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Il ritorno dell’uomo che insisteva a stroncare i Beatles

29 agosto 1966 – I Beatles terminano il loro tour americano con una data al Candlestick Park di San Francisco. Nemmeno loro lo sanno, ma è il loro penultimo concerto. L’ultimo si terrà tre anni dopo, su un tetto di Londra, ma nessuno lo ricorda davvero volentieri. Nemmeno il nostro beniamino, Sir Perceval R. Deafon, Esq., celebre per aver salutato tutti i loro dischi con abominevoli stroncature che oggi terminiamo di pubblicare (le prime sono qui). Ci tengo comunque a far presente che a me invece i Beatles piacciono. 

Abbey Road (Apple Music, 1969)

Quando l’anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell’album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l’agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall’inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento – il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione – il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure – è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po’ di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l’unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.

La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c’è anche l’ora dell’eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c’è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l’irritante Maxwell’s Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All’eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa – l’uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient’altro che “I want you so bad it’s driving me mad” per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.

E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall’ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell’originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d’aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c’è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock’n’roll scatenava l’isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio – impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà – dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l’agonia è finita.

Let It Be (Apple Music, 1970).

E così sia. Constatata finalmente l’impossibilità di proseguire come gruppo, John Paul George e Ringo hanno sciolto la società per avviarsi serenamente verso tre o quattro carriere soliste che – non lo dubitiamo – ci regaleranno finalmente quei risultati concreti che da sempre ci aspettavamo da musicisti dotati come loro: senza più la necessità di lottare per il lato A di un 45 giri, o per il privilegio di cantare una canzone in più su un 33, avranno finalmente tutto lo spazio che serve a un artista per esprimersi al meglio, e ci regaleranno canzoni che faranno impallidire gli incerti ectoplasmi musicali composti e registrati negli ultimi due anni.

Ora che il divorzio si è celebrato – e chi segue questa rubrica sa da quanto tempo lo caldeggiavo – lasciatemi confessare una speranza di diverso tenore. Possibile che la storia finisca qui davvero? Quattro musicisti cresciuti assieme, ancora così giovani, al culmine delle loro potenzialità, potranno davvero resistere per molto senza incrociarsi di nuovo, per amore e per convenienza? Mi sembra straordinariamente implausibile. Abbiamo tutti litigato coi nostri amici dei vent’anni. Ma dopo tanti anni ancora, a sopravvivere quasi sempre è l’amicizia, non il rancore. Perché non dovrebbe essere così anche per loro? È più che un auspicio.

Persino un disco come Let It Be, senz’altro inferiore agli standard a cui ci hanno abituato, sembra già contenere le premesse di una nuova alba, contrastata ma promettente. I brani sono scelti tra quelli composti e incisi durante le famigerate sessioni agli Apple Studios, nel gennaio del ’69, e il concerto sul tetto della Apple in Saville Row. Si tratta insomma di materiale scartato in un primo momento dagli stessi Beatles, con tre eccezioni: Across the Universe, la cantilena regalata da John al WWF, Get Back, il rock’n’roll spensierato e un po’ insipido già apparso su singolo l’anno scorso, e l’inno svergognatamente patetico che dà il titolo all’album. The One After 909, un vecchio ballabile in scaletta ai tempi del Cavern Club, sembra voler chiudere il cerchio e dimostrare che il r’n’r è più forte di qualsiasi dissidio. È stato un anno difficile per tutti, ma ho una sensazione: sotto quelle zazzere incolte, sotto le pretese da artisti concettuali, le pose da rivoluzionari, le dispute societarie e i cattivi investimenti, sotto tutta la patina di stronzate che si è deposta in questi anni di beatlemania, c’è ancora la grinta di quei quattro teddy boys sguaiati che appena sette anni fa ci spalancarono un mondo. Per ritrovare la loro quintessenza forse avrebbero bisogno di una guida che scrolli via tutto quello che li ha appesantiti, e forse l’hanno trovata: Phil Spector, il grande produttore che con il materiale di partenza ha davvero fatto i miracoli. Anche uno scarto innocuo, messo nelle sue mani può trasformarsi in una ballata struggente, come quella The Long and Winding Road, che – è il mio augurio – un giorno ricorderemo non come il canto del cigno, ma come l’annuncio di un nuovo, meraviglioso inizio. Coraggio allora: ognuno per la propria strada, e arrivederci al primo incrocio.

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Come tenere i negretti al loro posto

28 agosto 1955 – Emmett Till viene seviziato, ucciso, gettato come un rifiuto nelle acque limacciose del fiume Tallahatchie. I suoi assassini, subito arrestati, non saranno mai puniti.

A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c’era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C’erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po’ di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l’avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c’era comunque rischio che si perdesse.

Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l’idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto.
Gli aveva pur detto la mamma che in Mississippi i bianchi e i neri non si comportano nello stesso modo che a Chicago, e di stare attento – ma niente da fare. Avrebbe dovuto farsela sotto e implorare pietà, questo è il modo in cui ci si salva da un linciaggio. Invece continuava a fare il bullo e a incassare i colpi con una flemma che Roy e JW non avevano mai visto in un nero, un’arroganza insopportabile, il modo di fare dei neri di città che non sanno stare al loro posto. Bastardi, li chiamava. Forse davvero non negò di essere stato con donne bianche. I due non potevano sapere che quattro anni prima Emmett aveva puntato una pistola a un ex della madre che continuava a stalkerarla. Se ti rivedo da queste parti ti sparo, le aveva detto una cosa del genere. A dieci anni, con una pistola in mano. Dunque se questi due bifolchi avevano intenzione di picchiarlo, non poteva evitarlo: ma abbassare lo sguardo davanti a loro era fuori discussione.

E questo era un problema. Man mano che il pick-up proseguiva nella notte, e il ragazzo si ammaccava sempre di più, anche il problema diventava più grosso, e la prospettiva di lasciarlo vivo si allontanava. Il vecchio Mose Wright non li avrebbe mai denunciati, ma il ragazzo? Li aveva visti in faccia e non se li sarebbe scordati. Tra qualche giorno se ne sarebbe tornato a Chicago, dov’è pieno di giornalisti e altri impiccioni. L’alternativa era tirargli un colpo in testa e disfarsi del corpo. La notte cominciava a ritirarsi e in breve l’alternativa non fu più un’alternativa. Quando lo tirarono fuori, anche Emmett capì. A quel punto forse gli avevano già cavato un occhio. Albeggiava e qualcuno sentì gridare, Signore, Pietà – poi uno sparo. Ora bisognava trovare qualcosa di pesante, che se lo portasse nel fondo del fiume e non lo restituisse più. Fino a quel momento non ci avevano pensato. Entrarono in un qualche magazzino, frugarono tra le cianfrusaglie e alla fine svitarono la ruota metallica di un macchinario per sgranare il cotone. Fu l’unico momento in cui temettero davvero di finire nei guai: non per l’omicidio, ma per il furto di una ruota metallica. La legarono al cadavere col filo spinato.

Il giorno dopo lo sceriffo venne a prenderli. Mose Wright non aveva avuto il coraggio, ma uno dei ragazzi di Chicago, Curtis Jones, lo aveva chiamato. Non potevano negare di aver prelevato Emmett, ma raccontarono di averlo mollato nottetempo, nei pressi del negozio di Roy. Volevano solo dargli una lezione per quello che era successo quattro giorni prima. Che cos’era successo? Tutti sapevano cos’era successo.

Il giorno prima Emmett aveva rivolto la parola alla moglie di Roy, Carolyn.

Aveva 21 anni, il marito 24. Era sola nel negozio; Emmett era entrato coi suoi amichetti della villeggiatura e le aveva detto “bye, baby”. Forse. Il ragazzino per la verità soffriva di una lieve balbuzie, soprattutto quando si trattava di far uscire la lettera “b”. La mascherava fischiettando. Magari aveva solo chiesto del bubble gum, e gli era partito un fischio. In seguito la versione di Carolyn, cambiò, e al processo il quattordicenne balbuziente di Chicago si ritrovò in bocca cose irriferibili: ehi baby, che ne dici se usciamo assieme? Che ti succede, non ce la fai? Non ti preoccupare [omissis], sono già stato con altre bianche. Le avrebbe preso la mano, cercando poi di cingerle i fianchi. Carolyn, terrorizzata, corse fuori dal negozio, a prendere la pistola che teneva sotto il sedile della macchina. A quel punto Emmett e gli altri ragazzi si dileguarono. Non prima che Emmett lanciasse un altro fischio. Ma forse non stava più fischiando a Carolyn; dall’altra parte della strada qualcuno giocava a dama.

Quel mattino, lui e i cugini erano sgattaiolati fuori dalla chiesa mentre zio Wright officiava. Si erano messi a chiacchierare coi coetanei, braccianti figli di braccianti, raccontando di com’era la vita su a Chicago. Là le cose erano molto diverse, neri e bianchi andavano a scuola assieme. Ma dai. Chi volete prendere in giro. Emmett però aveva con sé qualche foto. Visto? Qui siamo a scuola. Questo sono io. E questa è la mia ragazza. È bianca, sì. Non ci credi? Credi che io non abbia il coraggio di parlare a una bianca? Ti faccio vedere.

Roy era fuori città per affari. Tornò solo il 27, quando ormai la storia la sapevano anche i muri. Che altro poteva fare? Così spiegò a un giornalista l’anno dopo – era appena stato assolto per l’omicidio di Emmett Till.

Non avevo mai fatto male a un negro in vita mia. Mi piacciono i negri – quando stanno al loro posto – so come ci si comporta con loro. Avevo solo deciso che era il momento di mandare un segnale a un po’ di gente. Finché sarò vivo e potrò farci qualcosa, i negri dovranno restare al loro posto. Dove vivo io i negri non voteranno mai. Se lo facessero, controllerebbero il governo. Non andranno mai a scuola coi miei figli. Quando un negro arriva al punto di parlare di sesso con una donna bianca, è segno che è stanco di vivere. Sono pronto ad ammazzarlo. Io e i miei compaesani abbiamo combattuto per questo paese, e abbiamo ottenuto qualche diritto. Stavo lì in quella baracca ad ascoltare quel negro sibilarmi il suo veleno in faccia, e alla fine mi sono deciso. Ragazzo di Chicago, ne ho abbastanza di quelli che vi mandano qui da noi a fare casino. Al diavolo, farò di te un esempio per tutti, giusto perché capiscano come ci regoliamo qui da noi.

Bryant e il fratellastro furono trattenuti con l’accusa di rapimento. Sui giornali non si escludeva ancora la possibilità che il ragazzino fosse fuggito, o che qualcuno di famiglia lo avesse nascosto. Tre giorni dopo due ragazzini a pesca nel Tallahatchie trovarono il corpo. Per quanto il volto fosse sfigurato, fu subito chiaro che si trattava di un ragazzo di colore, che non era annegato e che prima di essere ucciso era stato percosso. Comunque non ci fu un’autopsia: lo chiusero in una cassa di pino e stavano per seppellirlo. La madre si mise in mezzo. Si impuntò: voleva che lo riportassero a Chicago (continua…)

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L’uomo che stroncava i Beatles

27 agosto 1967 – I Beatles vengono ricevuti dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Nel frattempo il loro manager, Brian Epstein, muore per overdose di carbamazepina. L’evento tragico segna l’inizio della fine per il gruppo (che si scioglierà ufficialmente due anni dopo), almeno a detta di alcuni critici. Tra costoro non manca, come avrete indovinato, Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., il critico che tra il 1963 e il 1970 stroncò tutti i dischi dei Beatles. Proseguiamo la pubblicazione delle sue recensioni (le prime sono qui).

Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967)
Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell’assurdo formato di doppio EP – sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest’anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po’ raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l’occasione per abbaiare all’ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po’ meno ambizioso. Rimane in chi scrive l’impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock’n’roll (non c’è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell’avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l’unico a poter trarre qualche soddisfazione dall’ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po’ avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante – riguardo a quest’ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l’inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle – pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.

The Beatles (Apple Music, 1968)
Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato ‘capolavoro’ dell’anno scorso, dove la frattura tra l’eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già ‘strano’ sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre – facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d’ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All’interno c’è un’interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l’una contro l’altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l’incisione di brani dall’alto contenuto di saccarina come Mother’s Nature Sun Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I’m so Tired o Happiness Is a Warm Gun. 

Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz’altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody’s Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock’n’roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell’accrocchio rumorista di I Am the Walrus? Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C’è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna…) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l’idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l’entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in… niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L’unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient’altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare – ce lo auguriamo – le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua…)

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Il più grande furto d’arte di tutti i tempi, forse

I ladri fotografati mente si portano
via l’Urlo in pieno sole.

22 agosto 2004 – falsi pompieri rubano una versione dell’Urlo di Munch da un museo di Oslo. Non è neanche la prima volta. Sarà ritrovato due anni più tardi.

Definito da Arthur Lubow “la Gioconda dei nostri tempi”, l’Urlo di Munch ha in comune anche la complicata questione dell’originalità: non esiste ‘un’ Urlo, ma almeno quattro versioni d’autore, tutte considerate originali. Persino il furto dell’Urlo, dieci anni fa, non è originale: nel ’94 un’altra copia era sparita dieci anni prima, sostituita da un biglietto in cui si ringraziava la galleria nazionale di Oslo per la scarsa sorveglianza. Due anni fa una versione a pastello è stata battuta da Sotheby’s per 119 milioni di dollari; solo un Francis Bacon è stato venduto a un prezzo più alto. Attualmente quell’Urlo è la decima opera d’arte al mondo per quotazione, in una classifica guidata dai giocatori di carte di Cézanne, dove la Gioconda neanche compare (non c’è più nessun maestro del Rinascimento: tutti spodestati a partire dagli anni ’80). A proposito, quanto costa la Gioconda?

Difficile dirlo. L’ultima volta fu assicurata per cento milioni di dollari (durante il tour americano del 1962, in cui incontrò anche Kennedy – i Beatles due anni dopo non fecero in tempo). Tenuto conto dell’inflazione, oggi sarebbero 780 milioni, più del doppio del quadro di Cézanne. Ma è una cifra senza senso: l’assicurazione non è stata rinnovata. Il Louvre ha ritenuto preferibile investire in sicurezza. Peraltro, a questo punto l’oggetto è diventato talmente iconico che persino un mitomane, un terrorista o qualsiasi Etostrato non potrebbe che distruggerne l’involucro esteriore, quella fragile tavola di legno che è destinata a deteriorarsi comunque nel giro di qualche secolo. L’immaginario collettivo non ci perderebbe nulla: l’immagine ormai è fissata in miliardi di terabyte che saranno nella nuvola finché ci sarà un’umanità interessata a questo tipo di cose. Anzi, una fine tragica renderebbe l’icona ancora più indelebile nelle nostre coscienze. Anche il Louvre in realtà non avrebbe che da perdere un quadro molto complicato da gestire e custodire: la fila che oggi si forma davanti al capolavoro si sbrigherebbe a trovare qualche altra opera-feticcio; non è che la gente abbia smesso di andare a NY perché non ci sono le due torri (tutto il contrario, direi). Insomma Monna Lisa a levarsi di mezzo ci farebbe quasi un piacere.

E poi magari a quel punto salterebbe fuori l’originale.

“30 are better than one” (Andy Warhol)

D’accordo, ormai si è convenuto che non esiste un ‘originale’. Esiste un’idea nella testa di un artista perennemente insoddisfatto, che si porta con sé un quadro per molti anni modificandolo in continuazione: non per arrivare a un risultato finito, ma perché l’opera deve rimanere aperta come la vita. Poi l’artista muore, e l’opera non-finita diventa quella che tutti conosciamo come originale. Non corrisponde necessariamente all’ultima idea di Leonardo sulla Gioconda – sempre ammesso che l’ultima sua idea ci debba interessare più di quelle che aveva da giovane: coi musicisti e gli scrittori non funziona così, spesso preferiamo le versioni giovanili. Senz’altro se confrontiamo una dozzina di copie d’autore, la Gioconda del Louvre spicca: non per la conservazione (molti dettagli sono spariti, ad es. le sopracciglia che Vasari aveva pur visto), non per la finitezza, e allora per cosa? Siamo completamente sicuri di preferire la Gioconda del Louvre perché è migliore di quella del Prado o di Baltimora, e non perché corrisponde alla nostra idea interiore di Gioconda – che perlappunto è modellata sulla Gioconda del Louvre? Cosa vogliamo vedere quando vediamo Monna Lisa Gherardini del Giocondo? Un ritratto enigmatico su uno sfondo etereo e straordinario, o più semplicemente una faccia nota che ci conforti, che ci faccia sentire a casa anche quando ci avventuriamo nelle foreste sconosciute delle gallerie d’arte?

E se Peruggia avesse cambiato le carte in tavola, esibendo agli esperti fiorentini una copia d’autore diversa da quella che aveva trafugato al Louvre? Se i due anni tra il furto e l’arresto non li avesse trascorsi in cenette romantiche con la Gherardini, ma in attesa di contattare un collezionista in grado di fare uno scambio del genere? Qualcuno già in possesso di una copia molto buona della Gioconda, tuttavia ritenuta imperfetta perché… mal conservata, senza sopracciglia, senza balaustra e colonne. E’ un’ipotesi da blog d’agosto, e però pensateci: questo spiegherebbe l’apparente dabbenaggine con cui Peruggia si fa arrestare: i soldi veri non sperava certo di farli a Firenze; magari li aveva già messi da parte in Svizzera per la famiglia. Non restava che fare il matto patriottico e portar pazienza un paio d’anni.

Geri e Poggi si rendono conto subito di avere per le mani un’opera eccezionale: ma possono essere sicuri che sia davvero quella trafugata al Louvre due anni prima? Le foto in bianco e nero e i quadri a colori ci mostrano un dipinto che potrebbe essere una qualsiasi delle Gioconde disseminate nelle collezioni d’Europa e America. Non è nemmeno facile capire se ci fossero le colonne o no. Alcune Gioconde (come quella del Prado) le mostrano ai bordi estremi del quadro. La Gioconda ritrovata a Firenze proprio non le ha, né è possibile che siano state tagliate in un secondo momento.Però le aveva la Gioconda di Reynolds, quella che dovrebbe essere stata dipinta a Parigi. Perché aggiungere le colonne, se l’originale del Louvre non le ha?

A meno che… a Parigi non fosse esposta un’altra Gioconda. Quella versione sulla quale già il segretario dell’Académie aveva espresso i suoi dubbi a Reynolds – e non sono considerazioni che si buttano lì a cuor leggero. Forse Peruggia trafugò quella, e poi la scambiò col collezionista che possedeva la versione mal conservata, senza sopracciglia, che oggi è diventata la Gioconda iconica che tutti riconosciamo. Quel collezionista avrebbe fatto l’affare peggior della Storia – e Peruggia sarebbe il più grande ladro di tutti i tempi.

E poi ovviamente c’è lo scenario “inside job”. Possibile che Peruggia riesca a uscire dal Louvre con un capolavoro in un cappotto senza che nessuno sospetti di nulla? Svegliaaaa! Metti che al Louvre avessero due versioni. E’ uno spreco, no? Si inscena il furto, si mette in commercio una delle due versioni (magari è una delle copie spuntate qua e là nel corso del secolo), e dopo un paio d’anni si ritrova l’altra – per il rocambolesco avvenimento, quale scenario migliore di Firenze? Risultato: tanta pubblicità, e qualche milione di franchi in cambio di un quadro che a Parigi sarebbe stato soltanto un doppione – mentre i visitatori vogliono l’Esperienza Unica. Non era ancora arrivato Andy Warhol a spiegarci che 30 gioconde “are better than one”…

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10 gioconde più originali dell’originale

Berlusconi, ci scommetto,
mi preferisce.

1. Isleworth Mona Lisa

La prima reazione è uno choc. La Gherardini ringiovanita sembra uscire da una copertina di Visto: come se, esasperata da un secolo di speculazioni sul suo stato di salute (alta glicemia, bruxismo, ecc.) avesse optato per una plastica facciale. Salvo che nessuno riesce a farle così bene. La seconda è un tentativo di esorcizzare un’idea che stravolge tutto quello che sai di un’opera che credi di riconoscere: chi è il folle collezionista che a un certo punto ha deciso di commissionare la versione ringiovanita di un capolavoro? E, viste le premesse di dubbio gusto, com’è possibile che il risultato sia così convincente?

La chiave sta nei dettagli – le colonne, in questo caso. Un falsario non le mette: un allievo di Leonardo sì, perché anche Leonardo in un primo momento ce le aveva messe (Vasari vide colonne e balaustra in una delle versioni più antiche). Le mani sono leggermente più scure del volto, come capita spesso nei suoi ritratti. Anche a non voler dare troppo credito alla perizia di parte che afferma che la tavola è del primo Cinquecento, rimane l’evidenza: la Mona Lisa ritrovata nel primo dopoguerra da un collezionista inglese in una placida villa del Somerset non è un tentativo meccanico di ringiovanire un soggetto adulto. L’ipotesi inversa – che Leonardo abbia cominciato il ritratto molto presto, e lo abbia sottoposto a continue modifiche – combacia viceversa con alcune cose che sappiamo di lui (la sua abitudine a non lasciare mai nulla di finito) e altre che abbiamo cominciato a raccontarci: la Gioconda come ritratto della madre o addirittura autoritratto dell’autore. Forse, più semplicemente, Leonardo sentiva il quadro talmente suo che decise che sarebbero invecchiati assieme. Questo spiegherebbe anche l’evanescenza del velo nella versione del Louvre, dove se non state attenti nemmeno lo notate: nella Gioconda giovane non c’è, ma se decidi di farla crescere devi mettercelo per forza: solo le donne di malaffare posano coi capelli sciolti e scoperti (e senza un anello al dito).

Ce l’ho mica scritto in fronte

2. Gioconda del Prado.

Se ne stava placida da secoli in uno scantinato del museo di Madrid, la classica copia d’autore di fattura pregevole ma di scarso interesse. Finché qualche anno fa qualcuno ha pensato di dare un’occhiata seria sotto lo sfondo nero, che fino ad allora sembrava l’ammissione di inferiorità di un falsario negato coi paesaggi. E’ saltato fuori che sotto la mano settecentesca di nero c’era un paesaggio straordinario, non del livello dell’originale, ma meglio conservato: e databile nel primo Cinquecento (le colonne ci sono ancora, benché relegate all’estremità della tela). E’ di Leonardo? La pennellata ci dice di no, manca lo sfumato. La riflessografia però ci dice che il pittore, che lavorava su tela, ebbe fino a un certo punto gli stessi ripensamenti che Leonardo nascose nella tavola. La Gioconda del Prado dunque sarebbe stata dipinta in contemporanea con l’originale – qualcuno si è anche ingegnato a calcolare l’angolo tra i due pittori, rispetto al soggetto. Forse l’unico modo di non rinunciare all’originale era lasciare dietro di sé qualche buona copia che testimoniasse una o più tappe del work in progress (e che si poteva anche smerciare facilmente).
Il sorriso della Gioconda del Prado ha una sfumatura ironica che risalta se la accosti all’originale. Sembra dire: io? La Gioconda? Ma figurati.

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Almanacco, Leonardo sells out

E se la Gioconda non fosse ‘quella vera’?

21 agosto 1911 – Vincenzo Peruggia, se gli vogliamo credere, esce dal Louvre dove ha passato la nottata. Sotto il cappotto porta una tavola di Leonardo da Vinci che non è ancora il dipinto più famoso del mondo, ma grazie a lui lo diventerà. E se non fosse, davvero, l’originale di Leonardo da Vinci?

Due anni dopo l’affare era ormai archiviato. Poliziotti e gendarmi avevano interrogato chiunque, perquisito dappertutto. Era stato sospettato persino il giovane Pablo Picasso; si era fatto una notte in cella anche il povero Apollinaire per quella sua tirata futurista sui musei da sventrare – ma anche per le accuse di un’ex, mitomane e piuttosto vendicativa. Niente, nessuno ne sapeva davvero niente, e la Gioconda non c’era più. Chissà dove se n’era volata. Che dire: cose che capitano – no, in realtà no, c’è una prima volta di qualsiasi cosa, e il furto della Gioconda fu il primo grande colpo in un museo pubblico. Evidentemente la sicurezza era un po’ da ripensare. Fino a quel momento si era probabilmente pensato che certe opere si difendessero da sole: chi mai avrebbe pensato di procurarsi illegalmente un Leonardo originale? Erano ancora begli oggetti che meritavano di essere visti anche a costo di lunghi viaggi e costosi – tanto più che le riproduzioni stampate non potevano assolutamente reggere il confronto con l’originale. Proprio per questo motivo, non c’era ancora la necessità di trasformarli in qualcos’altro: in simboli, cifre, capolavori ineffabili.

Non c’era nemmeno bisogno di esorcizzare il senso di delusione che provi quando arrivi lì e scopri che l’opera è esattamente come l’hai vista su un buon libro – e dunque qual è il senso di tutto il tuo viaggio?

Il senso è che ora, davanti all’originale, stipato con centinaia di altre persone sbuffanti e sudanti e probabilmente altrettanto deluse, tu dovresti provare una qualche straordinaria emozione che valga il biglietto dell’aeroplano e l’albergo e tutto quanto. Qualcosa di sovrumano che se spingi magari sentirai davvero – dipende anche da cos’hai mangiato e quando, e da quanto tempo sei in fila e se fa caldo. La sindrome di Stendhal non era ancora stata diagnosticata – l’omonimo scrittore in fin dei conti accennava solo a un vago batticuore che può venire a chiunque, non a uno stato di alterazione della coscienza descritta dalla psichiatra Graziella Magherini nel 1979. La Gioconda era già riconosciuta come un capolavoro (“la miglior opera di Leonardo al Louvre”, secondo qualche guida ottocentesca), ma non era protetta da un vetro anti-esplosioni in una stanzetta tutta sua. Un quadro di qualche anno prima ce la mostra in fila in mezzo ad altre opere pregevoli, che accostate in poco spazio suggeriscono quella sensazione di angoscia che rende faticosi ancora oggi tanti altri corridoi del Louvre: troppa arte, troppa bellezza e tu non hai abbastanza tempo, abbastanza spazio, abbastanza gusto. In quel corridoio si era fermato anche Coupeau, il personaggio dell’Assommoir di Zola che trovava Monna Lisa somigliante a una sua zia.

A un certo punto misero una cornice
vuota (la vide Kafka in gita).

A strappare la Gioconda dal suo rango di capolavoro tra capolavori, a trasformarla nella prima superstar dell’arte-nell’era-della-sua-riproducibilità-tecnica, fu Vincenzo Peruggia. Un artista anche lui, a suo modo – qualcuno l’avrà già scritto. Due anni dopo, quando ormai il posto vuoto della Gioconda era stato preso dal Baldassar Castiglione di Raffaello, a Firenze il collezionista Alfredo Geri riceve una lettera firmata da un misterioso “Monsieur Léonard V”, che sostiene il quadro è nelle sue mani, ma non gli appartiene: infatti “appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano“. Léonard è pronto a cederlo a un museo italiano: si accontenterebbe di cinquecentomila lire (cifra abbastanza considerevole ai tempi) per “le spese”. Incuriosito, Geri fissa un appuntamento in un albergo e si porta con se Poggi, il direttore degli Uffizi. Mal che vada smaschereranno un falsario. Invece si ritrovano davanti la tavola originale. Chiedono a Peruggia di aspettare fuori, e Peruggia esce a spasso. Questo è l’unico dettaglio che mi fa sospettare davvero che non fosse del tutto a posto: lo arrestano poco dopo. Confesserà subito. E’ un decoratore di Luino, affetto da saturnismo, malattia professionale di chi lavora a contatto con vernici a base di piombo. Due anni prima aveva lavorato in un cantiere del Louvre: una sera aveva deciso di nascondersi in uno sgabuzzino. Sapeva come smontare la teca della Gioconda perché l’aveva montata lui stesso. Era già stato indagato, e la sua casa perquisita: ma la police non aveva trovato il cassetto segreto della sua tavola di cucina, costruito appositamente per nascondere il capolavoro. Racconterà di aver passato serate assai “romantiche”, cenando tête-à-tête con Monna Lisa Gherardini. Alla lunga tuttavia il suo sorriso sfuggente doveva essergli venuto a noia – esattamente com’è successo a noi, dopo averlo visto migliaia di volte e sempre di sfuggita. Ma Peruggia è stato all’avanguardia anche in questo: nell’annoiarsi di un capolavoro. Divenne una celebrità, il che forse non aveva previsto. Al processo fu ben consigliato: cercò di coprire la sua richiesta di riscatto sotto il movente patriottico. Raccontò la sua rabbia nell’aver letto su un opuscolo quante e quali opere del Louvre erano bottino di guerra di Napoleone; da cui la decisione di riportarne a casa almeno una. In realtà la Gioconda non era stata sottratta da Napoleone (che tuttavia per un periodo se l’era fatta mettere in salotto; poi forse si era annoiato anche lui). In Francia, molto prima della rivoluzione, l’aveva portata Leonardo stesso, invitato a corte da Francesco I. Non importa: Peruggia aveva scelto la Gioconda perché era comoda, gli entrava nel cappotto. Diventò per la stampa italiana una specie di eroe, proprio mentre si fingeva matto, e uno psichiatra piuttosto accomodante lo metteva nero su bianco in una perizia per il processo.

Psichiatra: Su un albero ci sono due uccelli. Se un cacciatore spara ad uno di essi, quanti ne rimangono sull’albero?
Peruggia: Uno!
Psichiatra: Deficiente! [l’altro sarebbe scappato, ndb].

La sigla in francese sta per
“Ha caldo al culo”.

Persino l’opinione pubblica francese guardò al matto italiano con una certa simpatia – i francesi sono incredibili in questo, sessant’anni prima erano riusciti a riconoscere l’eroismo nelle bombe di Felice Orsini – e poi quel che importava è che la Gioconda fosse salva. Il Louvre acconsentì addirittura a un tour italiano, prima agli Uffizi, poi a Palazzo Farnese, poi alla Galleria Borghese. Infine un bel viaggio in treno via Modane: e una volta a Parigi, un ricevimento nel salon carré col Presidente e tutti i membri del governo. Un simile trattamento non era mai stato riservato a nessun quadro. La Gioconda era diventato il primo feticcio dell’era moderna – come capì al volo Marcel Duchamp pochi anni dopo, esponendo una cartolina con pizzo e baffetti. Non era stato il primo a giocare col quadro (anche Peruggia a suo modo era stato un precursore), ma il modo in cui gioca con l’immagine tradisce una consapevolezza nuova: la Gioconda non è più semplicemente un bellissimo quadro: è un’immagine nota e arcinota, il frammento di qualcosa che appena vent’anni prima ancora non esisteva: un immaginario collettivo fatto di riproduzioni in bianco e nero o a colori, cartoline, illustrazioni, vignette. Qualcosa che tutto il mondo conosce anche se non si ferma mai ad ammirarlo davvero – al punto che è disposto a pagare un biglietto costoso, e fare una lunga fila inutile, per togliersi dagli occhi il cliché arcinoto e cercare di recuperare la sensazione del viaggiatore pre-moderno, che apre gli occhi su qualcosa di mai visto prima.

Rimane un dubbio estivo.

Quella che tutti andiamo a vedere al Louvre – perché non ci fidiamo delle nostre sensazioni quando la troviamo su un catalogo o in un video sul rinascimento – è la Gioconda originale. Non nel senso che l’ha dipinta Leonardo – potrebbe aver messo mano anche ad altre versioni dello stesso soggetto – ma nel senso che è proprio quella che ha rubato Vincenzo Peruggia: quella che di conseguenza è diventata più famosa di qualsiasi altra, e riprodotta in centinaia di foto a colori che conosciamo a memoria e che ci confermeranno, una volta al Louvre, di trovarci di fronte all’originale. Dunque è così: Peruggia è il vero autore postmoderno di quel meta-oggetto che chiamiamo Gioconda e che sta al Louvre (e dentro di noi, nel nostro inconscio collettivo nutrito di immagini sin dalla più tenera età).

Ma se ci sbagliassimo tutti? Se la Gioconda che conosciamo noi non fosse la ‘vera’ Gioconda? (continua…)

Almanacco, Leonardo sells out, musica

Ciao Satana, credo sia ora di andare

16 agosto 1938a Greenwood, Mississippi, un musicista di strada muore in circostanze non chiare. Diventerà una leggenda molti anni dopo, per una serie di equivoci.

Di lui non si sa praticamente nulla. I testimoni orali, i tizi che si sono intascati qualche soldo per raccontare qualcosa ai documentaristi, sono gente che per cento dollari ti suona quel che vuoi ascoltare – vuoi il patto col diavolo? Ti racconto il patto col diavolo. Vuoi il drama? Gli morì la moglie di parto. Anzi era una fidanzata. Minorenne ovviamente. Anzi erano due. Due minorenni entrambe morte di parto. Vuoi il mistero? con la chitarra era una schiappa, ti giuro, l’ho sentito. Poi gli muore la fidanzata incinta e lui scompare per un anno, e quando si rifa vivo suona come un dio. No. Dio decisamente non suona così. Dio non vuole sentire i lamenti d’amore uscirti dallo stomaco come i crampi, Dio non vuole sentire che hai un limone da spremere nel bassovita, Dio in questa storia non c’entra nulla. Decisamente.

La storia che si impone sulle altre, in queste situazioni, è quella più romanzesca. È un musicista girovago, quando arriva in città mette il cappello sul marciapiede e suona quel che vuoi sentire. È abbastanza eclettico, ma ha una sua personalità. In breve riesce sempre a farsi invitare a suonare in un locale. Bisogna avere una voce squillante e un gran repertorio – lui peraltro sembra in grado di riprodurre qualsiasi canzone a comando. Se non sa il testo se lo inventa, e in breve ha inventato una nuova canzone. Alle donne piace. Di solito ne sceglie una – o si lascia scegliere – e quando il locale chiude, lui dorme da lei. Una diversa per ogni città. A Greenwood sta dalla moglie del gestore. Non è una grande idea. Con lui c’è un suonatore di armonica che diventerà famoso come Sonny Boy Williamson. A un certo punto Sonny Boy si accorge che all’amico hanno passato una bottiglia di whisky aperta. Gliela sfila di mano, la bottiglia si rompe, che cazzo fai? “Amico, non farlo mai più. Non bere mai più da una bottiglia che non hai visto aprire”. “Amico, non levarmi mai più una bottiglia dalla mano, hai capito?” “Ho capito”.

Pochi minuti dopo, il tizio ha di nuovo una bottiglia aperta in mano. Pochi minuti dopo, quand’è ora di rimettersi a cantare, il tizio non riesce più a spiaccicare una parola. Farfuglia. Sta male. Lo portano via. Non lo curano come si deve – è un vagabondo, chi lo conosce dopotutto. Muore dopo un paio di giorni d’agonia, settantasei anni fa oggi. La data probabilmente è l’unica cosa sicura di tutta la storia.

Non sappiamo nemmeno dove sia sepolto – tre cimiteri si contendono il privilegio, ma le tre tombe sono state rimesse a posto molti anni dopo, quando Robert Johnson – si chiamava così – diventa improvvisamente famoso, di una fama che mai si sarebbe sognato. I nastri che aveva inciso in una camera d’albergo a San Antonio, e più tardi in un piccolo studio di registrazione a Dallas, vengono ristampati su album e diventano l’opera omnia del più grande bluesman di tutti i tempi. 29 canzoni, alcune registrate persino un paio di volte, in fretta, da un tizio che non aveva mai inciso nulla e avrebbe potuto suonare centinaia di pezzi in stili molto diversi, ma gli avevano chiesto un certo tipo di blues e, perdio, pagavano.

Robert Johnson nella sua vita ha probabilmente ascoltato solo un paio delle sue canzoni incise a 78 giri. Non sappiamo nemmeno se si sia piaciuto, ma è facile immaginare che si sia sentito a disagio, di fronte a una voce più stridula, e una chitarra più svelta. L’etichetta per cui incideva era solita accelerare i nastri anche del 20%. Così l’indiscussa bravura di Johnson alla chitarra diventa qualcosa di disumano. Quando Keith Richards l’ascolta per la prima volta a casa di Brian Johnson, si domanda chi sia l’altro chitarrista. “Robert Johnson”. “Sì, ma chi è l’altro che suona con lui?”

Il vero Robert Johnson probabilmente suonava più piano, e aveva una voce più bassa, simile agli altri bluesmen del tempo. Non suonava soltanto blues – l’unico ragtime che ha inciso è assolutamente brillante, non l’esercizio di un dilettante – e non era necessariamente malinconico o dannato come ci piace sentir raccontare. Ma il vero Robert non esiste più. Quello che abbiamo è stridulo e dannato, e non c’è filologia musicale che ci possa convincere a farne a meno.

La leggenda del patto col diavolo a un incrocio è probabilmente soltanto una bella storia. Chi ha studiato un po’ più la vicenda sostiene che l’apprendistato musicale di Johnson sia durato almeno due anni. Sappiamo persino il nome all’anagrafe del suo maestro, non il diavolo, ma un tal Ike Zimmerman. Pare che sia vero che suonasse nei cimiteri – sono posti tranquilli dopo l’ora di chiusura, nessuno ti disturba e puoi esercitarti. Ike Zimmerman non ha mai inciso niente. Volendo possiamo tranquillamente immaginarcelo come il più grande genio musicale del Novecento.

Almanacco, Leonardo sells out

L’intercettatore che finì intercettato

The Mary Rose Stretch

9 agosto Richard Milhous Nixon si dimette dall’incarico di Presidente degli Stati Uniti d’America, in seguito agli sviluppi dello scandalo Watergate. È la prima volta che succede in duecento anni; l’unica, fin qui.

C’è un contrappasso incredibilmente ironico, nella vicenda di Nixon, che altri meglio di me avranno già fatto notare: il presidente che voleva intercettare i suoi avversari finì intercettato. Il Watergate comincia con una maldestra squadra di spioni repubblicani che cercano di incidere su nastro le conversazioni dei democratici, e finisce con Nixon costretto a divulgare i nastri delle proprie conversazioni alla Casa Bianca. A rileggerlo, uno non ci crede. I passi falsi che condussero l’uomo più potente del mondo verso l’uscita di scena sono di una goffaggine oggi implausibile.

I guai veri per Nixon cominciano nel luglio dell’anno precedente, quando un membro del suo staff ammette di fronte alla commissione d’inchiesta del Senato che sì, tutto quello che si dice nello Studio Ovale è registrato. C’è una specie di streaming, una monumentale opera di archiviazione su nastro che va avanti dal 1972! Il procuratore Archibald Cox chiede a Nixon di consegnare i nastri; Nixon non vuole saperne. Propone di consegnare un riassunto delle conversazioni a cura di un senatore (John C. Stennis) che è notoriamente duro d’orecchi. Cox si impunta: vuole i nastri. Nixon decide di silurarlo. Ma non è così facile. Il superiore di Cox è il procuratore generale Elliot Richardson. Quando Nixon domanda a Richardson di sollevare Cox dall’incarico, Richardson si dimette. Nixon si rivolge immediatamente al suo vice, William Ruckelshaus, e gli rinnova la richiesta di far fuori Cox. Si dimette anche Ruckelshaus. È il famoso “massacro del sabato sera”, dato che tutto avviene nella sera del 20/10/1973. Termina con Nixon che si fa portare in limousine alla Casa Bianca Robert Bork (dall’avvocatura di Stato), lo nomina procuratore generale e gli mette in mano la penna per firmare la rimozione di Cox. Il Congresso monta su tutte le furie, i cittadini cominciano a mandare telegrammi di protesta, i sondaggi danno gli elettori favorevoli all’impeachment al 44% (i contrari al 43%) e alla fine il successore di Cox non potrà non richiedere gli stessi nastri. Molto prima di poterli ascoltare, parlamentari e cittadini sono ormai sicuri che contengano cose incriminanti. Ma in realtà il primo nastro a far davvero parlare di sé contiene soprattutto silenzio.

Diciotto interminabili minuti di silenzio, là dove doveva esserci stata una conversazione. Chi ha cancellato quel nastro, che non era mai uscito dalla Casa Bianca? Il capro espiatorio porta il gentile nome di Rose Mary Woods, segretaria personale del presidente, che ammette di aver danneggiato il nastro premendo il pedale sbagliato durante una chiamata telefonica. Rec invece che Stop. Sono incidenti che succedono. Però Rose Mary dovrebbe aver premuto il pedale per almeno diciotto minuti. Lei si ritiene responsabile soltanto dei primi cinque. Ma era così facile sbagliarsi? Quando le chiedono di ripetere l’errore nel suo ufficio, Rose Mary diventa la protagonista di uno scatto famoso, battezzato “The Rose Mary Stretch”. È il momento in cui Nixon comincia a diventare ridicolo. Nel frattempo i tecnici a cui viene sottoposto il nastro scoprono che non è stato cancellato una volta, bensì nove. Il peggio comunque deve ancora arrivare.

Arriva a fine luglio ’74, quando viene divulgato il nastro noto come la “pistola fumante”. È una conversazione di due anni prima in cui Nixon propone di contattare la dirigenza della CIA per forzare l’FBI a cessare le indagini sul Watergate, per motivi di sicurezza nazionale. Il contenuto è sufficiente per accusare Nixon di aver ostacolato un’inchiesta federale. Ormai le dimissioni sono una scelta obbligata. Dopo aver ottenuto la grazia dal suo successore, Nixon continuerà a lottare per riottenere il possesso dei nastri, appellandosi al primo emendamento e lamentando l’intrusione della sua privacy. Dopo varie sconfitte, 25 anni dopo una corte gli darà ragione. I nastri e le trascrizioni oggi sono custoditi presso il Richard Nixon Presidential Library and Museum.

Oggi si registra ancora ogni conversazione nello Studio Ovale? Non saprei. In compenso so che cinque anni di mie conversazioni private sono state messe da Google a disposizione di un’agenzia di intelligence degli Stati Uniti. Google stessa mi ha di recente fatto sapere che ha intenzione di controllare sistematicamente quel che scrivo, dato che potrei pur sempre essere un orribile criminale. Il terminale su cui sto scrivendo ha una webcam che si può attivare a distanza, identificarmi e segnalare la mia presenza. Da questa distanza, l’imperatore Nixon scompare come un ladro di polli.

Almanacco, Leonardo sells out, musica

L’ultima passeggiata dei Beatles

Non è questa – questa fu scartata (ma la preferisco).

 8 agosto 1969Quattro Beatles attraversano una strada, un fotografo li immortala in una delle copertine più famose di tutti i tempi.

Abbey Road non è probabilmente il miglior disco dei Beatles. Non è il più conosciuto: soltanto i due capolavori di Harrison e Come Together sono noti al pubblico dei non appassionati. Non è l’ultimo – anche se fu l’ultimo a essere registrato, ma Let It Be suona molto più postumo. Non è il più allegro e non è il più triste. Abbey Road è semplicemente l’album più venduto dei Beatles: record imprevedibile che deve in parte alla sua copertina, e alla buffa leggenda che ne nacque immediatamente (la morte di Paul), procurando al disco una dose supplementare di pubblicità. Le voci di un probabile scioglimento fecero il resto (ma Let It Be, l’anno seguente, non vendette altrettanto bene). L’ironia è che si tratta di una delle copertine meno studiate di tutta la storia dei Beatles.

Nulla di paragonabile alla posa ‘esistenziale’ di Freeman per With the Beatles; alla composizione di Voormann per Revolver; allo spericolato patchwork di Sgt Pepper’s che mobilitò i legali della EMI; al minimalismo estremo del Disco Bianco. La copertina di Abbey Road è un’idea dell’art director della Apple, che ebbe il semaforo verde probabilmente perché richiedeva il minimo coinvolgimento possibile da parte dei quattro musicisti: pochi minuti di posa, sette scatti, fine. È difficile rendersene conto, dopo averla vista riprodotta e parodiata in centinaia di situazioni – dai Red Hot Chili Pepper nudi al quartetto vocale dei Simpson – ma quella di Abbey Road è una copertina tirata via. È persino goffa, come è sempre goffo chi cammina di profilo in un fermo immagine. La scelta di usare lo scatto più simmetrico contribuisce a dare una sensazione di impostura. La gente non cammina così. Neanche i Beatles camminano così. C’è qualcosa che non va. Qualcosa che non volete dirci. Forse dando un’occhiata ai dettagli – le targhe, il colore delle auto…

Nello scatto finale (che non è neanche questo),
I Beatles non vanno verso gli studi di Abbey Road,
ma provengono da lì (e se ne stanno andando).

L’ipotesi è che dietro ogni leggenda urbana vi sia una percezione di inquietudine. A volte è una nozione che non si vuole accettare, un concetto che si vuole correggere con l’immaginazione. Le scie chimiche sono probabilmente il modo in cui una piccola parte dell’umanità sta reagendo alla nozione di riscaldamento globale. Se il clima cambia, sarà colpa di un complotto malvagio; e la soluzione sarà semplice e immediata come spruzzare un po’ d’aceto. La leggenda della morte di Paul nasce nel tentativo di superare irrazionalmente una consapevolezza ormai diffusa: i Beatles non esistevano più. Era chiaro per chiunque avesse ascoltato il disco bianco – cioè per tutti – che i quattro musicisti milionari stavano prendendo vie diverse e inconciliabili. Era una nozione che doveva ormai aver raggiunto la pre-razionalità di milioni di ascoltatori. Un’idea fastidiosa da scacciare in un qualche modo – ed ecco nascere la leggenda: non sono i Beatles a morire, è solo Paul. Un freudiano potrebbe divertirsi a invertire: se Paul morisse, forse i Beatles potrebbero ancora vivere…

I Beatles si sono sciolti per tanti motivi: uno di questi è il tentativo di Paul McCartney di dare al gruppo una direzione, sia a livello artistico che di management. Tentativo che aveva senso, in un momento in cui Lennon era diviso tra Yoko Ono e l’eroina. Ma che non poteva non infrangersi contro la diffidenza degli altri tre. Lennon e Harrison stavano tutto sommato seguendo l’evoluzione del rock britannico di quegli anni: c’era stata la fase psichedelica, l’infatuazione per l’oriente, il ritorno al blues. McCartney, per contro, da Sgt. Pepper in poi aveva autonomamente stabilito che il destino dei Beatles sarebbe stato l’eclettismo. Nessun tipo di musica doveva restare fuori dai loro dischi: da cui classici per banda d’ottoni (When I’m 64), vaudeville anni Venti (Honey Pie), e altre musichette irritanti (Obladì, Obladà) che nessun gruppo di ventenni avrebbe mai avuto il coraggio di registrare. Su Abbey Road è la volta di Maxwell’s Silver Hammer, un altro brano estremamente cantabile su cui McCartney – nel tentativo forse di suonare meno stucchevole – monta un testo bislacco e violento. L’altra sua canzone ‘intera’, sul primo lato, è un pastiche di Fats Domino (Oh! Darling). Il vero contributo di McCartney al disco è la struttura del secondo lato, il mini musical che comincia al termine di Here Comes the Sun, qualcosa di simile alla scarica finale dei fuochi artificiali. Alla fine di otto anni di collaborazione, in capo a dieci dischi pieni zeppi di successi, i Beatles salutano il pubblico con venti minuti di canzoni ininterrotte, nessuna particolarmente riuscita: ma l’effetto complessivo strappa comunque l’applauso. A seconda di come la pensi sui Beatles può essere la cosa migliore o peggiore che abbiano fatto. Per Lennon era “spazzatura”: eppure suoi sono alcuni dei momenti più divertenti. Ma l’idea era chiaramente di Paul.

Un bus a due piani in effetti ci sarebbe stato bene
(immaginate la faccia del conducente).

Anche stavolta, il concetto del musical aveva un senso: altri modi per riempire quel lato probabilmente non c’erano. Il gruppo aveva iniziato le sessioni di registrazione sapendo già che era l’ultima avventura – il che aveva paradossalmente calmato gli animi. Ma è la calma dei divorziandi, quando ormai sai che certe discussioni non devi semplicemente farle. Schiacciare undici canzoni in una facciata era probabilmente l’espediente migliore per evitare di mettersi a discutere su cosa tenere e cosa buttare: stringiamo un po’ e ci sta tutto. L’idea di lasciare la maggior parte delle canzoni in uno stato larvale era già operativa dai tempi del disco bianco: qui, semplicemente, tutto è compresso perché c’è meno spazio, c’è meno tempo, c’è una sensazione di fine imminente a cui McCartney cerca persino di dare un’espressione musicale, e la sua idea è di chiudere con una gara di assoli. Poi, alla fine di un primo missaggio spunta, dopo qualche secondo di silenzio, quel che resta di un aborto di canzone – trenta secondi in cui Paul esprime il proposito di farsi Sua Maestà – e Paul decide di includere anche quei trenta secondi. I Beatles finiscono così, con uno scherzo. Lennon avrebbe voluto finire con un taglio netto alla fine dell’incedere funebre di I Want You. Phil Spector opterà, l’anno seguente, per la più ottimistica Get Back. Ma Her Majesty è forse il finale più sensato: qualcosa di buttato lì in fretta, che comunque piacerà a milioni di persone – tra cui il sottoscritto – da parte di un gruppo che ormai incideva nell’inconscio collettivo anche soltanto attraversando una strada. Come fecero in un giorno d’agosto di esattamente 45 anni fa.

Quella notte, Charles Manson e i suoi accoliti si introducono nella villa di Roman Polanski e accoltellano Sharon Tate, al nono mese di gravidanza, e quattro amici che le tenevano compagnia. Manson dirà di aver ricevuto istruzioni dai Beatles, attraverso Helter Skelter.

Almanacco, Leonardo sells out, memoria del 900, terrorismo

Una cosa, una roba senza senso o forma

2 agosto 1980Esplode una bomba alla stazione dei treni di Bologna. 85 morti, 218 feriti.

Andrea Pazienza via Paz-tastic

…La storia della caldaia resse sino a sera, ma già intorno a mezzogiorno le cose erano chiare. Nella squadretta di Scialoja c’era un sottufficiale che da soldato era stato artificiere. Gli era bastata un’occhiata alla voragine per scuotere la testa e sentenziare:
“Gas un cazzo. Questa è una bomba”.
La stazione era sventrata. Le sirene ululavano. Militari e volontari, fianco a fianco con le mascherine sul naso, scavavano le macerie in cerca di un segno di vita. Qualcuno piangeva, i più moltiplicavano gli sforzi per rimandare l’appuntamento con la rabbia e lo sgomento. Arrivarono le troupe televisive. Una folla di parenti angosciati assiepava i binari. Circolava una parola maledetta e rivelatrice: strage. Le lancette del grande orologio del piazzale Ovest erano ferme sulle 10 e 25. […] Scialoja s’era concesso una sigaretta. Una giornalista impicciona gli fu subito addosso. La mandò a quel paese e si rimise la mascherina. Dal profondo di due travi squarciate che si erano miracolosamente incastrate a formare una sorta di cavità naturale proveniva un flebile lamento. Scialoja si avventò. Vide una piccola mano coperta di graffi, la strinse, tirò. Le travi ressero. La bambina era sotto choc. Ma respirava. Lo guardava con i suoi enormi occhi stupiti e respirava. La prese in bracciò e la consegnò a un’infermiera. La bambina era biondissima e non capiva l’italiano. Un ufficiale dei carabinieri in alta uniforme lo bloccò al volo.
“Lei! Vada immediatamente al binario uno. Bisogna organizzare un servizio di scorta per le autorità!”
Scialoja mandò anche lui a quel paese e tornò al lavoro. Era lacero, era sudato, puzzava. Ma non sentiva la fatica, non sentiva il disagio. Aveva dormito troppo a lungo. Il letargo era finito… (Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, 2002).


…Definiamo quindi “neosensibilismo” il nostro modo di essere sensibili. Che in tutto si distacca dalle ambiguità di Francesca Mambro; da cui ci dissociamo anche per l’uso sconsiderato e irresponsabile del vocabolario. (Offlaga Disco Pax, Sensibile)