da giovani e poi campano un po’ di rendita e un po’ di espedienti.

Se non altro con individui del genere il rischio del minimalismo è scongiurato: la De Paolis è turbobalzacchiana, i suoi uomini (sempre un po’ femminili) e le sue donne (un tantino virili) sono continuamente pervasi da desideri che li riempiono e li vuotano come vesciche. La droga, naturalmente, ma è quasi sempre un termine di paragone, perché il sesso è una necessità violenta tanto quanto la droga (Talila va in crisi d’astinenza); ma anche il fitness è una droga, il successo professionale e artistico è una droga, i figli che dovrebbero costringerti a drogarti meno possono diventare, comunque, una droga essi stessi: e comunque anche loro si drogano già, da bravi parassiti appiccicati ai genitori sopravvissuti ne suggono i sensi di colpa e non gliene basta mai, hanno bisogno di dosi sempre più massicce.

La droga è in sostanza il modo in cui scegliamo di vivere, chi centellinando i giorni con metodo, chi sbandando forsennato da un continente all’altro, da un amore all’altro, da una dipendenza all’altra. Non sono considerazioni così originali, ma Rewind riesce lo stesso a disorientare il lettore (che secondo me è sempre un bene), pur svelando il trucco sin dal titolo: la storia va a ritroso, mostrando prima gli effetti e poi le cause. Così la De Paolis celebra l’esorcismo di una delle angosce meno note che la nostra generazione si porta dentro: la vertigine che ci prende ogni volta che conosciamo una persona interessante più o meno della nostra età e ci rendiamo conto che, mioddio, dietro potrà avere come minimo trent’anni di passato da raccontarci. Chissà quante storie ovviamente sempre finite male (ci scopriamo a sperarlo), chissà quali droghe e quando e con chi, chissà quanti romanzi e se li vogliamo leggere tutti veramente. Almeno Rewind va giù rapido, in tre botte secche.

arti contemporanee

Altre gioconde più gioconde dell’originale

5. Sapeck (Eugène Bataille): La Joconde fumant la pipe (AKA Le rire)

Il montaggio del vignettista Sapeck potrebbe passare per la solita provocazione dada-surrealista – non fosse stata composta addirittura nel 1883! Sapeck la produsse per l’esposizione degli Incoherents, un movimento artistico che anticipa il dadaismo di trent’anni – che a cavallo tra Otto e Novecento sono l’equivalente di un’era geologica. Li capeggiava un tale Jules Lévy che non disdegnava di sfilare con le ballerine del Folié Bergères – decisamente molto avanti. Forse troppo. Il capolavoro di Lévy è un quadro completamente nero intitolato Combattimento di negri in un tunnel. Sapeck si contenta di firmarsi mentre fa quella cosa che tuttora fanno il trenta per cento degli studenti medi sui libri di testo di Storia dell’Arte: riempire compulsivamente la bocca dei soggetti ritratti con oggetti che nel Novecento chiameremo fallici. Ciò è molto liberatorio. I più sofisticati invece disegnano barbe e baffi – ci penserà Duchamp una generazione più tardi.

6. Marcel Duchamp, L. H. O. O. Q.

Tra Sapeck e Duchamp c’è più che una semplice generazione. “Elle hache o o qu” (La signora ha caldo al culo) appare nel 1919, quarto centenario della morte di Leonardo. Peruggia è libero da poco, la sua Gioconda è appena diventata l’immagine pittorica più famosa del mondo. Anche il paesaggio – ignorato nel proto-ready-made di Sapeck – ormai è quello canonico che ci aspettiamo in ogni Gioconda che si rispetti. Nella versione di  Duchamp non c’è soltanto l’irrisione, l’iconoclastia futurista svoltata in burletta, il ready made; c’è anche una proposta: e se fosse un uomo? Non sarebbe poi così male. C’è persino chi sostiene che anche Duchamp coi baffi e il pizzetto stesse in realtà tracciando un suo autoritratto: come Salì, come Dalì, come lo stesso Leonardo… insomma non c’è niente da fare, qualsiasi sgorbio tu faccia prima o poi qualcuno dirà che ti somiglia. Anche due baffi su una cartolina. Ma a questo punto forse bisognerebbe rivedere con più attenzione Fontana, il pisciatoio esposto da Duchamp due anni prima…

(Resta on line se non sei sazio di nuove originalissime gioconde).

Almanacco, arti contemporanee, Leonardo sells out

Il più grande furto d’arte di tutti i tempi, forse

I ladri fotografati mente si portano
via l’Urlo in pieno sole.

22 agosto 2004 – falsi pompieri rubano una versione dell’Urlo di Munch da un museo di Oslo. Non è neanche la prima volta. Sarà ritrovato due anni più tardi.

Definito da Arthur Lubow “la Gioconda dei nostri tempi”, l’Urlo di Munch ha in comune anche la complicata questione dell’originalità: non esiste ‘un’ Urlo, ma almeno quattro versioni d’autore, tutte considerate originali. Persino il furto dell’Urlo, dieci anni fa, non è originale: nel ’94 un’altra copia era sparita dieci anni prima, sostituita da un biglietto in cui si ringraziava la galleria nazionale di Oslo per la scarsa sorveglianza. Due anni fa una versione a pastello è stata battuta da Sotheby’s per 119 milioni di dollari; solo un Francis Bacon è stato venduto a un prezzo più alto. Attualmente quell’Urlo è la decima opera d’arte al mondo per quotazione, in una classifica guidata dai giocatori di carte di Cézanne, dove la Gioconda neanche compare (non c’è più nessun maestro del Rinascimento: tutti spodestati a partire dagli anni ’80). A proposito, quanto costa la Gioconda?

Difficile dirlo. L’ultima volta fu assicurata per cento milioni di dollari (durante il tour americano del 1962, in cui incontrò anche Kennedy – i Beatles due anni dopo non fecero in tempo). Tenuto conto dell’inflazione, oggi sarebbero 780 milioni, più del doppio del quadro di Cézanne. Ma è una cifra senza senso: l’assicurazione non è stata rinnovata. Il Louvre ha ritenuto preferibile investire in sicurezza. Peraltro, a questo punto l’oggetto è diventato talmente iconico che persino un mitomane, un terrorista o qualsiasi Etostrato non potrebbe che distruggerne l’involucro esteriore, quella fragile tavola di legno che è destinata a deteriorarsi comunque nel giro di qualche secolo. L’immaginario collettivo non ci perderebbe nulla: l’immagine ormai è fissata in miliardi di terabyte che saranno nella nuvola finché ci sarà un’umanità interessata a questo tipo di cose. Anzi, una fine tragica renderebbe l’icona ancora più indelebile nelle nostre coscienze. Anche il Louvre in realtà non avrebbe che da perdere un quadro molto complicato da gestire e custodire: la fila che oggi si forma davanti al capolavoro si sbrigherebbe a trovare qualche altra opera-feticcio; non è che la gente abbia smesso di andare a NY perché non ci sono le due torri (tutto il contrario, direi). Insomma Monna Lisa a levarsi di mezzo ci farebbe quasi un piacere.

E poi magari a quel punto salterebbe fuori l’originale.

“30 are better than one” (Andy Warhol)

D’accordo, ormai si è convenuto che non esiste un ‘originale’. Esiste un’idea nella testa di un artista perennemente insoddisfatto, che si porta con sé un quadro per molti anni modificandolo in continuazione: non per arrivare a un risultato finito, ma perché l’opera deve rimanere aperta come la vita. Poi l’artista muore, e l’opera non-finita diventa quella che tutti conosciamo come originale. Non corrisponde necessariamente all’ultima idea di Leonardo sulla Gioconda – sempre ammesso che l’ultima sua idea ci debba interessare più di quelle che aveva da giovane: coi musicisti e gli scrittori non funziona così, spesso preferiamo le versioni giovanili. Senz’altro se confrontiamo una dozzina di copie d’autore, la Gioconda del Louvre spicca: non per la conservazione (molti dettagli sono spariti, ad es. le sopracciglia che Vasari aveva pur visto), non per la finitezza, e allora per cosa? Siamo completamente sicuri di preferire la Gioconda del Louvre perché è migliore di quella del Prado o di Baltimora, e non perché corrisponde alla nostra idea interiore di Gioconda – che perlappunto è modellata sulla Gioconda del Louvre? Cosa vogliamo vedere quando vediamo Monna Lisa Gherardini del Giocondo? Un ritratto enigmatico su uno sfondo etereo e straordinario, o più semplicemente una faccia nota che ci conforti, che ci faccia sentire a casa anche quando ci avventuriamo nelle foreste sconosciute delle gallerie d’arte?

E se Peruggia avesse cambiato le carte in tavola, esibendo agli esperti fiorentini una copia d’autore diversa da quella che aveva trafugato al Louvre? Se i due anni tra il furto e l’arresto non li avesse trascorsi in cenette romantiche con la Gherardini, ma in attesa di contattare un collezionista in grado di fare uno scambio del genere? Qualcuno già in possesso di una copia molto buona della Gioconda, tuttavia ritenuta imperfetta perché… mal conservata, senza sopracciglia, senza balaustra e colonne. E’ un’ipotesi da blog d’agosto, e però pensateci: questo spiegherebbe l’apparente dabbenaggine con cui Peruggia si fa arrestare: i soldi veri non sperava certo di farli a Firenze; magari li aveva già messi da parte in Svizzera per la famiglia. Non restava che fare il matto patriottico e portar pazienza un paio d’anni.

Geri e Poggi si rendono conto subito di avere per le mani un’opera eccezionale: ma possono essere sicuri che sia davvero quella trafugata al Louvre due anni prima? Le foto in bianco e nero e i quadri a colori ci mostrano un dipinto che potrebbe essere una qualsiasi delle Gioconde disseminate nelle collezioni d’Europa e America. Non è nemmeno facile capire se ci fossero le colonne o no. Alcune Gioconde (come quella del Prado) le mostrano ai bordi estremi del quadro. La Gioconda ritrovata a Firenze proprio non le ha, né è possibile che siano state tagliate in un secondo momento.Però le aveva la Gioconda di Reynolds, quella che dovrebbe essere stata dipinta a Parigi. Perché aggiungere le colonne, se l’originale del Louvre non le ha?

A meno che… a Parigi non fosse esposta un’altra Gioconda. Quella versione sulla quale già il segretario dell’Académie aveva espresso i suoi dubbi a Reynolds – e non sono considerazioni che si buttano lì a cuor leggero. Forse Peruggia trafugò quella, e poi la scambiò col collezionista che possedeva la versione mal conservata, senza sopracciglia, che oggi è diventata la Gioconda iconica che tutti riconosciamo. Quel collezionista avrebbe fatto l’affare peggior della Storia – e Peruggia sarebbe il più grande ladro di tutti i tempi.

E poi ovviamente c’è lo scenario “inside job”. Possibile che Peruggia riesca a uscire dal Louvre con un capolavoro in un cappotto senza che nessuno sospetti di nulla? Svegliaaaa! Metti che al Louvre avessero due versioni. E’ uno spreco, no? Si inscena il furto, si mette in commercio una delle due versioni (magari è una delle copie spuntate qua e là nel corso del secolo), e dopo un paio d’anni si ritrova l’altra – per il rocambolesco avvenimento, quale scenario migliore di Firenze? Risultato: tanta pubblicità, e qualche milione di franchi in cambio di un quadro che a Parigi sarebbe stato soltanto un doppione – mentre i visitatori vogliono l’Esperienza Unica. Non era ancora arrivato Andy Warhol a spiegarci che 30 gioconde “are better than one”…

arti contemporanee, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo

Bastardi senza estetica

 Monuments Men (George Clooney, 2014)

C’è un treno che sta per partire da Parigi, pieno zeppo di capolavori che Paul Labiche non saprebbe riconoscere. Lui è solo un ferroviere nella Resistenza. Ed è Burt Lancaster, quindi il Terzo Reich quel treno se lo può scordare. Che gran film, Il treno di Frankenheimer. Che voglia di correre a casa a guardare Burt che suda e schioda traversine, invece di restare in sala a guardare i Monuments Men, domandandoci continuamente se è più un problema di messa in scena confusa, di scrittura sfilacciata, o di produzione distratta: se insomma le responsabilità del disastro vanno maggiormente ascritte al regista (George Clooney), allo sceneggiatore (George Clooney) o al produttore (George Clooney). Bella lotta.

In tutti i casi, si tratta del primo vero passo falso di George Clooney, dopo una serie di titoli (Confessioni di una mente pericolosa – Good Night and Good Luck – In amore niente regole – Le idi di marzo) che ci avevano fatto sospettare di avere davanti un vero autore, coraggioso, versatile. E invece. Ci sono tanti registri in cui si può raccontare una storia della Seconda Guerra Mondiale, e Monuments non ne azzecca uno solo. Spielberg ne avrebbe approfittato per organizzare una vera caccia al tesoro; non si sarebbe contentato di far ripetere ogni cinque minuti a qualche attore “ma un’opera d’arte vale la vita di un uomo?” Nel momento topico avrebbe spudoratamente messo un protagonista davanti al bivio concreto: la pala di Van Eyck contro la vita di un tuo amico. Tarantino avrebbe colorato di rosso sangue lo stesso treno di Frankenheimer, pompando ancora di più il contrasto tra un nazista sofisticato e fine connaisseur e qualche burino del midwest senza nozioni di estetica. Soderbergh avrebbe lasciato tutto in bianco e nero, lasciando ancora più spazio al cameratismo tra vecchi attori, magari chiedendo a Murray di imitare Robert Mitchum. Clooney oscilla tra un’opzione e l’altra senza trovare un equilibrio; vorrebbe mostrarci che la guerra è una cosa assurda ma anche che è giusto combatterla, ma anche che bisogna scherzarci su, però con molto rispetto per le vittime e per il patrimonio artistico. Nel frattempo gli alleati stanno radendo al suolo mezza Germania coi bombardamenti, e George fa questa curiosa scoperta: ehi, i tedeschi trattano meglio le opere d’arte che i prigionieri. E certo, che ti credevi: son nazisti, la loro economia di guerra è basata sulla razzia, e i capolavori, quelli che il tuo sciagurato doppiatore chiama “conseguimenti”, per loro sono una parte cospicua del bottino. Non è un caso che li nascondano assieme ai lingotti della riserva aurea.

Sono gli Alleati, piuttosto, a sembrare piuttosto disinteressati ai patrimoni dell’umanità (continua su +eventi!)

arti contemporanee, coccodrilli, karaoke esistenziale, lavoro, musica, traduzioni

Avresti dovuto scriverne 15

Lavoro

Andy era cattolico, con l’etica nella spina dorsale.
Viveva da solo con sua madre collezionando maldicenze e giocattoli.
Ogni domenica, quando andava in chiesa
s’inginocchiava e diceva:

È lavoro.
Importa solo il lavoro.

Andy era tantissime cose;
quella che ricordo di più,
è quando diceva “Devo portare a casa la pagnotta”,
“qualcuno deve portare a casa il salame”.
Arrivava alla Factory per primo,
se glielo chiedevi te lo diceva in faccia:

È lavoro
La cosa più importante è il lavoro.

Non importava cosa facessi, non sembrava mai abbastanza;
diceva che ero pigro, io dicevo che ero giovane.
Mi chiedeva “quante canzoni hai scritto?”
Ne avevo scritte zero, mentivo e gli dicevo “dieci”.

“Non sarai giovane per sempre,
avresti dovuto scriverne quindici:

È lavoro
Quello che importa è il lavoro”.

Mi ordinava di fare cose grandi:
alla gente piacciono così.
E le canzoni con le parolacce:
si assicurava che le registrassi così.
Andy adorava creare polemiche,
pensava che fosse divertente.

“È lavoro (diceva)
importa solo il lavoro”.

Andy mi fece un discorso un giorno,
“Decidi cosa vuoi fare.
Vuoi espandere i tuoi parametri
o giocare al museo come un dilettante?”
Lo licenziai su due piedi,
si fece rosso e mi diede del sorcio.
Era la parola peggiore a cui riusciva a pensare,
non l’avevo mai visto così.

Ma era solo lavoro.
Pensavo che avrebbe detto “è lavoro”.

Andy diceva tante cose, le custodisco tutte nella mia testa.
A volte, quando non riesco a decidere che fare,
mi chiedo: cosa mi avrebbe detto Andy?
Probabilmente mi direbbe: “Tu pensi troppo,
si vede che c’è del lavoro che non vuoi metterti a fare.

Ma è lavoro.
La cosa più importante, il lavoro”.
Il lavoro.
Quello che importa è il lavoro.

Lou Reed (1942-2013), John Cale. Da Songs for Drella, 1990.

arti contemporanee, la musica è finita, musica

Sentimmo il taglio finale

Anche questa cosa di Blob merita una spiegazione, perché può risultare incomprensibile, nel momento in cui tutto è diventato Blob, nel momento in cui Rai1 mette una cosa rétro-blob in prima serata tutti i giorni per tre mesi l’anno e sbaraglia gli ascolti. Eppure c’è stato un periodo in cui Blob stava a tutto il resto del flusso televisivo come l’antimateria alla materia, sembrava un artista di avanguardia caricato sulla corriera della gita aziendale, un alieno come ci sono in certi libri di fantascienza, che non avendo una bocca o una lingua come l’abbiamo noi per tentare di comunicare coi terrestri deve copia-incollare lacerti audio o video captati dalle nostre trasmissioni e ricombinarli in stringhe che abbiano un senso diverso, ma compiuto, anche se il più delle volte non comprensibile. Forse perché siamo troppo scemi noi, o è troppo alieno lui, non lo sapremo mai. Blob non era semplicemente l’antologia delle papere dei presentatori e dei cosiddetti momenti trash che ci eravamo persi durante la giornata, anche se al più basso livello di lettura poteva presentarsi così: Blob era un collage, un patchwork, un enigma che essendo senza chiave sembrava straordinariamente intelligente, almeno quanto ci credevamo straordinariamente intelligenti noi che non riuscivamo a resistere ai suoi choc deliberati, ai suoi cozzi di senso improvvisi.

Di lì a poco saremmo andati all’università e avremmo studiato la Theorie der Avandgarde, il montaggio e l’allegoria, la traumatofilia del Baudelaire di Benjamin, e avremmo salutato nei manifesti sbrindellati di Mimmo Rotella le uniche opere d’arte ancora sensate nei ’90, ma in realtà stavamo soltanto intellettualizzando la nostra fascinazione per Blob, per il modo in cui ci teneva davanti al video mostrandoci semplicemente il pattume già decomposto del giorno, in anni in cui la differenziata era ancora un’utopia. Se fossimo cresciuti al tempo in cui il Museo era ancora una cosa importante non in senso ironico, quando era il punto di arrivo di un’educazione, e una gita al Museo della capitale poteva essere il sudato traguardo di arrivo di tutto un percorso di studi… ma a noi i Musei li propinavano sin dalle elementari, persino dall’asilo, erano posti in cui perdevamo gli zainetti e trescavamo, non c’era verso che il nostro senso estetico interiore prendesse la forma di un museo, in cui tutto è sacro e conservato sottovuoto… i nostri fratelli maggiori, forse, coi loro impianti Alta Fedeltà, la collezione di crepitanti LP che da qualche anno in qua si è rimessa a crescere, loro sì hanno subito il Museo come modello. Noi invece abbiamo letto alcune frasette di Adorno in cui il Museo è denunciato come una mistificazione borghese, e questo spiegava il mal di testa che ci assaliva al Louvre molto meglio della sindrome di Stendhal o del fumo passivo subito in albergo durante la gita scolastica. Alla fine anche il Louvre per noi prendeva la forma di un blob postmoderno dove pale di altare concepite per la preghiera e la meditazione venivano strappate al loro contesto religioso e rimontate in un’opera nuova con un significato diverso, un’enorme cattedrale postmoderna con tanto di piramidi e shop e

“Cartellino giallo”.
“Maccome non ho fatto niente!”
“Hai usato la parola postmoderno”.
“Ha ragione mi scusi non lo faccio più”.

Era insomma fatale che l’unica cosa che ci interessasse davvero, la Musica, prendesse questa forma nella nostra testa: non una collezione ordinata di LP e CD in ordine alfabetico per cognome di autore, ma un enorme flusso di lacerti fuori contesto, canzoni acefale di cui talvolta ignoravamo l’autore, sicché spesso all’amico che prendevamo a bordo e che ci chiedeva “Forte questo, ma chi è?” dovevamo rispondere “Non ho la minima idea, guarda” (ma non potevamo controllare su google? No testina google l’hanno inventato 15 anni dopo. L’unica cosa da fare era recarsi da certi amici con fama di onniscienza e anche un po’ di autismo, e canticchiare la canzone che avevamo strappato a un’oscura nastroteca alle tre del mattino). La Musica si configurava come un palinsesto di manifesti sbrindellati, e più del singolo manifesto contava ormai lo sbrindello in sé. A un certo punto io mandai a quel paese ogni residuo di decenza e smisi di girare con la sicura, il tasto Pause con il quale si proteggeva la testina del registratore: quando sentivo cose interessanti premevo Rec e via. Il risultato all’ascolto erano vere e proprie esplosioni di rumore che deflagravano improvvise nell’abitacolo, da una cassa all’altra a seconda del senso di marcia, pardon, del Lato della cassetta che stavo ascoltando. Erano gli choc definitivi, come i tagli di Fontana, che hanno un senso solo se da secoli ti insegnano che la tela va montata in un certo modo, dipinta in un certo modo, guardata in un certo modo. Registrare senza Pause era l’affronto ultimo all’educazione musicale che avevano cercato di impartirti, al Museo dei Dischi importanti, alla collezione Ricca e Scelta dello zio o del fratello maggiore. Nel bel mezzo di una suite dei Pink Floyd sentivi riiiIIIIPSTTROMPRSBARANG e partiva Tarzanboy di Baltimora. Senza più gerarchie, perché Ghezzi diceva che le sue scale di valori erano tutte escheriane, e il così finalmente il nostro bambino interiore che faceva LaLaLa poteva ascoltare Tarzanboy senza vergognarsi, perlomeno un lacerto di Tarzanboy inserito in un contesto post diverso, stratificato, come uno che guarda i collage di Rotella perché ogni tanto si vedono pezzi di belle ragazze.

arti contemporanee, coccodrilli, fumetti, leggere

Di storie in forme di fiore

Dunque io, che ho cominciato a leggere quasi prima di cominciare a pensare, sui cartelli stradali, i titoli dei giornali, io che ho imparato a leggere in officina sulle latte di OLIO FIAT con le lettere bene in evidenza, a un certo punto ho trovato i fumetti e per molto tempo non ho cercato di meglio. In seguito ho letto anche altre cose, il Codice della Strada e Svetonio in originale, ma probabilmente la cosa che riesco a leggere meglio, che mi viene più naturale leggere, sono i fumetti: una vignetta dopo l’altra, la nuvoletta in alto prima della nuvoletta in basso, certe linee sottendono il movimento e la didascalia è una voce fuori campo. Migliaia di Topolini e poi Giornalini, e Dylandog e tutto il resto, ma so che non è stato così per tutti. C’è gente che i fumetti non li legge.

Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d’inquadratura tra una vignetta e l’altra. Queste persone sono l’equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch’io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell’inciso).

Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c’è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.

C’erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l’editoriale Del Corno comincia a stampare l’Uomo Ragno e tu passi da Topolino all’Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc’, e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d’estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).

Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c’erano Xbox, non c’era youtube né facebook, non c’erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall’eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell’Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l’Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l’esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev’essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.

E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermetico di Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d’inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. “Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!”; “Ciò che amo del garage ermetico è l’infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli”; “Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe”. E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.

In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle “storie a forma d’elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino”. Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell’ambiente. Prima di lui l’immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall’altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell’astronave di Alien si chiamano “sfinteri” e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un’industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più ‘artista’, nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni ’80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall’altra, uno bianco e l’altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.

Oggi i giornaletti non si vendono quasi più, e chi vuole sopravvivere nell’ambiente lo sa, che margini non ce ne sono: la poca gente che ancora legge vuole storie, storie consequenziali, intricate ma non troppo, vignette ortogonali e magari anche qualche didascalia. Additare Moebius ai giovani aspiranti fumettisti sarebbe da criminali. Altro che storie in forma di fiore. Non c’è mercato per questa roba. Ripensandoci, non c’è mai stato, nemmeno in Francia, Métal Hurlant è durato quel che è durato. E allora?

E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c’era da capire.

arti contemporanee, santi, vignette sataniche

La Madonna ti dà una mano

Non sono soltanto i musulmani a non *apprezzare*, diciamo così, le immagini sacre: anche ai cristiani ogni tanto viene il sospetto che tutto questo traffico di icone e immaginette sia un filo idolatra. Abbiamo anche noi avuto le nostre fasi iconoclaste, specie ai tempi dell’Impero Bizantino, dove le dispute teologiche erano il secondo sport nazionale dopo la corsa delle bighe.

Comunque, proprio nel momento in cui a Costantinopoli gli iconoclasti sembravano trionfare, e ci si preparava a un Medioevo tutto astratto e geometrizzante come sull’altra sponda del mediterraneo, è venuto a salvarci un Dottore della Chiesa, Giovanni Damasceno. E volete sapere la cosa buffa? Damasceno sta per “di Damasco”, sì, Giovanni in realtà era nato Mansour. Era un arabo, insomma. Molto devoto alla Madonna, che gli diede una mano. Non in senso figurato. Gliene avanzava una (contate bene le mani lì sopra). L’arabo che amava la Madonna, sive de iconoclasmo, è sul Post, decisamente l’unico magazine on line in cui potrete mai trovare Madonne con tre mani e Axl Rose nello stesso pezzo.

4 dicembre – San Giovanni Damasceno (676ca.-749ca.), dottore della Chiesa

Il calendario dei Santi è un oggetto infido. Certe settimane non sai più a che Santo votarti, non ce n’è uno che ti ispiri; poi magari in una grigia domenica di dicembre ti piazza due pezzi da novanta come Santa Barbara, patrona della folgore, degli artificieri e di una ridente contea californiana; e San Giovanni Damasceno, l’Ultimo dei Dottori dell’Est. La prima ha scalzato dal suo patronato nientemeno che Giove Pluvio, il secondo ha fatto crescere una mano alla Madonna. Non me ne voglia la Santa così esplosiva da essere divenuta sinonimo di arsenale, se scelgo il secondo che per una volta è un personaggio storico; però davvero Giovanni “tre mani” di Damasco presenta notevoli motivi d’interesse.

Per prima cosa, al secolo si chiamava Mansour Ibn Sarjun, e probabilmente era di etnia araba, in un momento in cui Damasco con tutta la Siria erano ormai definitivamente entrate a far parte del Califfato e del mondo islamico. Per cui la prossima volta che dal barbiere sentite dire che le moschee in Italia non è giusto farle perché gli arabi non ci lasciano fare le chiese là, poi potreste obiettare che “là” è un termine vago, che in Egitto ci sono chiese per almeno dieci milioni di cristiani, e che in Siria persino ai tempi degli antichi Califfi un arabo cristiano poteva mantenere un lignaggio di alto funzionario e produrre teologia ai massimi livelli, tant’è che Mansour-Giovanni di Damasco è il vero eroe dell’ultimo vero Concilio della Chiesa unita, con esponenti occidentali e orientali, il Niceno Secondo; a quel punto probabilmente nessuno oserà più obiettare, ma se ci provano voi aggiungete, perentori, che se non ci fossero stati i musulmani a proteggerlo, la mano sinistra Giovanni l’avrebbe persa davvero. Perché la leggenda dice che gliela fece tagliare il Califfo, sì, ma soltanto su istigazione dell’Imperatore cristiano di Costantinopoli, Leone III, che fece avere quest’ultimo dei documenti top secret in cui Mansour-Giovanni veniva descritto come uno dei capi di una fantomatica rivolta cristiana.

Iconoclasmi moderni. Lucio Fontana, Concetto spaziale: limiti
Tutte infamie, calunnie, illazioni; la verità – che filtra anche da una leggenda farlocca come questa – è che l’unico vero nemico di Giovanni era l’imperatore Leone III, l’iconoclasta che a partire dal 730 bandì e fece distruggere tutte le immagini di Cristo e dei Santi dalle chiese bizantine. Giovanni invece fu la voce più autorevole degli iconoduli, quelli che volevano continuare a venerare mosaici, affreschi e legni policromi. Sulle prime Leone sembrò averla vinta: aveva dalle sue non soltanto il potere militare, ma anche una certa insofferenza del popolo minuto nei confronti del clero e dei monaci, che di icone facevano già un grosso commercio. C’era poi da dare risposta a una sensazione diffusa: che il cristianesimo con le sue figurine fosse un po’ la religione del passato, che la novità dell’ottavo secolo fosse questa nuova fede semplice, guerriera, minimale: l’Islam. Anche i musulmani erano iconoclasti, sin da quando Maometto aveva distrutto gli idoli presso la Ka’ba.


Ma in fondo Gesù non aveva fatto qualcosa di simile scacciando i mercanti dal tempio? E Mosè, fondendo il vitello d’oro e facendolo inghiottire ai suoi stolti adoratori? Non era forse scritto nel Libro dei Libri: non ti farai alcuna immagine [di Dio]? Per uno strano paradosso, dal momento che gli iconoclasti si presentavano come i nemici delle superstizioni, a fare di Leone III e di alcuni suoi successori degli iconoclasti fu un riflesso superstizioso: la tendenza a vedere nelle proprie disfatte militari, o nelle eruzioni dei vulcani, la reazione di un Dio irritato con tutti quelli che pretendevano di ritrarlo in figurine e adorare il legno o il marmo. Tutto questo mentre sull’altro lato del confine l’Islam iconoclasta fioriva e si espandeva, riempiendo il Medio Oriente e il Maghreb di arabeschi e intricate architetture astratte. Insomma, ci fu un momento tra ottavo e nono secolo in cui sembrava che il futuro del Mediterraneo sarebbe stato iconoclasta: anche Carlo Magno era tentato dal fare pulizia nei santuari (era anche un’ottima scusa per raccattare parecchio oro e preziosi), forse se i sovrani bizantini avessero tenuto duro avremmo avuto anche noi un Alto medioevo astratto e poligonale…

Nel frattempo, nel suo monastero nel deserto, Giovanni-Mansour preparava il contrattacco. (Continua…)

La mano fatta mozzare dal Califfo, vuole la leggenda, gliela fece ricrescere la Madonna, per la quale Giovanni aveva una devozione speciale (come teologo non teorizzò soltanto la sua verginità, ma anche quella della madre, Sant’Anna: così Maria si ritrova a essere vergine, figlia di vergine e madre di vergine, tutta una dinastia). Da un’icona della Madre di Dio, adeguatamente venerata, uscì una mano nuova che si andò ad attaccare al moncherino del Santo: è una leggenda, appunto, anche se molte icone orientali mostrano una Madonna con una mano in più che sembra uscire dal quadro. La verità è che mentre i preti iconoduli oppositori di Leone III venivano perseguitati e degradati, obbligati a passeggiare mano nella mano con una donna (punizione suprema!)… nel suo eremo in mezzo all’Islam, Giovanni era l’unico teologo in lingua greca libero di criticare Leone quanto voleva: agli islamici iconoclasti non doveva affatto dispiacere tenersi in casa l’eretico dei propri avversari. La sua risposta ai nemici delle icone è sottile: Giovanni chiarisce da subito che gli iconoduli non adorano la materia (il legno delle icone, il marmo delle statue), ma la venerano, sì, perché no? Dopotutto anche la materia è opera di Dio; non solo, ma è attraverso la materia che Dio, facendosi uomo, ha salvato i cristiani. “Non offendere dunque la materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole”. Qui si capisce che non c’erano in gioco soltanto le rendite delle manifatture di icone e dei santuari forniti di reliquie. Siamo all’ultimo round di una lotta che è durata secoli, nel cristianesimo orientale, tra spregiatori della materia (gnostici, ariani, monofisiti) e rivalutatori della medesima. Le omelie di Giovanni, scritte in un Greco semplice (ma Mansour era un erudito coltissimo, oltre a un musicista e poeta raffinato) passano rapidamente il confine e infiammano il dibattito.


Alla fine, anche grazie a un’imperatrice affezionata alle sue icone di famiglia, l’iconoclastia sarà rigettata come eresia. Cinquant’anni più tardi un’altra sconfitta militare e un altro imperatore perplesso rimetteranno in gioco tutto quanto, ma ormai la strada è segnata: di là dal confine l’Islam diventerà sempre più iconoclasta e astratto (ben presto dopo Dio anche Maometto diventerà irraffigurabile); al di qua produrre icone diventerà sempre più redditizio: le icone foreranno la seconda dimensione, gli italiani scopriranno la prospettiva, nel Quattrocento si riapproprieranno delle forme della classicità… e così via, fino al realismo moderno, che forse non avrebbe messo il corpo umano al centro della scena, se mille anni prima Giovanni Damasceno non avesse intimato ai cristiani di non offendere la materia. Forse. Certo, di sussulti iconoclasti nella nostra Storia ce ne sono stati altri. Per esempio la riforma protestante, che sostituì la lettura e la meditazione della Bibbia alla venerazione per le immagini; per la verità in molti distretti di Francia e Germania i contadini iniziarono a mozzare le statue delle chiese prima ancora di imparare a leggere, segno che pure in questo caso Lutero non faceva che dare un volto a un’avversione condivisa. Insomma, è curioso, ma periodicamente la gente si stanca delle icone. Curioso ma fino a un certo punto, in fondo un certo tipo di iconoclastia popolare e istintiva esiste ancora oggi, anche se lo chiamiamo vandalismo. Ed esiste anche l’iconoclastia degli intellettuali: almeno fino a qualche anno fa “iconoclasta” era un complimento, specie quando si rivolgeva agli artisti. “Il suo talento iconoclasta”. “La sua furia iconoclasta”. Il culmine della modernità sembrava in effetti la distruzione delle icone – e quindi anche dell’arte in sé.


Oggi, anche se “iconoclasta” conserva ancora qualche residuale eleganza, mi pare che si apprezzi ancora di più il termine “icona”. L’icona della rivolta, l’icona del cambiamento, l’icona gay, la postmodernità sembra dedicarsi con sommo zelo alla produzione di icone. È un atteggiamento più pragmatico: artisti e comunicatori in fondo hanno accettato che anche la distruzione delle icone è un’icona. Axl Rose, per fare un dotto esempio, non è mai stato tanto idolo come quando sfoggiava la scritta Kill Your Idols. Prima non riconoscevamo più il sacro, ora siamo pronti a riconoscerlo in Lady Gaga. È il postmoderno. Ma mi domando se non sia anche una sorta di reazione alla civiltà iconoclasta che ci è cresciuta accanto: l’Islam. Nel medioevo ci ha dato l’aritmetica e l’arte calligrafica, trionfi di un atteggiamento ‘astratto’ nei confronti dei fenomeni. In seguito sembrava aver ceduto al materialismo dei coloni europei. Il moderno integralismo religioso coincide con una nuova stagione iconoclasta. I talebani si presentano al mondo facendo saltare due statue di Buddha, anche se il mondo per l’occasione lì degnò appena di qualche occhiata di sdegno. Andò diversamente sei mesi dopo: buttar giù le due torri di Babele del World Trade Center, quello sì fu il vero gesto iconoclasta.


Dunque è così, la guerra tra iconoclasti e iconoduli non è finita? Siamo ancora arruolati? Non lo so, credo che nemmeno Giovanni (Mansour) oggi sarebbe sicuro di capire da che parte siamo della barricata. Prendiamo il caso delle vignette. A un certo punto alcuni disegnatori europei si sono fatti un punto d’onore nel voler mostrare il volto di Maometto, infrangendo un divieto che non è nemmeno nel Corano ma che è ormai prassi da più di un millennio. In gioco cosa c’era esattamente? L’idea che qualsiasi raffigurazione, qualsiasi icona, in Occidente sia possibile. Il fatto che ci sia anche un solo volto, che per questioni delicate non si può mostrare, appare agli occidentali, iconoduli da più di mille anni, semplicemente scandaloso. Non solo si può mostrare tutto: tutto deve essere mostrato, altrimenti siamo fuori dalla civiltà. E tutto deve essere mostrato a scopo di potersene burlare: il volto di Maometto non può essere al di sopra di quell’autorità suprema che è la Satira Occidentale. Ora, fermo restando che per me ha sempre torto chi usa l’esplosivo, mi resta il dubbio su chi in questa situazione sia il vero iconoclasta: gli autori di Charlie Hebdo che reclamano il diritto a raffigurare e farsi gioco anche dell’immagine del Profeta, o gli integralisti che gli fanno saltare in aria la redazione? Più iconoclasta il libico che protesta contro la maglietta scema di Calderoli o il ministro Calderoli che in piena emergenza mondiale sul terrorismo islamico si sforza di offendere qualche musulmano con una maglietta scema? 


In fondo anche Charlie Hebdo era l’icona di un’istituzione sacra all’Occidente: la Satira o la Libertà di Espressione. Chi è il vero iconoclasta, l’integralista Osama che per lottare contro il Grande Satana non disdegnava di mostrare in video la sua figura ieratica, o il democratico Obama che dopo averlo dichiarato morto non ha voluto né divulgare foto, né indicare il luogo di sepoltura? La motivazione ufficiale è che non si voleva creare un monumento, o altri materiali per future icone. Del suo martirio di Osama non circolerà alcuna immagine: sul suo volto devastato dalla sparatoria Obama ha tirato una tendina, simile a quelle che usavano i pittori medievali per coprire il volto dell’irraffigurabile Maometto. C’è dell’ironia. E c’è dell’iconoclastia. Ma non si capisce da che parte del velo.

arti contemporanee, dialoghi, essere donna oggi, pubblicità, vita e morte

Secoli di secoli di frrrrrrrrrrrr


Attenzione: Questo pezzo contiene lessico piuttosto esplicito. I minori possono leggerlo solo se accompagnati.

Toc toc.

“Chi osa bussare alla Cripta del Creativo?”
Dunque, ecco io… avevo un appuntamento, rappresento un consorzio di pellai…”
“Parola d’ordine”.
“Chi mi ama mi segua”.
“Puoi entrare”.
“Grazie. Dunque, non so se ci siamo presentati al telefono, io… vengo a nome di questo consorzio di pellai che vorrebbe rilanciare la propria immagine e così… avevamo pensato di rivolgerci al Sommo…”
“Guarda, personalmente a me non fotte una sega di chi sei e cosa vuoi. Basta che tu abbia portato ciò che ci occorre. Hai il sangue?”
“Ma certo, ecco qui. Sette litri di sangue di vergine”.
“Bella tanica. Sicuro che è di vergine?”
“Eh, mi fa una bella domanda”.
“Perché se non è di vergine poi succedono i casini. Gruppo sanguigno?”
“Ecco, appunto, io… non volevo rischiare, e così ho preso un misto”.
“Mmmh. Ce lo faremo andar bene. Seguimi nel fondo della cripta, occhio al…”
“Ouch!”
“…Terzo capitello a destra, vedo che lo hai già incontrato”.
“Certo che fa freddo qui”.
“La temperatura ottimale per la conservazione. Eccoci arrivati. Il Sommo è lì, oltre la soglia di questo portale funerario. Sei pronto a incontrarLo?”
“Ho i brividi”.
“È comprensibile. Dunque, per prima cosa: non parlare e non Lo guardare negli occhi finché non Gli avrò somministrato il sangue. Solamente dopo, forse, potrai parlare. Ehi, ma ti senti bene?”
“Io… cerchi di capirmi, l’immagine del mio consorzio dipende da questo meeting”.
“Fidati di noi, sei in buone mani. Ora entriamo”.

Screeeeeeeeeeeeeeeeak

“Dio mio”.
“Dio non c’entra molto, come puoi ben capire. Non guardarLo!”
“Ma… non mi sembra che respiri”.
“Sssssssssssssst! Non ne ha bisogno! Ora Gli apro la bocca… uff, non viene. Certi giorni è proprio duro… Senti, dammi una mano”.
“Eh? Cosa devo fare?”
“ReggiGli la testa mentre cerco di aprirGli la bocca… su”.
“Ma non morde?”
“In linea di massima no”.
“Dio mio, chi potrebbe crederci, io sto… sto tenendo in mano la testa del Maestro”.
“Dio non c’entra niente, ribadisco. Ecco, ora infilo l’imbuto, tu versa pure dalla tanica”.
“Sette litri di sangue? Ma non sborderà?”
“Eh, anche a me sembrava strano le prime volte. No, è insaziabile. Guarda come va giù, non ne lascia un goccio”.
“Certo che è una dieta costosa, eh”.
“Vale tutti i soldi che è costata, come ben sai. Ecco”.
“Sta… sta cambiando colore!”
“Allontanati, adesso può mordere”.
“Si sveglia?”
“Non è mai veramente sveglio, e non è mai veramente… in sonno”.

Wrgrwgrgrgrggrgrg”.



“Sta parlando! Cosa dice?”
“Nulla di intellegibile per ora. Parla tu”.
“Ma cosa Gli devo dire?”
“Adulalo. È assai sensibile ai complimenti”.
“Sì, dunque, ehm…. O Maestro, o Luce dell’italico ingegno”.

Wgggrrrgrgrgrgrgrgr



“Vado bene?”
“Vai, vai, ti ascolta”.
“O Creativo dei Creativi, anzi, unico Creativo Italiano, del passato del presente e del futuro; nulla esisteva prima di Te, nulla sussiste dopo di Te, se non copiato da Te…”

Wgrrgrgrgrgrgccccucucucuc”.



“O Sommo Maestro, fosti tu e tu solo a rivoluzionare la pubblicità italiana, con quel cartellone di cui ancora oggi tutto il mondo parla, la campagna per i jeans… tu solo sapesti trovare l’immagine adatta al prodotto”.

WrrgrgrgrgrgrgrgrgcccccCULO!

“Vai bene, vai bene, lo hai svegliato.”

“CULO! grgrgrgr CULO! CULO!”


“O Maestro, come possiamo ricordare una per una le tue geniali innovazioni… le centinaia di campagne in cui tu mostrasti al mondo le…”


wrgrrgrgrggrg PUPPE!”



“Le nuove frontiere del comunicabile”.

“TETTE!”



“…Sì, anche quelle, sì”.

CHIAPPE! Werrghgewheg. CHIAPPE!”



“O Maestro, passano gli anni, eppure il tuo sguardo puro sul mondo non si appanna e ci regala sempre nuove…”

TETTE!”



“…Formidabili campagne, tra le quali vorrei ricordare quella meravigliosa elaborata più di dieci anni fa per Famiglia Cristiana”.

“CHIAPPE!”

“…E quella ancor più geniale, elaborata dieci anni dopo, per l’Unità”.

CHIAPPE!”


“O Maestro, così pura e originale è la tua arte, che tu riesci a trasformare in un capolavoro anche un’affissione di cibo per cani, mostrando...”

PUPPE!”



“Che il tuo genio non decade con gli anni. Ebbene, è a te – e a chi altri? – che ha pensato il mio consorzio, o Sommo”.

CU-LO! TET-TE! CU-LO! CU-LO! TET-TE!”



“Maestro sì, forse siamo stati troppo impudenti a ricolgerci a Te, che hai lavorato con i più grandi maestri del….”

“CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE



“…d’altro canto, o Sommo, che dovevamo fare? Rivolgerci a un giovinastro? a un cialtrone dilettante che senz’altro avrebbe copierebbe una Tua idea?”

“IDEA?”

“Ehi, ha detto Idea, hai sentito?”
“Sì, capita”.

“TETTE!”



“… e quindi insomma, Maestro dei Maestri, Tu solo hai parole di successo sempiterno, ed è Te pertanto che prostrati supplichiamo di rinnovare la nostra immagine”.

“IMMAGINE?”



“Sì”.

“TETTE-TETTE-TETTE-TETTE!”

“Sento che stai già elaborando qualcosa, o Maestro. Vedi, noi del consorzio pellai, stavamo pensando a un calendario, e così…”

“TETTE!”

“Sì, maestro, ho capito, le tette, un’idea senz’altro interessante, però… Maestro, noi vorremmo qualcosa di nuovo”.

“PUPPE!”

“…perché francamente, adesso, non vorrei offenderTi, però… un calendario con le puppe, da qualche parte… s’è già visto”.

“CHIAPPE!”

“Ecco, Maestro, sì, le chiappe, che idea brillante, perché no… e tuttavia…”

“CHIAPPE-CHIAPPE-CULO-CULO”.



“Insomma Maestro, io non so se ti rendi conto di quanto mi costa questo meeting, in termini di sangue di vergine al litro”.

“WRG? RGR?”



“Ops”.

“GRGRGGRGRGRGRGRG!”

“Ehi, attento a dir così. Lo ecciti”.
“Il fatto è che… insomma, Maestro, io credo tantissimo in Te… Possibile che Tu non abbia un’altra idea, qualcosa di veramente nuovo? Sono realmente venuto qui soltanto per sentirti dire Culo e Tette? Per carità, non dico che siano brutte idee, ma…”

“Wrrrhgrgrgrggrrgrgrgrgrf f ff f ff”

“E adesso cosa fa?”
“Non lo so. Mi sa che lo hai offeso”.
“Ah sì?”
“Nessuno gli aveva mai osato rispondere come gli hai risposto tu. Hai avuto del coraggio”.

“Rrgrgrgrgrf f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”



“Si sta addormentando, forse”.
“No. Mi sembra piuttosto che… elabori”.
“Elabora?”

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”



“Sicuro che non stia per esplodere?”
“No”.

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fff”.



“Maestro, ti scongiuro, perdonami per la mia impudenza… non esplodere… non lasciare il mondo orbato di Te, unica fonte di creatività… che mondo triste resterebbe… un mondo senza colori, senza culi, senza tette, senza…”

“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fRRRRRRR! FRRRRRRRRRRRR!”



“Maestro, stai forse cercando di dirci qualcosa?”

“f f ff f fFFRRRRRRREGNA! FREGNA! FREGNA!

“Mio Dio! È successo!”
“Dio non c’entra niente. Dio non c’entra niente”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”



“Ha avuto un’idea. Nuova. E io c’ero. L’ho visto”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“C’ero mentre la concepiva, mentre la portava alla luce! Ho assistito al parto, all’illuminazione!”
“Sei davvero fortunato. Non è capitato a molti”.

“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Sommo Maestro, se mi è concesso interpretare le Tue parole oracolari, Tu vorresti che nel nostro calendario noi mostrassimo una fregna, è così?”

“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“Geniale. E gennaio è sistemato. Ma, o Sommo, a febbraio che si fa?”

“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Fantastico. Uno dopo gennaio si aspetta un’altra cosa, e invece… tac, uno-due, irresistibile. Maestro, Tu sei l’unico vero genio creatore della postmodernità, ma perdonami… a marzo?”

“FICA!”

“Ecco! È chiaro! Due mesi fregna, e poi fica. Devo prendere appunti. E ad aprile?”

“PATONZA!”

“Ma come Ti vengono. Come Ti vengono. Incredibile. Beh, a questo punto è maggio e si potrebbe anche mettere, che ne so, un unicorno che scorrazza in un prato fiorito, che ne pensi?”

“PASSSSSERA!”

“Ma sì, è chiaro, che sciocco che sono. L’effetto sorpresa, chi si aspetterebbe che a maggio mostriamo una passera, e invece noi… e a giugno?”

“FREGNA! PELOSA! FREGNA! GLABRA! FREGNA! NEGRA! FREGNA! ALBINA!”

“E io che ho osato dubitare di Te. Maestro, sei davvero l’Unico e il Sommo”.

“FICA GRINZOSA! FICA SPANATA! FICA QUALSIASI!”

“Penso già ai lanci di agenzia. Le polemiche. I giornalisti. Le femministe. Boxino del Corriere e Gallery di Repubblica assicurati”.

“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“E mediante questa accorta strategia mediatica, noi presto raggiungeremo la…”

“FREGNA! FREGNA! FRFRFRRRRRRRRRRRRRR!”

“L’attenzione del nostro target. Maestro, vale ogni goccia del sangue che ho versato, questa idea che…”

“IDEA?”

“Sì, Maestro, una grande, grandissima Idea.

“FREGNA!”

“Appunto. Lunga vita a Te, Maestro”.

“VITA?”

“Se così si può chiamare, non lo so”.

“FREGNA!”

“Mi auguro comunque che possa durare nei secoli dei secoli”.

“SECOLI!”

“Sì”.

“FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! SECOLI NEI SECOLI DI FREGNA! FREGNA FREGNA FRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
arti contemporanee, ho una teoria

La mano non più invisibile

L’ultimo capolavoro di Maurizio Cattelan – forse lo sapete già – è un dito medio in Piazza degli Affari.
Ai milanesi, stranamente, piace (alla Moratti per prima). Ma è davvero così strano? E, a proposito: chi sta mostrando il dito a chi? (Scopritelo sull’Unita.it!) (E commentatelo qui!)

Pare che il dito medio di Cattelan resterà in Piazza Affari ancora un po’. Se barzellette, bestemmie e appartamenti monegaschi non vi hanno distratto, sapete già di cosa si tratta: di un’installazione di Maurizio Cattelan, la copia monumentale di una mano che fronteggia la Borsa Valori protendendo il dito in alto in un gesto universalmente decifrabile.
Negli ultimi anni Cattelan è diventato l’artista italiano contemporaneo più noto al grande pubblico soprattutto grazie al valore immediato, anti-intellettualoide delle sue opere: così anche in questo caso c’è ben poco da discutere. Un dito medio è un dito medio è un dito medio, di fronte al quale il parere di un critico come Renato Barilli non si discosta molto da quello del passante qualunque: “In questo caso, non c’è neppure provocazione, in quanto i tre quarti dell’umanità sarebbero pronti a ripetere con lui quel medesimo gesto, contro le nequizie delle borse mondiali, colpevoli della grave crisi economica che ci affligge”. Così devono aver pensato anche le autorità milanesi, che hanno deciso di lasciare l’installazione nella piazza-parcheggio per altre due settimane. Non solo, ma il sindaco Moratti starebbe valutando l’idea di lasciare lì il dito per sempre: a detta di Franco Bolelli, del resto, “esso riempie – con uno straordinario senso della prospettiva – una piazza generalmente fredda e inanimata”. Sulle pagine lombarde di Repubblica on line c’è persino un sondaggio sull’argomento: per ora i sostenitori del Dito Medio sono una maggioranza qualificata. 
Eppure non sono passati molti anni da quando le opere dello stesso Cattelan suscitavano nei milanesi ben altre reazioni. Ci fu persino chi si ruppe le ossa, nel tentatico di staccare i ‘bambini impiccati’ appesi alle querce secolari di piazza XXIV Maggio. Oggi invece un enorme dito medio suscita ammirazione, e manca poco che Milano non ne faccia un suo simbolo. È cambiata la città o è cambiato Cattelan? Diciamo che stiamo tutti invecchiando assieme: forse i milanesi hanno capito come funziona il gioco della provocazione, e non ci cascano più, o ci cascano meno. Ma anche l’artista ha capito come sintonizzarsi sulle loro lunghezze d’onda: in effetti, come dice Barilli, chi non sottoscriverebbe oggi un dito medio di fronte alla Borsa, a tutte le Borse del mondo? E però la Borsa resta al suo posto (e continua a far danni), e persino il gesto osceno viene riciclato per il modo in cui valorizza il piazzale e gli immobili che lo circondano. Cattelan nasce provocatore (anche se a lui la parola non piace, ci mancherebbe) e rischia di ritrovarsi pompiere.
È buffo che pochi giorni fa si sia lamentato, come un trombone qualunque, dell’“imbarbarimento” della società. Buffo ma anche significativo, visto che la sua “manona” è un richiamo forse inconsapevole all’arte pagana dell’Impero Romano in caduta libera: abbiamo già visto mani del genere, scheggiate e mutilate, negli schizzi dei romantici che rovistavano tra le rovine, e nei fondali di cartone dei peplum hollywoodiani. Ma chi sarebbero i nuovi barbari? Cattelan non ha dubbi: “Oggi sono tutti preoccupati per i rom, ma nessuno si accorge che i cinesi stanno comprando Milano, l’Italia, il mondo”. E di colpo tutto torna. Cattelan non è più un misterioso folletto sospeso tra Padova e New York: è uno di noi, ha paura dei cinesi e delle borse mondiali, e per esprimere le sue paure e le sue frustrazioni mostra il medio, come un Bossi qualunque. Il fatto che il suo dito possa piacere a Letizia Moratti, ex broker di Borsa ed ex Ministro dell’Istruzione, non è più così sorprendente. A ben vedere del resto il dito presenta un margine d’interpretazione di cui non mi ero accorto: siamo sicuri che è rivolto verso la Borsa? Milanesi, andate a controllare: magari è la Borsa che lo rivolge contro di noi. E allora davvero diventerebbe il simbolo, anzi, la manifestazione di un potere sfrenato, ormai slegato da qualsiasi complicazione umanistica e morale: un potere pagano, che negli uffici delle società per azioni si fotte i nostri risparmi, taglia i nostri posti di lavoro, incassa le plusvalenze e ci mostra il dito.
Un potere osceno, che si nasconde dietro alla sua stessa oscenità: dietro a quel dito c’è l’ingiustizia del mondo, ma tu intanto guardi il dito e ti tocca anche applaudire alla provocazione ben congegnata. Un potere che con la sua volgarità ti mette nell’angolo: se lo critichi ti fa passare per un moralista, un benpensante, un uomo di altri tempi. Mentre questi sono i tempi dei diti medi, delle barzellette sugli ebrei con qualche bestemmiuccia ma per ridere, e se non ridi è colpa tua, che non sei più in sintonia con la gente. Su quel tono basso e greve che ormai ha imparato a intonare perfino Cattelan. http://leonardo.blogspot.com
arti contemporanee, Cristo, preti parlanti, religioni

Tutti i bambini, con i chiodini

Ma Benedetto Papa

Ma se voi foste il Papa – ci avete mai pensato bene?
Se tra tutte le creature senzienti, lo Spirito Santo avesse scelto voi, proprio voi, per fare le veci di Gesù Cristo sulla terra, come vi sentireste? Investiti di un pesante fardello, di una tremenda responsabilità, certo.

Dar voce a un miliardo di credenti. Ma anche tentare di evangelizzare gli altri cinque miliardi, senza però offendere la sensibilità di Chiese e religioni concorrenti. C’è da perderci la salute – uomini più santi di voi l’hanno già persa.
Ma insomma, se voi foste il Papa, con un’agenda così, non avreste proprio meglio da fare che occuparvi di questa roba?


No, dico, e la prossima volta cosa? Harry Potter? Ah, no, dimenticavo, quello è già stato scomunicato a tempo debito.

Poi hai un bel da dire, Santa Sede, che le prese di posizione di Famiglia Cristiana non ti rappresentano. Eh, certo, può darsi che schedare i bambini sia una vergogna, però noi abbiamo altri problemi di cui occuparci, per esempio il ranocchio crocefisso. Sacrilegio! Eresia!

Ma Benedetto Papa, tu stai dando una nuova speranza agli artisti d’avanguardia. Da troppo tempo si ostinavano incarogniti in atteggiamenti provocatori che ormai non provocano più niente e nessuno. Nessuno? Ma no, vedi che uno che ci casca ancora c’è, e sei tu! Finalmente un Papa che si prende a cuore l’arte, come ai tempi di Giulio II e Sisto IV! Perché diciamolo, ai tempi del tuo predecessore, il signor Martin Kippenberger chi se lo sarebbe filato? Dopo qualche mese di esposizione a Bolzano, si sarebbe re-impacchettato il suo ranocchio in croce e se ne sarebbe tornato all’oblio da cui proveniva. E invece grazie a te il ranocchio in croce sta per diventare l’Opera d’arte più discussa del 2008, vale a dire la più riuscita… e magari anche la più quotata. A questo punto non è difficile prevedere per il 2009 un fiorire di animaletti in croce, santini osé e tutto quello che potrebbe urtare la sensibilità del vostro curato di campagna… a proposito, il vostro nanetto da giardino vi sembra ritratto in una posa vagamente mistica? Magari guarda in alto, come i santi rapiti di Guido Reni? Ehi, pensateci bene, magari potreste avere in casa il prossimo capolavoro proibito!

Sull’argomento segnalo le parole del grande poeta Davide Rondoni, al tg2 di oggi:
“Io credo che un artista sia libero di fare quello che vuole e anche il Papa di dire che gli fa schifo, evidentemente. In genere registro che i grandi artisti della storia non hanno mai offeso nessuno: né Michelangelo né Caravaggio sono diventati noti perché hanno fatto opere offensive”.

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Come dire, sacrosanto. Cioè, v’immaginate se Michelangelo o Caravaggio si fossero messi in testa di offendere qualcuno? Per dire, se il Buonarroti avesse preteso di mettere nudi integrali nel Giudizio Universale? O se il Merisi avesse cominciato a ritrarre le Sante coi piedi da popolani? Oggi nessuno parlerebbe più di loro, proprio come nessuno parla più di quel rancoroso e offensivo gobbetto, come si chiamava, Giacomo Leopardi, mentre fuori dalla libreria ci sono le file per acquistare i libri di versi del grande Davide Rondoni.

arti contemporanee, fascismo, futurismi

ritorno al futurismo

Dialogo sull’arte contemporanea, II
(meno divertente del primo)

A me la Fontana di Trevi rossa è piaciuta!

Anche a me. Però quel tale bisogna metterlo in galera.

Ma non ha fatto niente. Anzi, è stato un gesto artistico.

Precisamente. Guarda, fosse per me istituirei tutta una categoria di Reati Artistici, a cui riserverei la parte più soleggiata delle galere.

L’Arte, un reato? Ma non ti vergogni?

Un po’ sì, mi vergogno. Ma vedi, è per il loro bene e dell’arte. Gli artisti che violano la legge hanno assolutamente bisogno di leggi da violare. Macchiare di rosso l’acqua della fontana diventa artistico soltanto se è un reato. Se lo derubrichiamo, tutti cominceranno ad andare alla Fontana con i secchielli di tutti i colori, e fidati, smetterà di essere bello dopo poche ore. Sarà diventata una cosa banale, istituzionale, verrà anche Veltroni a tinger l’acqua d’arcobaleno nel Giorno delle Minoranze,vogliamo ridurci così? Se invece desideriamo che l’acqua rossa resti un vero gesto artistico, dobbiamo ribadire che esiste una legge che la impedisce: e se la legge non c’è, ci toccherà scriverla. È un po’ lo stesso discorso dei writers. I writers sono artisti-contro. Se smettono di essere contro, smettono di essere artisti, per cui la società è costretta a dargli contro. Dalle mie parti a volte un assessore concede un muro ai writers: il risultato è sempre deludente. Il writer ha bisogno di avere fretta, freddo, paura dei poliziotti col manganello. Altrimenti diventa solo un decoratore di camion con aerografo, un madonnaro, e neanche dei migliori.

Scusa, ma in pratica stai dicendo che le pratiche artistiche fuorilegge ottengono il risultato opposto a quello che si prefissavano: rafforzare il controllo, inasprire le leggi…

Mi sembra una cosa abbastanza ovvia. Da quando nella mia città ci sono i writers, sono nati i comitati cittadini che ricoprono le scritte dei writers. Io penso che l’artista moderno (non l’artista classico, che era un grande artigiano al servizio di una committenza)… dicevo, penso che l’artista moderno sia quasi sempre un grande bambinone, e il contenuto ultimo delle sue opere sia, nel 50% dei casi: “Ehi, papà guardami, esisto”. Mi sembra di averne già parlato. Questo è un tipo di arte che, prima ancora di soldi, ha bisogno di un Papà. È un’arte che trasforma gli spettatori in padri, in borghesi da épater. Se la apprezziamo, dobbiamo fare esattamente quello che l’artista chiede: dargli tanti scapaccioni.

E allora Sgarbi…

Sgarbi è un critico d’arte. Se gli artisti dobbiamo mandarli tutti in galera, a Sgarbi propongo il ruolo di secondino. Lo trovo molto appropriato: gli altri dopo un po’ escono, lui resta lì.

Il tizio si è qualificato come futurista. Io ci avrei visto più certo situazionismo, oppure Christo, o un happening…

Guarda, è una questione di riferimenti culturali. Una fontana rossa è una provocazione. Durante il Novecento molti artisti hanno praticato la provocazione come arte, e ogni 5-6 anni cambiavano etichetta. Se poi nel tuo percorso personale hai studiato più gli anni ’70, magari lo chiamerai Happening. Il tizio è un fanatico di estrema destra, per cui ci vede il Futurismo. Ognuno alla fine è libero di sfoggiare l’etichetta in cui si riconosce.

Ma i futuristi macchiavano l’acqua delle fontane?

Che io sappia, no. Però non gli sarebbe dispiaciuto, anzi. Del resto il rosso era il colore preferito di Filippo Tommaso Marinetti, che proponeva di aumentare a dismisura la banda rossa sulla bandiera italiana. Il bianco e il verde dovevano rimanere due striscioline sul bordo. Lui però probabilmente avrebbe usato una vernice corrosiva.

Un criminale!

Ecco, hai centrato il punto. L’artista moderno è un criminale vero o un criminale per finta? Non lo so. Posso dire che molta neoavanguardia, dai Cinquanta-Sessanta in poi, ha trasformato in gesti teatrali quelli che all’inizio del secolo erano atti criminali veri e propri. I futuristi non andavano così per il sottile. Quel Guido Keller che sorvolò Montecitorio con un biplano, non credo che urlasse: “Scostatevi, sto per tirare un pitale”. Probabilmente non escludeva di ammazzare qualcuno mentre effettuava il suo gesto artistico.

Sì, ma Marinetti è vissuto per anni a Roma e non ha mai danneggiato in alcun modo la Fontana di Trevi.

Per un motivo molto preciso: voleva venderla ai turisti.

Prima di Totò?

Forse Totò si è ispirato in qualche modo a un manifesto composto tra il 1913 e il 1919, in cui Marinetti proponeva al Governo di vendere il patrimonio artistico italiano.

Dato che soltanto le Gallerie degli Uffizi e Pitti furono valutate più di un miliardo, l’Italia sarà in pochi anni abbastanza ricca per: 1. avere la prima marina mercantile del mondo; 2. avere una grande navigazione fluviale; 3. intensificare decisamente tutte le industrie esistenti, e creare immediatamente le mancanti; 4 sviluppare fino al rendimento massimo l’agricoltura e sanare tutte le zone malariche; 5. vincere completamente l’analfabetismo; 6. abolire totalmente ogni imposta per venti anni almeno; 7. dare un utile compenso ai combattenti.
Prevediamo tutte le obbiezioni e le distruggiamo: La vendita del nostro patrimonio artistico, ben lungi dal diminuire il nostro prestigio, dimostrerà al mondo che un popolo giovane e sicuro del proprio avvenire ne sa affrontare tutti i problemi, trasformando in forze vive le sue ricchezze morte, come un aristocratico intelligente rinuncia ad ogni fasto vano e lancia il proprio oro nell’industria.[…]*

Ma il turismo…

Aspetta, aspetta:

Si obietterà anche che questa vendita allontanerà dall’Italia il fiume rimunerativo dei visitatori stranieri. Non vogliamo discutere qui sull’utilità dell’industria dei forestieri, che pur regalando all’Italia molti milioni, è tanto aleatoria da poter cessare per un caso isolato di colera o per una scossa di terremoto, ed è sempre dannosa poiché snazionalizza e umilia il nostro paese, lo riempie di spie e trasforma un terzo degl’italiani in albergatori, in ciceroni e in boys d’hôtel.
Dichiariamo soltanto che i forestieri verranno sempre, purtroppo, in gran numero, poiché la nostra penisola fa il clima più dolce, il cielo più bello [ecc. ecc.]*

Aspetta. Marinetti non era lo stesso che proponeva di asfaltare Venezia?

Proprio lui. Se fosse andato al potere avrebbe trasformato l’Italia in un un’enorme Porto Marghera. Anche se probabilmente il risultato sarebbe stato più simile a un enorme Agro Pontino.

Mi sfugge l’apparentamento dei futuristi coi fascisti, con il loro culto della tradizione, dell’antichità…

È un discorso molto lungo.

Allora lasciamo perdere, non mi interessa più.

Ti dico solo questo: il fascismo nel 1919 non è il fascismo del 1930. Il Mussolini di fine anni Dieci, che vive a Milano e scrive vibranti editoriali sul suo giornale finanziato dall’Ansaldo, è un appassionato di motori, di automobili e aeroplani. Per lui esistono ormai soltanto due classi sociali, i “produttori” (operai, industriali, ecc.) che fanno la ricchezza del Paese, e quelli che vivono alle spalle dei produttori (i politici corrotti di Roma ladrona).

Stai dicendo che Mussolini è nato leghista!

No. È nato socialista. Poi è stato anarcosindacalista, socialista-interventista, nazionalista… nella fase del flirt con Marinetti aveva idee molto simili a quelle dei padroncini di oggi. Quando è andato a Roma la musica è cambiata. Sai, il cupolone, il fontanone… è roba che alla lunga ti rammollisce.

Aveva ragione Marinetti? Dovevamo vendere tutto?

Non lo so. Però è da duemila anni che facciamo la figura di quelli che pisciano sui monumenti eterni. I monumenti restano abbastanza eterni, e il nostro piscio dopo un po’ se ne va via. I futuristi ormai son roba più vecchia del Colosseo. Personalmente preferisco non coltivare nostalgie per il passato, figurati se metto a nutrirle per un futuro andato male.

(*)F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, pagg. 432-434.

ambiente, arti contemporanee, dialoghi, il cattivo supplente, Roma

peripatetici a Roma

Dialogo sull’arte contemporanea

“…E questa quindi è piazza del Popolo, e in fondo c’è la chiesa coi Caravaggio”.
“E quelli prof cosa sono?”
“Non ne ho la minima idea. Sembrano soldati”.
“Manichini”.
“Sì, come l’armata di terracotta”.
“Ma no, prof, è pattume”.
“Sul serio?”
“Sono fatti con le bottiglie, coi rottami. Questo è rosso perché è fatto con le lattine di cocacola. Ma che roba è”.
“Aspetta che c’è un cartello, vedi. Ah, ecco. Trash People, di Ha Schult. È un’installazione”.
“E cioè?”
“Un’opera d’arte”.
“Un’opera d’arte?”
“Un’opera che portano in giro, vedi? Ci sono le foto. Trash people davanti alle Piramidi. Trash people sulla Grande Muraglia. E adesso qui”.
“Ma che senso ha?”
“C’è sempre sul cartello. Ci fa riflettere sul nostro rapporto coi rifiuti. Ne produciamo talmente tanti. In fondo sono come le nostre piramidi, come il nostro esercito di terracotta che…”
“Ho sete. Mi è venuta voglia di cocacola”.
“Curioso, anche a me. C’è un bar di fronte alla chiesa”.
“Comunque questa non è arte. È pattume.
“È arte fatta di pattume”.
“Ma non è bella da vedere”.
“Dal terrazzo del Pincio deve fare un bell’effetto, invece”.
“Ma insomma, manichini di rusco, ero capace anch’io”.
“Sicuro?”
“Ma certo, come dire che domani vado in discarica e faccio una roba che…”
“Troppo tardi, lo ha già fatto Schult”.
“E non lo posso fare anch’io?”
“No, se copi non è più interessante. L’arte contemporanea è così: vince chi arriva primo. Come la formula uno”.
“E se faccio una roba con… delle schegge di ferro”
“Già fatto”.
“Oppure dei catenacci, dei carburatori e…”
“Già fatto”.
“E allora prendo l’olio frusto e ci faccio una roba che…”
“In un museo a Parigi ho visto roba fatta con le muffe, per cui figurati”.
“E allora con lo sputo, faccio una roba con lo sputo”.
“Già fatto. Pensa che un artista italiano ha già fatto una cosa con la merda”.
“La sua merda?”
“Quarant’anni fa, quindi arrivi un po’ tardi con gli sputi”.
“Una scultura con la merda?”
“Una cosa semplice. L’ha messa in diversi barattoli e ci ha scritto sopra: Merda d’artista. E poi l’ha venduta a peso d’oro”.
“E chi l’ha comprata?”
“I musei, per esempio, l’han comprata. Parigi, New York, quel tipo di posti”.
“Mi sta prendendo per il culo, prof”.
“L’ho vista quest’estate, coi miei occhi. Merda d’artista, di Piero Manzoni. Non confondere con Alessandro”.
“E chi è questo Manzoni”.
“Era un pittore. Ma è famoso soprattutto per la merda nei barattoli. Anche perché è morto giovane”.
“Ma lei l’ha vista sul serio?”
“Ho visto il barattolo”.
“E come si fa a sapere che dentro c’è la merda davvero?”
“Ci sono gli esperti, i critici, è il loro mestiere. Tieni conto che i barattoli li ha venduti a peso d’oro, ma adesso valgono ancora di più. Uno che ha comprato la merda di Manzoni trent’anni fa, a rivenderla adesso si compra una Ferrari. Perché la quotazione è salita”.
“E se adesso in un barattolo la faccio io…”
“Non te la compra nessuno, perché non ti chiami Manzoni. Lui è arrivato prima. Vince chi arriva prima”.
“Ma l’ha fatta direttamente nel barattolo?”
“Penso di no”.
“Ma davvero l’ha vista?”
“Perché dovrei raccontarti una bugia”.
“Che odore sapeva?”
“Nessun odore, dopo quarant’anni…”
“Ma non va a male in qualche modo?”
“Si ossida un po’ il barattolo. Del resto anche i Caravaggi si sono deteriorati. Certo, un conto è restaurare una pala d’altare del Cinquecento. Una merda del Novecento sarà un altro paio di maniche”.
“E quanto ha detto che costa?”
“Non lo so. Più del suo peso in oro, e aumenta”.
“Ma perché aumenta?”
“Si vede che è considerata sempre più importante, di anno in anno”.
“Ma è merda, come fa a diventare più importante?”
“Non è la merda in sé, è il gesto di metterla in un barattolo. È un gesto storico, nessuno aveva osato farlo prima. E anno dopo anno i critici lo considerano un gesto sempre più importante”.
“E se cambiano idea?”
“Se cambieranno idea, chi l’ha comprata a peso d’oro si ritroverà in mano un barattolo di merda”.
“Che fregatura quest’arte moderna”.
“Perché? È interessante, invece”.
“E comunque sono buono anch’io”.
“Prova. Prima però devi farti venire in mente un’idea nuova”.
“La piscia?”
“Figurati. Quarant’anni dopo la merda, arriva uno con la piscia. Banale”.
“Il vomito!”
“Ci avrà già pensato qualcuno. Dai, concentrati”.
“Mi concentro. Un sorso di coca?”
“Grazie”.

arti contemporanee, cinema, Von Trier

fate largo all’avanguardia


Amami, odiami; stringimi, stammi lontano

“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Giovanni 13, 34

Che cos’è, l’avanguardia, esattamente? E a cosa serve?

Per alcuni si tratta di forare la quarta parete e cambiare il mondo. Non è mai stato facile, e da qualche decennio è anche demodé. Ma la chiameremo ancora Ipotesi Progressiva.
Per altri si tratta sempre e solo di ego. Sindrome d’onnipotenza dell’artista, che fa esplodere qualunque testo o partitura. Si urla, si balla, si tira cacca e sangue sul pubblico, che adora e applaude. In un certo senso si torna alla preistoria, quando l’artista era uno sciamano (e un ciarlatano, naturalmente). Chiamiamola Ipotesi Regressiva.

E poi c’è Lars Von Trier. Quando d’inverno cala Lars Von Trier, si sente in lontananza un coro, che bisbiglia sommesso e petulante, siamaosiodiasiamaosiodiasiamaosiodia. Balbettanti cinefili, marmaglia borghese, puah. Si ama? Si odia? Ma chi se ne frega? Mica dobbiamo portarcelo a letto, Lars.
Noi abbiamo domande più interessanti, noi. Noi siamo il tribunale della rivoluzione, e ci domandiamo: Von Trier è Progressivo o Regressivo? L’unica domanda interessante, quella che fa scattare la molla della ghigliottina. Il resto è brusio da borsette, per l’appunto.

Mi piace immaginare che la stessa domanda se la faccia lui. Quel tipo di domande che si fanno i nordici, no? Insomma, ci sono o ci faccio? Sono un rivoluzionario o un ciarlatano? Può darsi che io stia sacrificando l’estetica al messaggio: ma questo mio sacrificio non è forse esso stesso un messaggio, che dice “quanto sono figo?”
Ma sono davvero così figo? Tecnicamente, non valgo poi molto. Agli attori do istruzioni a caso, quando uso l’handycam mi trema la spalla, se affido i movimenti di macchina a un computer nessuno noterà la differenza. Si aggiunga che odio tutti, in particolare gli attori: egotici dannati, non ci parlo volentieri. Ma vorrei che mi amassero. Sì, vorrei che mi considerassero un loro amico. Però ho difficoltà a starci insieme. Nella stessa stanza.

Il Grande Capo è un viaggio nel cervello di Von Trier, dove fa parecchio freddo, ma ci si diverte. Matte risate, sul serio. Il protagonista dovrebbe essere Kristoffer.
Kristoffer è un artista, un attore d’avanguardia, un ciarlatano. Ama sé stesso, le sue teorie e le sue messe in scena astruse. In mancanza di scritture accetta di impersonare il Grande Capo di una dot com (tornano di moda, anche se tra un po’ gli troveremo un nome diverso). È convinto di trovarsi davanti a un vile canovaccio da nobilitare con la sua arte. Invece farà l’incontro più importante della sua vita artistica: Ravn.

Ravn assomiglia al gangster di Pallottole su Broadway: è il vero Grande Artista, quello istintivo, che non sa nulla di teorie. Parte integrante del suo genio è l’assoluta amoralità. Non c’è bene né male, solo l’arte per l’arte. L’arte di Ravn è la sua impresa, la tecnica che padroneggia al meglio è la stesura dei contratti. Senza sborsare un solo soldo, Ravn ha costruito e dirige un’impresa di successo. Per difendersi dalle decisioni impopolari che prende continuamente, si è inventato un Grande Capo fittizio, di cui lui sarebbe soltanto un esecutore, incaricato di indorare le pillole. Più il Grande Capo è arbitrario e dogmatico, più Ravn si accredita come mascotte dei dipendenti. Perché dirigere l’impresa non gli basta: sopra ogni cosa, Ravn vorrebbe farsi amare.

In quell’orsacchiotto c’è una cosa che forse non avevamo ancora capito di Lars: il principio “o-lo-ami-o-lo-odi” non è un dilemma, ma una strategia. Devi odiare il dogmatico Von Trier per amare il rivoluzionario Lars. Ogni regola serve ad essere elusa, questo forse lo avevamo capito già: quello che non avevamo capito è quanto fosse importante per il regista agorafobico l’essere amato, l’essere abbracciato. Un film di danesi che si abbracciano e cercano di volersi bene è qualcosa che val la pena di vedere – anche perché c’è sempre un nord del nord: in questo caso il gelido cipiglio dell’acquirente islandese che esecra i sentimentalismi dei terroni di Copenhagen.

Prima di incontrare Ravn, Kristoffer non aveva idea di cosa fosse veramente un artista: un mangiatore d’uomini e donne, un killer. “Il testo è sacro, per me”, diceva a Ravn, all’inizio. “Anche se l’avesse scritto Hitler”. Sono le cose che si dicono gli avanguardisti, tra le quinte. Ma se fosse la vera vita? Cosa succede quando scopri che il tuo testo l’ha scritto davvero Hitler? Un dittatore insensibile, pronto a mandare la sua impresa al macello, travestito per di più da simpatico orsacchiotto? A quel punto Kristoffer ha un soprassalto: per un attimo sembra voler riscattare la sua mediocrità e il suo egotismo. C’è la possibilità di forare davvero la quarta parete: mandare a monte la recita, salvare l’azienda e i suoi dipendenti. Per ottenere un risultato, Kristoffer è persino disposto a sacrificare le sue teorie e ricorrere all’arma segreta: quel teatro borghese tanto odiato, con la sua untuosa ed esecrabile capacità di suscitare emozioni. E in quel momento siamo tutti con lui. È bravo, è commovente, il suo ego è finalmente funzionale al testo che si è scelto. È troppo bello per finire così.
E infatti non finirà così. L’ego è una brutta bestia: ti segue ovunque vai. È lui il nostro Grande Capo.

Vale la pena aggiungere che il film fa molto ridere; perlomeno ha fatto ridere me, molto più di Commediasexi. A questo punto io credo di amare Von Trier, anche se non vorrei mai stare in una stanza con lui. E con nessuno di voi. Però vorrei che mi amaste di più, sento che non mi amate quanto merito.

Idee più chiare su:
Secondavisione (“o si ama o si odia”).
Marco Luceri (“l’amato-odiato furetto danese”).
Giulio Sangiorgio e Mauro F. Giorgio (sul fondo compaiono giochi di parole in greco, Derrida Deleuze e Guattari; Debord si era dato malato).
Fenice (“Iniziamo dicendo che le scuole di pensiero sono due e ben nette: Lars von Trier si odia o si ama”.
– “Un regista che è riuscito da sempre a dividere critica e pubblico: o lo si ama, o lo si odia!” (Cineblog)
– “Lars von Trier, o lo si ama o lo si odia! Sembra proprio che vie di mezzo non esistano” (Cinefile.biz su Manderlay)
– Sicuramente Dogville ha diviso gli spettatori; è comunque un film che difficilmente si può considerare godibile, e quindi o lo si ama o lo si odia.
– Potrei andare avanti ma è troppo facile.

arti contemporanee, vignette sataniche

– bamboccioni superficiali a Berlino

Guardami, sono un artista
(ma non tagliarmi la testa)

Gli artisti sono un po’ bambini. I bambini sono un po’ artisti. Quante volte abbiamo sperato di essere un po’ artisti, e invece eravamo soltanto bambini. O viceversa.

I bambini non sono tutti uguali. Ci sono quelli (A) che cercano la tua attenzione – ovvio – perché hanno qualcosa da dirti. Un disegno, una canzone, una storia da raccontarti. Magari non te la sanno raccontare, questo è ovvio, sono bambini. Ma ci provano, e questo spesso è bello, è divertente.
Altri bambini (B), pur cercando la tua attenzione, non hanno veramente nulla da dirti. Hanno soltanto bisogno della tua attenzione, di un attestato alla loro esistenza. Se necessario ricorrono al turpiloquio, urlano, piangono, picchiano i piedi e trattengono il fiato. Questi ultimi bambini onestamente non li amo molto, li trovo molesti e al limite noiosi, ma ammetto che oggi vanno per la maggiore.

Io divido i bambini in queste due categorie, e faccio lo stesso con gli artisti. Ci sono quelli (A) che hanno un messaggio da spiegarti, una storia da raccontarti. Non importa che il più delle volte non sappiano come raccontarla (se sapessero come si fa, sarebbero ancora artisti?) E poi ci sono quelli (B) che non hanno sostanzialmente nulla da dire, a parte: “Ehilà, esisto anch’io, per favore, guardami. Ehi, dico a te: cacca, piscia, guardami. Cazzo, figa, guardami. Cristo, Maometto, Buddha, guardami, esisto anch’io. Sono un artista”.

Detto questo posso provare a spendere i miei 50 eurocent sul caso Idomeneo: è giusto decapitare in effigie Cristo Maometto e Budda sulla scena della Deutsche Oper di Berlino? Per me dipende. Se si tratta di un’operazione di tipo A, sì, forse ne varrebbe la pena. Idomeneo è un eroe Greco che, come Abramo, si trova nella spiacevole situazione di dover sacrificare il proprio figlio a un Dio esigente. E proprio come Abramo, Idomeneo sarà graziato all’ultimo istante. I due miti accennano a una fase cruciale della storia dell’uomo: la rinuncia al sacrificio umano, il passaggio dalla magia al culto religioso. Magari lo scenografo aveva in mente questo. Magari. Non lo so.

Purtroppo, dalle scarse immagini che ho captato via tg, mi sono fatto un’altra idea. Da quelle teste mozzate spira un’aria da grand guignol che mi ha fatto venire in mente tante brutte cose che volevo essermi lasciato alle spalle. La mia tarda adolescenza spesa a portare ragazze d’università in quei teatrini oscuri, off-off-off-off, dove magari un paio d’attori realizzava un remake del Re Lear sputando uova sode sul pubblico. Quella coazione a épater le bourgeois, sempre il solito bourgeois rassegnato a farsi épater da ogni bambino viziato di tipo B. Quell’estetica trasgressiva da Societas Raffaello Sanzio – talmente trasgressiva che ormai ha contagiato anche il prodotto teatrale più conservativo e borghese: l’opera lirica. Tanro che ormai uno un po’ le compiange, le povere signore in visone costrette a sciropparsi tre ore di provocazioni artistoidi con sottofondo di Mozart (e meno male che è Mozart).

Insomma, ho già buttato giù 3000 battute sul caso Idomeneo e non ho ancora centrato il punto: la provocazione antislamica. Ma vedete, il fatto è che stavolta gli integralisti islamici non si erano accorti di niente. Oh, naturalmente da domani il discorso cambia. Ora finalmente è scoppiato il dibattuto e la provocazione dell’Idomeneo è passata sui telegiornali di tutto il mondo: il capoccione mozzato di Maometto è entrato nel palinsesto mondiale e non mancherà di istigare chi è sempre alla ricerca di istigazioni (apprezzate il tempismo: aveva appena fatto in tempo il papa tedesco a chiedere scusa scusa e riscusa per una citazione). Ed ecco, in quest’ansia degli europei di farsi notare, di far scoppiare casi anti-islamici ad ogni costo, mi sembra di ravvedere un certo narcisismo di tipo A: ehi tu, Omar, Mustafà, Alì, insomma, guardami. Faccio delle vignette sul tuo profeta, eddai, incazzati. Gli taglio persino la testa in effige – se non t’incazzi ora, quando?

Naturalmente gli europei hanno il diritto di farlo – e se io ci trovo un sospetto di narcisismo infantile, pazienza, il narcisismo è una sindrome e non è perseguibile per legge.

E poi chissà. Forse, sotto sotto, la vecchia Europa non ne può più, di tutti i suoi figli di tipo B, narcisi e petulanti; isterici piantagrane, sempre pronti a bruciare il papà in effigie (sempre e solo in effigie). Un po’ di provocazione, all’inizio, ci stava anche bene. Ravvivava consuetudini sceniche ammuffite. Ma ormai Brecht è morto, Bene è morto, e gli epigoni riescono a scandalizzare appena i beduini del deserto (ammesso che i beduini captino al Jazeera, e al Jazeera si preoccupi dell’Idomeneo a Berlino). Forse alla fine l’Islam è solo una scusa per darsi un contegno, e cambiare una messa in scena che non funziona più. È un’ipotesi.

Certo si preannuncia una bella lotta, tra l’europeo tremebondo, che ha paura del musulmano cattivo e non osa prendere in giro i suoi profeti, e l’europeo bamboccione che passa il tempo a mozzare Dei di cartone per attirare attenzione. Forse non vincerà nessuno dei due: forse, semplicemente, i bambini cresceranno; smetteranno di avere paura dei mostri e di sollecitare aiuto e attenzione. Sarebbe anche ora.