Bob Dylan, cristianesimo, Cristo, musica

Gesù è giusto dietro la curva

Slow Train Coming (1979)
(Il disco precedente: At Budokan
Il successivo è… un mistero).
Nessun servo può servire due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Non potete servire Dio e Mammona (Vangelo di Luca, 16:13).
Un giorno Bob Dylan apparve a Gesù Cristo. Fu in un albergo di Tucson, di tutti i posti al mondo. A Gesù Bob parve stanco, sfibrato, un divo del rock che si stava avvicinando alla curva della quarantina senza né casco né cinture, niente. “Oh Padre“, si sarà detto, “Prenderlo all’amo sarà persino troppo facile“.
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
È il primo disco di studio a non avere il volto di Dylan sulla copertina.
“Bob, vieni a me, accetta il mio giogo: è molto leggero“.
“Eh? Chi ha parlato? Chi sei?”
“Chi vuoi che io sia? Sono Gesù Cristo: la Via, la Verità, la Vita”.
“Ma Gesù, sei sicuro? Io… sono Bob Dylan!”
“Nientemeno”.
“Sono ebreo!”
“Perché, io no?”
“In effetti”.
“Cosa c’è che ti angustia, Bob? A me puoi dirmelo”.
“Non lo so neanch’io… credo di essere stanco, soprattutto”.
“Stanco di cosa”.
“Non lo so. Di essere me, forse”.
“Troppi concerti?”
“I concerti sono ok. Mi piace suonare. Se solo non dovessi suonare tutte le volte quelle cazzo di canzoni di Bob Dylan”.
“Insomma non ne puoi più di Dylan”.
“Puoi capirmi?”
“Altroché. La celebrità è una vera tortura, sai. Ti costruiscono un personaggio e pretendono che tu ci aderisca perfettamente… poi lo innalzano davanti a tutti e…”
“Ti crocifiggono, Gesù”.
“Non dirlo a me”.
“Ma quindi tu saresti il Messia?”
“E certo, non hai visto i segni? I ciechi tornano a vedere, i sordi ci sentono, Van Morrison ha fatto un bel disco con me, Patti Smith ha dedicato una canzone a Papa Luciani… Sto tornando…”
“Stai tornando?”
“…di moda”.
“E io? Cosa vuoi che io faccia? Vendere tutto e seguirti?”
“Non esageriamo. Niente che non ti suggerisca già il buon senso. Datti una ripulita, bevi meno, basta coca. Puoi perfino continuare a uscire con le coriste…”
“Whew”.
“Magari una sola alla volta, ecco”.
“Ci proverò. Tutto qui?”
“Beh, naturalmente dovrai suonare per me”.
“Un disco?”
“Un disco sono buoni tutti, cioè se tu fossi Neil Young mi accontenterei, ma stiamo parlando di Bob Dylan, il rocker più sputtanato del decennio, qui c’è bisogno di un investimento a medio termine”.
“Ma Gesù…”
“Tre dischi in tre anni, prendere o lasciare”.
Tre dischi in tre anni? Gesù, sei peggio di Grossman”.
“Ehi, pensavi che la Via la Verità e la Vita venissero via con lo sconto? Stiamo parlando di convertirsi, Bob. Rinascere. Tu non hai idea di cosa si scatenerà là fuori tra un po’ – il punk è solo un avvertimento, sai”.
“L’Armageddon?”
“L’Armageddon sarà una passeggiata al confronto, stanno per iniziare gli anni Ottanta. Il Rock – questo gigante dai piedi d’argilla – sarà rovesciato dal trono, e in suo luogo regnerà prima l’empio Pop, poi il suo nipote degenere, Hip-Hop! E poi bestie ancora più immonde…”
“Non capisco. Stai annunciandomi che la fine è vicina?”
“Oh, la fine! La implorerete, la fine!, mentre nell’aere risuoneranno campionamenti e scratch. Hai bisogno di un altro rifugio nella tempesta, povero Bob. E io ne ho uno”.
“Non lo so… sono appena uscito da una storia difficile, forse non dovrei subito impegnarmi…”
“E pensa a un’altra cosa. Pensa a Blowin’ in the Wind…”
“Gesù, ormai la odio quella canzone”.
“Appunto. Non dovrai suonarla più”.
“Sul serio? Ma il pubblico”.
“Non dovrai più piacere a loro. Dovrai piacere soltanto a me. Molto più semplice. Basta vecchie canzoni. Mr Tambourine, Knockin’, Rolling Stone: puoi smettere di suonarle. D’ora in poi canterai solo le mie lodi”.
“Ma per rifarmi un repertorio ci metterò degli anni!”
“Dici? Ma non puoi fare come negli anni ’60? Eri molto prolifico al tempo, mi pare di ricordare”.
“Eh ma allora era più facile. Bastava suonare il blues”.
“Blues, perfetto, adoro il blues”.
“Gesù, sei sicuro?”
“Perché? Non crederai mica anche tu a quella storia della musica del diavolo, eh? Basta con le superstizioni”.
“Se lo dici tu”.
“Ah, e poi voglio piùm professionismo in sala d’incisione. Ultimamente registravi un po’ da schifo, ecco, non deve più succedere. Lavori per Gesù, adesso”.
Mark_Knopfler_-1979
Mark Knopfler nel ’79, prima di scoprire i benefici della fascia tergisudore.
Un giorno Bob Dylan apparve a Mark Knopfler: un miracolo che fino a qualche anno prima sarebbe stato meno credibile dell’apparizione di Gesù a Tucson. Le rare volte che mi capita di riascoltare Slow Train Coming finisco sempre per pensare a come dev’essersi sentito Knopfler. Hai trent’anni e ascolti Dylan da quando ne avevi undici. Hai imparato a cantare e comporre ascoltando i suoi dischi. Col tempo, mentre ti allenavi nei seminterrati e sbarcavi il lunario nei pub, hai sviluppato una strana schizofrenia artistica: più la tua voce si avvicinava a Dylan, più le tue mani ti portavano nella direzione opposta, verso uno stile chitarristico pulito, preciso, rigoroso. Alla fine sei riuscito a pubblicare un disco, e sta andando bene, e una sera alla fine del concerto si avvicina il tuo Dio e ti fa i complimenti. Vuole che tu suoni per lui. Non è incredibile? Voglio dire, Gesù è apparso a un sacco di gente con un sacco di problemi, non fa neanche notizia ormai; ma Dylan che appare a Knopfler è la fiaba di Cenerentola – e invece è successo davvero. Lo porti giù in Alabama, nella sala d’incisione dove il grandissimo Jerry Wexler ha curato i lavori dei grandi dell’Atlantic e della Stax. Tu e Jerry avete appena finito di lavorare al secondo non indimenticabile disco dei Dire Straits; ma adesso realizzerete il disco che rilancerà Bob Dylan. Ha avuto un periodo difficile, ma adesso sta tirando fuori un sacco di nuove canzoni. Roba buona. Un sacco di blues, beh, se è blues siamo nel posto giusto. C’è solo un problema.
Sono tutte canzoni su Gesù.
Cristo.
Di tutti i momenti in cui ti poteva capitare di incontrare Dylan, proprio quello in cui si è dato anima e corpo al Vangelo. Il principe azzurro si è battezzato, va a catechismo tutti i giorni, vorrebbe convertire persino te. Tu che non hai mai avuto un vero Dio – fin qui ti bastava Dylan. E adesso?
Che tu sia un divo rock, rampante sul palco;
che tu abbia ogni droga, e ogni donna al tuo comando;
che tu sia un uomo d’affari, o un ladro d’alta società;
che ti chiamino dottore o che ti chiamino Maestà…
tu devi servire qualcuno.
Potrà essere il diavolo, o potrà essere il Signore, ma devi servire qualcuno. 
“Guarda, Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Sono senza speranza. Limitiamoci a fare questo disco, va bene?” (Jerry Wexler a Dylan, quando cominciò a parlargli di Gesù).
Non puoi servire Dio e mammona, diceva Gesù. Devi scegliere, ribadisce Bob Dylan in Gotta Serve Somebody, il sermone introduttivo. Eppure Slow Train Coming mi ha sempre dato l’impressione opposta, di un Dylan servitore di due padroni, deciso a tenere il piede in due scarpe tanto diverse: da una parte l’urgenza del convertito, il sacro fuoco dello zelo religioso; dall’altra il professionismo di Wrexler e Knopfler: la precisione quasi asfissiante con cui al Dylan rinato nella fede viene cucito addosso il vestito più elegante che abbia mai indossato. Gotta Serve Somebody è l’incarnazione di questa ambiguità: la canzone che rifiuta ogni compromesso col demonio è anche un singolo pulito e levigato che corre via che è un piacere, e che riporta Dylan nella top40 di Billboard. Ci vinse pure un Grammy per la “miglior performance vocale”. L’ho sempre trovato un buffo paradosso, però forse ero vittima dei miei pregiudizi. Perché il professionismo e la fede religiosa dovrebbero essere due opposti, dopotutto?
Forse ragiono da cattolico. Non trovo credibile un predicatore che non vesta di sacco e non predichi la povertà: ma in America non è così. I pastori evangelicali pubblicano best seller, vanno in tv; non trovano senz’altro sconveniente servire Dio in giacca e cravatta. Il Gesù dei born again non grida ai ricchi di lasciare tutto quello che hanno e seguirlo: è un Gesù più pragmatico, un life-coach, ti chiede di darti una ripulita e sta attento che non ti riattacchi alla bottiglia. Non c’è nessuna contraddizione nell’aver trovato in Gesù un nuovo boss e nel dare al suo messaggio la veste più radiofonica possibile: più gente avrebbe raggiunto, più anime avrebbe salvato. Funzionò talmente bene che alcuni riuscirono ad accusarlo di opportunismo: di aver usato Gesù per attirare l’attenzione, di essersi convertito per aumentare il suo bacino di fan. Solo il flop dei due dischi successivi avrebbe convinto i più cinici che BD aveva veramente preferito Cristo a Mammona. Lo stesso Slow Train Coming è scivolato col tempo nel cono d’ombra della trilogia cristiana, la fase della sua carriera che fan e critici preferiscono aggirare e che lui stesso non frequenta volentieri: eppure quando uscì fu accolto bene. Per quanto in certi punti sembrasse un invasato, il furore religioso che lo animava era tutto sommato preferibile ai lamenti enigmatici di Street-Legal. Anche quando sembra un bigotto che borbotta contro i nemici dell’America, borbotta con una grinta che sembrava aver perduto da anni.
Sembra che Gesù abbia funzionato, dopotutto… (continua sul Post)
Bob Dylan, concerti, musica

Dylan contro Gozzilla

Bob Dylan at Budokan (1979, ma registrato dal vivo nel 1978 al Budokan di Tokio)
(Il disco precedente: Street-Legal
Il disco successivo arriva lento, ma arriva).
Adagiato sul fondale di un oceano di rimpianto, il Mostro che un Tempo Era Stato Bob Dylan forse avrebbe voluto soltanto riposare per sempre. Dormire, sognare, eh magari. Cosa lo svegliò? Quale attorcigliamento del destino? Un’ondata anomala, una radiazione nociva, un flop al botteghino, un divorzio faticoso, un telegramma con un’offerta che non si poteva proprio rifiutare? Sia come sia, nell’alba del 1978 Bob Dylan si riscosse dal suo torpore e si innalzò sull’orizzonte dell’oceano, in cerca di cibo. Non era più un bardo vagabondo, né la voce della sua generazione. La mutazione era avvenuta: Bob Dylan era diventato un dinosauro. E Tokio lo aspettava.
Tokio va matto per queste cose.
Nippon Budokan 2010
CheapTrick_Live_atBudokanIl Budokan è il palazzetto olimpico, costruito per i giochi del 1964. Un anno dopo entrava nella storia accogliendo i Beatles. Da allora ha ospitato migliaia di artisti occidentali. Senza mai venire meno alla sua vocazione di palestra delle arti marziali, è uno dei luoghi al mondo in cui sono stati registrati più dischi dal vivo. Dev’essere una combinazione di fattori: buona acustica, un pubblico sempre entusiasta ma che non applaude o fischia al momento sbagliato, una questione di prestigio: il Budokan non è immenso, ma riempirlo è il segno che sei un grande – almeno in Giappone. Nel momento in cui la Columbia decise di stampare una versione americana di At Budokan (all’inizio era prevista la commercializzazione soltanto in Asia e Oceania, ma ovviamente le copie abusive non si fecero attendere), sugli scaffali dei negozi potevi trovare un live budokaniano di Eric Clapton, due live di due ex Deep Purple (Ritchie Blackmore coi Rainbow e Ian Gillan, entrambi tornati sul luogo del delitto) e soprattutto il più famoso disco dei Cheap Thrills, che prima di quel live non avevano mai avuto un disco nella top40, ma a Tokio erano stati acclamati come “i Beatles americani”. I Cheap Thrills sono il classico esempio di gruppo americano Grande in Giappone: un’espressione proverbiale sulle due sponde del Pacifico. Quando hai tutto quel che ti serve per sfondare, e infatti sfondi, ma non a casa tua: dall’altra parte del mondo. Per gli statunitensi dev’essere particolarmente strano: trionfare in periferia mentre al centro dell’Impero non sanno chi sei. Non era certo il problema di Dylan.
I got the style but not the grace
I got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I’m big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
Deep_Purple_Made_in_Japan
Dylan è sempre stato grande soprattutto nei Paesi anglofoni. Quando arrivò al Budokan, nel febbraio del ’78, non faceva un concerto all’estero da dieci anni. Era l’inizio del World Tour: 114 concerti in Giappone, Australia, Europa, USA. Di giri del mondo Dylan ne aveva già fatto almeno uno, e tanti altri ne farà, ma quello del ’78 è il World Tour per eccellenza: quello in cui Dylan convinse più all’estero che in patria (dove comunque fece il maggior numero di date). Per la stampa americana era il terzo tour in cinque anni: e rispetto all’“energia” dei concerti con la Band, e alla spontaneità della Rolling Thunder Revue era più difficile mandar giù questo nuovo Dylan in tutina bianca, coi suoi turnisti e gli ottoni. Uno strano Dylan post-Elvis (ma anche pseudo-Springsteen), un Dylan con una scaletta rigorosamente imbottita di grandi successi imposti dagli organizzatori, rivisti con arrangiamenti professionali, un po’ impersonali, de-dylanizzati: niente più momenti acustici. In compenso qualche reggae, uno spruzzo di salsa, un filo di funky, qualche pezzo da crociera. Un Dylan, per farla breve, da esportazione.
Un prodotto da turisti. Un Dylan a corto di liquidità (il divorzio e il film si erano rivelati due pozzi senza fondo), che prova a rivendersi ai mercati esteri ma non è affatto sicuro di cosa gli indigeni si aspettino da lui – e allora prova a nascondersi dietro la sagoma di un divo-tipo del rock americano anni Settanta: vi piacerà il sassofono? La E Street Band usa il sassofono, ce lo metto anch’io. E il reggae? La chitarra in levare di Don’t Think Twice può risultare sconcertante, ma va calata nel contesto di quella manciata di anni in cui tutti dovevano avere almeno un pezzo reggae nel repertorio.

Veramente tutti.
Veramente tutti.
Da Bowie agli Smiths, la chitarra in levare sembrava l’unica cosa che mettesse d’accordo dinosauri e punk; l’equivalente dell’autotune di oggi, o dei campionamenti negli anni Novanta, o della rucola sulla pizza degli anni Ottanta: qualcosa che fino al giorno prima era esotico e qualche giorno dopo avrebbe stancato chiunque. Anche Dylan ci avrebbe regalato almeno un reggae memorabile, prima di accantonare il genere. Ma al Budokan aveva più di un buon motivo: doveva cucinare per l’ennesima volta Knockin’ on Heaven’s Door. Che il brano potesse funzionare anche con un tempo reggae lo aveva dimostrato, anni prima, Eric Clapton: magari Dylan non era sicuro di cosa piacesse ai giapponesi, ma aveva capito che amavano Clapton, che al Budokan aveva appena trionfato. E quindi reggae, perché no? La stessa All I Really Want to Do sembra più simile alla cover di Cher che alla sua. Quanto a All Along the Watchtower, dal vivo è sempre stata più hendrixiana che dylaniana – è come se At Budokan fosse un album di tributo a sé stesso: Dylan che interpreta i più grandi interpreti di Dylan. Oggi un concetto del genere potrebbe persino funzionare – nel pieno della rivoluzione post’77, sembrava un suicidio artistico (stavo per scrivere seppuku ma ho resistito) (no, non è vero, alla fine l’ho scritto).
at budokan
Quando uscì in Occidente, At Budokan fu vittima di un vero e proprio accerchiamento. Per alcuni critici era sciatto, per altri troppo rifinito. Qualcuno riuscì a dire entrambe le cose. Era il peggior disco live di Dylan (era anche il terzo in cinque anni) – anzi no, era il peggior disco di Dylan. Qualche critico scrisse che era il peggior disco nella storia del rock, perché no? C’è sempre un peggior disco della storia del rock da qualche parte (il solo Dylan potrebbe averne pubblicati cinque o sei). L’immagine di un Dylansauro che infierisce su Tokio con una collezione di vecchi successi aggiornati al gusto dei tempi era troppo ghiotta per gli operatori di un settore dove se non fai il cinico non ti legge nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe avuto la sua crisi religiosa, accreditando ulteriormente l’impressione che il World Tour fosse stato un passo falso – e se i live in generale soffrono il tempo più dei dischi di studio, questo è vero in modo particolare per At Budokan, un live che cercava con affanno di cavalcare tendenze musicali che Punk e New Wave stavano già dichiarando obsolete.
(A proposito di dinosauri occidentali che cercavano un rilancio:
due anni prima Muhammad Ali si era fatto massacrare gli stinchi dal wrestler Antonio Inoki).
Il risultato di tutto questo è che nel giro di pochi anni At Budokan divenne uno dei dischi meno ascoltati del suo catalogo, una curiosità per appassionati (come forse Dylan aveva previsto che fosse). Insomma io non lo avevo mai ascoltato, At Budokan, ok? Per quale motivo al mondo avrei dovuto farlo? Tutti ne parlavano male, nessuno ne aveva in casa una copia da prestare, ed era un disco doppio! Costava una follia, non conteneva un solo inedito e rappresentava una tipica fase calante della sua carriera. E anche quando la discografia intera approdò su Spotify, At Budokan restava un oggetto ben poco invitante. Il primo brano in cui incappai era quello iniziale, forse la più bolsa Mr Tambourine Man mai realizzata, con Steve Douglas al… piffero!

Oh, sister, when I come to lie in your arms you should not treat me like a stranger.
Oh, sister, when I come to lie in your arms, you should not treat me like a stranger.
Qui entriamo nel terreno delle idiosincrasie: io odio il piffero. Quando non è il flauto traverso di Jon Anderson; quando non viene usato per assoli prog, ma si limita ad accompagnare la melodia, lo trovo insopportabile. Se va per i fatti suoi è una distrazione; se segue il cantato è inutile: in ogni caso ottiene il risultato di precipitarmi a un concerto dei Modena City Ramblers. Se poi il pezzo è Mr Tambourine Man, la situazione è ancora più ridondante: è come se Dylan cercasse di spiegare ai giapponesi il senso della canzone, un turista americano che gesticola: il tambourine man è il pifferaio di Hammelin, capite? Lo stesso Dylan mi sembrava cantasse con scarsissima convinzione: se da una parte dovrei rallegrarmi perché finalmente ha capito come chiedere al mixer di alzargli il microfono, dall’altra mi fa capire quanto è difficile dover cantare con la voce di Dylan: o strepiti, o non sei convincente; e non puoi strepitare tutto il tempo.
Shelter from the Storm è se possibile ancora più desolante: Dylan decide di appoggiarsi alle coriste, col risultato di annullare non solo il sentimento della canzone, ma la stessa melodia: è uno dei suoi primi tentativi di rileggere una canzone su una nota sola – un omaggio al minimalismo nipponico? (Anche in Like a Rolling Stone, senza un apparente motivo, semplifica la scala ascendente delle strofe riducendola a un solo gradino, un solo intervallo di quarta: Do-Fa, Do-Fa, un Dylan per bambini: se ne sarebbero ricordati gli U2 ai tempi di Angel of Harlem).
Insomma non è che inizi nel migliore dei modi, At Budokan..(continua sul Post)
Bob Dylan, musica

Bob è un boss adesso

Street-Legal (1978)
(Il disco precedente: Hard Rain
Il disco successivo: At Budokan)
Sedici anni, 
sedici stendardi allineati sul campo 
ove il buon pastore si strugge… 
Sei grande Bob, ora puoi uscire da solo.
Sei grande Bob, ora puoi uscire da solo.
Nel 1978 Dylan festeggiava appena i 16 anni di carriera (un ragazzino, direbbe oggi Vasco Rossi) e 18 album di studio. Tanti. Troppi. Gli unici due anni in cui la premiata ditta Dylan non aveva fatto uscire niente erano, curiosamente, il 1968 e il 1977: ovvero i due anni più importanti in tutto l’Occidente per la storia della musica e del costume. È solo un caso – in fondo ciò che chiamiamo “anno” non è che un insieme arbitrario di mesi: nel 1968 John Wesley Harding era uscito appena da una settimana.
E però che coincidenza irresistibile: fino al 1966 Dylan era all’avanguardia; con JWH comincia a remare ostinato in direzione contraria. Di solito si sottolinea l’abbandono della politica, ma si trattò anche e soprattutto di un isolamento creativo. Gran parte degli anni Settanta trascorrono in una bolla dove Dylan non è che se ne resti fermo, anzi: ogni disco ha un suono diverso, ma con ben pochi agganci a quanto stava succedendo nel resto del mondo (se non sapessimo quando furono registrati non riusciremmo a datare dischi come New Morning, o Blood on the Tracks). E per quanto i critici più benevoli abbiano cercato di leggere la furia auto-iconoclasta di Hard Rain come un’anticipazione del punk, il 1977 sembra davvero il taglio finale: da qui in poi la musica andrà per una strada e Dylan per la sua. A prova di questo, di solito si esibisce Street-Legal – non è che esistano molti altri motivi di esibirlo: un disco barocco nell’Anno Due del Punk, un disco per big band ai tempi dei Clash, un disco col sassofono! e le coriste! insomma un disco da dinosauro. Caso chiuso?

“Signori”, disse, “non ho bisogno della vostra organizzazione. 
Ho lustrato le vostre scarpe, ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte.
Ma il paradiso è in fiamme: o vi preparate ad essere eliminati 
o i vostri cuori dovranno reggere il cambio della guardia”.
I Fleetwood Mac sul Rolling Stone nel 1977.
I Fleetwood Mac sul Rolling Stone nel 1977.
No. Lo chiudiamo se accettiamo pigramente l’idea che il 1977 sia soltanto l’anno del Grande Incendio di Londra, di Never Mind the Bollocks Damned Damned Damned. Ma è anche l’anno di Exodus, un piccolo passo per Bob Marley che si è trasferito nel Regno Unito, un passo enorme per l’Europa in cui la penetrazione del reggae sta per determinare una vera rivoluzione copernicana nei ritmi e negli arrangiamenti. È l’anno in cui le classifiche americane non lo sanno e si lasciano placidamente dominare dai Fleetwood Mac di Rumours, un disco di ballate e sentimenti – quello che Dylan intendeva realizzare con Street-Legal. È inoltre l’anno di Saturday Night Fever: la disco è dappertutto e i coretti vanno alla grande: è così strano che Dylan li introduca così massicciamente in Street-Legal?
Gerry Rafferty
Gerry Rafferty
È persino l’anno in cui in un piccolo studio di registrazione dell’Oxfordshire, un ex dylanoide della provincia scozzese, tal Gerry Rafferty, alle prese col suo disco d’esordio, decide di sostituire un ritornello che non prende forma con un riff di chitarra: ma il solista è già andato a casa. In compenso il sassofonista dice che può provarci lui col contralto, ne ha uno nel baule della macchina. La canzone era Baker Street e il contralto non era nemmeno ben accordato, ma non ebbe importanza – o sì? Il pezzo andò al numero 1 negli UK e in USA; altrettanto fece l’album, ma questo era solo l’inizio: nel giro di qualche mese i negozi di strumenti musicali esaurirono la scorta di sassofoni. Il 1977 fu anche questo: il riff fuori chiave di Baker Street non è la tromba che annuncia l’Apocalisse, ma qualcosa di forse peggiore: gli anni Ottanta. E l’anno dopo, Dylan decise di usare il sax per Street-Legal. Era un’idea così stramba, dopotutto?
MY, MY, MY, AYE-AYE, WHOA!
MY, MY, MY, AYE-AYE, WHOA!
Non si trattava piuttosto di un tentativo, per quanto maldestro, di rimettersi al passo coi tempi – qualsiasi cosa i tempi stessero preparando? Sul margine di un decennio in esilio, Street-Legal è uno dei dischi di Dylan che più risentono di quello che gli stava succedendo intorno, almeno a livello musicale. Contiene persino un singolo, Baby Stop Crying, che è il più smaccato tentativo dylaniano di Canzone Pop dai tempi di Nashville Skyline. Anche True Love Tends to Forget sembra pronta per partire in crociera ed essere inserita nella scaletta dell’orchestra. We Better Talk This Over è un plagio sicuramente inconsapevole di Days dei Kinks, che stavano anche loro riscoprendo il grande pubblico degli stadi. Invece il riff di Changing of the Guards, se il sassofonista fosse stato in vacanza e Dylan avesse deciso di farlo suonare a un chitarrista hard rock, sarebbe praticamente diventato lo stacco centrale di My Sharona, che i Knack avrebbero portato in classifica solo l’anno successivo. Provateci voi: alzate il volume a 11, fingete di avere una folta chioma bionda, e spennate gioiosamente Sol Sol, Re Re, Do Do! Rerere Sol Sol, Re Re, Do Do! Se volete chiedervi da dove Vasco ha preso gli accordi di Siamo Solo Noi e Colpa d’Alfredo… no, non credo li abbia presi da Changing of the Guards. Sono solo tre accordi (è più facile che avesse in mente Sharona, o Baba O’ Riley). Ma insomma, anche quei tre accordi semplici, maggiori, positivi, sono il suono degli Ottanta che si avvicinano. E allora perché Street-Legal è invecchiato così male? Peggio di Siamo solo noi?

Pace verrà, 
con tranquillità e splendore su ruote di fuoco 
ma non porterà ricompense 
quando i suoi falsi idoli cadranno 
e una morte crudele si arrenderà 
con il suo fantasma pallido che batte in ritirata 
tra il re e la regina di spade. 
George Corley Wallace
Con Nixon nel 1974.
In un pomeriggio d’estate di quello stesso 1977 la nuova fidanzata di Elvis Presley lo trova esanime sul pavimento del bagno. Non risponde, non respira. Nel suo organismo troveranno tracce di quattordici sostanze diverse, quasi tutte generosamente prescritte dal suo medico. La notizia della sua morte sconvolgerà milioni di persone, tra cui un suo vecchio fan del Minnesota, anche lui leggenda del rock, che per una settimana non avrebbe rivolto la parola a nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe messo a contratto il promoter che aveva organizzato il tour più fortunato di Presley, Jerry Wintraub; nella sua band avrebbe rimpiazzato il fido Rob Stoner col bassista di Elvis, Jerry Scheff; avrebbe imposto ai suoi musicisti candidi e attillati costumi di scena, una rottura completa con l’estetica stracciona della Rolling Thunder: ma anche un evidente omaggio alla fase calante della carriera di Elvis. Dylan lo ammirava, tra le altre cose, per la sua capacità di rialzarsi dopo una caduta (se abbiamo capito bene Went to See the Gipsy). La fine ingloriosa del 1977 metteva in crisi anche quest’ultima leggenda. La prima reazione di Dylan è il rifiuto: non è vero, Elvis non può morire. Raccogliendo la sua fiaccola, Dylan fece quello che persino Elvis non era riuscito a fare: la portò fuori dagli USA, persino più in là delle Hawaii, oltre il grande mare, fino in Giappone e poi in Europa; e a Londra, dove non suonava dal terribile 1966 e dove in un locale incrociò Sid Vicious che prima di essere spintonato altrove riuscì a chiedergli: “Ma sei Bob Dildo?”
Nancy e Sid
Nancy e Sid
Dylan era senz’altro più simile a un dinosauro che a un punk. Dylan ora era il boss di una grande band in giro per il mondo. Tutti i musicisti e le cantanti, li aveva provinati, li aveva scritturati, ogni tanto li licenziava e rimpiazzava. Nei programmi dei concerti però alla voce Dylan non c’era “boss”, ma “cantante”. Dylan si sentiva soprattutto questo, nel 1977/78: un performer. L’ingranaggio centrale di una macchina ben oliata. Tutte le sere lo stesso repertorio, senza mattane. Dopo le follie del Rolling Thunder, ora Dylan cercava rifugio nel professionismo. Avrebbe fatto un disco presentabile, professionale, adulto: un disco street-legal (che significa anche “sedicenne”, ovvero in grado di uscire in strada da sola). “Taking Care of the Business”, come avrebbe detto Elvis. Eppure Elvis era morto circondato da un entourage che non riusciva a fargli smettere di ingollare medicine e patatine, e anche Dylan era pur sempre Dylan: dopo la prima sessione di Street-Legal licenziò in tronco tutti i musicisti. Li riassunse il giorno dopo. Street-Legal secondo alcuni suonerebbe meglio, se Dylan non avesse di nuovo fatto eliminare tutte le tramezze dello studio (come a Nashville ai tempi di Blonde on Blonde) e registrato le nuove canzoni in fretta, praticamente live, senza darsi troppa pena di aspettare la versione migliore. Il solito autosabotaggio. Qualche anno fa il produttore Don DeVito lo rimasterizzò, ma niente da fare: anche se diventa più limpido, rimane sempre Street-Legal.
Señor, Señor, perché non stacchiamo tutti i cavi 
e rovesciamo quei tavoli? 
Questo posto per me non ha più senso. 
Mi dici cosa stiamo aspettando, Señor?
Alcuni dischi, lo sappiamo, Dylan li ha fatti brutti apposta: sono esercizi di bruttezza. Altri gli sono usciti così per sbaglio; per mancanza di idee o di direzione, di parole, di musica. Street-Legal non è brutto così. Quando lo compose, Dylan aveva un sacco di parole (più manieriste e lambiccate del solito), aveva melodie in abbondanza. Aveva addirittura delle idee sugli arrangiamenti. E si era fatto una big band esattamente come la voleva lui. Stavolta insomma Dylan un’idea ce l’aveva. E però… era l’idea sbagliata
Non è tanto il sax in sé – che c’è di male in un sax dopotutto? Non sarebbe stata la prima volta che uno strumento particolare diventa l’ingrediente dominante di un suo disco: l’organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino della Rivera in Desire (ma anche il basso di Stoner in Blood on the Tracks). Ma… (continua sul Post)
cantare, cantautori, concerti, fumetti, musica, Pazienza

Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero

Vergine di servo encomio, e inverecondo eccetera, io in questi giorni ho preferito pregare che tutto finisse bene; e senz’altro mi perdonerete se non sono passato di qui a scrivere che come un po’ tutti Vasco l’ho odiato e poi amato e poi odiato e da un certo punto in poi era semplicemente parte del paesaggio.

Potrei anche aggiungere che questo concerto – con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione – è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall’inizio: un personaggio un po’ fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent’anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c’erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).

La BBC era la radio di Red Ronnie, credo.

Magari nel frattempo avevamo messo su dei gruppi, cominciavamo a fare musica nostra – ma prima o poi ti toccava suonare Vasco. Perché funzionava, era davvero parte del paesaggio, veramente facile da eseguire e di presa sicurissima, insomma, dopo un po’ ci si arrendeva a quella pronuncia strascicata che sui treni deliziava coetanee calabresi e pugliesi (siete di Modena? Ma vicino a Zocca?) Il fenomeno più inquietante però era una specie di rinvaschimento, una cosa delle cose più orribili a cui mi sia capitato di assistere: vedere una persona amica, in seguito a un trauma sentimentale o professionale, smettere di ascoltare, chessò, i Depeche Mode e i Joy Division, cambiare guardaroba e tornare a Vasco (il modo poi in cui Vasco è riuscito a passare da emblema del fattone drughè a cantore della medissima borghesia artigiana meriterebbe uno studio a parte: come un certo tipo di immaginario a un certo punto sia slittato dalla bohème alla birreria).

A tutti.

Di tutto questo probabilmente ho già parlato – colgo invece l’occasione per mettervi a parte di un enigma che mi ha tormentato per anni, e della sua banalissima soluzione. Tra le cose molto più culturalmente rilevanti che gli anni Ottanta emiliani hanno contribuito a produrre, c’era Andrea Pazienza. Ovviamente ai tempi di Colpa d’Alfredo non lo sapevamo – avrebbe dovuto morire perché io me ne accorgessi almeno un po’. Poi ci furono anni di immersione integrale – in un materiale che assomigliava stranamente ai miei ricordi pre-puberali: siringhe dappertutto, scoppiati misteriosi, un senso di crudeltà incombente che nei primi anni Novanta non sentivo più. Ne riaffiorai esausto, con la sensazione di aver ritrovato un tempo perduto e un curioso interrogativo: com’è che Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi? Neanche in una vignetta – e se qualche fanatico qui ha presente la Prolisseide, sa che Pazienza una vignetta l’ha elargita a tutti. A Vasco no.

Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel ’75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe – possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c’era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?

A un certo punto mi ero anche affezionato all’enigma, una specie di versione emiliana di “perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?” Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: ’77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.

Avrei dovuto immaginarlo che l’anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell’84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare – forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto – e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è – Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un’intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.

E all’improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un’Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un’alba, sei fresca come l’aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a… 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.

Bob Dylan, concerti, musica

Il circo itinerante del tuono rotolante

The Rolling Thunder Revue (The Bootleg Series Vol. 5, pubblicato nel 2002 ma registrato nel 1975).
(Il disco precedente: Desire
Il disco successivo: Hard Rain)
E se io e te partissimo, uno di questi giorni? Se prendessimo un treno, anzi un pullman, e ce ne andassimo in giro per l’America finché non ci stanchiamo e lei di noi? E se invitassimo tutti i miei amici – scusa, tutti i nostri amici – in fondo che hanno da fare a parte suonare, bere e farsi? Potremmo anche passare a prendere la mia ex, è un sacco che ho voglia di vederla, così diventate amiche. E un team di registi per farci i filmini. Secondo me sarebbe fortissimo, se un giorno io e te partissimo. Purtroppo abbiamo tante altre cose più serie da fare.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Nell’autunno 1975 Bob Dylan non le aveva. Per quanto la sua icona sia associata indissolubilmente alla metà degli anni Sessanta, dieci anni dopo si ritrovava sulla cresta dell’onda molto più di quanto era e sarebbe mai stato. Before the Flood Blood on the Tracks avevano già ottenuto un disco di platino ciascuno, The Basement Tapes un disco d’oro. Desire, già in canna, avrebbe venduto ancora di più. Improvvisamente il pugile suonato di qualche anno prima aveva ritrovato lucidità e grazia: uno di quei rari momenti in cui qualsiasi cosa scegliesse di fare, per quanto bizzarra, funzionava: e scelse di andare in giro per il Paese con una carovana di vecchi e nuovi amici. Funzionò (più o meno). 
Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_5I concerti della Rolling Thunder Revue duravano quattro ore. Nei camerini della Rolling Thunder Revue c’era un tizio che girava col sacchetto di cocaina: veniva detratta dalla paga, 25$ il grammo. Sul palco della Rolling Thunder Revue si alternavano Bobby Neuwirth (dopo dieci anni di nuovo nello staff di Dylan), Roger McGuinn, Ramblin’ Jack Elliott, Ronee Blakey (la protagonista di Nashville), il chitarrista degli Spiders from Mars, Mick Ronson. Nella prima data della Rolling Thunder Revue suonò anche Phil Ochs, ma era conciato piuttosto male e qualche mese dopo si suicidò. C’era anche Allen Ginsberg, nella Rolling Thunder Revue; anche se i suoi reading uscirono presto dalla scaletta lui continuò ad aggirarsi per i backstage ad aggiungere quel tocco di poesia. Nella Rolling Thunder Revue a un certo punto si ritrovò persino Joni Mitchell, che dopo un concerto pensava di andarsene; ma il batterista fece un broncio e lei restò. Al Madison Square Garden, durante il concerto della Rolling Thunder Revue per Rubin Carter, salì sul palco anche Muhammad Ali. Durante la Rolling Thunder Revue, la Blakey si fece tagliare i capelli corti così che sembrava una sorella minore di Joan Baez. Quest’ultima si faceva filmare in vestito da sposa e da prostituta dai cineasti che a un certo punto invitarono nella Rolling Thunder Revue anche Sara Dylan – col disappunto del marito che dovette sloggiare un’altra compagna di letto. Quante altre donne potevano ronzare attorno a Dylan durante la Rolling Thunder Revue? A un certo punto arrivò anche sua madre.Ai concerti della Rolling Thunder Revue, Dylan si presentava truccato; una specie di clown bianco. Qualche volta si mise anche una maschera (da Nixon, o da Bob Dylan), ma doveva togliersela al primo assolo di armonica.
Joan Baez
Joan Baez qualche anno più tardi, sul confine cambogiano.
La Rolling Thunder Revue è una cosa a cui in un mondo migliore avrebbero diritto tutti, più o meno sui trentacinque anni: radunare su un paio di pullman gli amici di tutte le età, e darci dentro come se non ci fosse un domani. Probabilmente è il tour migliore che Dylan abbia fatto, e il volume doppio della Bootleg Series è il miglior Dylan live che si possa ascoltare – è un giudizio a cui si può arrivare per esclusione: il suono non è caotico come ai tempi degli Hawks, Dylan non sembra costantemente incazzato come in Before the Flood, la voce è ancora solida e soprattutto il repertorio è il migliore di sempre: mette insieme cose antiche come Blowing in the Wind (rifatta acustica con la Baez, fa scomparire completamente dalla vergogna la versione di Before the Flood) e cose come Isis Hurricane, talmente fresche che non erano ancora state pubblicate (ci sono ben sei pezzi di Desire, e sono tutte versioni che rivaleggiano con quelle incise in studio). 
Ci sono perle di valore assoluto, come una Hattie Carroll elettrica che la chitarra di Ronson trasforma quasi in un pezzo pop, senza togliere un grammo allo sdegno che Dylan riesce a ispirare cantandola; una Mama You Been On My Mind, di nuovo con la Baez, ma soprattutto con un gruppo che si diverte un mondo a fingersi orchestrina ragtime; una Simple Twist of Fate eseguita in solitaria che ci dà un mezza idea di che disco sarebbe stato Blood on the Tracks se Dylan avesse davvero deciso di inciderlo acustico; una Just Like a Woman riletta con un tocco glam-rock che è l’unica concessione allo spirito dei tempi. C’è davvero un sacco di roba buona e alla fine resta la voglia di sentirne di più. Il guaio è che il modo di sentirne di più è passare a Hard Rain(continua sul Post).
Bob Dylan, musica

Il disco chiamato Desiderio

Desire (1975, ma pubblicato nel 1976)
(Il disco precedente: Blood on the Tracks
Il disco successivo: The Rolling Thunder Revue)

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Ho ancora la CASSETTA! (in realtà ho solo la custodia, ma in fondo è meglio così – dove l’ascolterei, una cassetta?)
She was there in the meadow where the creek used to rise
Blinded by sleep and in need of a bed,
I came in from the east with the sun in my eyes
I cursed her one time then I rode on ahead…
Ciao, che piacere rivederti, ti aspettavo.
Accomodati pure in veranda, c’è la tua poltrona preferita. Ti preparo qualcosa?
Non c’è bisogno di presentarsi, no? Sono il disco di Dylan di questa settimana. Lo so, non sono ufficialmente il tuo disco preferito. Non sono il disco preferito di nessuno. Ma mi va bene così.
Quando ogni tanto una rivista specializzata decide di fare una classifica ragionata dei dischi di Dylan, e chiama un sacco di giornalisti a dare i voti, alla fine io non sono mai nei primi tre. Di solito neanche nei primi cinque. Lo capisco. Lo rispetto. Ci sono quelli un po’ quadrati che preferiscono Highway 61 o  Blonde on Blonde, perché insomma, il Dylan importante è quello di metà Sessanta, quello appena approdato al rock d’avanguardia. Io invece sono un disco di metà anni Settanta, un po’ reazionario, coi violini e le fisarmoniche – i mandolini, addirittura! Se devi scegliere un disco che ha fatto la Storia, mica puoi scegliere me. Io sono un episodio, vivo in una bolla tutta mia che scoppiò quasi subito.
She said, where ya been?, I said, no place special
She said, you look different! I said, well, I guess
She said, you’ve been gone… I said, that’s only natural
She said, you gonna stay? I said, if you want you me, yes!

Dirò una cosa cattiva: sembra un ladro appena uscito da un appartamento, deve avere due o tre giacche addosso.
(Dirò una cosa cattiva): sembra un ladro appena uscito da un appartamento, con due o tre giacche addosso, sei camicie e due maglioni.
Ci sono i dylaniti che ci tengono sentirsi più maturi, più sofferti, e allora non c’è storia: devono votare per Blood on the Tracks. Io invece sono un disco allegro, ingenuo, e pieno di un’insana voglia di avventura, un desiderio di tutto e di niente. Dylan mi concepì durante un festival di zingari in Camargue, in un momento in cui aveva provvisoriamente fatto pace con Sara e per festeggiare era andato a far baldoria a un oceano di distanza. Non mi puoi mettere sul piatto per darti un tono, sono un disco un po’ sbracato. Certo, sono il disco di Isis e di Sara, due valzer così personali che non le fece cantare a Emmylou Harris, la corista onnipresente nel resto del disco. La prima è la ballata in cui Dylan racconta il suo matrimonio come se fosse un western in technicolor – quelli un po’ fiabeschi come Mackenna’s Gold, o certi filmoni esotici come Timbuctù. Racconta di avere sposato Iside il quinto giorno di maggio (dunque Dylan è Osiride, inventore dell’agricoltura?) e di averla lasciata immediatamente, sviato da un avventuriero (Seth?) in cerca di una tesoro; attirato da miraggi di diamanti e di gloria che si riveleranno vacui come la tomba in cui alla fine seppellirà il compagno (mentre nel mito egiziano è Seth che convince Osiride a entrarci dentro). Ok, è stata una pessima idea, ma va tutto bene, perché il calendario gira e presto arriverà un altro cinque maggio, e Iside è lì che lo attende, pronto a risposarlo come in fondo è naturale che sia – ecco, se ti interessa il Dylan sentimentalmente tormentato non puoi assolutamente ammettere di cedere davanti a quel “If you want me to, yes!”, che è il verso più felice che Dylan abbia mai cantato, sollevato come un condannato davanti alla grazia: mi ha detto di sì! tutto è perdonato! 

Sophia Loren e Rossano Brazzi sul set di Timbuctù (dove l’avete messo John Wayne?)
I laid on a dune I looked at the sky
When the children were babies and played on the beach
You came up behind me, I saw you go by
You were always so close and still within reach.
E poi c’è Sara: ma come fai ad ammettere che Sara sia la sua migliore canzone d’amore? È così nuda, senza più schermi che non siano quello di vetro dietro cui Sara Dylan lo stava guardando e ascoltando registrare. Niente più pseudonimi – anzi, una delle molle che lo spinsero a scriverla fu proprio l’aver scoperto che la gente credeva che Sad-Eyed Lady of the Lowlands fosse dedicata a Joan Baez, ma come? Non ci arrivano? Prima che la sposasse si chiamava Sara Lownds! Niente da fare, i gossippari sono così ottusi. Sara è la verità senza più abbellimenti, l’ultima risorsa di un uomo che deve farsi perdonare Idiot Wind e chissà quante altre cose assai più gravi per una persona che oltre ad ascoltare le sue canzoni dovrebbe anche dividerci un letto. Come ha notato Alessandro Carrera, ha delle rime disperate (kelp/help), sembrano fiori raccattati all’ultimo momento da un’aiuola. Ha dei versi un po’ andanti, dei puntelli provvisori che non ha fatto in tempo a togliere: (“How did I meet you? …. I don’t know“!) E come nei momenti migliori di Dylan, è un miracolo: sin dalle prime battute, mentre l’armonica si intona prodigiosamente col violino, la batteria comincia a picchiare e su qualche parete è come se girasse il super8 di una vecchia vacanza al mare. Sara, siamo stati felici. Questo non potrà togliercelo nessuno. Dylan ha avuto centinaia di parole più ispirate – Dylan ha avuto migliaia di parole. Ma quando ascolti Sara, per un attimo, ti convinci che finalmente abbia trovato quelle giuste. Non le più poetiche, non le più sottili, anzi: quelle giuste. Non lasciarmi, non te ne andare mai. Toccante, ma anche un po’ imbarazzante. Non puoi mica preferirla a Sad-Eyed Lady, o a If You See Her; non puoi ammettere che per un po’ su quella spiaggia ti è sembrato di esserci anche tu: e che ci facevi? Il terzo incomodo? Badavi ai bambini? Manco Emmylou ha fatto entrare. Non puoi preferire Sara alla sua nemesi, Idiot Wind, molto più immaginosa e spietata e sicura di sé: lo capisco. Questo è Dylan. L’odio vince spesso sull’amore. Mi va bene anche così.
Now the beach is deserted except for some kelp
And a piece of an old ship that lies on the shore
You always responded when I needed your help
You gimme a map and a key to your door.

Emmylou Harris, molti anni dopo. Ha inciso decine di dischi; quello più venduto l'ha registrato in due giorni e non ne era affatto convinta.
Emmylou Harris, molti anni dopo. Ha inciso decine di dischi; quello più venduto l’ha registrato in due giorni e non ne era affatto convinta.
Poi ci sono i dylaniti salomonici, che vorrebbero tenere insieme il Dylan folk e quello rock, e allora pescano Bringing It All Back Home: è come andare a un ristorante dove sai che fanno bene i ravioli e la costata, e chiedere una costata coi ravioli. Oppure gli snob di tutti i tipi, quelli che devono per forza elaborare una risposta originale, e allora li vedi ingegnarsi a scambiare per capolavori cose come John Wesley Harding, o i dischi più recenti. Ci sono gli acustici duri-e-puri, c’è persino il partito dei Basement Tapes; ce n’è di gente strana al mondo. Io per loro sarei una scelta troppo banale, perché… ho venduto troppo, primo in classifica sia in USA che in UK (mai successo prima), in cima a Billboard per un mese, sono un doppio platino. Non possono mica scegliere me, ma li capisco. In fondo la musica serve anche a farci sentire diversi da tutti gli altri, speciali. Ma non c’è niente di speciale nell’avermi in casa, io sono il disco di Dylan che a un certo punto avevano in casa tutti. Chi ne aveva soltanto uno aveva me. Sono come Assassinio sull’Orient-ExpressIl piccolo principeL’isola del tesoro. Nessuno si può vantare con la mia copertina, nessuno mi sfoggia sulla mensola più in vista. Alcuni mi nascondono.
Oh, sister, when I come to lie in your arms
You should not treat me like a stranger
Our Father would not like the way that you act
And you must realize the danger

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“This Record Could Have Been Produced by Don Devito”.
Anche quelli che mi apprezzano, devono sempre trovarmi qualche pecca. Sono il fratello minore di Blood on the Tracks, come posso sperare di competere? Si capisce che Dylan mi incise di slancio, sulla cresta dell’onda che finalmente dopo anni di attesa era riuscito a trovare e cavalcare, mentre metteva insieme musicisti per il suo tour più folle. Prima ci fu una serie di session assurde, a cui vennero invitati praticamente tutti i musicisti che erano a NY in quel momento, tra cui Eric Clapton – ma forse più che incidere qualcosa Dylan voleva fare una festa, un grande scherzo, era in una di quelle fasi tardo-matrimoniali in cui anche i solitari cercano compagnia. Magari a quel punto aveva notato che i suoi dischi migliori erano il risultato di un percorso in due tappe: una prima fase caotica e complicata in cui non riusciva a trovare il bandolo della matassa, e una seconda tappa in cui ripescava le cose migliori e le ri-registrava in fretta. Forse pensava che senza un’altra fase di baccano non gli sarebbe più occorso un altro di quei momenti miracolosi, limpidi, in cui tutto si incastra alla perfezione: e forse aveva ragione.

Scarlet Rivera, qualche anno dopo.
Scarlet Rivera, qualche anno dopo.
Così, dopo aver spazzato via tutto il materiale delle prime sessioni, trattenne una squadra di quattro-cinque elementi e in una lunga notte di luglio mi registrò, quasi al primo colpo. Poi mi tenne in fresco per mesi, perché la Columbia aveva deciso di pubblicare prima i Basement Tapes, e nel frattempo cominciò a suonare i miei pezzi in giro per i teatri. A metà del tour mi stappò come una bottiglia di champagne: ero perfetta. Vendetti un sacco, piacqui a tutti, anche nessuno lo confessava volentieri. Greil Marcus non mi volle recensire; Christgau sul Village Voice mi diede un B- (aveva dato un A- a Planet Waves) Alla fine dell’anno ero 26mo nella classifica del Voice. L’anno prima i Basement Tapes erano in testa. Insomma: buono, ma non ottimo. Ma non m’importa, sul serio, sono a posto così.
Forse il mio problema è che ai dylaniti piace soprattutto Dylan: è lapalissiano, ma si dà il caso che io sia il meno dylaniano dei suoi dischi storici: mentre Blood è un disco così personale che chi suonava con lui non riusciva nemmeno a capire che accordi usasse, io sono un lavoro di gruppo, forse il suo disco più corale. Quello che mi rende unico è la combinazione degli strumenti, dei musicisti. Scarlet Rivera, soprattutto. È una violinista di origini siculo-irlandesi che un giorno Dylan recuperò al Village: la vide passeggiare con una custodia di violino e la fece salire sulla limo con una frase da rimorchio piuttosto cruda: “ma lo sai suonare?” Desire è la risposta alla domanda. Il violino della Rivera è onnipresente come l’organo di Kooper in Blonde on Blonde (e alla lunga può dare lo stesso fastidio); riempie gli spazi lasciati dal canto, ed è altrettanto sguaiato, sfrenato e inimitabile: sempre sul filo della stonatura, proprio come la voce di Dylan. Ma anche quest’ultima è meno dylaniana del solito, perché il nostro eroe, che qualche anno prima aveva registrato un intero disco con la Band senza concedere ai suoi tre ottimi cantanti nemmeno un coro, stavolta ha deciso di farsi doppiare in molti passi da una voce femminile (Emmylou Harris, appunto), che in teoria dovrebbe armonizzare con lui. Ovviamente il risultato è spesso dissonante – come fai a intonarti con un tizio che non canta mai la stessa nota? (la Harris credeva che fosse solo una prova; sperava che buttassero via tutto). Ma è anche qualcosa di unico: non c’è un altro disco in cui Dylan e una donna cantino così. Col senno del poi, è la spia di un disagio: Dylan sta iniziando a soffrire dei limiti della propria estensione. Presto comincerà ad andare in giro con un coro femminile che gli sottolinei i ritornelli. Ma in questo specifico caso, Dylan ha semplicemente scritto canzoni talmente dolci, duttili, agili, che sarebbe un peccato sentirle cantare su un’ottava sola. Desidera suonarle tutte, come un bambino che gioca con la tastiera di un pianoforte. Va bene, ma ai dylaniti piace sentir cantare Dylan, e qui è come se a volte si nascondesse.

Qualche mese dopo - il disco non era ancora uscito - Dylan dovette rientrare per reincidere un pezzo di Hurricane che preoccupava un po' gli avvocati. A quel punto ormai aveva scelto come corista Ronee Blakey - la protagonista di Nashville - e quindi la voce che canta in Hurricane a volte è quella di Emmylou e a volte è la sua (io non le distinguo).
Qualche mese dopo – il disco non era ancora uscito – Dylan dovette rientrare per reincidere alcune strofe di Hurricane le cui allusioni preoccupavano un po’ gli avvocati. A quel punto ormai era in tour con Ronee Blakey – la protagonista di Nashville – e quindi la voce femminile di Hurricane a volte è quella di Emmylou e a volte è la sua (io non le distinguo).
Altrettanto dissonante è la bizzarra armonia tra violino e armonica: una cosa mai provata né prima né dopo. Tutto questo renderebbe già il mio sound inconfondibile (se mi metti sul piatto mi riconosci al primo colpo), anche senza il dettaglio finale: sono stato mixato con la batteria altissima. Perché? Non si sa. Forse piaceva al produttore Don DeVito, forse a Dylan: fatto sta che ogni volta che mi ascolti hai la sensazione di vedere tutti gli altri musicisti parzialmente nascosti dai piatti e dal charleston, dal punto di vista meno usuale per l’ascoltatore: quello del batterista, Howie Wyeth. Ci sono dischi di Dylan che ti fanno cantare, dischi che ti fanno fischiettare; io ti faccio tamburellare, ti faccio pestare i piedi, è più forte di te. Ma se ti chiedono qual è il disco migliore di Dylan, mica puoi dire: mi piace lui, perché mi fa pestare i piedi – ehi, stiamo parlando di un premio Nobel! Dylan va apprezzato per i testi!
Ecco, appunto, i testi. I dylaniti ci tengono molto. E io per molto tiempo fui l’unico vero disco che Dylan non si era scritto da solo (Self Portrait non conta). Era tornato dalla Camargue con un sacco di storie in testa, e quel metodo simultaneista che aveva messo a frutto in Blood non gli tornava più utile. Voleva rimettersi a scrivere storie in un modo più tradizionale, con un inizio e una fine – e a dargli più problemi erano proprio gli inizi. Desiderava rimettersi a parlare di fatti di cronaca, come ai tempi The Times They Are A-changin’; desiderava persino aiutare un ex pugile che gli aveva scritto dal carcere, dove l’avevano rinchiuso ormai da otto anni per un triplo omicidio che non aveva commesso. Desiderava ricominciare a dar battaglia con le parole, ma non tutte le parole gli venivano. Aveva bisogno di quei versi che ti prendono di peso e ti buttano dentro alla canzone. Così – scandalo! – si fece aiutare.

ohcalcutta
dyaniano al 100%
L’aiutante si chiama Jacques Lévy, e faceva il regista teatrale – aveva diretto la prima versione off Broadway di Oh, Calcutta! – insomma, uno di quei personaggi con cui potevi fermarti una sera a discutere in un locale del Village. Lévy aveva già scritto qualche canzone, ad esempio per Roger McGuinn: ma l’opportunità di collaborare con Dylan fu un enorme regalo che gli fece il caso. Mettetevi però nel dylanita. Come può ammettere che alcuni dei migliori racconti in versi che Dylan ha mai scritto sono il risultato della collaborazione con un tizio che nemmeno scriveva canzoni di mestiere? Come si fa ad accettare che prima di incontrare questo regista di balletti discinti, Dylan non avesse mai messo su carta un inizio folgorante come quello di Hurricane? (Continua sul Post…)
Bob Dylan, musica

È il sangue di Bob Dylan su quei solchi?

Blood on the Tracks (1975)

Enrico_Mazzanti_-_the_hanged_Pinocchio_(1883)
Mazzanti, Le avventure di Pinocchio, 1883 (che gran finale sarebbe stato, eh).
Qualcuno deve avercela con me, mandano bufale ai giornali…
Come a questo punto qualcuno avrà indovinato, Bob Dylan non esiste.
È solo una finzione letteraria. Non sapevo più cosa scrivere per il Post e allora mi sono inventato la discografia finta di un personaggio che comincia a strimpellare la chitarra nei caffè del Village, poi incontra Joan Baez, diventa un attivista politico, poi una rockstar, e poi… il proposito originale era farlo morire sul più bello, in moto, ma ai lettori ormai piaceva troppo, non si sarebbero rassegnati alla fine della storia, e allora ho aggiunto una convalescenza (proprio come Collodi che voleva far morire Pinocchio impiccato, ma i lettori protestarono e lui lo fece risuscitare dalla Fata Turchina: non fosse stato per i lettori, a Pinocchio non sarebbe mai cresciuto il naso a causa delle bugie). Il personaggio però cominciava a stancarmi e così ho provato a renderlo odioso, gli ho fatto incidere alcuni dischi orrendi, ma questo alla fine lo ha reso ancora più interessante – e poi anch’io mi stavo affezionando ormai. A questo punto però non so davvero cosa fare. Mi piacerebbe continuare il feuilleton fino a Natale, ma come? Ormai il mio eroe è una rockstar a fine carriera. Che altro può fare, a parte qualche disco mediocre, qualche tour celebrativo, eccetera eccetera? Mica può rimettersi a sfornare capolavori adesso, no? Dopo sette dischi magri? Non sarebbe un romanzo credibile. Insomma mi ritrovo in uno di quei momenti in cui un buon scrittore d’appendice tirerebbe fuori il Gemello Cattivo.

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Chiostri, Le avventure di Pinocchio
Lui aveva sempre fretta, troppo impegnato o troppo fatto; e tutto quello che lei progettava veniva sempre posticipato. Lui pensava che quello fosse il successo, lei pensava che fossero stati benedetti con tante belle cose materiali. Ma io, io non mi sono mai lasciato impressionare. (Nel testo originale di Tangled Up in Blue, Dylan slitta ogni tanto dalla prima alla terza persona: sembra un osservatore esterno, il coinquilino di una coppia instabile).
Mettiamola così: a fine 1974, un tizio bussa al portone degli studi della Columbia sulla 54esima Strada. Si presenta come “Bob Dylan” e non c’è motivo per non dargli retta, insomma si vede benissimo che è lui. Ha gli occhi di Bob Dylan, il naso di Bob Dylan, e poi la voce, andiamo, nessuno gli chiede un documento. Alcuni tecnici del suono restano perplessi: ma come, non aveva rotto con la Columbia? Il produttore Phil Ramone se ne infischia, perdio, c’è Bob Dylan nell’edificio: quando gli ricapita? Manda subito a chiamare la band di Eric Weissberg, l’eroico suonatore di banjo di Un tranquillo week-end di paura: c’è Bob Dylan che vi aspetta nello Studio A, fate tutto quello che vi dice Bob Dylan. Dylan in realtà non dice niente. Ma è normale. Si mette subito a suonare. Ok, lo sanno tutti nell’ambiente che l’unico modo per accompagnare Bob Dylan è guardargli le mani e cercare di anticipare l’accordo che sta per impugnare sul manico della chitarra. Non è facile, ma non è nemmeno un’impresa, salvo che stavolta…
Stavolta ha un’accordatura aperta. Da quand’è che non le usava più? Forse più di dieci anni. Ma che significa “accordatura aperta”, poi?

(Lui è solo un attore, ma le mani dovrebbero essere quelle di un vero suonatore di banjo).
(Lui è solo un attore, ma le mani dovrebbero essere quelle di un vero suonatore di banjo).
Ogni corda di una chitarra è una specie di minitastiera: ovunque metti il dito, suoni una nota diversa. Dunque sul manico è come se avessi sei minitastiere affiancate, no? Ecco. La prima volta che ci pensi ti vengono le vertigini, ma in realtà queste sei minitastiere sono affiancate sempre nello stesso modo, e questo fa sì che quasi tutti i chitarristi al mondo abbiano una gestualità simile, riconoscibile. Gli accordi sono tanti, ma non tantissimi. È una lingua di trenta parole, mettiamola così. Non si impara in un giorno, ma è meno difficile di qualsiasi lingua tu stia parlando. Però.
A volte qualche chitarrista decide di affiancare le tastiere in qualche altro modo. Si chiama accordatura “aperta”, nel senso che è aperta a qualsiasi possibilità. A quel punto le vertigini ti tornano, perché gli stessi gesti stereotipati che sei abituato ad associare a un accordo, adesso suonano diversi. È come se aprissi la bocca per dire una parola e te ne uscisse un’altra. Bisogna imparare tutto da capo. Certo, se si tratta di suonare nel nuovo disco di Dylan, ne vale la pena.

Anche la grafica della copertina è molto più ricercata del solito, in lieve anticipo sui tempi. Le note sul retro vinsero un Grammy, ma accreditavano i musicisti sbagliati.
Anche la grafica della copertina è molto più ricercata del solito, in lieve anticipo sui tempi. Le note sul retro vinsero un Grammy, ma accreditavano i musicisti sbagliati.
Salvo che Dylan non ha la minima intenzione di spiegarvi come ha accordato la sua chitarra. È ‘aperta’ solo per lui. Per voi è chiusa. Ha scritto una dozzina di canzoni così, e si aspetta che voi le accompagnate. Oppure no, si aspetta soltanto che rinunciate. A uno a uno i musicisti saltano. Persino Mike Bloomfield, recuperato dieci anni dopo Highway 61, aveva gettato la spugna. Dopo un po’ è rimasto in lizza soltanto il bassista, Tony Brown, che in un qualche modo riesce a capire cosa Dylan si aspetti da lui. Più che decifrare gli accordi, Brown segue la melodia: appena riesce a trovare la nota giusta, la sottolinea alzandola di un’ottava. Un espediente molto semplice che crea una specie di profondità e forse a Dylan non dispiace. Lui comunque continua a non dire niente. A volte si interrompe a metà canzone e ne comincia un’altra. Phil Ramone lo lascia fare, il genio non si disturba. In capo a quattro giorni un disco è pronto. È diverso da qualsiasi altro disco di Dylan. È un po’ più cupo di John Wesley Harding, e ancora più crudo: basso, chitarra, e l’armonica che si muove un po’ a disagio tra quegli accordi dissonanti. Ramone ha aggiunto solo un po’ di riverbero alla voce. È un disco più tagliente di Blonde On Blonde, aspro come Dylan non è stato da anni – forse come non è stato mai. Probabilmente ha litigato con la moglie, è l’unica spiegazione per certe canzoni sorprendentemente livorose. Ma anche per certe ballate un po’ più tumide del solito – dopo tanto tempo sembra che il Dylan che canta abbia riscoperto la fase del corteggiamento, con le sue gioie, e soprattutto le sue frustrazioni. La mestizia di alcune nuove canzoni sembra quasi un contrappasso alla sfrontatezza di quelle di dieci anni prima: vi ricordate di quando Dylan cantava “vattene via, non sono da solo” a una tizia che lo seccava di notte al citofono? Ecco, adesso la scena sembra invertita, adesso la tizia è lassù che se la spassa con qualcuno, e a appeso al citofono come un salame è rimasto lui, il famoso Bob Dylan – com’è possibile?
L’amore è così semplice, tanto per citare una frase. Tu l’hai sempre saputo, io lo sto imparando in questi giorni. Ah, e so dove ti posso trovarti: nella camera di qualcuno. È il prezzo che devo pagare: adesso sì, sei una ragazza grande 
Qualche giorno dopo i funzionari della Columbia chiamano Ramone: tieni libero lo Studio A, Dylan ha firmato, sta per venire a fare un disco. Come sarebbe a dire? Risponde lui. Guardate che è stato già qui una settimana fa. E il disco è pronto. Eh?
Poco dopo arriva Dylan. Non c’è dubbio, è proprio lui: gli occhi, il naso, la voce inconfondibile eccetera. Cos’è questa storia del disco? Fatemelo ascoltare. Gli passano una cuffia, attaccano Tangled Up in Blue. Per quaranta minuti a non tradisce un’emozione. Solo alla fine, levandosi le cuffie, si passa rapidamente una mano sulla fronte e dichiara: questa è tutta roba di Ismaele.
“Ismaele?”
“Il mio gemello, Ismael Zimmerman”.
“Ah, Bob, non… non sapevo che avessi un gemello”.
“Nessuno lo sa, ovviamente”.
“Non… non corre buon sangue tra di voi?”
“Non saprei. È da molto che l’ho perso di vista. L’ultima volta che l’ho sentito lavorava su un peschereccio dalle parti di Delacroix. Pensavo che avesse abbandonato la musica”.
“Ha uno stile molto… peculiare”.
“Puoi dirlo forte. Come diavolo ha fatto il bassista a tenergli dietro? Lui usa quell’accordatura assurda, ce la siamo inventata quando stavamo in Montague Street, sai. Poi abbiamo litigato, credo ci fosse di mezzo una ragazza”.
Mettetevi in Phil Ramone. Era convinto di avere registrato il nuovo, pazzesco disco di Bob Dylan. E invece ha lasciato per una settimana una manciata di professionisti in balia di un sosia pazzo che non sa accordare la chitarra.
“Non capisco, Bob. Perché ha voluto regalarti queste canzoni?”
“Ti sembra un regalo?”
Ramone comincia ad avvampare. Si rende conto che sta discutendo con il genio Bob Dylan come se fosse un suo amico. Dopo una settimana trascorsa a lavorare col suo sosia, è vittima di una falsa sensazione di familiarità. Grave errore, gravissimo. Ora il vero Dylan punterà gli occhi su di lui, dirà un paio di sillabe stentate e sparirà per sempre dalla sua vita.
“A me sembra che abbia voluto sputarmele in faccia. Comunque, non sono brutte canzoni”.
“N-no”.
“Ma bisogna registrarle da capo, così sono impresentabili, non trovi?”
“Certo, Mr Dylan, certo”.

Non sono brutte canzoni, no. Sono le migliori che Dylan si sia trovato in mano dai tempi dell’incidente. Sono spiazzanti, originali, 100% dylaniane ma anche in qualche modo al passo coi tempi, persino sofisticate. Persino i due blues, Buckets of Rain Meet Me in the Morning (l’unico pezzo in cui alla fine suona davvero Weissberg), sono i migliori blues che Dylan abbia cantato dai tempi di Highway 61. Non c’è un brano che non irrida qualsiasi altra cosa abbia fatto Dylan dall’incidente in poi, e tutti i fan che si sono sforzati a trovare qualcosa di buono in tutti quei cosiddetti “ritorni di forma”: ah, ma sul serio pensavate che New Morning fosse un disco interessante? Che Planet Waves reggesse il confronto? Sul serio eravate così disperati da distillare essenza di Dylan da Pat Garrett? Non vi accorgevate che erano tutti palliativi? La verità è che Dylan non esiste più da un pezzo. Ma Ismaele è ancora in giro per le strade statali con la sua chitarra Martin accordata in un modo assurdo, la sua armonica fissata alle spalle con il fil di ferro, le sue canzoni sofferte e disperate. Troppo sofferte. Troppo disperate. “Non posso pubblicare questa Idiot Wind“, pensa. “La gente crederà che sto litigando con mia moglie. E in effetti io sto litigando con mia moglie, ma perché dovrei aprirmi il cuore in un disco? È che la gente vuole esattamente questo da un mio disco: il sangue. Non sarà contenta finché non l’avrà avuto”. Lo ha capito persino Ismaele.
Ismaele è il Bob Dylan che non ce l’ha fatta. Non è diventato famoso, non ha abbandonato il folk per il rock, non ha avuto un esaurimento nervoso, non ha messo su famiglia. Ha fatto un po’ il cuoco da qualche parte nel grande Nord, poi si è ritrovato a New Orleans, e per tutto il tempo ha continuato trascinarsi chitarra e armonica, a scrivere canzoni che nessuno avrebbe ascoltato, su accordi che nessuno riesce a suonare. Ma il suo gemello famoso è appena tornato alla Columbia dalla porta principale, dopo essere sgattaiolato da quella di servizio: ha bisogno di dimostrare di essere ancora il grande cantautore, non di snervare i suoi fan con l’ennesimo disco stravagante. Bisogna rifare tutto. E non a New York – magari Ismaele è ancora nei paraggi, meglio levare le tende. Andrà in una città a caso. Il fratello minore, Daniel, ha un’etichetta a Minneapolis, ecco, registrerà là con qualche arrangiamento convenzionale. Dovrà sembrare un classico disco da cantautore di metà anni Settanta. Semplificherà qualche accordo, cambierà qualche parola qua e là, per stornare i sospetti. Aggiungerà qualche abbozzo di flamenco, uno schizzo di mandolino, e in Idiot Wind un organo che è la tetra parodia di quello che Al Kooper suonava ai tempi di Sad-eyed Lady of the Lowlands. Alla fine si stancherà a metà e pubblicherà una via di mezzo: cinque brani di Ismael registrati sobriamente a New York con Brown al basso, cinque brani rifatti da Bob a Minneapolis da un gruppo di sessionmen locali capeggiati da un tale Kevin Odegard, il chitarrista che riuscì a suggerire a Bob Dylan di alzare di un tono Tangled Up in Blue e a sopravvivere per raccontarlo. Alla fine non verrà fuori un brutto disco. Certo, i critici ci metteranno un po’ a capirlo.
Sul serio: i critici ci misero un po’ a capire Blood on the Tracks(continua sul Post)
Bob Dylan, concerti, musica

Dylan prima e dopo il diluvio

Before the Flood (1974; doppio album dal vivo con la Band).
(Il disco precedente: Planet Waves
Non perdetevi il disco successivo!)

Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D’OTTONE! Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D’OTTONE Qualsiasi colore tu ABBIA IN MENNNNTE Te lo mostrerò e lo vedrai SPLEEEENDERE. Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D’OTTONE!
Mettiamola così: una sera, dopo che lo avete aspettato a lungo, vostro marito torna a casa brandendo un inspiegabile mazzo di rose in mano – un mazzo simile a quello che vi comprò cento primavere fa – e invece di spiegarvi cosa sta succedendo comincia a darvelo in testa, il mazzo di rose, senza farvi male perché per fortuna il fiorista ha tolto le spine, ma è comunque una scena che vi sareste risparmiati. Che cos’è successo? Perché sei così arrabbiato? È qualcosa che ho detto?
Perché ASPETTARE CHE IL MONDO COMINCI? PRENDITI QUESTO DOLCE, E MANGIATELO PURE! 
È in assoluto il primo disco di Bob Dylan senza la faccia di Bob Dylan in copertina, né fotografata né dipinta.
È in assoluto il primo disco di Bob Dylan senza la faccia di Bob Dylan in copertina, né fotografata né dipinta.
È solo un modo di dire, forse un po’ maldestro per una canzone d’amore (l’equivalente di “moglie piena e botte ubriaca”), ma adesso altro che canzone d’amore. Sembra che voglia aprirti la bocca con la forza, Dylan, e cacciartelo giù in gola finché soffochi, quel dolce. Davanti a un pubblico pagante, un popolo che lo attende da anni, una folla che ha tutti i diritti del mondo di assistere a un bel concerto del suo idolo, quest’ultimo sceglie la sua canzone più dolce e la scanna senza pietà – perché? Che t’ha fatto? Sappiamo che non t’ha mai convinto davvero; che l’hai usata, a volte, proprio per prendere le distanze. Sappiamo che è uno di quei fortuiti risultati di laboratorio che riescono una volta su mille, e sono irriproducibili dal vivo. Ma è un buon motivo per farla a pezzi come un marito impazzito?
La sola cosa di cui parlava la gente era l’energia. Energia qui, energia là. Il miglior complimento era una cosa tipo, “Wow, un sacco di energia, amico”. Era diventata una cosa assurda. Più grande la cosa diventava, più forte suonava, più energia ci si aspettava che avesse (Intervista del 1985 con Cameron Crowe).
Before the Flood è il primo disco ufficiale dal vivo di Dylan. Procedendo in ordine cronologico ne abbiamo già ascoltati parecchi, ma Before the Flood è uscito per primo (il secondo e ultimo disco inciso per l’Asylum, dopo Planet Waves). In precedenza l’unico sistema per capire come suonasse Dylan dal vivo erano i bootleg, quel diluvio di incisioni abusive che riempivano scaffali dei negozi di dischi e a lui non fruttavano un soldo. A voi piace andare ai concerti? Quando ero bambino pensavo che mi sarebbe piaciuto. Quelli grossi, negli stadi, quelli coi biglietti sold out tre mesi prima; quelli di cui gli amici cominciano a parlarti tre mesi prima, e dieci anni dopo (se vai a controllare su facebook) ne stanno ancora parlando. Quelle feste pazzesche in cui tutti saltano e cantano i cori. Da bambino non vedevo l’ora di andarci, a quei concerti: ascoltavo Under a Blood Red Sky, ascoltavo Made In JapanBanana Republic, ero convinto che mi sarei divertito tantissimo. Finché nella mia piccola città, nel giro di pochi mesi, arrivarono gli U2 e… Bob Dylan. E io riuscii ad andare a entrambi: anche se ero troppo piccolo, l’occasione era troppo grande.
E poi basta. Non sono più andato a un concerto di massa in vita mia (quasi). Perché ho scoperto che non mi diverto così tanto, dopotutto. C’è molta gente, spesso fa caldo, il gruppo è comunque molto lontano e persino la musica si sente troppo forte, distorta, a volte m’infastidisce. Non è così importante, si può amare la musica anche senza amare i concerti di massa. Io perlomeno posso. Bob Dylan no. Lui non poteva sottrarsi più ormai.
“Ho odiato ogni momento di quel tour” (Da un’intervista del 1978).
Se c'è anche solo una vaghissima ragione di infilare foto di Muhammad Ali in un articolo, io ne approfitto, scusate.
Se c’è anche solo una vaghissima ragione di infilare foto di Muhammad Ali in un articolo, io ne approfitto, scusate.
Prima o poi sarebbe dovuto tornare in mezzo alla gente. Ci mise otto anni ad accettare la cosa, e dovette pure rompere con Mamma Columbia, ma era destino. Dylan si era stancato di strimpellare ai festival folk già nella primavera del 1965. A quel punto si era dato al rock, ma l’avventura elettrica era durata poco più di un anno e una quarantina di concerti tra USA, Europa e Australia. Breve come un amore di gioventù, troppo veloce per capire cosa stesse davvero succedendo. Dylan e gli Hawks erano andati in giro per il mondo ad incendiare teatri e palazzetti, e non sapevano nemmeno se la gente fischiasse la svolta elettrica o la resa del suono (il dibattito è ancora aperto). Dopo pochi mesi Levon Helm, socio fondatore degli Hawks, aveva gettato la spugna. In capo a un anno persino Dylan ne aveva avuto abbastanza. Troppo baccano, troppa rabbia, troppi rischi, troppa fatica (troppe pasticche per gestirla). Nello stesso anno avevano smesso anche i Beatles e gli Stones – questi ultimi più per volontà di Scotland Yard che per scelta manageriale. A metà anni Sessanta i gruppi rock più popolari non riuscivano più a suonare dal vivo. Era un problema soprattutto logistico. Non solo la sicurezza era un incubo – Beatles e Dylan attiravano anche gli psicopatici e avevano più di un motivo per temere la propria incolumità – ma anche l’acustica era tutta da ripensare.
Sinceramente, non riesco a pensare a un pezzo di su qualsiasi argomento che non si possa migliorare con un paio di foto di Muhammad Ali.
Sinceramente, non riesco a pensare a un pezzo su qualsiasi argomento che non si possa migliorare con un paio di foto di Muhammad Ali.
Otto anni dopo, la situazione era radicalmente cambiata. Amplificatori più potenti, servizi d’ordine professionali, mixer performanti – e soprattutto, ora Dylan poteva riempire il Madison Square Garden all’indomani del match tra Muhammed Ali e Joe Frazier, anche se il biglietto per Dylan era più caro (e meno facile da trovare). Come Ali, Dylan aveva un titolo mondiale da riconquistare, un tempo perduto da ritrovare. Gran parte del pubblico che ora si svenava per vederlo si era perso il tour del 1966, quella brevissima Età dell’Oro documentata dai bootleg più illustri. Avevano aspettato tanto, avevano pagato un botto e ora reclamavano il loro pezzo di Bob Dylan elettrico. Salvo che a Dylan, ovviamente, la cosa non andava a genio… (continua sul Post).
Bob Dylan, famiglie, invecchiare, musica

Solo un dimenticabile ritorno di fiamma

Planet Waves (1974)

(Il disco precedente: Pat Garrett & Billy the Kid.
Il disco successivo: Before the Flood).


In una notte come questa, sono così contento che ti sia fatta viva… abbracciami stretto che scaldo un po’ di caffè. (Che inizio promettente per un disco, vero? No, appunto).

L’Asylum gli aveva evidentemente
dato carta bianca per la grafica
delle copertine: e il pittore Dylan, ehm,
faceva progressi.

Nel mezzo del cammin di vostra vita, diciamo sulla trentina, potrà capitare anche a voi di ritrovarvi soli, o male accompagnati. Sono cose che possono succedere a tutti, e in teoria non c’è niente di male, ma a un certo punto potreste dovervi arrendere all’evidenza: non sta succedendo a tutti, sta succedendo a voi; e fa male, eccome se fa male. È proprio in quel momento, in cui cominciate a sentire quanto sia salato il pane altrui, che statisticamente aumentano le possibilità di incrociare per caso una vecchia fiamma che non sentivate da anni, da mesi, e poi improvvisamente da settimane, e poi dopo un po’ cominciate a chiamarvi tutte le sere perché avete un sacco di cose da dirvi, un sacco, cosa sta succedendo? Forse siete cresciuti; gli errori che vi siete lasciati alle spalle ormai sembrano sciocchezze, incomprensioni giovanili; e le cose che invece funzionavano, ora, con più esperienza, non potrebbero che funzionare meglio.

Insomma dovreste rimettervi assieme. È un segno del destino essersi ritrovati dopo tanto tempo. Forse è così.

Oppure siete entrambi nel panico, perché state sulla trentina e siete soli; e non farete che tirarvi giù a vicenda.

Stenditi accanto a me, tienimi compagnia… (c’è un sacco di spazio, per cui, per favore, non sgomitarmi). (Questo forse è uno dei versi più profondi di Dylan).

Sia come sia, nel 1974 Dylan e la Band decisero di rimettersi assieme. Per un po’. Per vedere come andava. Un disco e un tour. Dylan nel frattempo si era trasferito a Malibu, California, ai margini del cantiere di una casa enorme che sua moglie riprogettava tutti i giorni: un pozzo senza fondo in cui finivano i diritti delle sue vecchie canzoni. Aveva persino rotto con la sua Casa Madre, la Columbia, che aveva lasciato scadere il contratto e poi per ripicca pubblicato un brutto disco a nome suo, una collezione di scarti. Quanto alla Band, beh…

Mamma Tosta, ti balla la ciccia sugli ossi. Andrò al fiume a prendere un po’ di pietre. Tua sorella è per strada con la squadra dei minatori. Papà è nella grande casa, ha finito di faticare. Mamma Tosta, posso soffiarti un po’ di fumo addosso?

La Band era molto cambiata. Non era più la fanciulla screanzata con cui Dylan aveva fatto tutto quello straordinario baccano nel ’66; non era quella ragazzina emozionata e inesperta che aveva piantato in asso a New York per andare a registrare Blonde On Blonde a Nashville, con musicisti seri. Non era neanche la ragazza volenterosa e disponibile alle sperimentazioni che lo aveva coccolato e rimesso in sesto nella cantina della Grande Rosa. Ma nemmeno la splendida signora che si era emancipata a partire da Music From the Big Pink, e che senza il patrocinio di Dylan, disco dopo disco, era diventata una vera professionista, puntuale, affidabile sul palco e impeccabile in sala di registrazione. Nel mezzo del cammino della sua vita, anche la Band si stava perdendo in una di quelle tipiche selve anni Settanta che attendevano i musicisti di successo: alcool droghe e ripicche. Gli ultimi due dischi non erano andati un granché bene, anche Robertson aveva smesso di imporre le sue canzoni ai colleghi alcolisti o eroinomani. Nel 1974 si ritrova pure lui a Malibu, a pochi isolati da casa Dylan, guarda tu la coincidenza. Ehi Bob, hai notato che dopo tanto tempo siamo ancora qua tu e io? Qualcosa vorrà dire. E se ci rimettessimo assieme? Ora che siamo adulti, che siamo seri, che abbiamo imparato come si fa. Un disco, ci vuole, e un tour. Cosa potrà andare storto?

Planet Waves è l’unico disco che Dylan e la Band hanno inciso assieme. Pazzesco, se uno ci pensa: si frequentavano da otto anni (e continueranno a frequentarsi, fino all’Ultimo Valzer). Basterebbe questo a renderlo un disco memorabile, no?

No. Perché Planet Waves non è un disco memorabile. Non sto dicendo che sia un brutto disco, perché davvero, non si può dire che lo sia: Dylan sa fare molto di peggio, lo abbiamo visto. Ma è davvero un disco facile da dimenticare. Alzi la mano chi si ricordava che dopo Pat Garrett c’era Planet Waves. Visto? Anch’io stavo quasi per passare direttamente a Blood on the Tracks. Ho notato che è un lapsus che commettono in parecchi – è come se Planet Waves avesse qualcosa che implora di passare inosservato. Qualcosa come… come…

Come un ritorno di fiamma che non ha funzionato.

(Del resto è mai successo che funzionasse?)

cahoots

Credevo di essermi scrollato di dosso le meraviglie e i fantasmi della mia giovinezza. Giorni piovosi nei Grandi Laghi, a spasso sulle colline di Duluth. C’ero io e Danny Lopez, dagli occhi freddi come la notte nera e c’era anche Ruth. C’è qualcosa di te che mi riporta a una verità dimenticata da tempo. 

Non funziona mai. Non importa quanto siate disperati, quanto ci siate riavvicinati, quanto vi stiate impegnando: tempo due settimane, un mese, e starete litigando per gli stessi antichi motivi. La Band aveva bisogno di Dylan per superare le lotte intestine e disintossicarsi; Dylan aveva bisogno della Band per non impazzire a Malibu mentre la moglie gli spostava per l’ennesima volta la posizione del camino nel soggiorno. Avrebbe dovuto filare tutto liscio. Erano grandi stavolta, erano professionisti, avevano avuto altre esperienze e sapevano come fare a farla funzionare, almeno questa. E invece si rimisero a suonare all’infinito la stessa canzone senza che Dylan riuscisse a spiegare cos’era che non funzionava. Le stesse, perverse dinamiche di tanti anni prima. La canzone in questione era, significativamente, Forever Young. Dylan l’aveva scritta durante la permanenza sul folle set di Pat Garrett, paradossalmente uno dei momenti più felici per la sua ispirazione: anche Knockin’ on Heaven’s Door viene da lì. Knockin’ era perfetta per il film; Forever Young rimase nel cassetto ancora per un po’. Non sapeva cosa farci. Cioè: era chiaro che ci avrebbe fatto un sacco di soldi. Ma esitava. Cosa avrebbe perso nella transizione? Un po’ di credibilità, un po’ di… giovinezza?

Eppure su Google i primi sono ancora
gli Alphaville, incredibile.

Era un brano dal potenziale altissimo. Il testo è semplice, una variazione sul tema della lista (o anafora), simile ad altri suoi brani discograficamente fortunati, All I Really Want to Do e Rainy Day Women (in seguito verranno Gotta Serve Somebody ed Everything Is Broken). L’argomento è una tipica ossessione dylaniana: la necessità di essere giovani, la lotta contro un invecchiamento morale prima che anagrafico. Ma varcata la boa dei trenta, Dylan non può più come in My Back Pages permettersi di rivendicare il suo ringiovanimento, senza rischiare di passare per uno di quegli adulti patetici che cominciano a frequentare palestre e tingersi i capelli. Forever Young è anche un paradosso: è evidente che chi la canta non è più davvero giovane da un po’.

Che tu cresca per essere giusto, che tu cresca per essere sincero.
Che tu conosca sempre la verità, e vedere luce intorno a te.
Che tu sia sempre coraggioso, sempre saldo sui tuoi piedi,
che tu possa essere
per sempre giovane.

È una canzone che implica la paternità – la prima, direi, in cui parla in seconda persona a un figlio. È anche la canzone di Dylan che più si avvicina a un testamento morale: nel senso che se uno si domandasse cosa significa essere Per Sempre Giovane, Dylan qui per la prima volta avrebbe delle risposte: significa aiutare gli altri e farsi aiutare, significa sincerità e rettitudine, etica del lavoro e “forti fondamenta” che non cedano al “vento del cambiamento”. Insomma è una canzone in cui finalmente papà Dylan scopre le carte e ci mostra la sua scala di valori – a costo di perdere la mano col pubblico, perché tutto sommato si tratta proprio dei valori di un onesto lavoratore del Midwest. Era una canzone che avrebbe funzionato: in radio, sul palco, in classifica. Dylan ormai aveva l’esperienza sufficiente per capirlo subito. Ma forse lo avrebbe anche rovinato. Forever Young scorreva troppo liscia, credo che quando l’abbia scritta Dylan abbia sentito come se improvvisamente il piano si stesse inclinando; magari di pochissimo ma adesso scendeva, verso cosa? forse verso il rincoglionimento? Figlio mio, comportati bene e non smettere mai di lavorare, e resterai Per Sempre Giovane. Mio Dio. Ci vorrebbe un arrangiamento che prendesse le distanze, qualcosa di dissonante. La Band avrebbe dovuto capirla, questa cosa.

Che ci fa un angioletto come te
in una storiaccia del genere?

Ma – questo è il punto – la Band non capiva, neanche stavolta. Erano vecchi amici, sul palco s’intendevano al volo, conoscevano Dylan da quando erano ragazzini, eppure… non erano fatti per stare assieme, tutto qui. Planet Waves, se proprio vogliamo, potremmo ricordarlo come la cronaca di come andò l’ultima volta che provarono a mettersi assieme: dalla smagliante introduzione chitarristica di Robertson a On a Night Like This, fino a quel senso di spossatezza e nessuno-sta-andando-a-buttare-la-spazzatura di Wedding Song. Gran parte delle sessioni se ne andarono in realtà nel tentativo di capire cosa voleva fare Dylan con Forever Young: lui ovviamente era il primo a non avere una chiara idea in testa. Lavoravano in uno studio di Los Angeles, assistiti da Bob Fraboni, un tecnico del suono che aveva fatto la gavetta con Phil Spector e lavorato con gli Stones. Se Forever Young fu davvero pubblicata nel ’74 nella sua versione più famosa (quella lenta), lo dobbiamo a Fraboni. La storia è nota: dopo una serie di tentativi infruttuosi, finalmente erano riusciti a registrare questa versione che Fraboni definiva “immediata”, “potente”, “avvincente” (anche se per me quando parte l’armonica è come se tutti se ne stessero andando per i fatti loro; ma forse non si poteva pretendere di più). A un primo ascolto anche il silenzio di Dylan si lasciava interpretare come un segno di assenso: questa sì, questa funziona. Ma poi… (continua sul Post)

Bob Dylan, cinema, musica

Pat Dylan e Bobby the Kid

Pat Garrett and Billy the Kid (1973; colonna sonora originale dell’omonimo film)

(Il disco precedente: Greatest Hits II.
Il disco successivo… si dimentica facilmente).

Oltre il fiume spareranno a vista:
lo sceriffo è già sulla tua pista.
I bounty killer ti hanno sulla lista.
Non gli gusta la tua libertà.

È un film imbottito di scene madri, ma la più famosa non è stata girata: nel buio della sala di proiezione, mentre guarda i giornalieri, il grande Sam Peckinpah, (ubriaco, una pistola carica in tasca), si rende conto che una lente è difettosa, che il lavoro di un’altra giornata va sbattuto via. Furioso, si alza, si sbottona e lascia sul telo dello schermo il suo segno – una “S” di urina. Dietro di lui, Bob Dylan si volta verso Kris Kristofferson: non dice niente, ma quello sguardo Kristofferson non lo dimentica più. Kris, ma in che pasticcio mi hai portato?

Passi notti intere, giù in Berenda,
a smazzare carte in un’hacienda,
finché trovi uno che ti stenda,
Billy, se hai bisogno, sono qua.

Un pasticcio che non si sarebbe perso per niente al mondo. Un film sul più famoso fuorilegge del west. Girato dal regista del Mucchio Selvaggio. Nei panni del protagonista l’amico Kristofferson, quel bel cantante country che qualche anno prima aveva retto i bonghi durante la registrazione di Lay Lady Lay. Talmente ghiotta era l’occasione di recitare e scrivere una colonna sonora western, che Dylan, per una volta nella sua vita, si presentò coi compiti fatti. Peckinpah, per dirla con Kristofferson, “non s’intendeva molto di musica”, insomma non aveva la minima idea di chi fosse quel trentenne ricciolino che Kristofferson gli stava presentando. Ma il tizio aveva già Billy in canna. Gliela fece sentire. Scritturato. A Billy non si resiste.


Fai la festa a qualche señorita,
nell’ombra di una camera ti invita,
nel buio solitario lei ti guida…
Billy, a casa non ci torni più.

Voi fischiettate ogni tanto? Se vi capita, e se amate Dylan, ci siamo già capiti. Billy è l’abc, il pezzo dylaniano più fischiettabile. Si può andare avanti per giorni interi, e per milioni di variazioni sullo stesso tema triste. “Billy, you’re so far away from home“. Che ti è successo, Billy? Quale ingiustizia, quale imprudenza, ti ha portato così lontano? Quando i redattori di Mojo stilarono la classifica delle cento canzoni di Dylan, si scordarono di Billy. Sarà gente che non fischietta. Forse è un dono di natura, c’è chi ci nasce e c’è chi per capire Dylan è costretto a cercare barlumi di genio in dozzine di dischi opachi, quando basterebbe saper fischiettare Billy. Una delle melodie più semplici che abbia usato: una di quelle canzoni per cui vale la pena citare Robertson a proposito delle canzoni della Cantina: “non si capiva se fossero sue o no”.

Nessuno, che io sappia, contesta a Dylan la paternità della melodia di Billy. Allo stesso tempo, è così basica che sarebbe veramente strano se l’avesse scoperta proprio lui. La incide in tre versioni diverse, come se non sapesse come riempire il disco (e invece parecchio materiale restò fuori). La maneggia come se fosse un interprete, anzi tre interpreti diversi: come se non fosse sua, ma un brano tradizionale che si può leggere in tanti modi e stravolgere a piacere. Come se la stesse cercando, per tentativi: è in cerca di Billy, come in Self Portrait era in cerca di Little Sadie. Se quel disco era l’autoritratto di un cantautore attraverso cover di altri artisti, Pat Garrett è il disco meno personale di Dylan (il primo che non ha la sua faccia in copertina), malgrado non ci sia una nota, una sola parola che non abbia scritto lui.

C’è chi prende mira dietro a specchi,

fori di pallottola sui tetti,
se non muori presto o tardi, invecchi:
Billy, sei rimasto solo tu.

Oggi Billy sembra fatta apposta per un western – il tema ideale qualsiasi panoramica in cui su un tramonto si stagli il profilo di un cowboy dal destino segnato – ma è un errore di prospettiva: prima di Billy le canzoni del film western erano diverse. Le scrivevano i migliori compositori sul mercato. Liberty Valance è di Bacharach (ha anche scritto Rain Keeps Falling On My Head per Butch Cassidy, ma non credo che si possa considerare un brano western). Ci mettevano un sacco di stilemi riconoscibili a colpo sicuro – chitarre country, violini, voci virili, qualche messicanismo – e ritornelli orecchiabili. Dylan i violini ce li ha, di chitarre quante ne vuoi (c’è Roger McGuinn alla 12corde, è la prima volta che incidono assieme); per la voce virile può fare un tentativo, ma Billy è tutta un’altra idea del west. Più elegiaca, più minimale. Può piacere o non piacere, ma finalmente è un’idea – da quand’è che non gliene veniva una?

Billy è il punto di arrivo di un sentiero accidentato che partiva dal 1967, dalla Cantina e da John Wesley Harding – un percorso ascetico, a ben vedere. Via il ritornello, via gli orpelli inutili: un tema solo, insistente come il blues, e in grado di sopportare centinaia di strofe. Quel tipo di ballate che secondo lui una volta la gente ascoltava per ore e ore, prima dell’avvento della radio e del cinema. Billy è già a suo modo un film. La storia che racconta non è molto più oscura ed episodica del copione che Peckinpah si era riscritto. C’è un bandito che dovrebbe fuggire, e invece gira in tondo. C’è uno sceriffo che (spoiler) lo ucciderà, ma un tempo era un suo amico. Le strofe che seguono non sono che variazioni sul tema del conflitto a fuoco. Due canaglie giocano a nascondino in una prateria senza senso, chi non è sceriffo è ladro di bestiame. Entri in saloon da assassino, ne esci con la stella di latta sul petto. In che pasticcio mi hai portato, amico?


Dormi con un occhio mezzo aperto
se con Garrett hai quel conto aperto.
Ogni suono è il La per il concerto
che la sua pistola suonerà.

In che pasticcio mi hai portato, Kris? Mettetevi nei panni di Bob Dylan, per una volta. Ce l’ha fatta: finalmente è sul carrozzone di Hollywood. Gente seria, valori solidi, mica quella bolla di sapone che è il mondo musicale, schiavo dei capricci di ascoltatori teen-ager e critici ventenni. Qui c’è gente che ha fatto la guerra, gente che ha già il suo nome scolpito sul marmo della Storia, James Coburn con tutte le sue meravigliose rughe (non le fanno più delle facce così), e Sam Peckinpah. Questo è il mondo degli adulti: Coburn e Peckinpah. Insieme per lavorare a qualcosa che andrebbe a vedere anche Abram Zimmerman, se fosse ancora al mondo – e sui titoli avrebbe visto il nome finto di suo figlio accanto a quello di quei grandi. Ce l’hai fatta, Robert “Bob Dylan” Zimmerman. Non sei più il ridicolo ‘portavoce’ di un evanescente ‘generazione’. Sei un musicista dal talento riconosciuto e un caratterista di buon livello. Sennonché.

Sennonché siamo nel 1973, e anche il mondo degli adulti sta andato a puttane. Il grande Sam Peckinpah è un alcolizzato furioso che tutte le notti spara alla sua immagine nello specchio. Litiga coi produttori, litiga coi collaboratori, col cast, prima o poi se la prenderà anche con Dylan. Il copione è un casino, sul set a Durango gira di tutto, compreso il virus dell’influenza. Perderanno un sacco di tempo, e alla fine il regista abbandonerà il film al suo destino. Montato alla benemeglio, stroncato anche dai fan di Peckinpah, il disastro eclisserà il valore della colonna sonora – sapete chi ha vinto l’Oscar alla migliore canzone del 1973? Barbra Streisand, The Way We Were. Ora non dico che Billy avrebbe avuto una chance (in lizza c’erano anche Jesus Christ Superstar Live and Let Die, fu un anno durissimo), ma Knockin’ on Heaven’s Door non si meritava una nomination? Il fatto è che per qualche tempo nessuno si accorse che per quel film sfortunato Dylan aveva scritto uno o due capolavori.

Viene il sospetto che il vecchio Sam avesse capito prima di tutti, e meglio di tutti… (continua sul Post).

Bob Dylan, musica, razzismi

Il disco più venduto e la canzone più nascosta

Bob Dylan’s Greatest Hits Vol. II (1971)
Il disco precedente: Another Self Portrait.
Il disco successivo: Pat Garrett & Billy the Kid

Watching_the_River_Flow_Dylan
Sto notando come l’estetica dei 45 giri sia molto diversa da quella dei 33: più effimera, dozzinale (foto scadenti, font pacchiani), forse più genuina. I 33 giri vanno sui libri di storia, i 45 sono polaroid imbarazzanti che rimettono in discussione la memoria consolidata.
Cosa c’è che non va con me? È che non ho molto da dire.
Dev’essere arrivata come una progressiva illuminazione: a un certo punto del tardo 1970 Dylan si rese conto che nessuno lo costringeva più a scrivere o incidere canzoni, se proprio non ne aveva voglia. Fu l’uovo di Colombo. Così, dopo sei mesi trascorsi a registrare due dischi di canzoni insoddisfacenti, sue e di altri, Dylan finalmente accettò che non aveva molto da dire e che tutto sommato andava bene così. Una volta accettata, era un’idea talmente forte che… ci scrisse una canzone e la incise come singolo. Non è sorprendente che Watching the River Flow fosse un blues. Dylan ha questa arma segreta nel cassetto: quando non sa cos’altro fare, può sempre fare un blues ed essere abbastanza tranquillo del risultato perché anche se di solito è occupato in altre cose, a tempo perso è uno dei più grandi bluesman viventi. Watching non sarebbe niente di speciale, se non fosse il primo brano di Dylan prodotto a New York da Leon Russell, il pianista dall’Oklahoma che aveva già reso credibile in America il r’n’b inglese di Joe Cocker. Con tutto questo, rimane un pezzo fresco ma trascurabile, come la telefonata a un amico che non ha niente da dirti ma vuole farti sapere che va tutto bene: nulla di memorabile, ma fa piacere ascoltarla. Una telefonata del genere, nel ’71 sembrava a ancora in qualche modo necessaria. La gente continuava a chiedersi: ma come sta BD? Perché non fa concerti? Perché non rilascia interviste?

Leon Russell (wikipedia).
Leon Russell, nel ’70, capisci che poteva rubare la scena a Joe Cocker (wikipedia).
Già, perché? Perché non aveva niente da dire. A New York, dove si era ritrasferito con la famiglia sperando di passare inosservato come una rockstar tra tante, riusci a stanarlo solo Weberman, il “dylanologo”, uno stalker che rovistava nei suoi rifiuti e che lo accusava a turno di antisemitismo e filosionismo; in estate una giornalista israeliana riuscì a scovarlo sulla spiaggia a Tel Aviv e a essere trattata con insolita gentilezza: ma anche con lei Dylan non poteva che restare sul vago. Prendeva il sole, badava ai figli, riorganizzava i suoi affari (le cause con Grossman si sarebbero trascinate ancora per anni), un giorno sarebbe senz’altro tornato a incidere e fare concerti, ma quando? Chissà.
Poi, un mattino d’autunno, si svegliò in lacrime: cos’era successo? “Hanno sparato a un uomo a cui volevo davvero bene. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson. Signore, Signore, lo hanno steso a terra”.

Angela Davis
Angela Davis non c’entra quasi niente con questa storia. Passò qualche guaio perché le armi usate da Jonathan Jackson per il sequestro erano registrate a suo nome. Esistono foto pazzesche di Jackson che tiene il giudice per il collo, ma non sono di dominio pubblico.
George Jackson era del ’41, come Dylan, come Ritchie Valens, come David Crosby e altri personaggi con i quali Dylan in Chronicles suggerisce di trovarsi in particolare sintonia. Dylan compié trent’anni in maggio; Jackson li avrebbe fatti a settembre ma una guardia carceraria gli sparò un mese prima. Nell’anno in cui Dylan era arrivato da Minneapolis a NY, George Jackson era entrato nel penitenziario di San Quentin, per una rapina a mano armata a un benzinaio (70 dollari di bottino). Ne era uscito soltanto nove anni dopo, e soltanto per essere trasferito nel carcere di Soledad, California. Nel frattempo si era radicalizzato, aveva studiato Marx, Engels, Mao, aderito alle Pantere Nere, tentato uno sciopero della fame con due compagni (i “fratelli di Soledad”), vendicato un eccidio di prigionieri partecipando all’assassinio di una guardia carceraria, e ora era in attesa di giudizio per quest’ultimo crimine, con l’alta probabilità di essere giustiziato in una camera a gas. All’inizio di agosto suo fratello diciassettenne, Jonathan (guardia del corpo di Angela Davis), aveva provato a liberarlo, a modo suo: irrompendo in un tribunale e prendendo in ostaggio tre giurati e un giudice – a quest’ultimo aveva fissato al collo una mitraglietta col nastro adesivo. Appena cercò di uscire lo freddarono, e morì anche il giudice. Due settimane più tardi, dopo un colloquio con il suo avvocato, George Jackson si sfilava una pistola da una parrucca e tentava la sua ultima fuga da Soledad. E in novembre Dylan pubblicò George Jackson. Dopo aver protestato per un anno la sua mancanza di idee, decise di confessare il suo amore, proprio così, dice “amore”, per un galeotto maoista che aveva gettato il corpo di una guardia dalla finestra. “Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, non si sarebbe mai messo in ginocchio. Le autorità lo odiavano perché era troppo vero. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson”.

attica
Il carcere di Attica
Più di un biografo ha presentato George Jackson – il singolo – come una mossa istintiva, dettata dall’emozione: Dylan non voleva certo tornare alla musica di protesta, ma un mattino si è svegliato in lacrime e l’ha scritta e registrata in tutta fretta. Niente calcoli, solo sentimenti. Il calendario ci dice un’altra cosa: tra fine agosto e metà novembre Dylan ha avuto tutto il tempo per riflettere su quel che stava facendo. Sapeva che George Jackson non era il solito mitico fuorilegge delle ballate, ma un criminale morto di fresco che ancora terrorizzava i benpensanti, l’eroe dei Weathermen, i bombaroli che avevano preso il nome dal verso della sua Subterranean Homesick Blues. Sapeva che la morte di Jackson era stata una delle scintille della strage di Attica, un penitenziario sulla costa opposta degli USA dove Pantere Nere e Musulmani Neri avevano organizzato una delle rivolte carcerarie più famose della storia, soffocata nel sangue. Sapeva tutto questo e la incise lo stesso – dopo aver corteggiato il pubblico conservatore del Johnny Cash Show e aver messo in giro voci su una sua possibile conversione all’ebraismo chassidico, scrisse un’elegia per un rivoluzionario maoista che aveva ucciso una guardia e aveva usato le sue ultime parole per citare Ho Chi Minh: “Signori, il dragone è arrivato”.

11. The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
In seguito forse se ne pentì: non risultano esecuzioni live di George Jackson, e la canzone, nella sua versione “big band” (quella sul lato A del 45 giri) è una delle sue poche irreperibili su Spotify. Era stata ristampata in una raccolta degli anni Ottanta che è stata ritirata anche dal catalogo di iTunes. Su Spotify resiste invece la versione acustica – il lato B, in sostanza la prova per sola chitarra e armonica – che resta comunque una gran bella canzone. Per qualche motivo, Dylan preferirebbe che la riascoltassimo soltanto così. Senz’altro, se il valore di Jackson risiedeva nell’essere “vero”, la versione acustica è la più adeguata, la più “vera”, più facilmente interpretabile come lo sfogo di un momento – una cosa registrata ancora con le lacrime agli occhi – e non un’operazione condotta a tavolino, un singolo ispirato a un fatto di cronaca e registrato con fior di musicisti invitati per l’occasione. Dylan può convivere con molti suoi errori del passato, ma forse non col sospetto di avere speculato su una tragedia più grande di lui.
Le guardie lo maledicevano, osservandolo dall’alto: ma erano terrorizzati dal suo potere, spaventati dal suo amore. Oh, Signore, hanno fatto secco George Jackson…
gh2Nei fatti il singolo non uscì ‘a caldo’, ma a distanza di mesi, e in concomitanza con uno dei colpi commerciali più fortunati della carriera di Dylan: il secondo volume (doppio) di Greatest Hits, a sua volta pubblicato sull’onda del successo del doppio concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden. Greatest Hits II uscì più o meno quando il film del concerto arrivava nelle sale: un ottimo sistema per tenere buoni i dirigenti della Columbia che senza un disco di Dylan sugli scaffali ogni dieci mesi evidentemente smaniavano. In seguito qualche biografo ha definito il biennio ’71/’72 come gli “anni persi” di Dylan – mi domando quale musicista oggi non amerebbe “perdere” due anni a incidere When I Paint My Masterpiece George Brown e a comporre (nel ’72) Knockin’ on Heaven’s DoorBilly Forever Young. Tutta roba che Dylan ha scritto in un periodo in cui era convinto di soffrire di una crisi creativa.

the concert for bangla desh
La copertina più triste di sempre?
In seguito ci capiterà di ripensare con nostalgia a una “crisi” del genere. Ne avesse avute altre due o tre, e ci ritroveremmo con quattro o cinque dischi in meno e una dozzina di capolavori in più. Nel 1971 non aveva affatto smesso di scrivere ottime canzoni: semplicemente aveva smesso di scriverne di inutili. Ed era ancora in grado di fare ottimi concerti, se solo ne avesse avuto voglia. Quello per il Bangladesh è commovente: il trionfo di due rockstar loro malgrado – Harrison e Dylan, una più introversa dell’altra. Pare fossero entrambi terrorizzati. Per una serie di circostanze indipendenti dalla loro volontà – Lennon e McCartney non si parlavano, i Rolling Stones erano fuggiti in Francia per problemi fiscali, Eric Clapton si stava disintossicando – questi due divi recalcitranti erano diventati il punto di riferimento di tutta la scena. Non fosse stato per il Bangladesh, avrebbero disertato pure loro. Ma George Harrison non poteva dire di no a Ravi Shankar che raccoglieva fondi per la sua gente travolta dall’alluvione, e Dylan non disse di no a Harrison – non disse neanche di sì, fino all’ultimo momento. Sulla scaletta che Harrison aveva attaccato con lo scotch al retro della chitarra, a un certo punto c’era scritto, semplicemente: “BOB?” Non fu sicuro finché non lo vide salire sul palco e imbracciare una chitarra. Tremava. Harrison, Ringo Starr (tamburello) e Leon Russell (a basso) gli diedero una mano in A Hard Rain’s A-Gonna FallBlowin’ in the WindIt Takes a Lot to LaughLove Minus Zero Just Like a Woman. La gente tornò a casa pensando: ho visto Dylan suonare con metà dei Beatles. Qualcuno senz’altro sarà rimasto deluso lo stesso, qualcuno scommetteva di vedere una reunion dei Beatles a sorpresa. La foto di copertina di Greatest Hits II è presa dal concerto.

Forse è il caso di tranquillizzare i lettori… (Continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Altri autoritratti

Another Self Portrait (1969–1971) (The Bootleg Series Vol. 10, 2013).
(Il disco precedente: New Morning
Il disco successivo: Greatest Hits II).
Another Self Portrait“Come sarebbe a dire, un’altra merda?”
Ho cominciato a dedicare un pezzo a ogni disco di Dylan nel dicembre dell’anno scorso. Ne ho scritto uno alla settimana; siamo in maggio e stiamo finalmente uscendo dagli anni ’60 (il 1970 tecnicamente fa parte degli anni ’60, lo so, non ha senso). Se non mi ammalo, se non mi promuovono a un ruolo di più grandi e onerose responsabilità, se non mi stanco, se al Post non mi chiudono l’account (nel caso, come biasimarli), se continuo a scrivere un pezzo alla settimana, a Natale dovrebbe uscire la recensione di Christmas in the Heart. Non è un bell’obiettivo? Sarà bellissimo, un quell’ovattata atmosfera scampanellante, scrivere due cazzate su Christmas in the Heart. Invece adesso è maggio e bisogna scrivere un pezzo su Another Self Portrait. Conoscete qualcuno che abbia ascoltato tutto Another Self Portrait?
Che fretta hai? Guarda un po’ qui,questo è il numero che non ti devi perdere.Annie canterà la sua canzone, si chiama Take Me Back Again
(L’ha scritta Tom Paxton, il primo folksinger del Village che cominciò a scriversi le canzoni da solo, qualche mese prima che ci arrivasse Bob Dylan. È ancora in attività).
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Self Portrait, Bob Dylan, 1970.
Del Dylan pittore non m’intendo molto, ma la sua copertina per Another Self Portrait è molto significativa (forse è la cosa migliore di tutto il cofanetto). L’autoritratto su sfondo nero assomiglia a Dylan ma non assomiglia a nessun altra foto o ritratto di Dylan. Richiama irresistibilmente quello che un Dylan molto più giovane e goffo sbozzò sulla copertina di Self Portrait nel 1970. È come se il Dylan più anziano ed esperto abbia rimesso mano alla stessa tela, miracolosamente ancora fresca di pittura, e l’abbia rimaneggiata fino a trasformarla in quell’autoritratto che 40 anni prima era venuto un po’ troppo naif e pasticciato. Col nuovo ritratto insomma Dylan ci dice che (1) ha finalmente imparato a dipingere; (2) nel 1970, più che provocatorio, era incapace, e 40 anni dopo sente ancora il desiderio di correggersi; (3) i ricordi non si congelano in canzoni o fotografie; i ricordi sono pittura sempre fresca, che in qualsiasi momento si può rimescolare, per errore o per nostra volontà. Quello che Dylan fa al suo ritratto, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno ai nostri ricordi. Cambiamo ogni cosa che ricordiamo: rendiamo i noi stessi di venti, di trent’anni fa, più simili a noi di quanto non fossero davvero. Di loro vediamo soltanto quello che preferiamo vedere, quello che ci aiuta a capire o spiegare chi siamo noi adesso. Chi conserva diari o foto conosce il fenomeno: la persona che ricordiamo è molto diversa da quella che risulta dai suoi scritti e sulla pellicola. Dylan ha i suoi ricordi – e li modifica continuamente – ma ha anche una quarantina di dischi che non credo riascolti spesso. Gli devono dare la stessa nausea che una volta ci dava la nostra voce registrata. Molto spesso quando ne parla li confonde, si capisce che li conosce meno dei suoi intervistatori.
chronicles IPer esempio: nel capitolo di Chronicles I dedicato a New Morning, mentre racconta dell’ansia e della paranoia indotta dagli hippy che lo venivano a cercare a Woodstock salendogli sul tetto o intrufolandosi in camera da letto, Dylan racconta una serie di espedienti che avrebbe consapevolmente adoperato per disperderli. Il primo che gli viene in mente (e che non risulta, mi pare, in altre biografie) fu “versarmi una bottiglia di whisky sulla testa, entrare in un grande magazzino e guardarmi in giro con gli occhi sbarrati da ubriaco, sapendo che tutti si sarebbero messi a parlare tra loro non appena me ne fossi andato“. Fingersi sbronzo era una vecchia tattica che usava già negli anni del Village. Quanto al secondo espediente: “Andai a Gerusalemme e mi feci fotografare al Muro del Pianto con uno zucchetto in testa. La fotografia fu trasmessa istantaneamente in tutto il mondo e i giornali scandalistici mi trasformarono subito in un sionista. Questo mi aiutò un poco“. E questo è tutto quello che Dylan avrebbe da dire sul suo primo riavvicinamento all’ebraismo – eppure il biografo Howard Sounes sostiene che in quegli anni stava meditando di aderire al chassidismo, forse di trasferirsi in Israele (in un kibbutz, scrive: magari fu un’altra cosa che lasciò detta in giro per scherzo).
In Chronicles qualsiasi conversione è rinnegata, indossare una kippah è come rovesciarsi whisky addosso, un camuffamento, un ingaglioffimento. Anche incidere certi dischi ha lo stesso senso: “Di ritorno, registrai un disco che aveva l’apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa. […] Dagli articoli che uscivano su di me risultava che stavo cercando me stesso, che ero entrato in un processo di ricerca spirituale, che soffrivo di tormenti interiori. A me andava tutto bene. Feci uscire un disco (un doppio) dove non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello“.
Dunque. Il disco doppio è senz’altro Self Portrait, di cui Dylan ribadisce la natura di gesto provocatorio (“tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano“) ma anche la consistenza, per così dire, escrementizia: le canzoni che vengono scelte per il disco sono quelle che restano attaccate. Metafora meravigliosa: una delle qualità delle canzoni è appunto il modo in cui si attaccano e non riesci più a dimenticarle. Non ha niente a che vedere con l’estetica, ci sono canzoni belle che non si attaccano e canzoni brutte che non si staccano più. Anzi se c’è correlazione forse è inversa: più sono brutte più sono catchy, appiccicose. Pensate a Wigwam, o a Belle Isle.
Bob_Dylan_-_Dylan_(1973_album)Ma se l’originale Self Portrait è la raccolta delle canzoni che sono rimaste attaccate al muro, qual è il disco che raccoglie “il resto che non ci era rimasto attaccato“? L’ipotesi più ovvia è che stia parlando del famigerato Dylan, il disco che raccoglieva, appunto, scarti di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Salvo che uscì soltanto nel 1973, e Dylan sta raccontando dei suoi problemi intorno al 1970. Non solo, ma qui nella foga di ridisegnarsi il passato su misura, Dylan si attribuisce addirittura la responsabilità di aver pubblicato l’orrido disco del 1973, di essere andato lui in persona “a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato“. Sappiamo che le cose non possono essere andate così: la Columbia pubblicò Dylan nel breve periodo in cui l’artista era passato alla AsylumE quando tornò all’ovile, Dylan si oppose in tutti modi alla ristampa del disco. Negli ultimi anni tuttavia si è rassegnato a inserirlo nel catalogo. In compenso quello che scriveva dell’orrido Dylan si può applicare ad Another Self Portrait, uscito solo nel 2013, che raccoglie in un grazioso cofanetto le prove di lavorazione di Self Portrait e di New Morning. Qualcuno, evidentemente, ne sentiva la necessità. O se preferite: nel 1970 aveva inciso le cose rimaste appiccicate al muro; nel 1973 quelle che erano cadute sul pavimento, e nel 2013 ha raschiato parete e pavimento per regalare ai suoi fan Another Self Portrait.
E i fan, indovinate? Ringraziano.
E i critici? (Continua sul Post)
Bob Dylan, musica

Il poeta, lo zingaro e il Padre

New Morning (1970)

(Il disco precedente: Dylan
Il disco successivo: Another Self Portrait).


Sono andato a vedere lo zingaro, che stava in un grande hotel. Mi ha sorriso quando mi ha visto arrivare, e ha detto: “Bene-bene-bene”. La sua stanza era buia e affollata, le luci basse e offuscate, “Come stai?”, mi ha chiesto; e io gli ho risposto lo stesso.

Di tutti i brani bizzarri e incongruenti di New Morning, il più strano resta Went to See the Gypsy. Per un attimo i versi tornano a essere lucidi e inconsistenti come nei momenti più enigmatici di John Wesley Harding. La melodia è inafferrabile, al punto che Al Kooper non riusciva a trovare un modo di arrangiarla: non è un giro armonico, non c’è una strofa o un ritornello, tutto gira intorno a un accordo che cambia ogni tanto, in modo prevedibile e tuttavia imprevisto, una specie di trance onirica. Come nei sogni degli adulti, non è che succeda un granché. Dylan sente di essere al cospetto dello Zingaro, e che ogni discorso sarebbe insoddisfacente. Tutto quel che sente è “Bene bene” e “Come stai?”: Dylan risponde ripetendo la domanda. A quel punto lo Zingaro potrebbe ripetere “Bene”, e il sogno si avviterebbe su sé stesso. Ma all’improvviso Dylan non è più lì: si ricorda che deve fare una telefonata. Se è il 1970, di sicuro deve telefonare a casa per sapere come stanno i bambini. Sembra che non riesca a pensare ad altro: la famiglia, i bambini, la vita è tutta qui. E poi di nuovo all’improvviso spunta dal nulla una ballerina: perché non sei più con lo Zingaro? Questo era il sogno dello Zingaro! Ritorna da lui. “Lui può tirarti fuori dal retro (He can move you from the rear), condurti lontano dalla tua paura, attraverso lo specchio. Lo ha fatto già a Las Vegas, lo può fare anche qui”. Quindi almeno sappiamo che non siamo a Las Vegas. Ma siamo sicuramente in un sogno, perché – come capita nei sogni – indietro non si torna. Dylan ci prova: la porta è aperta, ma lo Zingaro se n’è andato. In compenso ha scoperto dov’è: in Minnesota. A quel punto può svegliarsi. Ha visto lo Zingaro. Non è che ci abbia parlato. Ma non c’era niente che ci si potesse dire, in fondo. Avrà funzionato?

Dylan non ha mai voluto incontrare Elvis Presley, da sveglio. Altri approcci con i divi di quell’era forse lo avevano intimorito (Jerry Lee Lewis era stato molto brusco). Non sarebbe stato difficile organizzare un incontro a Las Vegas o Graceland, ma cosa ne avrebbe guadagnato? A inizio anni ’70 Presley non era ancora quell’entità più grande della vita e del rock’n’roll che sopravviveva fagocitando sé stessa. Dylan deve averci pensato. A un certo punto delle sessioni di New Morning voleva registrare finalmente Tomorrow is a Long Time, un suo brano dei tempi dei Witmark Demos che Elvis aveva ascoltato nella versione di Odetta e registrato in un disco del 1966, uno dei momenti opachi della sua carriera. Di nessuna cover Dylan si dichiarava più fiero che di quella di Elvis.

Non è curioso che nel 1970 gli capitasse di pensare più spesso al Re. Aveva venerato altri musicisti più o meno famosi, e aveva conosciuto altri cantanti caduti in disgrazia, ma solo a Elvis era riuscito il secondo avvento: lo strepitoso ritorno alla forma avvenuto nel Natale del 1968, dopo gli anni bui passati a girare pessimi film e registrare mediocri colonne sonore. Due anni dopo Elvis trionfava incontrastato nella Mecca che un tempo lo aveva respinto, Las Vegas. La domanda inconfessabile che grava sulla nebbia di Went to See the Gypsy non può che essere: potrò tornare anch’io, dal retrobottega al palcoscenico? Perché ultimamente non so più cosa sto facendo. La gente continua a comprare i miei dischi, ma io non mi riconosco più nelle mie canzoni. All’inizio era un gioco, ma adesso davvero non so più dove sono. Ci sarà un Nuovo Mattino, anche per me? Il primo titolo proposto da Dylan era molto diverso: Down and Out on the Scene, Derelitto sul palco. Una pessima idea, ancorché sincera.

È da un po’ che Dylan si agita sul ring come un campione suonato. Dopo aver pestato come un fabbro per otto round, da qualche tempo ha iniziato a fare mosse veramente strane, a incassare colpi assurdi. Sulle prime abbiamo pensato che scherzasse, o che la tirasse in lungo per questioni personali – magari ha promesso all’impresario di far durare l’incontro fino al quindicesimo, va’ a sapere. Dai, smettila Bob, lo sappiamo che sai fare meglio di così. New Morning è il momento in cui cala la maschera: qui Dylan non sta cercando di fare il cowboy o il crooner. Non sta fingendo, non sta scherzando coi suoi compari in cantina, non fa il buffone, non vuole allontanare un pubblico molesto o vincere una scommessa. In New Morning Dylan vuole ricominciare a fare sul serio. Vuole ritrovare sé stesso. Salvo che non ci riesce. Sé stesso non c’è più.

Lo vedi andare al tappeto e non sta fingendo: sembra proprio cotto.

New Morning – che è senz’altro un disco migliore di Self Portrait – può essere più deprimente da ascoltare. Se più che Dylan ti interessa la musica, è molto facile che tu ti chieda spesso: tutto qui?Qualche melodia graziosa (If Not For You), ma cantata e arrangiata in modo approssimativo, ai livelli dell’autosabotaggio; qualche esperimento potenzialmente interessante, ma lasciato a metà (If Dogs Run FreeThree Angels). Se invece più che la musica ti interessa Dylan, New Morning è uno snodo fondamentale – il diario dell’anno 1970. Uno dei due album che sceglie di raccontare in Chronicles I: l’altro è Oh, Mercy. Quello che accomuna due lavori registrati a vent’anni di distanza è una certa aria di falsa partenza: dovevano essere due ritorni in grande stile, per vari motivi non lo furono. Nessuna canzone di New Morning è diventata un vero classico, Dylan dal vivo ne ha suonate solo tre. Eppure è il disco che ha voluto raccontarci per esteso. Sappiamo che Dylan sta riscoprendo la sua identità ebraica; al funerale del padre, i famigliari stupiti si accorgono che il figlio famoso conosce le preghiere di rito; sappiamo che tre canzoni furono scritte per un musical di Archibald MacLeish in cui in realtà Dylan non credette mai molto. Sappiamo che Day of the Locusts racconta il disagio provato a Princeton, mentre in una giornata afosa attendeva che gli consegnassero una laurea ad honorem (dal prato saliva la “dolce melodia” di un frinire di cicale che forse gli ricordò l’organo stridente di Al Kooper, di nuovo alla corte di Dylan dopo aver fondato, tra gli altri, i Blood, Sweat and Tears). Sappiamo che non fu affatto contento di sentirsi definire “la coscienza turbata della giovane America”, proprio in un momento in cui tra lui e la giovane America avrebbe voluto alzare uno steccato altissimo. Sappiamo un po’ di cose e alcune ovviamente non tutte sono vere. Ma non è così difficile distinguerle, ormai.

Al telefono, Johnston mi chiese se stavo pensando di incidere qualcosa. Sicuro. Visto che i miei dischi vendevano ancora, perché non avrei dovuto inciderne di nuovi? Non avevo molte canzoni, ma c’erano quelle che avevo scritto per MacLeish. Potevo aggiungerne qualcun’altra e finire il lavoro in studio se proprio dovevo, e Johnston era impaziente di cominciare. Lavorare con lui era come mettersi al volante da ubriachi. (Chronicles I).

Per esempio: non può essere andata così.  È abbastanza improbabile che le sessioni di New Morning siano cominciate perché il produttore Bob Johnston aveva voglia di “incidere qualcosa”. Non nella primavera del 1970, quando Johnston ha appena finito di remixare Self Portrait. Non siamo più nei primi anni Sessanta, non ha più nessun senso commerciale per un artista pubblicare due LP a distanza di pochi mesi – ora sarebbe una mossa autolesionista farsi concorrenza da solo. Eppure il grosso delle incisioni di New Morning, Dylan lo produce ai primi di giugno, proprio mentre SP arriva nei negozi e comincia a scalare le classifiche – perché malgrado tutto, la merda vendette bene; e le recensioni perplesse o perfide sarebbero arrivate solo nelle settimane successive.

Nel giro di una settimana ero agli studi Columbia di New York con Johnston al timone, convinto che tutto quel che incido io è fantastico. Come al suo solito. È sicuro che stiamo per fare il colpo grosso e tutto sta in piedi. Al contrario. Mai niente stava in piedi. Neanche dopo che una canzone era finita e registrata stava in piedi. 

In seguito Dylan ha più volte smentito di aver cominciato a registrare New Morning così presto per rimediare alla figuraccia rimediata con SP (“Non ho mai detto: Oddio, questo non piace – registriamone un altro“), e in un certo senso non si tratta di una bugia. Non era il giudizio altrui che temeva. Sapeva già di aver mandato fuori un disco sbagliato e no, nel 1970 non aveva ancora tutta questa voglia di trattarlo come un esperimento sociologico e lasciare che decantasse, alienando una frazione più o meno grande del suo pubblico. Col proseguire dell’estate le recensioni cominciavano a uscire, e a quel punto Dylan andò davvero in confusione, esasperando Al Kooper che si era ritrovato l’onere di lavorare agli arrangiamenti: il timoniere Johnston era assente, forse in ferie. Dylan, che era partito con l’idea di inserire arrangiamenti orchestrali come in Self Portrait, aveva scoperto che a critici e pubblico proprio non piacevano. Un giorno si era messo in testa di registrare una nuova versione di Blowin’ in the Wind; la provò quindici volte; niente da fare. “Cambiava idea ogni tre secondi”, dice Kooper, “alla fine lavorai come per tre album… Quando fu tutto finito, non lo volevo vedere più”.

Ero appena arrivato a Woodstock dal Midwest, dal funerale di mio padre. Ad aspettarmi sul tavolo c’era una lettera di Archibald MacLeish, uno dei Poeti laureati d’America.

Per più di dieci anni Dylan non ha sentito la necessità di un padre. Aveva persino rinunciato al suo nome, troppo lungo e spigoloso, retaggio di uno dei pochi passati che non gli interessava evocare – negli anni della rincorsa al successo aveva preferito rivendicare uno zio pellerossa (inesistente) piuttosto che un padre ebreo. “Probabilmente valeva cento volte quel che valevo io, ma non mi capiva”. Per molto tempo non avevano avuto niente da dirsi: Dylan scriveva canzoni per una generazione diversa. Canzoni ottime, ma incomprensibili ai padri. Poi un giorno il padre all’improvviso non c’è stato più, e Dylan ha smesso di scriverle. Magari è solo una coincidenza. Ma l’anima inquieta che si dibatte tra i solchi di New Morning – e tra le pagine dell’omonimo capitolo di Chronicles I – è un uomo solo davanti ai suoi problemi, che ha bisogno di un consiglio e non ha nessuno a cui poterlo chiedere. Non al padre, non allo Zingaro, non a Johnston il timoniere, e nemmeno ad Archibald MacLeish, poeta modernista e bibliotecario del Congresso durante l’amministrazione Roosvelt. Il capitolo comincia con l’immagine della sua lettera su un tavolo. Dylan l’ha aperta di ritorno a Woodstock, dopo aver seppellito il padre. Più chiaro di così non potrebbe scrivercelo: Dylan è in cerca di figure paterne, e MacLeish, a differenza di Abram Zimmerman, conosceva le sue canzoni. Era rimasto colpito dall’immagine di Ezra Pound e T.S. Eliot che lottano nella torre del capitano del Titanic, in Desolation Row. Per MacLeish quei due nomi non erano solo lettere dorate sulle coste dei volumi di poesia: li aveva conosciuti di persona. E adesso voleva conoscere Dylan: gli voleva proporre di lavorare con lui a un musical ispirato al racconto Il Diavolo and Daniel Webster, la storia di un americano che fa un patto col demonio. Ma Dylan di demonio non voleva sentir parlare. Non in quel momento della sua vita, almeno.

Il resoconto di Dylan dei due incontri con MacLeish è appena un po’ meno elusivo del sogno con lo Zingaro: MacLeish gli parla di letteratura, lo interroga sulle sue letture (Dylan è abbastanza onesto sulle sue lacune), lo conforta sulle sue doti di poeta. Quanto al musical sul diavolo, Dylan afferma di aver capito subito che non era materiale per lui. “Era un’opera cupa. Dipingeva un mondo paranoico, fatto di colpa e paura, in uno stato di perenne oscuramento, a testa bassa contro l’era atomica, pieno di inganni e slealtà. Non c’era molto da dire né da aggiungere“. In fondo si sarebbe potuto dire la stessa cosa del lato B di Bringing It All Back Home – MacLeish non aveva pensato a lui per caso. Invece di ritorno a casa, Dylan comincia a scrivere inni alle gioie della vita rurale: New Morning, Time Passes Slowly, e un brano che più di ogni altro assomiglia a una preghiera ebraica: Father of Night. Il titolo glielo aveva proposto MacLeish, pensando a Satana: ma il Padre della canzone è un Ente benigno “che porta via l’oscurità”. Quando nel successivo incontro MacLeish gli chiede la ragione di tanto ottimismo, Dylan non trova le parole (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Il disco che Dylan non voleva che ascoltassi

Dylan (1973, ma registrato nel 1970).

(Il disco precedente: Self Portrait
il disco successivo: New Morning).

Qual è la cosa più brutta che qualcuno che conosci potrebbe farti? per punirti, per ricattarti, per farti stare male, per farti capire che non puoi lasciarlo solo?

Nel 1973 la Columbia, appena abbandonata da Bob Dylan per l’Asylum, pubblicò un disco. Di materiale inedito. Cose che Dylan aveva registrato, che si era pentito di aver registrato, che non aveva pensato di distruggere. Cose talmente brutte che Bob Dylan cedette. Ritornò. Come clausola, chiese che il disco non fosse ristampato mai più. Ovviamente, presto o tardi la Columbia tradì il patto: di Dylan non si butta via niente. Ma per tantissimi anni quel disco, laconicamente intitolato Dylan, divenne una specie di feticcio.

Sembrava che non lo avesse ascoltato nessuno, anche se ne parlavano tutti i libri. I libri poi si limitavano ad accennare alla questione del ricatto, e ad informarci che i brani erano scarti di lavorazione di Self Portrait, un disco già così incredibilmente brutto che per qualche tempo Dylan volle farci credere di averlo inciso per scherzo. Self Portrait compare spesso (ingiustamente) nelle classifiche dei dischi più brutti di tutti i tempi: quanto avrebbe potuto essere orrendo un disco fatto di canzoni scartate da Self Portrait? Quanto doveva essere imbarazzante un disco che Dylan riuscì a non far uscire in formato cd? E Dylan di cd imbarazzanti ne ha pubblicati: ma il disco del 1974 no, quello non saltò fuori (almeno in Nordamerica) finché la Columbia nel 2013 non pubblicò un box di 35 album di studio: e a quel punto ormai di Dylan si era sentito ben di peggio. Questa rimozione lo ha reso un oggetto in un qualche modo leggendario. Self Portrait era già a suo modo un enigma affascinante; Dylan era un vero mistero. Cosa c’era di così orribile, di così inascoltabile, di così inemendabile?

Niente.

Ira Hayes è il primo a sinistra.

La verità è che Dylan non è il disastro che dovrebbe essere. Riascoltandolo – oggi che è un album tra tanti nel catalogo dylaniano di Spotify – davvero, non riesco nemmeno a confermare che sia così peggio di Self Portrait, un disco in cui nessuno dei brani di Dylan sfigurerebbe. Viceversa, Lily of the West o Ira Hayes potrebbero tirarlo un po’ su. Ma forse esagero. È che dopo aver sentito parlare tante volte del Misterioso Album Orribile, l’Album del Ricatto, quando alla fine mi è capitato di ascoltarlo partivo da un pregiudizio talmente sfavorevole che non potevo che rivalutarlo – cioè, è vero che Mr Bojangles è imbarazzante (non solo l’idea che Dylan e Robbie Williams abbiano interpretato la stessa canzone, ma che la versione di Williams stracci quella di Dylan senza pietà) – ma non riesco a odiarlo per quello, lui dopotutto mica voleva farmela ascoltare, sono io che ho insistito, io che me lo sono andato a cercare. E Can’t Help Falling In Love una volta all’anno si ascolta volentieri, basta far finta che Dylan sia tuo ospite a una cena e dopo l’amaro qualcuno gli abbia passato una chitarra. Niente di che, ma niente di così orribile.

Dylan è il gemello buono di Self Portrait. Quest’ultimo era un disco consapevolmente, deliberatamente brutto, inciso e pubblicato con l’intenzione di infastidire l’ascoltatore. Dylan è il disco che Dylan non voleva assolutamente farti ascoltare. Magari ad ascoltarlo un po’ ti incazzi, ma non con lui. Anzi finisci per rivalutarlo. Non solo perché Big Yellow Taxi è meno terribile di quel che ricordavi, ma soprattutto perché dopo averla provata, Dylan ha avuto la saggia idea di nasconderla in un cassetto e non pensarci più. Stavolta non è stata colpa sua. Maledetta Columbia.

“Come sei arrivato qui?”
“Su un treno merci”.
“Vuoi dire un treno passeggeri?”
“No, un treno merci”.
“Vuoi dire su un vagone di quelli coperti?”
“Sì, un vagone così. Un treno merci”.
“Va bene, un treno merci”.
(Chronicles I)

Il marine che andò alla guerra.

Cosa c’è poi di così imbarazzante in Dylan? Lily of the West è una ballatona tradizionale da cui Dylan aveva già preso la melodia per As I Went Out One Morning – ma quella era uno strano sogno mattutino, qui invece siamo ancora nei dintorni di un’emittente AM del Midwest; ci sono i coretti. Bisogna farci l’orecchio, ci aspettano più di dieci anni di coretti femminili. Ma fin qui non sono molesti. In Sarah Jane Dylan per la prima volta comincia a cantare quei “lalalalala” che riascolteremo in New Morning The Ballad of Ira Hayes è una canzone che Dylan avrebbe dovuto registrare seriamente: lui più volte ha spiegato che queste cover le faceva all’inizio delle sessioni come riscaldamento, e questo è uno casi in cui sembra non sembra una scusa improbabile: nel senso che la canzone comincia quasi di malavoglia, con un pianoforte confuso che cerca gli accordi un po’ a caso, e Dylan che invece di cantare il testo del vecchio amico folksinger Pete LaFarge si rimette, dopo tanti anni, a declamare. E funziona, il Dylan parlante, non si capisce davvero perché abbia smesso; anche qui hai la sensazione che potrebbe dire “basta così” da un momento all’altro. Finché non intona il ritornello (e partono i cori), e capisci che la canzone qui ci sarebbe.

Basterebbe provarla un po’ di più – in sottofondo per ora c’è una specie di brainstorming, organo e chitarra stanno tutti cercando qualcosa, ma è proprio quel tappeto indistinto di suoni che serve da sfondo per la storia del marine pellerossa che si mise in posa per la foto di Iwo Jima e poi tornò nella riserva dei padri a ubriacarsi fino a morirne. LaFarge l’aveva incisa in diverse versioni, ma anche nella più intima non riusciva a non suonare un po’ beffardo; Cash a suo modo è perfetto, il suo vocione straniante è come la maschera di un duro da rodeo che ha una storia commovente da raccontare ma non farà vedere una sola lacrima: è una lezione di come il country possa diventare uno strumento affilato, se tieni salda la mano. Dylan – che fino a pochi mesi fa spergiurava di voler fare country, di aver sempre voluto fare country – va nella direzione opposta: non senti nella sua voce un grammo di indignazione per le promesse inesaudite alle comunità dei nativi americani, ma l’ubriachezza e la disperazione quelle le senti. Viene il sospetto che più che al reduce dal Giappone, Dylan stia pensando a LaFarge, che in Corea si era rotto il naso in un combattimento clandestino, che aveva dieci anni più di lui e li aveva passati a bere, che ai tempi del Village aveva scritto una canzone con Dylan (ma non l’aveva mai incisa), che come lui aveva vantato inesistenti origini native americane e che era morto da solo nel suo appartamento proprio mentre il suo giovane amico sfondava con Like a Rolling Stone. LaFarge era un folksinger, Cash è un divo del country che raccoglieva fondi per i pellerossa (lui non si è finto un indiano, lui è stato nominato indiano onorario), Dylan sta inventando qualcosa di diverso. È il suono nato nella cantina di Woodstock – una specie di via bianca al soul, il suono che la Band sta maturando in autonomia. Invece Dylan lo sta per abbandonare – quando incrocerà di nuovo la Band, suoneranno tutt’altro. Forse non si è neanche reso conto di averlo messo in moto.

Chiamalo Ira l’ubriacone, tanto non risponde più.Né l’indiano sbronzo di whisky, né il marine che andò alla guerra…

Una cosa interessante di Dylan è che alcune cover sono successi del 1970 – in pratica Dylan suonava in sala di registrazione le canzoni che andavano in radio (continua sul Post).

Bob Dylan, concerti, musica

La merda d’artista di Bob Dylan

Self Portrait (1970)

(Il disco precedente è Nashville Skyline.
Il disco successivo è… ancora peggio!)

“Cos’è questa merda?”

Riassunto delle puntate precedenti

  • A 25 anni, Bob Dylan macinava due dischi l’anno di roba sperimentale, provata e riprovata allo sfinimento tra New York e Nashville; faceva tournée in tre continenti viaggiando su un vecchio boeing scassato, si teneva sveglio di notte per paura di lasciarsi sfuggire l’ispirazione per una canzone. Si faceva un culo quadro, intascava così e così, la gente ai concerti lo fischiava
  • A 26 anni lo stesso Bob Dylan aveva smesso di fare concerti pubblici, si era ritirato in campagna, incideva un disco in tre giorni senza fare promozione e… vendeva di più. Piaceva pure ai critici. 
  • A 27 anni non incideva un bel niente, e allora i fan ripescavano nastri abusivi, roba suonata in cantina un po’ per ridere, li stampavano, e i critici applaudivano al capolavoro sconosciuto. 
  • A 28 incideva mezz’oretta di simpatici pezzi country, li presentava in tv e vendeva ancora più di prima, Ancora di più. E i critici continuavano ad apprezzare.
  • A 29… che fare? Voi al suo posto che avreste fatto?
Non vi sarebbe venuto in mente di pubblicare un disco di merda, giusto per vedere se pubblico e critica si facevano andare bene pure quello?

A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po’ per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?

Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell’avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l’Artista ne era consapevole durante l’Atto. Sennò una merda varrebbe l’altra, no?

Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L’inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l’attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore – funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l’ha ispirata – perlomeno, la recensione la leggono tutti, l’album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita “What is this shit” è una frase celebre quanto “Judas!” (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una “m.”: e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un’espressione di genuina sorpresa (già ai tempi “shit” poteva alludere a una più generica varietà di “roba”), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi “merda”, anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.

Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C’è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l’ultima, ahinoi), che dice: “tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?” Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.

È l’inizio di Self Portrait, l’autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità – ci sta prendendo in giro? – e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po’ a Dylan ci somiglia davvero, e che l’ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.

È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto – una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un’installazione, una candid camera d’autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un’immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un’opera d’arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.

Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d’occasione, ma una fece consapevole, una merda d’artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni ’80, avallando nelle interviste l’ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c’era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell’immondizia – quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. “Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere”, si sarebbe detto (“Rolling Stone”, 1984). “Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva”. Più che un autoritratto, un autosabotaggio.

(“Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate“, “Rolling Stone”, 1984).

Col tempo – e con la riapertura dei vecchi cassetti – abbiamo scoperto che anche stavolta Dylan non stava dicendo la verità. Magari in buona fede; capita tutti di confondere le date e sovrapporre stagioni diverse. Che abbia cercato di disgustare gli hippie è appurato, ma era un proposito già completamente messo in pratica in Nashville Skyline, un disco simil-country buono per il pubblico del Johnny Cash Show, mentre la gioventù americana bruciava le cartoline per il Vietnam e BD si rifiutava di dire una sola parola in riguardo. Più lontano dalla controcultura, più vicino alle buone cose di pessimo gusto del Midwest sembrava non potesse andare. Invece Self Portrait va oltre, e come sabotaggio funziona fin troppo: la prima vittima è proprio il Bob Dylan versione country, qui infiocchettato da cori e violini oltre i limiti della parodia.

Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un’ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C’è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l’impressione è di goffaggine più che di impudenza.

L’originale era Je t’appartiens
di Bécaud!

Più probabilmente si tratta di un errore di percorso, inevitabile se tutti continuano ad applaudirti qualsiasi cosa tu faccia: a un certo punto ti convinci di poter fare qualsiasi cosa, e si dà il caso che Dylan abbia davvero voglia di fare qualsiasi cosa. Oggi abbiamo ormai accettato questa sua stranezza, e lui si è d’altra parte sforzato di renderla in qualche modo più accettabile, ma scoprire nel 1970 che Dylan aveva gusti molto più eclettici di quanto ci avesse mai raccontato; che amava le canzoni francesi e lo swing, che sognava di cantare Bécaud e Blue Moon! (a un certo punto il disco si doveva intitolare Blue Moon)… fu uno choc. Self Portrait è la prima precoce manifestazione di una delle facce che Dylan ha del tutto svelato solo negli ultimissimi anni: l’aspirazione a diventare un enciclopedico cantante da pianobar. Dylan è convinto di poter cantare qualsiasi cosa, e soprattutto è convinto che la cosa potrebbe interessarci. L’idea di un album monumentale, un songbook di autori diversi, Dylan la cullava già trent’anni prima di Triplicate. Ne aveva già accennato a Traum durante l’intervista del 1968. Ci stava lavorando anche durante le session di Nashville Skyline, e forse ci avrebbe lavorato ancora per parecchi anni prima di far uscire qualcosa di buono. Ma poi dev’esserci stato un imprevisto – forse l’isola di Wight.

Ray Charles coi riccioli, ma perché.

L’insofferenza per i fricchettoni non era il solo motivo per cui non si era fatto vedere al festival di Woodstock. Gli organizzatori dell’altro grande festival del 1969, quello all’isola di Wight, avevano offerto di più (e lui di quei soldi aveva bisogno, spiegò ridacchiando a un cronista). A parte qualche comparsata a eventi straordinari, Dylan non avrebbe fatto altri concerti fino al 1974. Era l’artista più pagato del festival, era l’evento più importante, era abbastanza ovvio che la Columbia si aspettasse di incidere il live. Ma anche stavolta alla fine il disco dal vivo non arrivò. La registrazione era scadente, e anche la prestazione di Dylan e della Band… lasciava perplessi. Col tempo (e con le rimasterizzazioni) il concerto all’isola di Wight ha trovato i suoi estimatori, ma nel 1970 risultava impubblicabile. A questo punto però l’etichetta voleva lo stesso un disco doppio, e Dylan glielo diede. È un’ipotesi: non l’ho trovata scritta da nessuna parte e quindi la scrivo io: forse Self Portrait è quel guazzabuglio senza senso che è perché Dylan lo mise insieme in fretta e furia come alternativa a un live che suonava ancora peggiore.

Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda (“crap”, disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l’insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz’ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due SadieDays of ’49, Copper KettleGotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film…  – non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po’ (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Bob il profeta, Bob il contadino

Nashville Skyline (1969)

(Il disco precedente: John Wesley Harding.
Il disco successivo è… è… terribile).

Una volta avevo le montagne nel palmo della mano, e i fiumi vi scorrevano ogni giorno. Devo essere stato un folle, non mi rendevo conto di quello che avevo finché… ho buttato tutto via.

Avete sentito di Morgan? Si è fatto cacciare dagli Amici di Maria De Filippi. Pazzo. Ha definito bimbiminchia i giovani del pubblico che non lo stavano ad ascoltare in religioso silenzio. Perché l’hai fatto, Morgan, ti fanno proprio così schifo i soldi? Hai figli, hai famiglie, hai un’età, ma insomma. Ma il meglio è venuto subito dopo la scenata. Con lo stesso tono standard con cui avrebbe potuto annunciare la pubblicità o un’invasione aliena, Maria ha invitato sul palco… Francesco De Gregori. Qualcuno ha pensato beh, sarà un imitatore, un alleggerimento comico. Invece dalle quinte è saltato fuori proprio lui, il vero Francesco De Gregori, in giacca di pelle e berrettino, e ha cantato Rimmel. Neanche fosse la cosa più normale del mondo, un cantante in tv.

Non lo è. De Gregori ci andava con molta parsimonia, in tv. Non si fece vedere nemmeno a quei festival di Sanremo un po’ sostenuti, quelli di Fazio. Ma da Maria ogni tanto ci va, sì, non è nemmeno la prima volta. Però l’altra sera ha avvisato che era “terrorizzato”, perché aveva appena sentito i giudici parlare di intonazione, e lui in generale non è molto intonato. I giurati l’hanno tutti presa per un’esibizione di falsa modestia, ma come, Maestro! Ma aveva ragione, De Gregori è molto sincero sui suoi limiti. Ha sempre avvertito che gli piacerebbe cantare meglio di come canta, suonare meglio di come suona: i fan si accontentano, ma lui meno. È tipico dei professionisti accorgersi dei propri errori prima che ci faccia caso il pubblico. Di sicuro tra i concorrenti di Amici ce n’è di più intonati di lui. Con due di loro ha cantato Questi posti davanti al mare. Perché l’ha fatto? È una provocazione? Un’offerta che proprio non poteva rifiutare? Avrà famiglia pure lui. Di sicuro sembrava godersela.

Chissà che avrebbe fatto Dylan al suo posto. Non è una domanda così strana: molte scelte di De Gregori diventano comprensibili appena pensi a cosa avrebbe fatto Dylan. Lui non ci scenderebbe mai, vero, tra i Bimbominchia di Amici? O no?

Bbbbzzzzzzbzzzzzzif you’re travelling in the north country fair…

Primavera 1969. In viaggio nelle contrade del nord, giri tra le frequenze AM in cerca di un notiziario, senti Johnny Cash col suo bel vocione che canta un pezzo di Dylan. Mai sentito, ma non è una gran novità, è da almeno cinque anni che Cash canta pezzi di Dylan, chissà quando l’ha inciso questo. La cosa strana è il tizio che duetta con lui. Sembra… sembra… come se Dylan smettesse di fumare e imparasse a cantare. Un Dylan per le masse, un Dylan di campagna. Per un po’ non ci ripensi più. Ma la canzone torna a saltare fuori, come se fosse un pezzo appena uscito. Anche sulle radio FM. E prima o poi senti un dj che ti avverte: “Questa era la nuova versione di Girl of the North Country, dall’ultimo disco di Dylan, Nashville Skyline“. L’altra voce che sentite è Johnny Cash – tante grazie, è chiaro che è Cash. Non si può confondere Johnny Cash.

Ma chi è quel tizio che canta con lui?

La strinsi tra le braccia, mi disse che era mia. Ma poi fui un animale, l’ho trattata così male, ed è così… che ho buttato tutto via (la persona che ha scritto questa cosa ha scritto anche It’s Alright Mama I’m Only Bleeding).

A un certo punto la diede a bere a tutti, Bob Dylan. Cambiare faccia a vent’anni è facile, ci abbiamo provati tutti: basta farsi crescere un po’ di barba e cominciare a sorridere davanti all’obiettivo. Ma la voce? Cambiar voce fu davvero un colpo basso. La voce di Mr Tambourine, la voce di Rolling Stone, Dylan era riuscito a rinnegare anche quella. Ma era lui davvero cantava nel nuovo disco? Certo. Aveva solo smesso di fumare, dichiarò. “Smetti con quelle sigarette e puoi cantare anche Caruso”. E per un po’ ci credettero. Era la stessa voce che si ricordava la sua fidanzatina a Hibbing, prima che intervenisse una broncopolmonite malcurata. Era il Dylan vero, il Dylan genuina-espressione-del-suo-territorio, il Dylan country.

Ho sentito delle voci andando a spasso. Dicono che hai intenzione di lasciarmi in asso. Ti prego amore, anima mia: dimmi che è solo una bugia (dall’autore di Masters of War).

Nashville Skyline non era un semplice episodio, un intermezzo, un week-end in campagna. Non era il finale country di John Wesley Harding dilatato in mezz’ora, il trionfo del Marito Coccolone. Nemmeno una semplice svolta commerciale. Per almeno un anno Nashville Skyline, una collana di simpatiche canzoni da balera, così innocue se le avesse registrate chiunque altro, divenne una mossa di revisionismo esistenziale. Peggio, molto peggio di sgozzare una Fender Telecaster a un raduno di musica folk: adesso Dylan cantava “Oh me oh my love my country pie” mentre la polizia caricava i manifestanti pacifisti nei college. Al Dylan che sorrideva amabile in copertina non bastava dire: sono cambiato. Voleva convincerci che era stato sempre così. E gli anni del folk di protesta? Un equivoco, si era ritrovato al Village con la chitarra e si era arrangiato a fare quello che al Village volevano (You sound like a hillybilly”, vi ricordate? “We want folksingers here“. Così si era inventato un Dylan giovane e arrabbiato, e più tardi un Dylan rock, ma quelle erano maschere. A lui non interessava davvero cantare “una dura pioggia scenderà”, o “i tempi stanno per cambiare”, e nemmeno “come ci si sente senza più una casa”. Al Dylan vero interessava cantare: “Stanotte starò con te”, “Stenditi stella sul mio gran letto in ottone”. Come avevamo potuto illuderci del contrario? E la politica? Mai fatta davvero, erano solo frasi estrapolate da giornalisti cattivi. E la guerra? C’è sempre stata, è parte della vita, così gira il mondo, ma io sono un musicista. E il rock and roll? Gran musica da ballare, divertente, per fare stare bene la gente. E tutta quell’ansia di morte, tutte quelle paranoie? Ma no, era sempre stato un allegrone Bob, ma i fotografi gli dicevano: “Non ridere! Non ridere!” Una questione di denti storti, magari.

Scende la notte / su nel cielo stelle a frotte / ma stanotte io son solo e lei non c’è. / C’è una luna luminosa che risplende su ogni cosa, / ma stanotte non c’è luce su di me (dallo stesso autore di Subterranean Homesick Blues).

I Beatles con Sgt Pepper’s si erano travestiti da banda di ottoni. Dylan con Nashville si truccò da divo country, e non sarebbe stato nulla di così particolare. I concept album non erano una novità, Johnny Cash ne pubblicava di continuo – ne aveva appena inciso uno da cowboy e un altro da buffone. Ma Dylan per un po’ riuscì a convincere il suo pubblico del contrario. Che il faccino sorridente di Nashville era la sua vera faccia, senza maschere. Che la voce morbida da crooner di Nashville era la sua vera voce, senza filtri. Col senno del poi, è facile riderci sopra.

È vero che Dylan può avere un timbro un po’ più basso, se sforza un po’ il seno nasale: lo sentiremo bello tonante in Before the Flood. Ma la voce di Nashville Skyline è un puro esperimento di laboratorio. Nasce a Nashville e resta a Nashville. BD la adopera soltanto in questo disco e in alcuni brani del successivo: mai dal vivo. Tanto che il duetto iniziale con Cash (deludente come tutti i suoi duetti, sempre inferiori alla somma degli addendi) sembra inserito proprio a scopo illusionistico: convincerci che è un timbro vero, che è una voce reale, Johnny Cash è testimone, era lì e può garantire. Sarà. Nel frattempo la premiata ditta Dylan ha pubblicato qualsiasi cosa. Tutti i concerti degli anni Sessanta. Tutte le session di un sacco di dischi: sugli scaffali c’è roba che anche i dylaniti più masochisti credo usino soltanto per mettere gli ospiti a disagio dopo il dolce e l’amaro. Ma le session di Nashville per adesso non le abbiamo. Sappiamo che durarono otto giorni, e che furono relativamente più laboriose di quelle davvero rapide di John Wesley Harding. Sappiamo che Johnny Cash vi partecipò con sollecitudine e professionalità, non venne solo a fare il fenomeno: incise decine di take delle stesse canzoni. Provarono One Too Many Mornings almeno una dozzina di volte. E di tutto questo non avrebbero voluto farci sentire niente. Dylan fin qui ha pubblicato soltanto Girl of the North Country, e Dylan è uno che pubblica veramente di tutto. Qualche cosa in più è finita in qualche collezione di inediti di Cash, che probabilmente aveva meno da nascondere.

(Al primo ascolto, Nashville Skyline lo rifiuti. Che roba è. Il primo pezzo è una auto-cover che serve giusto a sfoggiare l’amico Cash. Il secondo è… un ragtime strumentale. Chi è che si compra un disco di Dylan per ascoltare dei sessionmen di Nashville suonare un ragtime? Roba che va a centesimi il chilo, anche in Tennessee. Simpatico, ma sono passati sette minuti e non si è ancora sentito un testo originale di Bob Dylan. Il disco in tutto ne dura trenta, la lunghezza standard di un disco country).

Magari è Cash che si portava con sé un qualche compressore, un pedale per il riverbero, qualche effetto che lo aiutava a dare spessore a quel suo timbro che ormai era un marchio di fabbrica. Magari Dylan ha voluto provare a usarlo pure lui, ed ecco come potrebbe essere nata la voce di Nashville Skyline. Duettare con Dylan, l’abbiamo già visto, è faticoso e frustrante. Ha una voce che anche quando centra la nota che ti aspetteresti, è sempre in attrito con le altre che vorrebbero armonizzarsi. La Baez faceva l’impossibile per raggiungerlo, ma con Cash è diverso. È Dylan che si deve adattare. È una questione di rispetto, ma soprattutto di logica commerciale. È Dylan che ha bisogno del pubblico di Cash, non viceversa.

Oggi forse è difficile capire, il primo in Italia brilla come una stella di prima grandezza (anche se si vede meglio in altri emisferi), il secondo era perlopiù sconosciuto finché negli anni ’90 non fu riportato alla ribalta grazie a una collaborazione con gli U2, e con una serie di dischi di cover contemporanee diventò una specie di nume tutelare della scena alternativa, esaltato per esempio da Wu Ming. Ma negli USA Cash è sempre stato più popolare di Dylan, o meglio: più nazionalpopolare. Di lì a pochi mesi avrebbe diretto uno show in prima serata sull’ABC. Negli anni Settanta avrebbe persino fatto la guest star in una puntata del tenente Colombo, una specie di consacrazione perché le guest star in Colombo recitano sempre la parte degli assassini, il che gli permise di giocare con la sua immagine pubblica, interpretando un divo del country cristiano rinato, marpione e uxoricida. Ve lo immaginate Dylan nella stessa situazione, Dylan messo sotto torchio da Peter Falk? Ma Cash è anche stato più socialmente impegnato di Dylan: tanto lontano dai circuiti rodati della politica quanto concentrato sui diritti dei meno rappresentati: i nativi americani e i galeotti. Nel 1968, mentre BD rilasciava interviste in cui negava di avere opinioni sul Vietnam, Cash aveva inciso il suo live più famoso, alla prigione di Folsom. Persino alla sua camicia nera, che aveva scelto come divisa per comodità e perché si sposava col vocione, col tempo assumerà un significato sociale: era il lutto per gli oppressi e i veterani. Nessuno ha mai potuto accusare Cash di aver tradito il suo pubblico o i suoi ideali. Dylan, per contro, stava costruendo intorno a questo tradimento una narrativa. In un certo senso la vera storia del rock comincia con lui, se il rock è dire “fottiti” a chi ha pagato per venirti ad ascoltare. E per un po’ abbiamo tutti pensato che le cose stessero così.

È una delle cose più difficili da far passare, quando si racconta di Dylan e del rock in generale. La menata dell’integrità artistica. È un concetto che la mia generazione ha assorbito durante la pubertà, e che oggi proprio non funziona più. Oggi tutti (non solo i bimbominchia) trovano cosa buona e giusta che un artista faccia i soldi: è la dimostrazione tangibile e misurabile del suo talento. È la narrativa dei vincitori dei talent show, e ancora prima dei rapper. Che sotto i collanoni tamarri sembrano custodire un’etica calvinista: il denaro è la misura del successo, il successo è la prova che Dio li ha scelti. L’invidia dei critici è lo stridore dei denti di coloro che Dio ha creato perché fossero lo sfondo opaco alla gloria dei pochi. Una volta non la pensavamo così. Una volta c’erano molti più soldi in ballo, bisogna anche dire questo (oggi se un cantante azzecca un album al massimo si sistema per qualche anno, sei felice per lui, non è che arriva immediatamente il jet privato). È complicato spiegare che passavamo il tempo ad accusare i nostri artisti preferiti di vendersi, o di essersi già venduti. Che era poi a ben vedere il motivo per cui potevamo sentirli per radio, vederli alla tv, trovarli sugli scaffali dei negozi. E però alla fine di ogni artista cercavamo sempre i dischi precedenti, quelli meno commerciali.

Questa schizofrenia non riguardava soltanto una nicchia di utenti, era a suo modo un fenomeno di massa. In Europa ebbe il suo apice col punk – malgrado il punk avesse iniziato prestissimo a svendersi. Negli USA il mito dell’Integrità era cominciato molto prima, forse proprio con Bob Dylan. Che si era imposto in un ecosistema molto particolare – la scena folk di Manhattan, una contraddizione in termini che più di ogni altro aveva fatto emergere. Dylan fu la prima rockstar a sentirsi chiamare venduto: prima di lui c’era Elvis, ma nessuno trovava strano che Elvis si vendesse. Dylan fu il primo a trovarsi davanti il problema, e fu il primo che dovette elaborare una strategia per risolverlo: non fu semplice, e forse determinò un incidente stradale e/o un esaurimento nervoso. In ogni caso nel 1969 tutto questo era alle spalle, e Dylan sembrava avere trovato una sua risposta: certo che mi vendo. Che altro dovrei fare? Sono un musicista, questo è il mio mestiere. Mai preteso di essere altro. Johnny Cash era un buon esempio, autorevole e a portata di mano: aveva inciso tantissimi dischi, alcuni buoni, alcuni così così. Era un buon autore, ma soprattutto un interprete. E soprattutto non aveva mai smesso di sostenere Dylan. Lo aveva conosciuto alla Columbia quand’era la giovane promessa del folk; aveva presentato le sue canzoni al pubblico tradizionalista del country. Gli era rimasto amico anche nella fase rock più alienata. Nel 1968 Dylan perde Woody Guthrie, una figura in qualche modo paterna (nel 1969 perderà il padre vero). Cash rimaneva nei dintorni, un fratello maggiore che ne aveva viste tante, sul quale poter contare nel momento del bisogno. Anche lui viveva dalle parti di Woodstock, anche lui conosceva le paranoie della celebrità, e la fatica della vita da musicista on the road gli aveva lasciato un problema di dipendenza dalle anfetamine.

“Is it rollin’, Bob?”

(E il terzo brano cos’è? Un blues, Voglio stare con te, ah vabbe’, ci stiamo sprecando, eh, Bob? Al secondo ascolto un po’ lo odi, Nashville Skyline, ma devi ammettere che certi momenti sono irresistibili. Gli attacchi di I Threw It All, di Tell Me That It Isn’t True – e Lay Lady Lay, ovviamente. E One More Night ti si è attaccata al cervello, può restarci per settimane).

Dylan si offrì anche di illustrare
la copertina, e mica potevano
dirgli di no
(stava facendo progressi, dai).

Nel frattempo la scena folk andava esaurendosi per conto suo – o se preferite evolvendosi. Diversi duri e puri (Phil Ochs, Joan Baez) stavano cominciando a usare amplificatori e batterie, senza destare un decimo dello scandalo che Dylan aveva suscitato. Era la normale evoluzione delle cose, da musica da ballo il rock stava diventando il linguaggio comune di una generazione. La musica di protesta doveva adeguarsi o perire, e si adeguò. Agli hipster di città erano subentrati gli hippie suburbani, meno schizzinosi sia da un punto di vista musicale che politico: la priorità non erano più i diritti civili delle minoranze, ma parole d’ordine molto più vaghe, la Pace e l’Amore – che in piena escalation vietnamita non erano poi obiettivi così banali. “Sing Out!”, la rivista di folk impegnato che aveva lanciato il Dylan cantautore e aveva stroncato il Dylan rockstar, a metà 1968 navigava in pessime acque. Fu Dylan stesso a proporre al folksinger Happy Traum di farsi intervistare. Un gesto generoso: Dylan non aveva nessun disco da vendere e in ogni caso il successo imprevisto di John Wesley Harding aveva dimostrato che li vendeva benissimo anche senza interviste. “Sing Out!” aveva rivalutato Dylan dopo JWH: lo aveva interpretato come un ritorno al folk, e un po’ lo era. Si trattava però quasi di un effetto ottico: la convergenza tra Dylan e il folk era occasionale, Dylan stava facendo il giro competo, per arrivare all’estremo opposto: il country. Nashville Skyline è il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, il tramonto della civiltà urbana, il ritorno alla campagna e alle tradizioni arcaiche.

Qui forse bisogna aprire una parentesi: che differenza c’è tra folk e country? (Continua sul Post).

Bob Dylan, musica

Il far west metafisico

John Wesley Harding (1967)

(Il disco precedente: The Basement Tapes.
Il successivo: Nashville Skyline).

La casa era malvagia. Si capiva da lontano.
Non avendo ancora l’età per il motorino, battevamo la pianura in bicicletta. La statale era troppo pericolosa, così insistevamo su queste strade di campagna, tenendo la barra a sud perché la città era da quella parte – ma era veramente la città che cercavamo? Un pomeriggio tra gli altri trovammo uno stradone che conduceva a una villa, forse una residenza di signori. Per un buon tratto di strada non ci sembrò diversa da tante le altre case sperse nella pianura. Poi ci accorgemmo che tra le finestre vere ce n’erano di dipinte, e da ogni finestra un volto di donna ci guardava. Non ricordo cosa ci dicemmo. Forse anche niente: ma tornammo indietro. Avessimo avuto qualche anno in più, la curiosità avrebbe vinto. Ma non avevamo ancora l’età del motorino, e una casa di finestre dipinte, di volti dipinti, ci sembrava soltanto un luogo empio.

È uscito il nuovo documentario di Al Gore, e io non ho voglia di vederlo. Credo che l’unica cosa che capirei è: siamo fottuti. Dieci anni fa avremmo dovuto intervenire in modo preciso su alcuni problemi molto chiari, ma mancava la volontà politica e in seguito è mancata sempre più. È andata così. Ora chi è ricco si sta organizzando il suo paradiso artificiale; chi è povero si attrezza per la catastrofe; chi sta in mezzo si svaga litigando sui vaccini o sull’olio di palma o sulle primarie del Pd o sulla Siria. Io scrivo di Dylan, tanto ormai.

(Le piante dei miei piedi, vi giuro, stanno bruciando).

Nell’autunno del 1967 Dylan chiama Bob Johnston, il suo produttore, e lo avverte che ha finalmente qualche canzone da registrare a Nashville. Stavolta non si porta né Robertson né Kooper, col quale forse ha rotto i rapporti. Johnston gli fornisce una sezione ritmica: al basso c’è Charlie McCoy, che aveva regalato una chitarra flamenco a Desolation Row. Dylan ha idee insolitamente chiare su come registrare il nuovo materiale: in poche ore tre canzoni sono pronte e Dylan se ne torna a Woodstock. È il 17 ottobre. Il 6 novembre è di nuovo a Nashville per una seconda sessione, con gli stessi musicisti. Il disco è quasi pronto. È il più strano che abbia mai inciso.

Se all’inizio aveva avuto in mente un arrangiamento un po’ più elaborato, strada facendo cambia idea. A un certo punto deve avere avuto un ripensamento, visto che dopo le prime due session fece ascoltare i master a Robbie Robertson, il chitarrista della Band. Voleva proporgli di fare qualche sovraincisione. Robertson rifiutò. Forse la stima di Dylan se l’è conquistata così, mettendo la sincerità sopra il suo interesse: era l’occasione per rimettere mano a un disco di Dylan, magari per dimostrare che gli elementi della Band potevano funzionare anche come musicisti da studio. Ma Robertson disse di no: i pezzi gli sembravano già perfetti così.

Che Dylan potesse nutrire dei dubbi su quello che stava facendo è comprensibile. I pezzi nuovi erano completamente diversi da quelli di Blonde On Blonde. Potevano in un certo senso somigliare a un ritorno all’ordine, al folk del periodo acustico: e molti critici e militanti si precipitarono a leggerli in tal senso. Ma a ben vedere erano qualcosa di completamente diverso. A me piace pensare che Robertson abbia sentito qualcosa di pericoloso in quei solchi, qualcosa a cui era meglio non avvicinarsi. “Una casa con ventiquattro finestre, e un volto di donna in ognuna”.

Carrà 1914.

Di John Wesley Harding nessuno osa parlar male. Molti preferiscono non ascoltarlo neppure – i numeri di Spotify lasciano intravedere un abisso tra gli ascolti di Blonde On Blonde e quelli di JWH. Siamo entrati nella tarda classicità, una zona grigia in cui la critica lo difende ancora ma lo ascolta meno volentieri. I barbari a ben vedere sono già arrivati, alcuni militano nelle legioni dell’Impero. Se anche non sapessimo nulla dell’incidente in motocicletta (in effetti non ne sappiamo un granché), ugualmente non potremmo che concludere che tra i due dischi dev’essere successo qualcosa di grave, una catastrofe, una malattia. Qualcosa è finito per sempre – banalmente, è scomparso l’organo di Kooper, che da Like a Rolling Stone a Blonde On Blonde era diventato la cifra del suono di Dylan. Qualcos’altro sembra riaffiorare dal passato: tornano le ballate, le buone vecchie tradizioni (i fan che fischiavano ai concerti potevano dirsi soddisfatti), eppure sono illuminate da una luce diversa, onirica, che ci fa dubitare di quello che sentiamo. Qualcuno nottetempo ha creato una città falsa affinché ci svegliassimo convinti di abitarci da sempre, ma ha sbagliato qualche dettaglio, magari i nomi delle statue. John Wesley Harding non è un eroe, Sant’Agostino non è un martire, Tom Paine non è Tom Paine, queste ballate non sono vere ballate, questo passato è un’impostura.

JWH mi fa sempre venire in mente un quadro di Carrà, Le figlie di Loth. È un’opera neoprimitiva, neomedievale, proto-metafisica, che indugia nell’ambiguità e nel mistero – con quel titolo biblico che forse serve solo a dare un tono. Più che un quadro che racconta della Grande Guerra, è l’opera di un reduce che ne porta i segni. Cinque anni prima Carrà era partito per la trincea interventista e baldanzoso: i quadri che dipingeva fino al 1914 erano tripudi futuristi di movimenti e di colore. Le figlie di Loth per confronto sembra il vaneggiamento estatico di un mutilato in un sanatorio. C’è sempre la possibilità che il pittore fosse solo un furbacchione che sapeva annusare il vento: dopo Caporetto nessuno voleva più sentir parlare di futurismo, mentre questa metafisica e questi valori plastici promettevano bene.

Carrà 1919.

Allo stesso modo, può anche darsi che la profondità di John Wesley Harding sia completamente accidentale: che si tratti soltanto un disco inciso in fretta e furia per evitare di pagare una penale. Nella peggiore delle ipotesi, Dylan non aveva materiale e arrivò a Nashville con una manciata di testi brevi e sconclusionati, costruiti intorno a uno schema metrico convenzionale. Ci applicò i primi giri di chitarra che riuscì a trovare, registrò e mandò alla Columbia con preghiera di promuovere il disco il meno possibile (uscì due giorni dopo Natale, apparentemente un suicidio commerciale). Aveva così poche canzoni che riciclò anche una ballata western che non era riuscito a finire. Per nascondere la sua natura di riempitivo mise il brano in cima alla scaletta, e siccome non aveva nemmeno trovato un nome per il disco, la Columbia usò proprio il titolo della ballata abortita, John Wesley Harding.

Stavo scrivendo una ballata su… tipo magari uno di quei vecchi cowboy, sai… una di quelle ballate davvero lunghe. Ma a metà della seconda strofa mi sono stancato. Avevo una musica, e non volevo sprecarla, era una melodia carina, così ho soltanto scritto una terza strofa rapida, e l’ho registrata… sapevo che la gente avrebbe ascoltato la canzone e avrebbe detto che non capiva quel che stava succedendo, ma se avessero fatto uscire quella canzone più tardi, se non avessimo chiamato l’album John Wesley Harding e non avessimo dato tanta importanza alla canzone, così che la gente cominciasse a farsi domande, la canzone sarebbe saltata fuori e la gente avrebbe detto che era un rifiuto. (Intervista a “Rolling Stone”, 1969)

Nemmeno Dylan poteva immaginarsi che un disco del genere diventasse un successo tanto clamoroso. Divenne disco d’oro molto prima di Blonde On Blonde. I primi a farselo piacere furono i critici: dopo 18 mesi senza un disco ufficiale erano in crisi pesante, si erano ridotti ad accaparrarsi i fumosi bootleg della cantina. In confronto JWH era un prodotto di nitore smagliante: e non c’è dubbio che i testi, per quanto ambigui, siano molto evocativi, e che gli arrangiamenti, così puliti ed essenziali, lo rendano uno dei dischi di Dylan che teme meno il tempo. Potrebbe essere stato inciso in un momento qualsiasi tra il 1960 e oggi. È un album senza età e senza apparente senso, in cui tutti hanno trovato tutto. Ci sono in giro teorie di ogni genere, alcune seducenti (le iniziali di John Wesley Harding alluderebbero al tetragramma biblico), altre un po’ tirate per i capelli: vedi l’impegno con cui i critici cercavano di trovare riferimenti alla guerra del Vietnam in un disco che rifiuta qualsiasi contatto con la contemporaneità ed è ambientato in un Far West metafisico. Per Alessandro Carrera John Wesley potrebbe alludere a Lee Harvey Oswald, l’assassino di Kennedy.

John Wesley Harding era un amico dei poveri. Ma quando mai. John Wesley Hardin (senza g) era un maledetto ragazzino che sparava per capriccio e una volta uccise un tizio solo perché russava, nella sua stanza d’albergo. Voleva solo svegliarlo, disse. E così sparò. In aria? No, sparò alla parete. Un colpo? No, un tamburo intero. Lo svegliò? Non per molto. Anni dopo, quando saltava fuori la storia, lui si difendeva così: dicono che ho ucciso sei uomini perché russavano, beh, non è vero. Ne ho ucciso uno soltanto. Nella sua autobiografia si attribuiva altri 40 omicidi. Stime più oggettive stanno sotto la trentina. “Ma che si sappia non ha mai colpito un onest’uomo”, scrive Dylan. Stronzate. Sta confondendo uno dei pistoleri più insensatamente violenti di tutta la storia del West con un Robin Hood. Perché lo fa? Siamo in un qualsiasi momento del 1967, Dylan è a Woodstock. Il tempo che non lo passa in famiglia lo trascorre a lezioni di pittura da un vicino di casa, o a improvvisare con la Band. I testi che butta giù nel periodo non sono molto definiti, sembrano tutti brogli funzionali a mandare avanti la musica, in attesa di trovare parole più ispirate. Magari “John Wesley Harding” all’inizio era solo un nome che gli ronzava in testa. Magari dopo la prima stesura avrebbe sostituito il nome con uno meno ingombrante. Non è la prima volta che si improvvisa cantastorie del West e si mette a raccontare la saga di un fuorilegge dal cuore d’oro: per la Witmark aveva già inciso la ballata di “Rambling, Gambling Willie”, giocatore d’azzardo amico dei poveri e degli oppressi. John Wesley Harding, la canzone, avrebbe potuto fare una fine molto simile: registrata in cantina, archiviata, perduta, ritrovata quarant’anni dopo. Quello che la trasforma nella title track di un nuovo disco di Dylan è un evento misterioso e paradossale. Dylan si blocca sulla seconda strofa. Come un’epifania al contrario: perde la parola. Forse si domanda: ma cosa sto scrivendo? Perché racconto delle storie, delle leggende, delle bugie? È questo, davvero, il mio mestiere?

Quel che avviene dopo, nessuno ce l’ha mai raccontato.

Compaiono all’improvviso nove brani. Non può che averli scritti nel 1967, ma non sappiamo quando: sappiamo invece che non li volle mai provare con la Band, anche se ci suonava quasi tutti i giorni. E che li compose senza avere una musica, una cosa che in seguito sosterrà di non aver mai fatto né prima né per molti anni a seguire. Sette seguono uno schema ritmico convenzionale, la Common measure delle vecchie ballate: a un verso di quattro giambi (There MUST be SOMEthing OUT of HERE) ne segue uno di tre (Said the JOker TO the THIEF). È lo stesso distico del Poema del vecchio marinaio di Coleridge, di Amazing Grace, di As I Walked Out One Evening di Wystan H. Auden. È un metro che Dylan non si va a cercare: se lo porta dietro dalla scuola, dalle letture che ha fatto, da qualche vecchio disco che ha preso in prestito. I sette brani hanno un numero fisso di versi: tre strofe di quattro distici, trentasei versi (il 36 è una cifra di una certa importanza nella Bibbia). Una simile regolarità è insolita non solo per Dylan, ma in generale per qualsiasi cantautore o autore di musica leggera. Ai giornalisti spiegherà, tradendosi un poco, che stava cercando di diventare sintetico, di togliere i versi riempitivi, di scrivere l’essenziale: un’implicita autocritica per i deliri torrenziali di Blonde On Blonde? Ma ha l’aria di una giustificazione a posteriori.

Rimane la suggestione letteraria: i sette testi, accostati, sembrano formare una plaquette, una breve corona di poesie come avrebbe potuto pubblicarla un poeta modernista della prima metà del Novecento. Si tratta per lo più di visioni oniriche: partono da un dettaglio che sembra realistico e rapidamente allargano il quadro finché non compare qualcosa di dissonante, di paradossale, che ci porta al risveglio. Potrebbe averli scritti tutti in una notte: potrebbero essere sette sogni, intervallati da sette brevi risvegli. Il primo e l’ultimo sembrano funzionare come chiave.

As I Went Out One Morning comincia come una passeggiata “dalle parti di Tom Paine”: siccome Paine è un rivoluzionario e Padre Fondatore, siamo portati a immaginarlo come una statua in un parco. Proprio da quelle parti Dylan vede una fanciulla in catene: appena le offre una mano, appena lei gli afferra il braccio, si rende conto che gli farà del male. Tenta di scrollarsela di dosso, ma lei non si stacca, lo implora, vuole scappare con lui a Sud. Finché non arriva Tom Paine in persona a imporle di sottomettersi, e a chiedere scusa: Tom Paine chiede scusa a Bob Dylan. È il momento di svegliarsi, e rammentare quella vecchia figuraccia che Dylan aveva rimediato tre anni prima, quando aveva maldestramente parlato dell’assassinio di Kennedy mentre saliva su un palco a ritirare un premio… il Tom Paine Award.

“Ho sognato che vedevo Sant’Agostino vivo come te o come me”. I sogni di JWH non sono immersi in nessuna nebbia onirica, di quelle che convenzionalmente vengono sparse sui set cinematografici. Sant’Agostino, per qualche secondo, è vivo come noi: proprio come succede alle immagini dei sogni veri e non ricostruiti in laboratorio. JWH è un disco inquietante che non fa il minimo uso degli strumenti convenzionalmente adoperati per inquietare l’ascoltatore, o anche solo per segnalare che si trova davanti al tipico oggetto misterioso: niente riverberi e bisbigli, niente settime diminuite, solo basso batteria chitarra e armonica. Ogni canzone che comincia potrebbe parlare di amore o di disoccupazione o di semine e raccolti, e invece ecco appare un Santo con le sue profezie di sventura. Cerca le anime già vendute. Non ha pietà per re o regine. È davanti al martirio, e all’ultimo istante Dylan si rende conto di stare tra la folla che lo condanna. “Oh, mi svegliai nell’ira, così solo e terrorizzato. Misi le dita sul vetro, chinai il capo e piansi”.

Di All Along the Watchtower avremo occasione di parlare altre volte, se non altro perché si tratta della canzone che Dylan ha eseguito più volte dal vivo. C’entra senza dubbio Jimi Hendrix, ma non sottovaluterei il fatto che sia facilissima da suonare (gli U2, impertinenti, la impararono in una sera e la registrarono subito). In questo caso il problema di trovare una musica per un testo già pronto venne risolta con una soluzione che nel 1967 doveva sembrare incredibilmente minimale: un riff di tre accordi, la minore – sol – fa – sol – la minore, martellati per tutta la canzone. L’hard rock comincia anche qui. Il testo è un altro quadretto metafisico: dei torrioni, una muraglia, due misteriosi personaggi (il Joker e il Ladro) che discutono, indovinate, della fine del mondo. Che è inevitabile e forse non deve preoccuparci, dice il Ladro, perché “ci siamo già passati, e non è il nostro destino”. La terza strofa (coi cavalieri che si avvicinano alle mura) potrebbe essere la prima, il quadretto non ha un inizio e una fine, tutto si raggela in un solo istante. Magari è una coincidenza, ma Dylan sta anche imparando a dipingere.

The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest non fa parte delle sette ballate uguali: ha la stessa struttura, ma è molto più lunga, un ritorno di Dylan al racconto in versi. È anche una delle cose più misteriose che abbia scritto (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Memorie dal seminterrato

The Basement Tapes (The Bootleg Series vol. 11, 2014).
The Basement Tapes (1974)
Great White Wonder (1968).

(Il disco precedente: The “Royal Albert Hall” Concert.
Il disco successivo: John Wesley Harding).

Cari dylaniti, ci siamo.
Mi aspettavate al varco, vero?

Per mesi mi sono preso gioco delle vostre ossessioni: munito di poco più che Wikipedia e Spotify ho attraversato con impeto sbarazzino le vostre regioni più sacre: lungo le tappe del mio piccolo viaggio organizzato ho profanato il Dylan acustico, ho liquidato in un mese quello elettrico, non c’era un capolavoro che non si potesse visitare in settimana. E vi immagino, sornioni, mentre mi lasciate passare e sotto le barbe ghignate, va’ pure, va’ pure, povero illuso, impiccati alla tua lunghissima corda. Credi di aver capito Dylan perché sei sopravvissuto al 1965, al 1967? Va’ pure avanti, vediamo come te la cavi col Grande Deserto del 1967. Ed eccoci qui.

Ai Basement Tapes.

Dove nessun non-dylanita è mai giunto vivo.
O almeno, nessuno è sopravvissuto per raccontarlo.
Ce la posso fare?
No, vero?

Beh, intanto bisogna spiegare all’amabile comitiva che mi ha seguito fin qui cosa sono i Basement Tapes, (Ahahah, non ce la farai mai. Ma perché non hai scelto i Pink Floyd? Se a dicembre partivi coi Pink Floyd, a quest’ora avevi già finito. T’avanzava anche un po’ di posto per i progetti solisti). Zitti voi.

Diconsi Basement Tapes i nastri che Dylan convalescente registrò con la sua band (in seguito nota come Band, con la B maiuscola) in un paio di seminterrati dalle parti di Woodstock; registrazioni rudimentali che non avrebbero dovuto essere pubblicate, ma costituire materiale d’archivio per la neonata casa di edizioni musicali (la Dwarf Music) che Dylan era convinto di possedere al 100%, ignorando di aver firmato la cessione del 50% al suo manager, Grossman. Incisioni che venivano stampate su effimeri 45 gradi di acetato e inviate per posta ad altri artisti, dalle quali effettivamente nacquero alcuni singoli di successo: addirittura un pezzo in cima alla top10 inglese (The Mighty Quinn, nella versione dei Manfred Mann). In sostanza, durante il suo ritiro a Woodstock, Dylan riscopre quell’attività collaterale di compositore-esecutore che lo aveva portato negli anni precedenti a incidere acetati per case editrici musicali, prima la Leeds Music e poi per la Witmark: la differenza è che anche questo tipo di registrazioni semi-private, ora, voleva farle con una band. Era anche un modo per tenersi impegnato i pomeriggi, e per tenere impegnata la Band, che era rimasta sotto contratto anche dopo che Dylan aveva sospeso il tour. Queste registrazioni sono convenzionalmente note come Basement Tapes, e ne dovrei parlare oggi.

Senonché (ahahah, qui ti aspettavamo) stavolta i compiti non li ho fatti. I Basement Tapes non li ho ascoltati. Non tutti.
Perché voi sì?
Eh, appunto.

I Basement Tapes hanno una storia, per usare un eufemismo, complessa. In principio fu forse una raccolta di almeno 14 pezzi che circolava nell’ambiente musicale già nell’autunno 1967: lo scopo promozionale delle registrazioni impediva che potessero rimanere private a lungo. Dylan le incideva con la Band per farle sentire agli artisti, ma non poteva impedire che gli artisti le facessero ascoltare agli amici e agli amici degli amici, tutti in crisi d’astinenza perché il loro beniamino non faceva uscire un disco nuovo, rendetevi conto, ormai da quindici mesi. Riuscite immaginare 15 mesi senza un nuovo disco di Dylan? L’inferno sulla terra, dai – non importa che fosse l’anno più cruciale della storia del rock, il 1967: a esordire in quell’anno, tra gli altri, Jimi Hendrix, i Doors, i Pink Floyd, i Velvet Underground: se però non eri il tizio che segue le novità, in circolazione c’erano comunque Beatles, Stones, Who, Kinks, Small Faces, e stavano tutti rinnovando completamente il loro repertorio, sperimentando cose nuove e memorabili. Ma Dylan non c’era. Fino a ottobre, silenzio di tomba – nel frattempo era finalmente uscito nelle sale Don’t Look Back, un documentario che risaliva ai tempi del Dylan acustico, due anni prima, un’eternità: ma era un mattone importante del monumento che si stava chiudendo intorno a lui. Finalmente in autunno si scopre che il Genio sta registrando qualcosa. È roba strana, ma piace immediatamente a tutti i privilegiati che riescono ad ascoltarla. Passa di mano in mano, come l’erba. E come l’erba non è che debba essere sempre per forza genuina: un pacco capita a tutti e se sei in compagnia fai finta di niente, l’importante è stare assieme, no? “Buona vero?” Buonissima.

“Non c’è bisogno di registrarla, Garth… è solo nastro sprecato” (Hills of Mexico).

Nell’estate del 1968 arriva nei negozi il primo disco della Band. Si rifaceva esplicitamente all’esperienza dei Basement Tapes e si intitolava Music from the Big Pink. La “Grande Rosa” era la casa nel bosco che la Band aveva preso in affitto, in cui era stata registrata la maggior parte dei Tapes. Dylan nel loro disco non compariva, un po’ perché i ragazzi volevano dimostrare di reggersi sulle loro gambe, un po’ per questioni contrattuali: la Band aveva firmato per la Capitol, lui restava alla Columbia. In compenso aveva dipinto la copertina, una delle prime testimonianze (abbastanza oscene) del suo periodo di apprendista Chagall. Il disco conteneva almeno tre suoi brani importanti: Tears of RageI Shall Be Released e This Wheel’s On Fire: roba buona, che piacque immediatamente ai critici: ma ancora più che l’album, piaceva a tutti pensare che da qualche parte Dylan stesse registrando privatamente coi suoi amici della grande musica, di cui ci arrivavano per vie irregolari soltanto le briciole. “Rolling Stone” lanciò un appello: il Basement Tape dev’essere pubblicato. Al tempo pensavano ancora che ce ne fosse uno solo. Che teneri.

Di lì a poco sette miseri pezzi arrivarono davvero nei negozi, all’interno di un doppio 33giri in una busta tutta bianca; in seguito qualcuno cominciò a stamparci sopra la scritta Great White Wonder, perché negozianti e clienti ormai avevano iniziato a chiamarlo così: la Grande Meraviglia Bianca. Nessun’altra indicazione, perché si trattava di un disco abusivo, un bootleg, uno dei primi in assoluto. Ne sarebbero seguiti tantissimi. I 33giri riprendevano la struttura bifronte di Bringing It All Back Home e degli ultimi show di Dylan: un lato acustico, uno elettrico. Il due lati acustici venivano da vecchie registrazioni domestiche dei primissimi anni, sparite dalla casa di un amico di BD in seguito a un furto. I due lati elettrici contenevano anche brani dei Basement Tapes. Great White Wonder arrivava in un momento in cui, anche a causa del ritiro dalle scene, l’interesse del pubblico per Dylan sembrava più vivo che mai – l’effetto Battisti, per capirci. Più dei brani in sé, destava stupore la direzione completamente inattesa: era musica che non assomigliava né a Blonde On Blonde – (estate 1966) né a John Wesley Harding (dicembre 1967), né al Dylan un po’ più country ma anche ‘commerciale’ di Nashville Skyline, che le radio AM programmavano con piacere in quell’estate 1969, con quella voce tanto diversa, più calda. Acclamare al capolavoro per due facciate di registrazioni sporche in cantina, magari, era un po’ da fanatici, ma serviva anche a dare un messaggio preciso: rivogliamo il vecchio Dylan sporco e arruffato, con la sua voce nasale – anche se a ben vedere non assomigliava così tanto al ‘vecchio’ Dylan. Ma neanche a quel bel faccino che sorrideva sulla copertina di Nashville.

A questo e ad altri appelli, per molto tempo Dylan non rispose, per una serie di motivi che possiamo con un po’ di margine ricostruire: (1) non credeva troppo in quel materiale: lo considerava impubblicabile, per una mera questione di resa del suono, ma anche perché inferiore agli standard delle sue uscite ufficiali. (2) In realtà gli standard si stavano già abbassando, e anche i critici avrebbero smesso di gridare al capolavoro per qualsiasi cazzatina Dylan mettesse su disco, ma a quel punto pubblicare i Tapes del 1966-67 avrebbe significato ammettere che da lì in poi l’ispirazione aveva avuto una flessione, per non dire un crollo. C’è anche da dire che (3) non si trattava di un nastro solo, ma di una massa di scatoloni pieni di bobine che già cominciavano ad ammuffire, e riascoltarli per capire cosa si poteva riutilizzare avrebbe richiesto più tempo che incidere un nuovo disco dal niente (un po’ come i Beatles, che piuttosto di riascoltare i nastri del progetto Get Back! si misero a incidere Abbey Road. I nastri li riascoltò Phil Spector, e ci tirò fuori Let It Be). Dylan poi non si stava nemmeno preoccupando troppo della conservazione di quella robaccia, custodita dai membri della Band in vecchi scatoloni. Forse perché (4) era materiale della Dwarf Music, il che significa che Grossman ci avrebbe guadagnato il 50%, e dopo aver scoperto la fregatura Dylan era tutt’altro che ansioso di arricchire un altro po’ Grossman. Piuttosto, davvero, preferiva incidere altre cose. Magari nello stesso stile dei Tapes, se davvero alla gente piacevano i Tapes. Ma alla gente piacevano davvero? Come facevano a saperlo? Ne avevano ascoltati molto pochi.

Dopo aver a lungo nicchiato, risolta la causa con Grossman, Dylan acconsentì a pubblicare un po’ del materiale nel momento in cui meno ne avrebbe avuto bisogno, ovvero nel 1974, all’indomani del successo di Blood on the Tracks. Galvanizzati dal ritorno alla forma del loro idolo, i dylaniti corsero a comprarlo e… decisero che era un capolavoro, che altro avrebbe potuto essere? Si videro per l’occasione critici musicali inclinati secondo angoli imbarazzanti. Per il NYTimes era “uno dei più importanti dischi della musica popolare americana”, figurati gli altri. Per Robert Christgau, che tanto criticherà altri sforzi di Dylan, era il disco dell’anno 1974 (addirittura), ma avrebbe potuto anche essere il disco dell’anno 1967: avete presente che razza di dischi erano usciti nel 1967? Sgt. Pepper, Are You Experienced, Velvet Underground and Nico, The Doors, Forever Changes… Christgau in quel momento preferiva una raccolta di scarti incisi in cantina da Dylan.

Questa supervalutazione, alla lunga, non avrebbe giovato alla carriera di BD – che senso aveva preoccuparsi di scrivere materiale nuovo e di arrangiarlo in modo originale, se critici e pubblico si accontentavano di roba amatoriale registrata in un seminterrato? Ma non era del tutto colpa loro. Erano giovani, ricordiamocelo, tutti giovani: la critica rock era persino più giovane del rock, le mancavano un sacco di errori da cui imparare. Aveva desiderato i Tapes per così tanto tempo che ormai non riusciva ad ascoltarli, era così felice anche solo di averli in mano. Era euforica, come il bambino mentre scarta il regalo. Solo dopo ripetuti ascolti qualcuno osò ammettere che, insomma, qualcosa non tornava. Belli i pezzi, per carità. Ma non aggiungevano molto a quello che si era già sentito nella Meraviglia Bianca, e inoltre… dov’era The Mighty Quinn? Dov’era I Shall Be Released? Dov’era Bob Dylan? In otto pezzi su ventiquattro non compariva nemmeno. In effetti chi aveva curato l’edizione del 1974 dei Tapes aveva evidentemente potuto lavorare su pochi nastri: gli unici in condizioni decenti, o magari l’unico scatolone che era già saltato fuori. Per allungare un brodo che i dylaniti conoscevano già, Robertson – il chitarrista della Band, responsabile dell’edizione del 1974 – aveva aggiunto qualche brano dalle session di Music from the Big Pink. Ma in generale tutti i brani erano stati rieditati, ripuliti, corretti: in particolare erano state aggiunte quelle armonie vocali che erano diventate col tempo uno dei marchi di fabbrica della Band, e che le registrazioni rudimentali della Grande Rosa avrebbero documentato in una fase ancora molto embrionale (in tutto il tour del 1965, l’unico a cantare qualcosa era Danko, che armonizzava con Dylan la parola “Behind” in One Too Many Morning. Nella Ain’t More Cane del 1974 sembrano un affiatatissimo quartetto vocale. In un seminterrato? Con i microfoni presi in prestito a Peter, Paul e Mary? Quando glielo facevano notare, i critici rispondevano che, beh, uhm, effettivamente qualcosa non tornava, però… non è bella Ain’t More Cane? E allora qual è il problema?

DYLAN: “Richard, canta una strofa”.
MANUEL: “Che canzone è?”
DYLAN: “Non importa, canta una strofa” (Bring It Home).

Per molto tempo i Tapes del 1974 sembrarono essere gli unici che si sarebbero mai ascoltati. Ma i dylaniti non si davano per vinti e lentamente il muro di omertà cominciò a sgretolarsi. Qualche brano inedito venne stampato qua e là. Nel 2007 uno dei pezzi più strani dei Tapes, I’m Not There, uscì nella colonna sonora del film a cui dava il nome, il bizzarro biopic di Dylan di Todd Haynes. E poi nel 2014 uscì l’undicesimo volume della serie ufficiale dei bootleg di Dylan, interamente dedicato ai Basement Tapes, riesumati dagli scatoloni, ripuliti e rimasterizzati. Sono sei cd. Centotrentotto pezzi, di cui centodiciassette inediti. Sono una testimonianza inestimabile di uno dei periodi fondamentali della carriera di Bob Dylan.

E io… non li ho ascoltati (continua sul Post!)

memoria del 900, musica

Bambini, attenti a Nonno Superman!

Qualche giorno fa ci ha lasciato Cino Tortorella: attore, regista, giornalista, pioniere della televisione italiana, e in particolare della televisione per bambini; per più di trent’anni una presenza ubiqua su Rai e canali locali, sul Corrierino e sul Giornalino, ovunque un bimbo mettesse il naso, di lì Tortorella era passato, lasciando spesso un segno. Ma tutti lo ricorderanno soprattutto per lo Zecchino d’Oro, la rassegna canora che s’inventò dal nulla e che presentò per cinquant’anni, prima vestito da mago e poi in borghese. Lo Zecchino è stato uno dei tanti modi in cui gli italiani si sono raccontati, dagli anni Sessanta in poi. Tra una strofa e l’altra c’è il boom, la guerra fredda, la distensione, la crisi della prima repubblica e tanto altro. Qui sotto qualche appunto, e qualche dritta per chi ama il genere o deve imparare a conviverci (può succedere a chiunque).

1965: Dagli una spinta
Di scena sono i missili e i razzi a propulsion, qualcuno entra in orbita, qualcuno fa eccezion; poi quelli che ricadono in fumo se ne van: son cose che succedono, ma si rimedieran. Le generazioni centrali del Novecento sono nate col treno a vapore e hanno fatto in tempo a vedere l’uomo sulla luna: l’osservazione che altrove avrebbe ispirato epici inni al progresso, qui ottiene l’effetto contrario. Verga rovesciava positivismo e darwinismo e voleva raccontare la storia dei Vinti; Dagli una spinta finge un po’ di ottimismo ma condivide lo stesso punto di vista. Non importa cosa inventeranno domani di eccezionale, vedrai che a noi si guasterà comunque. Noi siamo quelli che scendono e spingono… no, in effetti noi siamo già un po’ troppo furbi, un po’ troppo cinici, noi siamo quelli che dicono agli altri di scendere e spingere.

1967: Per un ditino nel telefono
Sette-sette-sette arrivò la polizia, e invadendo casa mia portò via il mio papà… La tecnologia è il male. Il bambino cerca di infilarci un dito perché è piccolo e perfido. Non ne potranno seguire che sventura e vergogna. Ci metteranno le manette i carabinieri. La polizia ci porterà in prigione. La mamma in manicomio. Ogni volta che sui giornali leggete un pezzo sgomento sugli orrori di internet e sui social network – covi di spacciatori e stupratori seriali – e vi domandate: ma questi giornalisti da dove saltano fuori?, beh, è difficile dirlo, ma forse nel 1967 seguivano lo Zecchino d’Oro (continua nientemeno che su Rivista Studio! Qui sotto lascio i video).

Bob Dylan, concerti, musica

L’uomo che urlò "Giuda" a Dylan, forse

Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert” (The Bootleg Series, vol. 4, 1998).
The Real Royal Albert Hall 1966 Concert (2016)

(L’album precedente: Blonde On Blonde.
L’album successivo: The Basement Tapes).

Questa è la versione ufficiale
(NON del concerto di Londra).

Sì, ti vedo sul davanzale della tua finestra, ma non saprei dire quanto tu sia lontana dall’orlo. E comunque, farai solo urlare e saltare un sacco di gente – perché vuoi fare una cosa del genere? Tanto lo so che lo sai che lo so che lo sai che qualcosa ti sta strappando la testa… dimmi mamma, che cos’è? cosa c’è che non va stavolta? (Tell me, momma).

In un altro universo l’estate dell’anno scorso è stata l’occasione per celebrare la tragica scomparsa di Bob Dylan, il geniale cantautore americano che in poco più di quattro anni si impose come il portavoce della sua generazione prima di sfracellarsi in moto, sul Glasco Turnpike, il 29 luglio del 1966. Il coro dei commossi colleghi superstiti (Joni Mitchell, Joan Baez, Phil Ochs, Neil Young) è stato una volta in più interrotto dalla vecchia linguaccia di John Lennon: Ok, (ha detto, più o meno), era un grande, era persino mio amico, però sarebbe bello se la gente lo ricordasse ascoltandone le canzoni, invece di raccontare le solite storielle – avvistamenti nel Village, era lui! – o rifriggere teorie del complotto. C’è ancora chi dà la caccia agli oltranzisti folk, chi cerca di inchiodarli agli indizi. Confessa! Eri tu che lo fischiavi a Londra, anzi no era Manchester, eri tu che lo chiamavi Giuda, ammettilo! Sei tu che gli hai manomesso la moto! Come se la gente andasse davvero in giro ad ammazzare i cantanti che la deludono. E non è neanche stato Grossman, di certo un figlio di puttana come tanti altri manager: no, non lo mise sotto perché aveva paura che Bob si accorgesse di aver firmato contratti discutibili. Non fu nemmeno la moglie ad avvelenarlo, lo volete sapere davvero perché è morto? Perché guidava di merda, da ragazzino era il terrore di Hibbing Minnesota, una volta aveva quasi ruotato un bambino. E poi, insomma, in quel periodo era continuamente fatto, io me lo ricordo bene. Era un genio, mi fa impazzire pensare a che canzoni avrebbe potuto scrivere dopo Blonde On Blonde, magari avrebbe eclissato pure noi Beatles, non scherzo… ma ogni volta che raccontate di qualche complotto massone-giudaico-folk me lo uccidete per la seconda volta. Tutta quella paranoia che mi è venuta qualche anno dopo – lo sapete, non sono uscito di casa per quindici anni, cazzo – è colpa vostra: prima avete perso Gesù, poi ne avete sentito la mancanza e avete cominciato a cercarlo in noi musicisti. Allora ho una notizia per voi (stronzi): noi non resuscitiamo.

Un mese dopo l’Accademia di Svezia ha dichiarato che intendeva insignire del premio Nobel per la letteratura Leonard Cohen. Nel suo discorso – che non ha fatto in tempo a pronunciare, è morto in novembre anche in quell’universo – Cohen ha citato, tra i suoi ispiratori, anche Dylan: senza di lui sarei rimasto un romanziere qualsiasi, ha spiegato. È stato lui a convincermi che potevo usare una chitarra.

In quell’universo, Dylan è più famoso che nel nostro, anche se non ha mai scritto Knocking on Heavens Door, né Forever Young, né Tangled Up in Blue, né Hurricane. È il primo morto illustre del rock anni ’60 – tre anni in anticipo su Brian Jones. Il primo a mostrare che il gioco si stava facendo difficile, quando ancora molti credevano che si trattasse soltanto di una cosa da ragazzi, pace amore e capelli lunghi. Quel che più affascina gli ascoltatori di ogni età è la consapevolezza con cui Dylan aveva abbracciato il suo destino, corteggiando la morte in tutti i suoi dischi, in tutti i suoi concerti. In quell’universo il live del 17 maggio 1966 al Free Trade Hall di Manchester è di gran lunga il suo disco dal vivo più celebre e venduto. È l’ultimo. Dopo il funerale Grossman era disperato – un tour di quaranta date in giro per il mondo da annullare – non restava che recuperare tutte le registrazioni dei concerti e pubblicarne una all’anno, tenendo viva la fiamma del genio prematuramente scomparso. La registrazione amatoriale di Manchester era quasi migliore di quella supervisionata da Bob Johnston il 26 maggio al Royal Albert Hall di Londra: quando sarebbe comparso il bootleg, nel 1970, Grossman lo avrebbe fatto sequestrare per poi farne ristampare un’edizione un po’ ripulita dalla Columbia qualche anno dopo.

In quell’universo i dylaniti si sarebbero gettati immediatamente sulla testimonianza più drammatica dell’ultimo tour, cercando tra i solchi gli indizi della tragedia imminente. Di cosa parlava l’inedito che non fece in tempo a incidere, Tell Me Momma? Chi è la ragazza sull’orlo del davanzale, incerta se dare un po’ di spettacolo? Era già così stanco della vita, l’uomo che aveva smesso i panni di leader del movimento folk per una Telecaster e due occhiali da sole da rockstar? E perché al tizio che lo chiama “Giuda”!, prima di attaccare la sua ultima Like a Rolling Stone, Dylan rispondeva: “Non ti credo, sei un bugiardo?” Un fanatico, forse, un maleducato, senz’altro, ma perché un bugiardo? A qualcuno che vi accusa di tradimento, rispondereste mai: non ti credo? È quasi un’ammissione, non trovate? C’è gente che ha passato anni a farsi domande del genere – magari anche John Lennon.

La copertina di un bootleg.
(NON del concerto di Londra).

Nel nostro universo invece è successo qualcosa, non sapremo mai cosa. Un ripensamento all’ultimo istante, un riflesso condizionato, una svolta, una frenata. Fatto sta che Bob Dylan il 29 luglio 1966 non è morto. Rotta qualche vertebra, dice lui. Secondo alcuni non si è nemmeno fatto male – nessuno lo ha mai visto in ospedale. Ma una serie di concerti programmati negli USA, Grossman dovette cancellarli davvero, e non fu che l’inizio. Dylan non andrà più in tour per otto anni: la seconda fase della sua carriera è finita. Malgrado sia l’epoca classica, quella che più di ogni altra definisce la figura pubblica di Bob Dylan, è durata pochissimo, e a momenti non finiva in tragedia. In effetti, è strano che non sia andata a finire nel modo peggiore. Le premesse c’erano. Dylan è sopravvissuto al suo mito, cresciuto in modo così rapido e incontrollato che rischiava di soffocarlo. Tutto quello che ha fatto da quell’estate in poi in fondo è stato sopravvivere. Ci è riuscito egregiamente.

In questo universo il concerto di Manchester è stato per anni uno dei suoi bootleg più famosi, anche se nessuno lo sapeva. Una registrazione di discreta qualità era stata spacciata, sin dagli anni Settanta, come una testimonianza del concerto al Royal Albert Hall del 26 maggio. Dylan ha acconsentito a pubblicarne una versione ufficiale solo nel 1998 – è stata la seconda uscita della sua Bootleg Series. Persino questa uscita mantiene il nome “The Albert Hall Concert”, anche se tra virgolette, perché ormai i dylaniti lo conoscono così e a tirare in ballo Manchester rischiavano di confondersi. Poi, un paio di mesi fa, quando avevo già cominciato la mia dylaneide, la Columbia ha pubblicato in un’edizione limitatissima tutte le registrazioni di tutti i concerti del 1966, giusto in tempo per evitare che dopo 50 anni i diritti di qualche scoreggia di Dylan e degli Hawks non diventassero di dominio pubblico. Sono 36 cd. L’unico disco in edizione non limitata, e disponibile anche su Spotify, è quello relativo al vero concerto alla Royal Albert Hall, che si chiama appunto The Real Royal Albert Hall 1966 Concert. Tutto questo succedeva due mesi fa, dopodiché la Columbia ci ha fatto sapere che Dylan aveva pronto un nuovo disco di cover, triplo. Da quando ho iniziato a scrivere un pezzo su ogni disco di Dylan, lui ne ha pubblicati quasi una quarantina. Comincio a capire come si sente Achille mentre la tartaruga si allunga.

Il concerto di Londraa, quello vero.

Ricapitolando: quello tra virgolette (“The Albert Hall Concert”) non è quello inciso all’Albert Hall, anche se tutti lo hanno pensato per così tanto tempo che ormai è come se fosse vero; invece quello sottolineato (The Real Royal Albert Hall Concert) è stato inciso davvero all’Albert Hall da Bob Johnston, e infatti la qualità audio è un filo superiore, ma Dylan è anche un po’ più stanco e scazzato: all’inizio più che suonare She Belongs to Me sembra che voglia sbagliarla, che voglia tirarla da una parte o dall’altra finché non diventa un’altra canzone. Quanto agli Hawks, forse erano emozionati perché fino a pochi mesi prima suonavano nelle balere del Jersey, quando andava bene. Ed eccoli al Royal Albert Hall, pieno zeppo di inglesi. Che li fischiano. Con protervia e maleducazione. È una cosa che si vede meglio nei video su youtube, spezzoni di quel documentario che Dylan non riuscì mai a montare. Sembrano proprio intolleranti, e cattivi. Vattene a casa Bob, dicono. Stacca l’amplificatore. Lui è al pianoforte cerca di cominciare Ballad of a Thin Man, ci prova per qualche minuto, ma loro vanno avanti (non è successo né a Londra né a Manchester, ma da qualche parte è successo). Sembra che abbiano pagato il biglietto per quello: per venire a fischiare Dylan. Come ai tempi delle serate futuriste, il pubblico è al contempo il vero artista e il villain della storia che sarà raccontata negli anni a venire: perché la storia la vincono i vincitori e Dylan ha vinto – o perlomeno è sopravvissuto meglio dei suoi detrattori. Già nei primi Settanta, i pionieri della critica rock salutarono l’apparizione del bootleg come un quinto vangelo: il migliore rock dal vivo mai sentito, scrivevano. In effetti ai tempi non è che ci fossero molti live decenti in circolazione – i Beatles, com’è noto, non riuscirono a inciderne uno, troppi urletti: per i Rolling Stones si dovette aspettare il tour del 1970.

Un’altra copertina di un altro bootleg
(ma è sempre Manchester).

Ma Dylan suonava in ambienti più raccolti, per un pubblico, almeno in teoria, più qualificato: gente abituata a sciropparsi tre quarti d’ora di set acustico applaudendo soltanto a fine canzone, cioè in media ogni otto minuti. Questo fece di lui da subito l’artista più piratato, quando ancora portarsi in teatro un registratore a bobine non doveva esser poi così semplice: ma finché si trattava di registrare voce e chitarra, il risultato valeva quasi sempre la pena. Anche i set elettrici e modo loro funzionavano, e proprio per il motivo opposto: fischi e applausi andavano a fondersi con gli arpeggi di Robertson e le scariche di Mickey Jones, in un rudimentale muro del suono che l’edizione ufficiale del 1998 ha parzialmente sgretolato. Ora voce e strumenti si sentono meglio e forse anche un po’ di mito è venuto via col rumore di fondo – mi chiedo chi oggi ascoltando “The Royal Albert Hall” per la prima volta oserebbe ancora definirlo il miglior disco rock dal vivo. Voglio dire: è ancora roba di prima qualità, brillante, pioneristica. Non assomiglia a nessun gruppo rock inglese, e nemmeno al blues americano – con una mossa autolesionistica, man mano che procedevano nel tour, Dylan e gli Hawks avevano accantonato tutti i blues degli ultimi due dischi, i brani più facili. Quella che viene eseguita è una musica con solide radici nella tradizione musicale americana, ma con fiori e frutti completamente nuovi. Più duttile del blues, meno immediata del nuovo rock. Non molti erano pronti ad ascoltarla nel 1966: senz’altro non i cultori folk che avevano comprato il biglietto nella speranza di riascoltare The Times They Are A-Changin’ o Hattie Carroll. Ma sul serio era il migliore rock in circolazione? Il punto di arrivo della carriera di Dylan? I critici riascoltano i dischi rimasterizzati e dicono di sì, il pubblico pagante fischiava, gli Hawks tornarono a casa piuttosto avviliti (Levon Helm, il batterista e leader, era stato il primo a dare forfait), Dylan pur di non proseguire combinò un incidente in moto. E se il pubblico non avesse avuto tutti i torti? Se la strada era davvero quella giusta, perché Dylan non ha proseguito in quella direzione?

Nel 1999 un giornalista è riuscito a scovare il cattivodi tante leggende dylanite, l’Accusatore di Manchester: l’uomo che fu registrato e filmato mentre gridava: “Judas” (continua sul Post).

Bob Dylan, musica

Dylan finge proprio come un uomo

Blonde On Blonde (1966)

(L’album precedente: The Cutting Edge 1965-1966
L’album successivo: The “Royal Albert Hall Concert”).


Ti suonano se provi a filar dritto

ti suonano come ti avevan detto.
Ti suonano se resti in casa, dunque
stai solo, ma ti suonano comunque. 
Ma non c’è neanche più da lamentarsi: 
Tutti quanti devono suonarsi.

Ci dev’essere stato un errore al negozio di dischi – eppure sulla label del singolo c’è proprio scritto BOB DYLAN. Che abbiano sbagliato a stamparlo? O è uno scherzo? Insomma, c’è una banda che suona. Non una band elettrica: è proprio una banda di ottoni. E però c’è anche… l’armonica, e adesso… questo è proprio lui. Mio dio, ma sul serio? Questa cosa è l’ultimo singolo di Bob Dylan? E dopo questo, cosa?

Ti suonano se tieni la tua rotta,
ti suonano se provi a tener botta,
ti suonano finché non vai al tappeto,
poi strisci a casa e ti suonano dietro.
Ma non ha davvero senso lamentarsi:
tutti quanti devono suonarsi. 

È il febbraio del 1966. Blowin’ in the Wind è uscita appena quattro anni prima. Il nuovo singolo si chiama… non ha un vero nome, è uno di quegli irritanti titoli a caso che Dylan tira fuori quando è su di giri, Rainy Women #12&35. Ormai lo abbiamo capito, Dylan dà i numeri quando vuole sembrare misterioso, ogni cifra è una bugia. Qui ce ne sono due. E un gioco di parole abbastanza triviale sul termine “stoned”, che da qualche mese nello slang giovanile non significa più “ubriaco”, come nei vecchi dischi di Ray Charles, ma “fumato”. Ma soprattutto c’è una specie di banda di ottoni. Non si sono mai sentiti gli ottoni in un disco di Dylan. In generale, non ci sono bande di ottoni nei dischi dei babyboomers bianchi. Neanche i Beatles ci hanno ancora provato (Got to get you out of my mind uscirà su Revolver in primavera). Dopo Rainy Women diventeranno, per qualche tempo, necessari. Una banda manderà a casa i perplessi ascoltatori del prossimo disco dei Rolling Stones, Between the Buttons (Something Happened to Me Yesterday). E una banda, naturalmente, prenderà il posto dei Beatles dopo il primo ritornello di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band. Tutta questa deriva orchestrale non sarebbe stata possibile se Dylan non avesse dato il la: la fase bandistica del pop-rock anni Sessanta comincia a Nashville. Di tutti i posti al mondo.

Sappiamo che Dylan è andato in Tennessee dopo una serie di session frustranti a New York, su suggerimento del produttore Bob Johnston, per poter lavorare con professionisti disciplinati, onesti operai del country. Appena arriva fa una serie di mosse abbastanza disorientanti – col senno del poi, si direbbe che vuole semplicemente mostrare che è il boss. Prima mossa: devastare il luogo di lavoro, facendo abbattere le tramezze tra i box dei musicisti: devono tutti suonare nello stesso open space, guardarsi in faccia, come a New York. Seconda mossa: dare appuntamento agli operai alle sei di sera per incidere un pezzo, tenerli alzati per una notte intera perché il pezzo non è ancora pronto, per poi arrivare, alle quattro del mattino, con gli accordi e il testo di Sad-Eyed Lady of the Lowlands: la leggenda dice che cominciarono a suonarla senza sapere che sarebbe durata più di dieci minuti; che a un certo punto temevano che sarebbe durata per sempre e non sapevano più come continuare il crescendo, finché alla fine Dylan non fu sazio e fu buona la prima – non è vero, la registrarono almeno tre volte, abbiamo le prove, ma i dylaniti preferiscono le leggende. Terza mossa: portare in sala un po’ di fumo e qualche cassa di alcolici, perché ha appena scritto una canzone sullo stonarsi e deciso che gli onesti operai l’avrebbero suonata stonati, scambiandosi gli strumenti. Come ai tempi di Another Side, quando aveva registrato Black Crow Blues ubriaco al pianoforte: lo stesso metodo applicato a un’orchestra (anche questa forse è una leggenda, alcuni dei musicisti sostengono di non aver visto né alcol né altre sostanze ricreative).

Aveva senso spostarsi centinaia di chilometri più a sud; scritturare altri session men, per poi trattarli come pupazzi? Evidentemente un senso c’era, i risultati arrivarono. Rainy Women salì al secondo posto della Top100 di Billboard, eguagliando il record di Like a Rolling Stone. So che è difficile da accettare, ma è la canzone di Dylan che ha più influenzato l’immaginario pop italiano: anche chi non ha mai ascoltato Blowin’ in the Wind conosce l’espressione Ti tirano le pietre. Il pezzo verrà poi inserito all’inizio del nuovo 33 giri, Blonde On Blonde, che a mezzo secolo di distanza continua ad avere uno degli attacchi più memorabili della storia del rock: ti aspetti batteria e chitarre, parte un trombone (qualcuno ancora si aspettava chitarra folk e armonica: BD era due stanze più in là). Se Dylan si metteva a usare il trombone, veramente qualsiasi cosa era possibile. Proseguendo nell’ascolto con questo approccio, si può anche restare delusi: più che per sperimentare, Dylan è venuto a Nashville per limare, togliere il superfluo, mettersi a fuoco (proprio lui che durante le session di New York aveva scelto, per la copertina, uno scatto sfuocato). La scelta tra pianoforte e organo non era più procrastinabile. Nell’unico brano salvato dalle session newyorkesi, One of Us Must Know, senti ancora Al Kooper e Paul Griffin (o Garth Hudson?) che si sfidano, improvvisando fughe in ogni spazio vuoto. Una polifonia simile imperversava anche nelle esibizioni live, che venivano fischiate magari per altri motivi, ma insomma a un certo punto qualcuno deve essere riuscito a convincere Dylan che una tastiera sola bastava. E anche stavolta, tra il dilettantismo di Kooper e il buon senso, Dylan sceglie Kooper. Il suo organo sgargiante e indisciplinato, che aveva già reso peculiare Like a Rolling Stone, diventa la seconda voce del nuovo disco: un contrappunto per la voce di Dylan, più onnipresente dell’armonica. Vogliamo dirla tutta? Alla lunga può stancare. I pezzi di Highway avevano tutti un loro suono peculiare, erano tutti esperimenti diversi. Quelli di Blonde hanno melodie più originali (Dylan sta quasi troncando il cordone ombelicale col blues), ma il sound è più uniforme. Fanno tutti parte dello stesso esperimento, riuscitissimo, per carità: ma è una direzione sola.

È quel “thin wild mercury sound” che Dylan avrebbe descritto più di dieci anni dopo in una famosa intervista a Playboy come la cosa più vicino al suono che aveva in testa. Un’ammissione importante: dopo Blonde On Blonde Dylan avrebbe avuto a disposizione musicisti ancora più bravi, e ancora più tempo e denaro, senza riuscire mai più ad arrivarci – in molti casi non avrebbe nemmeno perso tempo a tentare. I traduttori italiani poi s’ingegnano come possono, e per molti anni io ho continuato a leggere qualcosa come “un suono sottile e selvaggio come il mercurio”. Ultimamente invece va di moda tradurre “mercuriale”, benché per il Sabatini Coletti significhi soltanto “Tariffario, listino ufficiale dei prezzi medi correnti delle merci, emanato dalle camere di commercio“, o “Di preparato farmaceutico contenente mercurio“. Ma credo che i traduttori abbiano in mente il dio Mercurio/Hermes, messaggero alato e criptico, e non si decidano a tradurre “ermetico” per timore che Dylan sia accostato al primo Quasimodo o al secondo Ungaretti. Io nel frattempo ormai non ci posso fare niente, le vecchie traduzioni mi sono entrate sottopelle, il mio Holden continua a dire “compagnia bella”, e se socchiudo gli occhi mentre ascolto Blonde On Blonde continuo a vedere le palline grigie di mercurio che si squagliavano e ricompattavano quando rompevi un vecchio termometro. Cosa c’entra esattamente col suono di Blonde? Forse è la melodia che si scompone e si ricompatta nei fraseggi di Kooper? Non saprei. Senza quel continuo lavoro di scomposizione della melodia, le canzoni più lunghe (Stuck Inside the Mobile, Visions, Sad Eyed Lady), sarebbero monotone; e però è anche vero che quell’organo alla lunga stucca. Il prezzo da pagare per una messa a fuoco è una certa perdita di freschezza. Meno imprevisti, meno sorprese. In Highway Dylan si trovava ancora al crocicchio tra tante diverse possibilità: in Blonde ha fatto le sue scelte. Inevitabilmente, ha rinunciato a qualcosa.

Ora il ciarlatano mi diede due medicine, e mi disse: buttati. Una era un filtro texano, l’altra grappa da vagabondi. E io, come un pazzo, le ho mischiate, e mi hanno stritolato il cervello: e ora la gente è diventata più brutta, e ho perso il senso del tempo – oh mamma, ma vuoi vedere che questa è davvero la fine? Un’altra volta bloccato nel fiume Mobile, col blues di Memphis?

Oggi entrambi i dischi sono unanimemente considerati capolavori – Highway ha il grosso vantaggio di contenere Like a Rolling Stone. Ai tempi il giudizio medio, di fronte a Blonde, era più prudente. Non c’era dubbio che Dylan si stesse evolvendo, ma Blonde non suggerisce l’idea di essere un punto d’arrivo, anzi. Fu l’incidente in moto, a pochi giorni dall’uscita dal disco, a rendere definitivo un assetto che non era stato concepito come tale. E pensare che è uno dei dischi meno escatologici di Dylan: il pensiero della morte, così ossessivo in Highway, è quasi scomparso. È buffo dopo tanti anni rileggere quel che scriveva Fernanda Pivano nella prefazione alla prima traduzione italiana dei testi, e scoprire che per lei e per molti suoi coetanei Blonde era stata la svolta commerciale: è un’ingenuità che può far sorridere, l’idea di Dylan che si mette sul mercato incidendo sette minuti di criptiche Visions of Johanna o altri sette di Stuck Inside the Mobile. Può anche destare un po’ d’invidia, una generazione le cui svolte commerciali producevano oggetti di valore come Blonde On Blonde;  Bisogna anche dire che nel 1965 Lyndon Johnson aveva iniziato un bombardamento sistematico del Vietnam del Nord; Malcolm X era stato assassinato; Martin Luther King era riuscito a portare il suo popolo a piedi a Selma (Joan Baez era presente) e a far approvare una legge federale antisegregazione. Di tutto questo Dylan aveva improvvisamente smesso di parlare, ma almeno in Highway aveva continuato a insistere su certi temi familiari ai suoi ascoltatori impegnati: la morte, la decadenza, tutto quell’armamentario esistenzialista che a sinistra va bene su tutto, come il nero.

Blonde On Blonde invece comincia con una fanfara ubriaca, l’unica reazione riservata ai vecchi fan traditi che lo fischiano ai concerti – si capisce che non è più la stessa persona avvelenata dei tempi di Positively, che quello che qualche mese prima lo tormentava ormai è solo un pretesto per farsi due risate. I brani nuovi sono sempre più orecchiabili, alcuni sembrano veramente scritti con in testa la classifica (I Want You!), il blues per la prima volta dai tempi della svolta elettrica è minoritario. Nella facciata elettrica di Bringing, cinque pezzi su sette erano blues. In Highway cinque su nove. In Blonde, cinque su quattordici. Gli altri sono nove pezzi originali, nove progressioni armoniche una diversa dall’altra: uno sforzo di composizione senza precedenti per lui. Addirittura in alcuni brani ci sono gli incisi, i middle-eight – una soluzione tipicamente pop che Dylan non aveva mai usato in tutta la sua carriera (alcuni sono tra i momenti più memorabili di tutto il disco: c’è bisogno di ricordare in che canzone a un certo punto Dylan dice: It was raining from the first and I was dying there of thirst so I came in here?)

Dylan è un uomo ormai, Dylan ha messo su famiglia… (continua sul Post).

Bob Dylan, musica

Nessuno sbaglia come Dylan

The Cutting Edge 1965–1966 (The Bootleg Series Vol. 12, 2015).

(L’album precedente: Highway 61 Revisited
L’album successivo: Blonde On Blonde).

Siede nella tua camera (la tua tomba) con un pugno pieno di puntine, tutto preso dai suoi propositi di vendetta. Maledice i morti che non possono rispondergli: lo sai che non ha nessuna intenzione di guardare dalla tua parte, se non per dirti che ha bisogno di te per testare una sua qualche invenzione… Per favore, perché non te ne sgusci dalla finestra? Con le tue braccia e le tue gambe, non ti farai male. Come fai a dire che ti mancherà? Potrai tornare da lui quando ti pare.  

Qual è il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso? No, non quello che vi piace di più. Non Like a Rolling Stone – è una canzone importante, nessuno nega che abbia cambiato la storia della musica, ma dopo un po’ è normale che uno non abbia tutta questa voglia di riascoltare Like a Rolling Stone. Il pezzo di Dylan che ascoltate più spesso non è nemmeno il titolo che sparate quando vi chiedono il brano preferito, cercando di non sembrare né troppo scontati (Blowin’ in the Wind) né troppo hipster (Blind Willie McTell): e niente Hurricane, per carità bellissima Hurricane, ma quante volte in macchina l’avete riascoltata davvero, l’avete riascoltata tutta? 15 anni fa Nick Hornby scelse la sincerità: la canzone di Bob Dylan che resisteva meglio sulla sua autoradio era Can You Please Crawl At Your Window. Sul serio? Io ci credo.

Può sembrare una scelta snob – di tutti i singoli del ’65, si tratta di quello che non è mai stato ripubblicato in nessun Greatest Hits, il che equivale a una specie di sconfessione: Dylan l’ha suonata in un solo concerto e poi l’ha dimenticata, o ha voluto che ce la dimenticassimo. Ci siamo quasi riusciti: Can You Please è un pezzo che è stato rimosso dalla memoria del pubblico. È un fenomeno abbastanza curioso; per esempio, in alcune biografie si accenna al fatto che nell’entourage di Andy Warhol Like a Rolling Stone venisse considerata una specie di caricatura del Maestro. Ma Like a Rolling Stone parla di una ragazza ricca che si ritrova a vivere per strada, non sembra c’entrare molto con la factory di Warhol: ed è anche abbastanza improbabile che in quel momento Dylan conoscesse già l’ereditiera Edie Sedgwick, modella e attrice nei film di Warhol, e si immaginasse un futuro così disastroso per lei. Can You Please invece è stata scritta qualche mese dopo; somiglia a Like a Rolling Stone al punto di sembrare un ripensamento, una parodia; il ritornello ha la stessa progressione, anche se accelerata (I-IV-V) e ancor più simile alla Bamba o a Twist and Shout; persino l’arrangiamento è un ritorno senza vergogna alle soluzioni già sperimentate di Rolling Stone, con l’organo di Kooper sempre più scatenato: e soprattutto è una canzone che invita una ragazza a sgusciare dalla finestra, ad abbandonare uno strano tizio pieno di sé che ha bisogno di lei soltanto per “testare le sue invenzioni”. Magari non è Warhol, ma non è così strano che a Warhol fischiassero le orecchie: e a quest’altezza la Sedgwick era già il grado di separazione tra le due celebrità. Ma poi che succede? Can You Please non viene più ripubblicata, non viene più suonata, sparisce negli scatoloni dove i dj e i dylaniti ammucchiano i 45 giri, e dieci o vent’anni dopo i reduci si confondono: tutto quello che si ricordano è che Warhol si sentiva preso in causa da un singolo di Dylan nel ’65, e nel ’65 Dylan ha pubblicato Like a Rolling Stone; così Like a Rolling Stone si sostituisce a Can You Please nella memoria collettiva.

Sembra così sincero, è così che si sente, mentre cerca di pelare la luna ed esporla. Con la sua rabbia da uomo d’affari e i suoi levrieri accucciati… se ha bisogno di un terzo occhio, se lo fa crescere. Ha bisogno di te soltanto per parlare, o perché gli allunghi il gessetto, o glielo raccogli quando lo butta via… ma perché non sgusci via dalla tua finestra? 

Forse sarebbe stata dimenticata ancora di più se gli stessi biografi non l’avessero legata a un aneddoto drammatico; è la canzone che fece litigare Dylan con Phil Ochs, nel più cinematografico dei modi. Erano in limousine – magari era semplicemente un taxi, ma sapete come funziona coi ricordi – Dylan gliela fece ascoltare in anteprima, Ochs non fu abbastanza svelto a salutare l’ennesimo capolavoro del genio, Dylan in crisi d’astinenza di autostima lo fece smontare dal mezzo apostrofandolo col peggiore degli insulti: non sei un songwriter, sei un giornalista. Ochs ci restò molto male e dieci anni e cinque dischi dopo si suicidò – c’è chi ha veramente scritto questa cosa, che il suicidio di Ochs comincia quella sera. Pensateci bene perché magari pure a voi è capitato di avere uno screzio con un tizio che dieci anni dopo si è tolto la vita: pensate come la prendereste se ogni tanto qualche giornalista buttasse lì che lo avete ammazzato voi. Con questo tipo di stronzate Dylan convive da quando è maggiorenne, insomma la sua diffidenza per i cronisti è parzialmente giustificabile.

Can You Please forse non era una canzone su Warhol; di sicuro non era una canzone su Ochs anche se col tempo è diventato impossibile non pensarci – e forse è il motivo per cui Dylan preferiva lasciarla in fondo al cassetto. È certamente uno di quei brani a cui si riferisce quando racconta di essersi accorto solo dopo l’incidente che molti “He” o “They” delle sue canzoni in realtà erano riferiti a sé stesso. Il tizio pieno di sé e di trucchi da cialtrone, che “se ha bisogno di un terzo occhio se lo fa crescere”, magari non nasce come caricatura del Dylan superstar del 1965, ma funziona benissimo anche in questo senso. È anche complementare a un altro brano interessante e accantonato nello stesso periodo, She’s Your Lover Now; è il primo vero triangolo affettivo che incontriamo in una sua canzone, il che anticipa una situazione canonica di Blonde On Blonde. È insomma un brano che col tempo è stato eclissato da altri simili che funzionavano meglio. In fondo alla fine del ’65 Dylan compone soltanto due tipi di canzoni: i cari rassicuranti blues e le progressioni ascendenti-discendenti sulla falsariga di LikePositively è Rolling Stone 2 la vendettaCan You Please è Rolling Stone col sorriso e il 50% di Bamba in più, hai visto mai che alle radio piacesse (non piacque).

Perché lui sembra sempre nel giusto, mentre tu cambi faccia? Ti fa paura la scatola in cui ti tiene? Mentre i suoi matti da genocidio e gli amici risistemano il loro Culto delle Dieci Piccole Donne che darà loro autorevolezza, ma la tua faccia mostra le contusioni… coraggio, il buio sta arrivando, per favore, puoi sgusciare dalla tua finestra?

Però proprio il fatto che non sia piaciuta molto né al pubblico né allo stesso Dylan, ha fatto sì che un quarto di secolo dopo Hornby la potesse incontrare quasi per caso e trovare fresca: l’unico brano del 1965 che per vent’anni non si era ascoltato quasi nessuno, che nessuna radio classic rock aveva ritenuto necessario programmare, l’unica su cui non si era depositata la polvere. Nello stesso periodo, Dylan si decide ad aprire i suoi archivi e fa una scoperta forse per lui un po’ deprimente: il primo volume di The Bootleg Collection vende meglio dei dischi che sta facendo in quel periodo. Dunque non è vero che la gente non ha più voglia di ascoltare pezzi nuovi da Dylan; il problema è che vuole pezzi nuovi del giovane Dylan, non del Dylan cinquantenne che pure nel frattempo è riuscito a riconquistare l’attenzione dei critici. Non è nemmeno un problema insormontabile, dopotutto nei cassetti ha ancora un sacco di roba di quegli anni che, se proprio la gente insiste, si può ripubblicare.

Dopo una vita che guardi la foto sfuocata
sulla copertina di Blonde On Blonde, ti sembra
assurdo che quel mattino le persone potessero
essere a fuoco

The Cutting Edge, uscito solo nel 2015, non è l’ennesimo ripescaggio nel cassetto del 1965-1966: è il cassetto intero. Nella sua versione più estesa (18 cd) contiene tutto quello che Dylan ha registrato in studio in quei due benedetti anni, comprese le finte partenze. Io non ho nessuna intenzione di ascoltarla: la vita è breve già così. Neanche la versione deluxe in appena sei cd. Forse, dico forse ho ascoltato quella ristretta in due cd; su Spotify c’è una scelta di appena settanta minuti. Come Hornby, ci tengo a prendere le distanze dai dylaniti di stretta osservanza, quelli che si ascoltano venti take diverse di Rolling Stone anche se alla fine Dylan ha pubblicato la settima – e quindi per favore, non dite che vi serve a capire come ha fatto ad arrivare alla versione perfetta: non c’è nessuna versione perfetta, e la migliore è arrivata quasi subito, le altre erano una perdita di tempo anche per lui, figuratevi per voi che le riascoltate.

Ho un’altra cosa in comune con Hornby, ovvero: anche a me Can You Please Crawl Out piace un sacco. Probabilmente è il pezzo di Dylan che riascolto più spesso, e se fossi stato su quella limo con Ochs gli avrei detto, amico, sei matto? Questa spacca, questa è persino meglio di Like a Rolling Stone, ha più tiro, più passaggi dal maggiore al minore, è un po’ meno stronza e un po’ più piaciona, questa è la svolta ragazzi! E almeno io sulla limo ci sarei rimasto, ma in breve tempo Dylan avrebbe cominciato a fidarsi meno di me che di Ochs.

Non è che posso lottare con la storia: se Can You Please è piaciuta di meno, evidentemente c’è un motivo: e però continuo a riascoltarla più volentieri. La progressione delle strofe non assomiglia a nient’altro, se non anticipa certe soluzioni indie-rock di trent’anni; è più beffarda e meno cattiva di Like; se la interpreti come un’autoparodia, è la dimostrazione importante di come Dylan sapesse osservarsi da fuori e prendere le misure dello stronzo che era. La rabbia di Positively 4th Street è passata, ha lasciato il posto a una smorfia beffarda: quando nel finale auto-cita l’attacco di Positively (“You’ve got a lot of nerve to say you are my friend, if you don’t crawl at your window”), capisci che non ce l’ha più con nessuno, non è il motivo per cui vuole che quella ragazza lo raggiunga in strada. Forse sto continuando a difendere questa mia idea di un Dylan allegro, uno che nei versi mortiferi di Highway 61 non ci crede davvero, uno che si diverte a far ritmare la sua Twist and Shout col campanaccio (il cowbell!) Can You è particolarmente fracassona, la testimonianza gioiosa di quelle session di fine ’65 con gli Hawks che avrebbero dovuto produrre un album nuovo e invece convinsero Dylan a spostarsi a Nashville, dove avrebbe registrato Blonde on Blonde, per farla breve il suo disco più grande. Anche qui abbiamo pianoforte e organo che vanno per i fatti loro, è una gara a chi fa più casino e il risultato è che si annullano a vicenda (spunta molto più la chitarra di Robertson).

Potete vivere senza un intero CD
 di prove scartate di Like a
Rolling Stone?
Io posso.

Come ormai sappiamo, tra gennaio 1965 e giugno 1966 Dylan inventa un suo stile elettrico, qualcosa che non aveva precedenti e che lui stesso non riuscirà in seguito a replicare in laboratorio. Comincia da una posizione di handicap: a gennaio ancora non è in grado di suonare con una band. Prendete una qualsiasi delle versioni di Subterranean (anche quella incisa in Bringing) e provate a canticchiare la linea del basso, che è semplicissima e dovrebbe tenere insieme la canzone: Bom, Bom, Bom, bombobom Bom Bom Bom bombombom eccetera. Vedete che non c’è proprio verso di tenere il tempo, Dylan sbaglia gli attacchi, è abituato a misurare il tempo con la sua voce e non riesce a cedere il ruolo a una sezione ritmica. Fortuna che alla consolle c’è Tom Wilson che lo rincuora e gira qualche manopola per occultare i problemi peggiori. Rapidamente BD impara quel minimo di disciplina necessaria a non far impazzire i musicisti che lo accompagnano. A maggio sta già usando lo studio per comporre: Like a Rolling Stone all’inizio era un valzer suonato sui tasti neri del pianoforte. Il motivo per cui diventa un pezzo rock – il più importante pezzo rock, secondo la rivista omonima – è che i valzer ancora per un po’ non riuscirà a suonarli con un gruppo, il quattro quarti è l’unica cosa che funziona e appena si allontana dalla struttura del blues i rischi si moltiplicano. Posso dire un’eresia? Passando ai quattro quarti, Like a Rolling Stone ha perso qualcosa (continua sul Post).

Bob Dylan, musica

saluti dalla forca, vostro bob

Highway 61 Revisited (1965)

(L’album precedente: No Direction Home
L’album successivo: The Cutting Edge 1965-1966).

Vendono cartoline dell’impiccagione.

Esiste un modo migliore di cominciare una canzone, o qualsiasi altra cosa? Funzionerebbe persino su internet: VENDONO CARTOLINE DALL’IMPICCAGIONE. Non clicchereste? Ok, voi magari no, ma fidatevi, sarebbe virale in cinque minuti. Dopo un inizio così puoi scrivere veramente qualsiasi cosa. Dylan ci scrisse Desolation Row, che in effetti è abbastanza vicina al concetto di “qualsiasi cosa”. Contiene Caino, Abele e il gobbo di Notre Dame; Casanova ucciso dal Fantasma dell’Opera con un’overdose di autostima; Ezra Pound e T.S.Eliot che fanno a pugni sulla plancia del Titanic, e cose persino più interessanti; ma non filerebbe così bene se non cominciasse con quel colpo di fulmine: da qualche parte hanno impiccato qualcuno, e sono talmente soddisfatti che hanno scattato foto e le spediscono come cartoline. Sembra il far west distopico della Lotteria di Shirley Jackson. Un incubo in un verso. Che genio visionario che è Bob Dylan, pensi.

Anni dopo, oziando su Internet, scopri che fino agli anni Venti negli USA le cartoline dalle impiccagioni esistono davvero: non negli incubi, ma anche nel Minnesota di Bob Dylan, uno Stato del Nord che non era mai stato schiavista. Nel 1920 tre operai neri di un circo appena arrivato a Duluth erano stati fermati con l’accusa di aver stuprato due ragazze. Siccome né la polizia né i medici riuscivano a trovare prove per un processo, ai bravi cittadini radunati fuori dalla prigione fu concesso di estrarre dalla prigione i tre colpevoli e appenderli a un albero. Poi i bravi cittadini si misero in posa per le foto. Dylan è nato a Duluth, vent’anni dopo, quelle foto le ha viste sicuramente. “Il circo è in città“, canta, nella stessa strofa. Da Duluth passa l’autostrada 61, quella che attraversa il paese da nord a sud collegando la regione dei Grandi Laghi con la valle del Mississippi fino a New Orleans: quella che incontra la 49 in quel mitico crocicchio in cui si racconta che Robert Johnson vendette l’anima al diavolo in cambio del privilegio di suonare il blues. È solo una leggenda: quel che è vero è che nel ’37 in quello stesso tratto morì in un incidente la cantante Bessie Smith. Aspettava soccorsi, ma in un ospedale per bianchi non l’avrebbero presa.

Adesso mi piacerebbe scrivere una melodia così semplice che potesse trattenere la vostra signora dalla pazzia; che potesse calmarvi, tranquillizzarvi, farvi passare il dolore della vostra consapevolezza inutile e insensata. La mamma sta in fabbrica, non ha le scarpe. Il babbo è per strada, cerca il fusibile. Io sono in cucina coi miei blues lapidari. 

Abbiamo lasciato BD confuso e amareggiato a Newport, il 25 luglio. Era andato a scandalizzare i finti poveri del folk festival, si era preso i fischi. Quattro giorni dopo è di nuovo in sala di registrazione. Incide un singolo, Positively 4th Street, una ringhiosa recriminazione contro quella scena del Village che ormai lo considera un traditore, e inizia a lavorare ai primi brani del prossimo album. Con lui c’è più o meno lo stesso gruppo di musicisti che gli ha aiutato a partorire Like A Rolling Stone. Compreso Al Kooper, il pianista che si era intrufolato nello studio e poi era riuscito a suonare un riff di organo che a Dylan era piaciuto. Invece non c’è più Tom Wilson, che quel riff avrebbe preferito nasconderlo nel missaggio. Dylan pensa di poter fare a meno di lui e forse non ha tutti i torti. Ma non aveva tutti i torti nemmeno Wilson, quando faceva presente a Dylan che Kooper non era un professionista dello strumento (non l’aveva mai suonato prima di allora). Lo stesso Kooper era convinto di partecipare a un esperimento, non di incidere la versione più famosa del brano rock più celebrato: sta seguendo gli altri strumenti, durante la strofa è sempre una frazione di secondo in ritardo. Per Dylan andava bene così. È l’eterna lotta tra il rock e il professionismo. Per Wilson quell’organo era una barbarie, per Dylan era l’elemento dissonante che faceva la differenza, che rendeva quella canzone diversa da tutte le altre.

Forse l’aveva capito ascoltando i Beatles. Persino nei primissimi dischi, con una strumentazione ridotta all’osso, i Beatles riescono sempre a mettere in ogni pezzo qualcosa che lo rende immediatamente riconoscibile, dopo pochi istanti di ascolto alla radio. Può essere un coretto, un riverbero, un accordo imprevisto: è la sigla dell’intera canzone, la firma che la rende diversa già al primo ascolto. In Bringing It All Back Home Dylan non ha ancora imparato a firmare i suoi pezzi elettrici: ogni strumento fa il suo dovere e il tappeto sonoro è abbastanza uniforme. In Highway 61 ci sono alcuni istanti tra i più inconfondibili di tutta la carriera di Dylan: l’attacco dell’organo di Like a Rolling Stone, il fischietto di Highway (preso in prestito dal nuovo accondiscendente produttore, Bob Johnston), l’introduzione pianistica di Ballad of a Thin Man (subito contrappuntata dall’organo di Kooper, che anche qui ha carta bianca e fa quello che gli pare), e in Desolation Row i fraseggi flamenco di Charles McCoy, il primo dei tanti musicisti di Nashville che suoneranno nei dischi di Dylan. Altre cose un po’ meno note ma ugualmente meritevoli: la spinta assurda di Tombstone Blues, con la chitarra acustica e la batteria che ci danno dentro come dannati mentre la chitarra di Bloomfield accompagna il canto calmissima, come un bluesman che si fa i fatti suoi su un vagone merci che sferraglia nella campagna; o la chitarra lievemente scordata di Queen Jane Approximately di cui forse Dylan non si è accorto; o l’ha lasciata perché era stufo di registrare; o perché le chitarre accordate si assomigliano tutte, mentre quella approssimativa di Queen Jane si ascolta solo in Queen Jane.

Quando tua madre ti rispedisce indietro tutti i tuoi inviti, e tuo padre spiega a tua sorella che sei stanca di te stessa e di tutte le creazioni, mi verrai a trovare, Regina Giovanna?

Highway 61 è un collage di tutte le cose che Dylan credeva di aver capito e che adesso non hanno più nessuna importanza: nomi vuoti che diventano filastrocche. C’è tutto un catalogo di persone che non dovrebbero essere lì (come nella copertina di Sgt. Pepper); non si capisce proprio cosa ci facciano: la bandita Belle Starr, Jack lo Squartatore, Giovanni Evangelista (c’è anche nell’ultimo dei Baustelle), Galileo, Dalila, Cecil B. De Mille, Ma Rainey e Beethoven che dividono la stessa tenda. E siamo solo a Tombstone Blues. Dylan ha inventato il namedropping ossessivo, il riciclaggio pop di una cultura alta/media/bassa che spunta fuori dai versi come le foto dai giornali che non si sono del tutto squagliate nel macero della cartapesta.

Ma Rainey, madre del Blues.

Highway 61 Revisited è l’unico disco di Dylan che io abbia comprato in vinile. Per qualche tempo per me la coolness coincideva esattamente con l’accovacciarsi in un angolo, guardando l’interlocutore con un’aria di sfida. Se ti guarda fissa così, evidentemente anche tu ti sei accovacciato. Ti sta ipnotizzando. Quando cominciano i vostri ricordi a colori? I miei genitori ricordavano tutto il loro passato in bianco e nero: colpa di tv e cinema. Io stesso ho sognato in bianco e nero per tutte le elementari. Gli anni della mia infanzia hanno i colori sfalsati dei filtri di instagram; gli anni Sessanta me li immagino in bianco e nero. Il colore comincia con due copertine di 33 giri: Sgt. Pepper Highway 61 (il che significa che gli americani arrivano al colore due anni prima, e tutto sommato ci sta). La storia dell’umanità acquisisce il colore direttamente dalla camicia di Bob. Il mio vicino di casa produceva camicie simili, le compravo a metà prezzo, ho accecato tutti i miei compagni di liceo e ora è un po’ troppo tardi per scusarsi, facciamo che è colpa di Bob Dylan.

(Nel centro secco e impolverato di Modena c’è un vicolo che, senza che BD ne abbia alcuna responsabilità, si chiama Squallore. È nel cuore del Ghetto, ma in quegli anni cosa potevo saperne. Lo scovai in una delle mie prime gite in cerca di negozi di dischi, e all’inizio avevo un po’ paura ad entrare, anche perché è uno dei pochi vicoli ciechi. Un giorno che aspettavo la corriera presi il coraggio a piene mani e mi addentrai. In fondo al vicolo c’era un tizio che si faceva, senza dubbi, una pera. D’altronde, che potevo mai aspettarmi in fondo a un vicolo cieco nel centro di Modena a metà anni Ottanta? Era una piazza di una certa importanza, i tossici di tutta l’Emilia venivano tutte le mattine col treno a farsi da noi. Però immaginatevi di essere un ragazzino che ascolta Dylan e trova un Vicolo Squallore e dentro c’è gente poco più grande di lui che si fa le pere. Ci scrissi una canzone, che altro potevo fare? Voi avreste fatto lo stesso).

È molto difficile scrostare i miei ricordi da Highway, e rendersi conto che è un disco molto diverso da quello che credevo di ascoltare io. Era un momento della mia vita luccicante, colorato, ogni giorno una promessa diversa e tuttora non riesco a convincermi che Dylan non fosse allegro mentre incideva Highway. Tanto poco facevo caso ai testi. Non avevo l’attenzione o la necessità di accorgermi che è l’allegria di un naufrago, di un condannato al patibolo, di un candidato suicida. Ogni solco parla di morte. “Ho bisogno di una ruspa, baby, per tenerla a bada”. È dappertutto, lo insegue sull’autostrada dal Minnesota, lo aspetta a casa – anche la sua ragazza è pronta a stendergli il sudario sulla testa. Sulla cima della collina, nel deboscio per turisti di Juarez, nel vicolo Desolazione, la morte è dappertutto. Persino la title track, l’apocalisse più scherzosa che Dylan abbia mai messo in musica, è più inquietante di quel che può apparire al primo ascolto. Dio disse ad Abramo: uccidimi un figlio. Abe disse a Dio: mi stai prendendo in giro? Potrebbe essere il primo riferimento esplicitamente biblico di Dylan. Ma anche il primo riferimento al padre, che si chiamava Abraham. Dio Disse, ehi Abe. Abe disse: beh? Dio disse: puoi fare come vuoi, ma la prossima volta che mi vedi ti conviene metterti a correre. Abe disse: questo sacrificio, dove lo vuole? Dio disse: sull’Autostrada del Sole. 

Un mese dopo il disco è pronto, ma Dylan è in California. Like a Rolling Stone si è fatta strada in classifica, ma non riesce ad arrivare alla prima posizione. Non ci sarebbero motivi per prendersela, se al primo posto non ci fosse Eve of Destruction, una canzone di protesta, una canzone contro la guerra nucleare! Una di quelle canzoni che Dylan aveva smesso di scrivere perché, tra le altre cose, voleva vendere di più. Una canzone, peraltro, che sembrava scritta da un discepolo del Bob Dylan acustico, uno che aveva preso molti appunti e ci aveva aggiunto poca fantasia. Si chiamava P. F. Sloan e prima di conoscere Dylan scriveva surf music. Portatemelo, dice Dylan. Ormai è abituato a comportarsi da boss. Il timido Sloan viene condotto all’Hollywood Sunset Hotel, al cospetto del Maestro Bob Dylan. Il Maestro in persona gli fa ascoltare Highway 61 Revisited in anteprima assoluta. Sloan è al settimo cielo, e quando ascolta Ballad of a Thin Man si rotola in terra dal ridere. Anche Bob ride. Che buffo questo Mr Jones che non capisce quel che sta succedendo. Alla Columbia credono che sia una canzone da comunisti, dice Bob. Poi esce perché è arrivato David Crosby dei Byrds.

Sloan rimane solo. Dalla stessa porta entrano due ragazze in topless (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Dylan sgozza il maiale sul palco del festival vegano di Newport

No Direction Home: Movie Soundtrack (The Bootleg Series, vol. 7, 2005)

L’album precedente: Bringing It All Back Home
L’album successivo: Highway 61 Revisited

Il proposito originale era ascoltare tutti gli album di Bob Dylan in ordine cronologico, e sopravvivere per raccontarlo. A mettersi in mezzo, oltre al buon senso, gli impegni professionali, gli affetti, la famiglia che preferisce ascoltare Baustelle e/o lo Zecchino d’oro, c’è Dylan stesso che è riuscito a incasinare la propria discografia come nessun altro. Per esempio, un album come No Direction Home va senz’altro ascoltato – contiene materiale inedito di un certo rilievo – ma quando?

Ero tentato di metterlo per primo, perché comincia con due pezzi registrati nel 1959/60 da Robert Zimmerman – o forse si faceva già chiamare “Bobby Dillon” – ai tempi di Hibbing, Minnesota. Sono le registrazioni più antiche che abbiamo della sua voce e sono emozionanti, soprattutto la prima (When I Got Troubles). Dylan quanti anni ha, 18? Maneggia la chitarra in modo rudimentale, ma ha già un’idea molto personale di come cantare il blues. Si intuisce un lungo apprendistato accanto a un giradischi gracchiante a 78 giri. Il ragazzino è già stato iniziato a uno dei misteri della musica nera, quella blue note estromessa dal pentagramma occidentale, né diesis né bequadro, uno spazio impossibile tra un tasto nero e uno bianco del pianoforte. Canta quasi sottovoce, da crooner, lasciando insoluto l’enigma: è vero quel che racconta la sua fidanzata di Hibbing, che prima di una bronchite mal curata nel 1960 la sua voce era diversa, più calda, meno nasale (simile a quella che avrebbe usato ai tempi di Nashville Skyline?) È difficile capire.

La raccolta poi prosegue con alcune preziose registrazioni del periodo acustico, qualche scarto interessante del biennio 1965-66, e alcune versioni dal vivo (tra cui l’unica versione live acustica di Chimes of Freedom). Allora ho pensato che se avessi ascoltato No Direction Home per primo mi sarei rovinato l’effetto sorpresa. Un’altra possibilità era ascoltarlo verso la fine, tenendo conto dell’anno in cui è stato pubblicato, il 2005. Siamo tra Love and Theft e Modern Times: in un momento in cui Dylan riscrive la sua storia, pubblicando il suo primo (e fin qui unico) volume di memorie, Chronicles, e affidando a Scorsese il materiale del film che voleva realizzare nel 1966 ma non era mai riuscito a montareScorsese utilizzerà qualche spezzone per un documentarioNo Direction Home, di cui questo disco è la colonna sonora. Siamo insomma nella fase in cui il 60enne Dylan rovista nei solai alla ricerca dei ricordi di giovinezza, occultando i più imbarazzanti e incorniciando quelli che si accordano con l’autobiografia che si sta costruendo (e di cui Chronicles I è soltanto una sfaccettatura). In questo senso non sarebbe del tutto sballato ascoltare No Direction Home così tardi: acquisirebbe il sapore di una gita in solaio, appunto. Ma se si tratta di un’operazione revisionista, non rischio di avallarla? Se c’è qualcuno di cui bisogna diffidare quando studi Bob Dylan, è il vecchio Bob Dylan. Se pretende che io unisca i puntini in un certo modo, sicuramente vuole che appaia qualcosa e che non si veda qualcos’altro. Ma io non sono qui per aiutarlo a scolpirsi il monumento.

L’idea sarebbe smontare, decostruire, insomma alla fine ho preferito inserire No Direction Home all’undicesimo posto, in quello spazio strettissimo che sta tra due dischi importanti come Bringing It All Back Home (registrato nel gennaio 1965 ma pubblicato soltanto a fine marzo) e Highway 61 Revisited (nei negozi a fine agosto). Basterebbero questi due termini per rendere il 1965 un anno cruciale. Ma in questi quattro mesi succedono almeno altre due cose fondamentali, di cui si può parlare mentre si ascolta No Direction Home:

1. Like a Rolling Stone. Il brano di Bob Dylan più popolare, più venduto, più ascoltato in streaming, viene composto in maggio, registrato il 16 giugno e pubblicato il 20 luglio. Su No Direction Home c’è una famosissima versione live, quella del concerto di Manchester del 1966, su cui torneremo. Ma intanto abbiamo una scusa per cominciare a parlare di Like a Rolling Stone.

2. Il debutto dal vivo con una band, nel luogo forse meno indicato al mondo: il Newport Folk Festival, il tempio degli hipster 100% acustici. Dylan verrà sonoramente fischiato, ma in un certo senso aveva cominciato lui. Su No Direction Home c’è il primo brano dei tre che riuscì a suonare, Maggie’s Farm, ed è una cosa notevole. Per essere la prima canzone che suona dal vivo con chitarra elettrica ed amplificatori, Dylan sembra molto promettente.

E dunque ci siamo. ora Dylan diventa una rockstar. Sembra facile: basta scrivere il pezzo giusto al momento giusto, la cosa che la gente voleva sentire. Peccato che sia completamente il contrario. Like a Rolling Stone non è il pezzo giusto, ed è il contrario di quello che sia i suoi fan sia il pubblico mainstream avrebbero voluto sentire. Al punto che la Columbia stava per buttarlo via: un singolo di sei minuti? Mai visto, ridicolo – e poi il cantante qui esagera, altro che blue note, sembra che stoni proprio: c’è un certo tipo di irruenza a fine strofa a cui oggi siamo abituatissimi, ma nel 1965 no. Poi una sera Shaun Considine, un responsabile delle uscite alla Columbia, racconta di essere entrato da Arthur, un club appena aperto sulla 54esima strada dalla prima moglie di Richard Burton, e di aver chiesto al dj di suonare l’acetato: vediamo come va, vediamo se la gente balla. Il pezzo viene chiesto e richiesto finché l’acetato non si consuma. Ok, quindi forse funziona. Però è veramente troppo lungo: così lungo che in un solo lato di un 45 giri non ci sta, la prima versione promozionale per le radio esce con due strofe sul lato A e due strofe sul lato B. Scelgano i dj quale lato programmare, ma di sicuro nessuno vorrà farla ascoltare per intero, no? I dj saranno costretti a mixare i due lati perché sì, il pubblico la voleva ascoltare intera. Primo paradosso: il più grande successo commerciale di Bob Dylan è una delle mosse meno commerciali che abbia mai fatto (e ne ha fatte tante), un brano che non rientra in nessun genere prestabilito: il sound di Like a Rolling Stone non esisteva prima di Like a Rolling Stone. Nessuno aveva mai suonato l’organo come in quel brano Al Kooper (nemmeno Al Kooper). La canzone che la radio programma di più è la canzone meno radiofonica. Per arrivare al secondo posto della classifica ci metterà qualche settimana: nei primi dieci posti ci resterà per tre mesi. Niente male, per un pezzo di vomito.

Perché all’inizio Like a Rolling Stone era questo: un pezzo di vomito, uno sfogo senza capo né coda rigettato su una decina di fogli di carta al Chelsea Hotel, al ritorno dal tour acustico in Inghilterra. Laggiù era successo qualcosa che nessuno ci ha mai davvero raccontato. Sappiamo che si era comportato male con la Baez: lei ogni sera si aspettava di essere chiamata sul palco, certe notti pensava di essere ospite gradita nella suite e non sapeva che Bob viveva già con un’altra persona, Sara. Sappiamo che BD non era contento di quello che stava facendo, che era stanco del suo repertorio – piuttosto vasto, in realtà, e in costante evoluzione: ma evidentemente gli andava stretto. Non ce la faceva più a presentarsi sul palco con chitarra e armonica, ad atteggiarsi a menestrello e cantante di protesta (e se riascoltiamo i primi brani acustici di No Direction Home e li confrontiamo con l’ultimo live al Philharmonic ce ne accorgiamo, che l’ingenuità di Song to Woody ha ceduto il posto a una certa stanchezza: ormai non arpeggia più, stravolge le melodie, morde il freno, si annoia). Sappiamo che stava meditando un ritiro dalla scena e che in un certo senso Like a Rolling Stone parla di questo. Secondo paradosso: la canzone che permette a Bob Dylan di comprarsi una bella villa in campagna… parla di una persona fallita, decaduta, ridotta a vivere per strada. Forse è lo stesso personaggio dell’ultimo brano del disco precedente, It’s All Over Now Baby Blue, quello che ora invidia ai barboni i vestiti che aveva regalato. Dylan ora la chiama “Miss Lonely”, quindi è una ragazza: ma forse è solo un modo per sottolinearne la fragilità. Chiunque sia, si è rovinata. Ma chi è? Dylaniti e semplici gossippari sviscereranno ogni verso alla ricerca di un indizio. È la Baez, è la Sedgwick, la Rotolo, è un suo collega che continua a far girare il cappello nelle cantine mentre Dylan gira in limousine, è il suo manager che gli sta facendo firmare contratti capestro? Può essere chiunque, va bene, ma a chi stava pensando Dylan davvero? Perché sembra impossibile scrivere una canzone così diretta e cattiva senza pensare a una persona reale.

Qualche anno più tardi BD taglierà il nodo gordiano delle interpretazioni nel modo più elegante. Mi sono accorto, spiegherà in un’intervista su Playboy, che tutti quei “lui”, quei “lei”, quei “loro” che usavo nelle canzoni erano camuffamenti: che in realtà erano tanti “io”. Forse era l’unico modo per ritirare alcune offese – perché è difficile pensare che il fiume di parole poi condensato in Like a Rolling Stone sia stato eruttato senza l’intenzione di offendere qualcuno (e poi a ben vedere non usa “lui” o “lei”, almeno in questo pezzo: usa il “tu”). Si era persino immaginato questo nemico “nuotare nella lava”. Vomito, lava, c’è qualcosa di vischioso in Like a Rolling Stone. Ci avrebbe messo anni a capire che quel naufrago era lui, e forse erano gli anni necessari a costruirsi una pietosa bugia. Ma voglio prenderla per buona, perché di tutte le piste possibili è la meno pettegola e la più interessante. Al termine del tour inglese, Dylan è esausto del suo personaggio. È tentato di buttare all’aria la sua carriera, ovvero l’unica cosa a cui si è dedicato dal liceo in poi. La sola prospettiva che lo renderebbe libero è una prospettiva di miseria. E BD conosce la miseria. C’è già passato. I primi mesi a New York potrebbero essere stati più brutti di quanto raccontano i biografi canonici; il “mystery tramp” che propone un affare osceno a Miss Lonely potrebbe essere un ricordo imbarazzante che la rockstar non riesce a liquidare. C’è qualcosa di vero e di vissuto nella materia che prende fuoco in Like a Rolling Stone. È questo la rende un oggetto così vischioso. Dev’essere orribile cadere nella lava, ma chi ti vedesse non riuscirebbe a distogliere lo sguardo.

Terzo paradosso: Dylan conquisterà le classifiche americane con una canzone che racconta il contrario di quello che gli americani vogliono sentire di solito. E sappiamo tutti cosa vogliono sentire: un tizio che viene su dal nulla e grazie al suo talento, alla sua dedizione e alla fede in sé stesso, diventa famoso. Un secolo fa li chiamavano rags-to-riches (dagli stracci alla ricchezza), erano un genere letterario, di libri del genere ne usciva uno alla settimana. Oggi ne escono meno, in compenso in tv ci sono i talent. Per quanto irregolare, la storia raccontata dai brani di No Direction Home è un ottimo rag-to-riches: all’inizio c’è solo un ragazzino di Hibbing con una voce particolare e una chitarra approssimativa, alla fine c’è una delle più grandi rockstar del mondo. In mezzo ci sono solo sei anni (oggi in sei anni, per dire, i Baustelle fanno due dischi). Eppure, in fondo a questa storia perfetta, c’è una canzone che racconta la storia opposta: c’era una volta una ragazza che si vestiva così bene, era generosa coi barboni, non è vero? E adesso guarda come si ridotta, guarda come si è conciata, guarda con chi si accompagna. Riches-to-rags. Dalle stelle alle stalle, diciamo in Italia: notate bene, non diciamo il contrario, non ci viene spontaneo.

Sei stata nelle scuole migliori, ok, Miss Solitaria, ma lo sai che ci andavi solo per farti annaffiare? Nessuno ti ha mai insegnato a vivere in strada, ma adesso dovrai farci l’abitudine…

Forse è per questo che Like a Rolling Stone piace così tanto sia ai fan accaniti che a quelli occasionali, e persino a Bob Dylan (una volta lo ha proprio dichiarato: “Like a Rolling Stone piaceva persino a me”). Mentre tutti puntano verso l’alto, è un brano che guarda coraggiosamente verso il basso. Non per indurre a pietà: per contemplare inorriditi l’inferno dal quale si proviene, nel quale si era tentati di ricadere. Con disprezzo puritano, e un’ombra di rimpianto. Perché verso la fine della requisitoria c’è pure lo spazio per un sospetto: forse chi vive sulla strada senza più segreti da difendere è più libero di chi ci torna in limousine e ha paura di riconoscere i vecchi amici.

Quarto paradosso: nel bel mezzo dell’iperbole degli anni Sessanta, proprio quando tutto comincia ad accelerare e le immagini in bianco e nero cedono al colore, proprio quando Pace e Amore sembrano eclissare ogni pensiero negativo, Dylan strappa il fondale fiorito e occupa la scena con un puro atto di rabbia egotica. Altro che Amore, qui c’è gente che dà via il corpo per campare. Altro che Pace, il mondo si divide in leccaculo e in estranei che ti prendono a calci – no, aspetta, sono le stesse persone quando finisci i soldi. Mentre tutti insistono a cercare in Mr Tambourine Man qualche incitazione a drogarsi, nessuno sembra far caso al fatto che Dylan scrive davvero di droga, e non per raccontare di espansione della coscienza, di comunioni mistiche o altre stronzate, ma della paranoia degli spacciatori (Subterranean Homesick Blues) e della miseria disperata dei tossici. Un baratro vischioso che ci ha attirato tutti a un certo punto.

Dopo Like a Rolling Stone, Dylan smette di scrivere poesie, o almeno così racconta in seguito. (C’è anche da dire che Tarantula stava venendo una vera schifezza, ma il contratto con l’editore andava onorato). Smette di pensare a un comunque impossibile ritiro dalle scene. Ha capito cosa vuol essere: vuol essere la persona che scrive e canta pezzi come Like a Rolling Stone. Giudicare ed essere giudicato. E vuole fare un baccano tremendo. A fine estate lo aspettano a Newport, per il solito festival di gente di città a cui piace la musica di campagna. È la terza volta che lo invitano, perché ancora nel 1962 lui non era nessuno: il suo primo disco non gliel’aveva comprato neanche la mamma (del resto lui al tempo diceva ai giornali di essere orfano). Nel 1963 era la giovane mascotte di Joan Baez. Nel 1964 era già il nome più importante in cartellone, ma tra gli organizzatori c’era già chi borbottava: il tizio si sta montando la testa, ora parla solo di sé stesso, non scrive più quei bei brani di protesta come… sei mesi fa. Nel 1965 si può dire che lo aspettassero al varco. Non tutti, ma qualcuno lo avrebbe fischiato a prescindere. Perché insisteva con testi disimpegnati e incomprensibili, perché aveva già pubblicato un mezzo disco non acustico, perché aveva in top10 un brano rock vagamente simile alla robaccia inglese d’importazione, quelle boyband come gli Animals, i Beatles o i Rolling Stones. Perché insomma, si era venduto. Di fronte all’eventualità di essere contestato dai duri e puri, Dylan decide di essere più duro di loro. Farà così tanto baccano che i fischi non si sentiranno. Un attacco preventivo. Guiderà un gruppo rock al festival folk di Newport. Non aveva mai suonato dal vivo con un gruppo, sin dai tempi di Hibbing – solo in sala di registrazione era riuscito a intendersi, e forse si era illuso che il gioco fosse abbastanza facile. Non è un piano lungamente elaborato: come molte decisioni importanti che prenderà, è una questione di pochi minuti. Il festival faceva parte di una manifestazione musicale più grande; c’era anche un padiglione blues, dove suonava la band di Mike Bloomfield, il chitarrista che aveva suonato nella session di Like a Rolling Stone. Grossman, il manager di Dylan, era lì per capire se il gruppo avesse potenzialità commerciali. A presentare c’è Alan Lomax, il musicologo che tanti dischi fondamentali aveva fatto ascoltare a Dylan (la sua segretaria era la sorella di Suze Rotolo). Si fa scappare qualche ironia di troppo al microfono: Grossman se la prende, si mettono le mani addosso. A quel punto Dylan ha un’idea, e la gira a Bloomfield: domani suono al folk festival, ho l’ultimo set. Perché non ci suoniamo con un gruppo? Forse si aspettava che la band di Bloomfield fosse a sua disposizione. Senz’altro pensava che fosse tutto facile, com’era stato facile tutto sommato registrare Bringing. Bloomfield si mise a provinare musicisti a tarda notte. Al Kooper fu arruolato solo perché era già al festival. Kooper era il pianista che si era intrufolato nello studio durante la registrazione di Like a Rolling Stone e si era inventato il riff d’organo (uno strumento che non aveva mai suonato prima d’allora). Il giorno dopo hanno appena il tempo di suonare un paio di strofe per il soundcheck. Non c’è il tempo per regolare i volumi, ma Dylan non se ne preoccupa: è la sua prima volta, magari nemmeno sa come funzioni, un soundcheck. L’importante è suonar forte. Nel film di Haynes, il sipario si apre e il pubblico di hipster tutti pace&amore vengono presi a mitragliate da una rock’n’roll band in giacca di pelle. Come tutte le Storie, anche quella del rock la scrivono i vincitori (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Dylan prende e porta a casa

Bringing It All Back Home (1965)

(L’album precedente: Concert at Philharmonic Hall
L’album successivo: No Direction Home).

Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po’ di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo – Uh Uh Uh Uh 
Aspetta un momento – Ah Ah Ah Ah 
Vabbe’, Take Due.

Se per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l’inizio di Bob Dylan’s 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l’hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato – è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence – ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po’ di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo “vorrei un blues di 16 battute in la”, e si comincia. Vada come deve andare.

È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l’età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell’elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è “elettrico” – ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni ’90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all’altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan’s 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po’ di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.

Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin’. Anche Bringing in certi punti riprende l’attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin’. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin’, come l’universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell’album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l’abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock’n’roll elettrico se lo portava dietro sin dall’infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?

subterraneanÈ un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos’è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo – nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde – come biasimarlo? – Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l’ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l’impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin’Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un’idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c’è? Miracolosamente quel giorno non c’è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all’altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l’annuncio di una falsa partenza: “Ero a bordo del Mayflower”, canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solo. Ah ah ah, vabbe’, ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell’idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l’anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.

È un periodo magico. C’è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l’immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l’icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un’idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c’è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l’ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.

Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l’espressione “porta a casa”, che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si “riporta a casa” una vittoria, quando ci spetta di diritto – quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock’n’roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un’altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un’impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io – ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.

Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l’ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l’accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all’ovile, salvo che… dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe’, facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni ’80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.
Bernacca

Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent’anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny’s in the basement, mixing up the medicine) – e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I’m on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. (“Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento”). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta’ attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c’era sempre l’esercito. Ma soprattutto: “non seguire i leader, guarda i parchimetri”. Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C’è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull’attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent’anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.

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Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero “homesick”, ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov’è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato – se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper’s Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l’ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt’oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).

Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l’amo lo stesso (Outlaw Blues).

Arnolfini
Arnolfini dettaglioNon doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una “brown-skin woman” in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l’attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin’: il che significa che da qualche parte c’è ancora l’italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l’unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l’unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.

Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c’è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)

She belongs to me è un’impossibile metà strada tra il blues e la canzone d’amore: chiunque sia la protagonista (“è un’artista, non si guarda indietro”), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un’antichità che cammina)? È Sara? È l’Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l’assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.

Be’ mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c’è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C’è una rissa in cucina, c’è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai?  (continua sul Post)

Bob Dylan, concerti, musica

Il lungo addio alla zingara

Bob Dylan Live 1964, Concert at Philharmonic Hall (The Bootleg Series, Vol. 6, 2004).

(L’album precedente: Another Side of Bob Dylan
L’album successivo: Bringing It All Back Home).

Quanto alla Regina dei folksinger, non poteva che essere Joan Baez. Joan aveva la mia stessa età e il nostro futuro sarebbe stato unito, ma a quell’epoca sarebbe stato risibile perfino pensarlo. C’era un suo disco su etichetta Vanguard intitolato semplicemente Joan Baez e l’avevo vista alla televisione, in un programma di musica folk della Cbs, prodotto a New York e trasmesso in tutta la nazione. […] Non riuscivo a smettere di guardarla, non volevo nemmeno battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell’aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po’ sollevate, non era esattamente Raggedy Ann, la bambola di pezza. Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. E poi c’era la sua voce. Una voce che cacciava via gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta (Chronicles I).

A tutti i suoi coetanei dev’essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (perché sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d’amore, che invece in un qualche modo c’è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall’ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come una zavorra. Dev’essere difficile mantenere l’oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez – la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.

Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_6Quando si presenta al più famoso auditorium di New York, la notte di Halloween, Dylan è il tizio con cui Joan Baez fa coppia abbastanza fissa ai concerti, nonché un affermato folksinger con tre dischi all’attivo (più il primo già ampiamente dimenticato), di cui due usciti proprio in quel 1964: il manifesto del folk di protesta (The Times They Are A-Changin’) e il disco in cui ha preso le distanze dal folk di protesta (Another Side of Bob Dylan). Ci sarebbe insomma già abbastanza per rendere lo show vario e interessante. Invece, in un’ora e mezza netta di esibizione, Dylan canterà appena tre pezzi di The Times, cinque da Another Side, tre da The Freewheelin’. Tutto il resto della scaletta consiste in brani inediti: otto! Ci sono alcuni scarti di cui non si riesce a liberare: addirittura è tornata in circolazione la vecchia Talkin’ John Birch, con una strofa nuova in cui l’anticomunista paranoide se la prende col postino. Il pubblico ride. C’è Who Killed Davey Moore, il rap anti-pugilato di cui vuole forse ribadire la paternità dopo che è stato inciso da Pete Seeger. C’è già insomma ben chiara nella mente di Dylan l’idea che l’artista dal vivo debba spiazzare il pubblico, e non confortarlo con la riproposizione dei soliti pezzi.

Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c’è un abisso: l’idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l’ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, (“ninna nanna sacrilega”, la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un’autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l’assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d’Utopia in sella al Vitello d’oro ti promettono il paradiso e nessuno ride – salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c’è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo? 

tzaraC’è un metodo dietro a questa pazzia, ed eccezionalmente Dylan lo descrive nell’ultima strofa: “all’alba il mio amore viene da me e mi racconta dei suoi sogni. Non ci prova nemmeno a interpretarli uno per uno. A volte penso che non ci sono altre parole per raccontare quel che è vero”. Insomma è entrato nel periodo surrealista, così, di colpo (solo Hard Rain poteva far pensare a un’evoluzione del genere, e infatti è rimasta in scaletta). Il bardo che si ispirava alle notizie sul giornale per cantare del naufragio del Picnic al monte Orso o della morte di Hattie Carroll, da qui in poi si servirà degli stessi giornali per realizzare dei collage dadaisti (o dei cut-up alla Burroughs, Dylan si tiene aggiornato). Se vi fate poeti dadaisti, ed estraete parole a caso da un sacchetto, diceva Tristan Tzara, esse comporranno una poesia che “vi somiglierà”: e non c’è dubbio che le immagini buttate a caso da Dylan in Gates It’s Alright Ma somiglino a lui, e al mondo saturo di simboli in cui vive. Qua e là galleggiano grumi di senso, aforismi che probabilmente gli ronzavano già in testa e che sono poi i versi che tutti amano citare: “Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire”; “Cristi di carne fosforescente”, “Anche il Presidente degli Stati Uniti a volte deve comparire nudo”, “Il denaro non parla: bestemmia”. Tutto intorno una cascata di immagini che assomiglia al vaniloquio di un chitarrista che butta fuori parole provvisorie sulla melodia che sta provando. Una forma funzionale di scrittura automatica, portata agli estremi in It’s Alright Ma. Sono i testi che danno meno soddisfazione ai dylaniti non anglofoni: anche chi riesca a correre dietro al senso del verso, rischia di perdere la visione di insieme (ma c’è un insieme?): quanto alle traduzioni, sembrano davvero collage dada, non c’è niente che abbia un senso slegato dal suono. Buio allo scocco del mezzogiorno, ombre anche nel cucchiaio d’argento, la lama fatta a mano, il pallone del bambino eclissa sia il sole sia la luna per comprendere (lo sai) troppo presto che non ha nemmeno senso provarci. Eeeeh? Però in inglese fila. Al Philharmonic Dylan snocciola una versione che è più o meno la stessa che inciderà in studio qualche mese più tardi, con qualche variante d’autore e una sola papera, in nove minuti di esecuzione: una volta composto il collage non si tocca più. Se Gates of Eden è una parodia di inno sacro, It’s Alright è un talking blues capovolto, verboso e in minore. Dylan spara questi due brani nuovissimi quasi in sequenza dopo venti minuti di concerto: e se questa non fosse una sorpresa sufficiente, come intermezzo tra i due deliri propone in anteprima qualcosa di completamente diverso e (all’apparenza) meno dirompente: If You Gotta Go, Go Now. 

If_You_Gotta_Go,_Go_NowLa suona come tutte le altre, con chitarra e armonica, ma anche così è chiarissimo che non è un pezzo folk. È in quattro quarti: è un rock’n’roll. Persino se non l’hai mai ascoltata (non è un brano così famoso, nel 1965 uscì come singolo soltanto nei Paesi Bassi), ti viene comunque l’impulso di battere le mani. Mia cara, non voglio farti pressione, ma tra un po’ qui sarà buio e non riuscirai a trovare la porta, per cui se vuoi andare vattene… ma vattene adesso. Sennò ti tocca restare tutta la notte. Il pubblico ride di gusto, doveva essere una situazione divertente al tempo, insolita. O forse era insolito che qualcuno ne parlasse, ci ridesse su. Dopo un’ora di concerto, il pubblico del Philharmonic sa cosa aspettarsi dal suo divo per il 1965: surrealismo e rock’n’roll, sarà un’annata interessante. Ma prima bisogna congedarsi dal passato. Sul palco è attesa Joan Baez.

FarewellAngelinaBaezDylan l’aveva già evocata all’inizio del concerto, coi due brani di Another Side più direttamente ispirati a lei. Il primo è Spanish Harlem Incident: sì, secondo me la zingara è Joan. Non è che possa dimostrarlo, ma si tratta della prima canzone d’amore non perduto, non frustrato, che Dylan abbia mai inciso. Fino a Spanish Harlem l’amore era quello dolente e smarrito del blues. E a parte la rilevante eccezione di Girl of the North Country, questa perdita era espressa con una buona dose di rancore, riversato il più delle volte sulla povera Suze Rotolo. Spanish Harlem è al di là di tutto questo. La zingara ha mani e piedi ardenti (Joan si esibiva a piedi nudi), ha occhi di perla e denti che brillano al buio come diamante (“Avevo paura a incontrarla. Magari mi avrebbe affondato le zanne nella nuca”, scriverà in Chronicles). La zingara può leggere il destino di Dylan nel suo palmo irrequieto – in almeno una conferenza stampa, per tagliar corto sulla sua relazione, lui la definì la sua “cartomante”. La zingara lo ha inghiottito. Lo ha sventrato, la zingara lo ha messo al mondo (“You have slayed me, you have made me”): la zingara può circondarlo e renderlo reale. Una cosa che non può fare, è perderlo: non è proprio in discussione. Dylan sarà geloso di molte donne, ma non della Baez. Spanish Harlem è il brano in cui si dichiara suo figlio e suo trastullo: la canterà solo quella sera, non risultano altre esecuzioni dal vivo in cinquant’anni.

To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l’immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall’ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.

Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo introduceva dopo aver cantato Blowin’ in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da appena un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po’, riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll – e poi la fa salire senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell’anno seguente. È una specie di seguito di Don’t Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all’addio, e non c’è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi “meaningless ring”: a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta “Daddy”, Dylan canta “Mama”, non è un vero e proprio duetto e non è un’armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu inciso al tempo: il pubblico è felice di vederli assieme, ma la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don’t Think Twice probabilmente perché l’aveva attaccata sulla nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.

Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni (continua sul Post)

Bob Dylan, musica

Dylan vuole che restiamo amici

Another Side of Bob Dylan (1964).

L’album precedente: The Witmark Demos.
L’album successivo: Philharmonic Hall

Sono nella media, un tipo comune; sono come lui, sono come te. Sono il fratello o il figlio di chiunque, non sono diverso da nessuno. Non ha senso parlare con me: sarebbe come parlare con te stesso (I Shall Be Free No. 10)

Più tardi nell’estate, dopo aver incontrato Dylan durante il loro primo tour americano, i Beatles sarebbero tornati ad Abbey Road per incidere un altro album, il quarto in due anni. In ottobre era pronto – nel frattempo si erano rimessi a fare concerti. Non era un brutto disco, Beatles for Sale, ma sin dal titolo metteva le cose in chiaro: si trattava di un 33giri messo assieme alla svelta, per esigenze contrattuali. Un po’ inferiore alla loro media. Per riempirlo avevano dovuto ricorrere al vecchio repertorio, cover di rock’n’roll e qualche scarto dei dischi precedenti. La Beatlemania era al culmine, nel Regno e negli USA, ma i Beatles continuavano a incidere e suonare in fretta e furia.

Per quante volte la senti raccontare, la storia dei Beatles rimane qualcosa di inverosimile. In otto anni, dodici LP di studio, due centinaia di composizioni originali. Poi uno si stupisce che siano durati poco, ma è incredibile che abbiano resistito così tanto: e quegli anni valevano almeno il triplo di quelli di adesso, succedevano cose continuamente. Cosa sono otto anni al giorno d’oggi? Il 90% degli artisti che ascolti oggi incidevano già nel 2009 (persino Fedez, capite? Anche lui ha già alle spalle più anni di carriera dei Beatles). In dieci anni i più prolifici fanno quattro, cinque dischi al massimo: e il mercato è già saturo così. Ma i gruppi di ventenni che fiorirono a metà degli anni Sessanta, sulla scia dei Beatles, firmavano contratti che prevedevano in media due uscite all’anno. Del resto chi ascoltava i Kinks non poteva fare molto altro che aspettare un altro disco dei Kinks. La generazione dei baby-boomers, appena uscita dal liceo con in tasca la paghetta dei genitori o il primo stipendio, era già diventata il segmento più importante del mercato. Non avrebbero comprato i dischi che piacevano ai genitori: e gli artisti coetanei erano ancora molto pochi, dovevano darci dentro come dannati per soddisfare la domanda di canzoni nuove. È evidente che le major stavano spremendo quei poveri ragazzi; i quali non sembravano comunque così dispiaciuti di spremersi. Poteva finire tutto da un momento all’altro: oggi non ci pensiamo ma nel ’64 doveva essere un’idea abbastanza condivisa. Era già successo tante volte. Il blues aveva avuto il suo momento, il bebop aveva avuto il suo momento, i crooner andavano e venivano – anche Sinatra se l’era vista brutta a un certo punto. Persino Elvis dopo il militare aveva perso il suo smalto e adesso recitava in film imbarazzanti. Nel ’63 i Beatles e Dylan avevano fatto il botto, ma quanto poteva durare ancora? Fino al ’65, al ’66, e poi? Poi sarebbe arrivato qualcun altro, qualcos’altro, funzionava così. Bisognava picchiare sodo finché il ferro era caldo. Registrare e suonare, suonare e registrare.

Qualche mese prima, il 9 giugno, Dylan era entrato in sala di registrazione col produttore Tom Wilson e una cassa di beaujolais. La Columbia voleva un album nuovo e lo voleva subito. The Times They Are A-Changin’, un signor disco imbottito di pietre miliari, tutte firmate dal titolare, era uscito appena sei mesi prima, ma ora ne serviva un altro. Per un po’ era stata considerata l’idea di pubblicare un live (At Carnagie Hall), ma alla fine fu accantonata – che senso aveva incidere di nuovo le stesse canzoni con qualche applauso alla fine? Servivano pezzi nuovi, serviva carne fresca. E Dylan gliela diede.

In fondo che ci voleva? In una sola sessione, sei ore, svuotò almeno un paio di bottiglie e incise undici brani originali (di cui solo tre già provati dal vivo). Tutto intorno gli amici, qualche collega, persino dei bambini. Il risultato di tutto questo è Another Side of Bob Dylan. Non è un brutto disco. Magari se fosse stato registrato qualche sera prima, e innaffiato con un vino diverso, avrebbe tutt’un altro sapore, ma è andata così. Another Side rappresenta comunque un momento fondamentale in quel rapido processo di metamorfosi che BD sta vivendo. Nel giro di un anno avrebbe cambiato pelle come un serpente: da folksinger del Movimento dei diritti civili a poeta rock decadente. Another Side cattura la prima fase di questo processo di desquamazione: il rock per ora non si vede (lo avverti in lontananza, in qualche blues stravolto e idiosincratico), in compenso è già scomparso l’impegno politico.

Si è sciolto all’improvviso, come neve al sole, sei mesi dopo l’uscita del suo disco più militante, The Times… Nel frattempo Kennedy è stato ucciso, ufficialmente per mano di un attentatore comunista – magari è solo una coincidenza, ma dopo la figuraccia alla premiazione del Tom Paine Award in dicembre, Dylan non parteciperà più per molto tempo a manifestazioni, marce, concerti benefici. L’episodio è rivissuto in due momenti del disco. In My Back Pages Dylan prova per l’ennesima volta a giustificarsi – il problema è che più si spiega meno si capisce, il linguaggio è tornato immaginoso come ai tempi di Hard Rain. Sono stato troppo ingenuo, troppo dogmatico, memorizzavo paroloni e mi ergevo a giudice ma in realtà stavo giocando a fare il pirata e non capivo che stavo per diventare il mio nemico – ah, ma ero vecchio a quei tempi: sono più giovane di così, adesso. È un ritornello giustamente famoso, lo cantano tutti i dylaniti ai compleanni per consolarsi del tempo che passa. Dylan l’ha scritto al momento giusto, a 23 anni: già un trentenne che canta “I’m younger than that now” suona ridicolo.

Motorpsycho Nightmare invece è tutto un nuovo tipo di blues, che prelude alle cavalcate elettriche di là a venire: Dylan conserva la rassicurante progressione armonica del blues ma la usa per raccontare, per la prima volta, una storia vera e propria. Il protagonista parla in prima persona, è un moderno Huck Finn che cerca un tetto per la notte da qualche parte nel Midwest. Casca male: si trova davanti un contadino col fucile in mano che assomiglia pericolosamente al paranoico di Talkin’ John Birch Society. Sulle prime cerca di ingraziarselo: ehi, sono un bravo ragazzo, sono un dottore, sono stato anche al college. Ma poi si mette in mezzo Rita, la figlia che sembra arrivata direttamente dalla Dolce Vita (in italiano nel testo). E di nuovo come in Boots of Spanish Leather assistiamo a un’inversione degli eterni stereotipi di genere: è la ragazza a introdursi furtiva nella camera del ragazzo e tentare, come la moglie di Poffarre con Giuseppe, un’opera di seduzione: ma adesso più che ad Anita Ekberg somiglia a Norman Bates, il matto di Psycho! Per trarsi d’impiccio, Dylan non trova di meglio che urlare: “Mi piace Fidel Castro e la sua barba!” La figlia scappa, il contadino sale con lo schioppo, Dylan si ritrova “on the road again”. È solo una storiella. Pensavate che Castro, che Cuba mi piacessero sul serio, quella sera in cui dicevo di sentirmi Oswald? No, mi trovavo in impiccio e ho detto la cosa più spiacevole che mi venisse in mente. Tutto spiegato adesso, no? Possiamo passare ad altro?

La perplessità di alcuni protagonisti della scena folk più politicizzata è abbastanza comprensibile. Il titolo del disco, saggiamente proposto da Wilson (a BD non piaceva) è un modo per attenuare lo choc: anche se non ci sono più canzoni di protesta non dovete pensare a un nuovo Dylan che tradisce il precedente; è solo “un altro lato” dello stesso Dylan. Un lato, peraltro, già intravisto in The Freewheelin’: il ritorno del cantautore intimista (e possessivo, sbruffone, rancoroso). Si era solo temporaneamente nascosto. Da qualche parte aveva continuato a ammucchiare strofe della sua I Shall Be Free, cambiando le parole a seconda del momento, al punto che quando la incide di nuovo è diventata I Shall Be Free no. 10. Nell’originale gli faceva una telefonata il presidente Kennedy, adesso è il turno di Barry Goldwater, candidato alle primarie repubblicane. (“Ehi, io sono un liberal, ma fino a un certo punto. Pensate che io possa permettere a Barry Goldwater di trasferirsi nel mio quartiere e sposare mia figlia? Mi credete un pazzo? Non lo farei per tutte le fattorie di Cuba”). Dylan è tornato il giovinastro che ci delizia coi suoi simpatici guai: ha una ragazza che gli mette il bubblegum nelle pietanze, ha un amico che fa a pezzi le sue fotografie con un coltello e mostra di vomitare ogni volta che sente il suo nome (“Eh, ne ho un milione, di amici”), ha un invito per leggere poesie in una confraternita di educande (“I am a poet! I know it! Hope I don’t blow it!“), e si carica allo specchio boxando contro un Cassius Clay immaginario. Ti ridurrò la faccia come la mia, dice. Neanche la mamma ti riconoscerà. Una cosa interessante che si può fare mentre si ascolta Another Side è cercare di mettere in fila le canzoni a seconda del gradiente alcolico. Non ha molto a vedere col contenuto della canzone. My Back Pages è un brano importante, ma si capisce che BD durante l’esecuzione è semplicemente stanco. I don’t believe you  è poco più di uno scherzo, ma BD è in forma smagliante, quest’ennesima recriminazione su un amore perduto sembra la cosa in cui crede di più in tutto il disco. La musica non sembra più presa in prestito a nessuno, c’è un breve riff che si arrovella intorno a un chiodo fisso: mi fa la fa re#, mi fa la fa re#, Dylan prova a uscire da sopra e da sotto ma ritorna sempre lì: lei fa finta che non ci siamo mai incontrati. Il finale è un nonsense dal vago sapore lennoniano: “E se ti chiedono se è facile dimenticare, beh, si fa molto presto: tu prendi qualcuno e fai finta che non l’hai mai conosciuto” (I Don’t Believe You).

L’alcool ha sicuramente la sua parte di responsabilità in Black Crow Blues. È la prima volta che BD usa il pianoforte in un pezzo di studio ed è inspiegabile che un produttore raffinato come Wilson gli abbia permesso anche solo di avvicinarsi allo strumento. Dylan col tempo svilupperà uno stile pianistico abbastanza peculiare, ma per ora lo pesta come un ubriaco al bordello, e non ha neanche niente di così interessante da cantare. È uno dei primi esempi di autoboicottaggio più o meno consapevole, qualcosa con cui ci familiarizzeremo col tempo. La gente si aspetta canzoni di protesta alla chitarra e lui incide blues sguaiati al pianoforte. Qualche anno dopo si cospargerà di whisky e si farà trovare mezzo incosciente in un supermercato, per il puro gusto di danneggiare la propria immagine. Quella sera Dylan avrebbe potuto incidere Mama You Been On My Mind: era già pronta, che gli costava? Avrebbe potuto lavorare un po’ di più su un abbozzo strano che si intitolava già Mr Tambourine Man; dietro il vetro c’era Ramblin’ Jack Elliot più che desideroso di dare una mano. Invece butta giù vinaccio e incide Black Crow Blues. Avrebbe potuto fare un disco molto migliore, ma a che scopo? Dì lì a qualche mese la Columbia ne avrebbe comunque preteso un altro. (Continua sul Post…)
cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, musica, nostalgia

La La La ti sento eccome


La La Land (Damien Chazelle, 2016)

“Buongiorno in cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno, io… io ho visto La La Land“.
“Allora ha chiamato il numero giusto, questo è…”
“E non m’è piaciuto!”
“…il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano…”
“C’è qualcosa che non va in me?”
“Assolutamente no, signora. È una questione di gusti”.
“Ma è piaciuto a tutti tranne che…”
“No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale”.
“Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure…”
“Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?”
“Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!”
“Forse non le interessano i musical”.
“Non saprei”.
“Ha apprezzato altri musical di recente?”
“Io, boh… una volta ho visto Cantando sotto la pioggia…”
“Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene”.
“…e non c’è paragone”.
“Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po’ come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza”.
“Ed è sbagliato?”
“Non c’è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l’asticella un po’ più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita”.
“Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical”.
“In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?”
“No”.
“Dieci anni fa. Forse l’ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp”.
“E in Italia non l’hanno distribuito?”
“Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical”.
“Sul serio?”

“Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l’avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical”.
“Ma perché ce l’avremmo coi musical, noi italiani?”
“Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano”.
“Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata”.
“Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film”.
“Ma l’ho visto in lingua originale!”
“Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra”:
“Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?”
“Il calo di tono è necessario, fisiologico – sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz’ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi… le complicazioni”.
“Niente di nuovo insomma”.
“No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia”.
“Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici”.
“Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli”.
“I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis…”
“Ok, c’è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro – anzi, no, sin dall’inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c’è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è”.
“Un bianco che spiega il jazz ai neri”.
“Per la verità è il contrario; è l’amico nero che gli spiega cos’è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L’hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L’idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un’età dell’oro, dell’argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo’ Better Blues…
“Vagamente”.
“…che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev’essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev’essere Ryan Gosling”.
“Anche se non balla un granché bene”.
“Ma ne è sicura?”
“Un po’ legnoso”.
“Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?”
“A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone”.
“Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende… perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull’orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero”.
“E anche lei doveva essere bianca per forza?”
“Anche su questa cosa, ci ho riflettuto”.
“Addirittura”. (Continua su +eventi!)

Bob Dylan, musica

Chiunque canta meglio di Bob Dylan

The Witmark Demos: 1962–1964 (Bootleg Series, vol. 9, 2010).

(L’album precedente: The Times They Are A-Changin’
L’album successivo: Another Side of Bob Dylan).
Ah quindi io non sarei uno scrittore?

Canterò una canzone non molto lunga, su un uomo che di male non fece mai nulla. Di cosa sia morto nessuno lo sa: lo trovarono morto un mattino in città. La gente che passava, al sorger del sole notò i vestiti strappati e i buchi alle suole. È lì disteso sul marciapiede, la gente si volta appena lo vede. Arriva il poliziotto a fare il verbale: “Svegliati vecchio, ti porto in centrale”. Col manganello lo toccò, e in strada il vecchio rotolò. E…. Gesù, non… ho perso l’ultima strofa. (Man on the Street).

Grazie ai suoi contatti alla Columbia, Dylan poté ascoltare in anteprima i blues di Robert Johnson in un LP che non era ancora stato pubblicato, quello che in seguito fece impazzire Eric Clapton, Keith Richards, Jimmy Page e tutti gli altri. Oggi sappiamo che il fenomeno Robert Johnson è anche frutto di un equivoco: la vecchia etichetta che gli aveva fatto incidere una ventina di pezzi, prima che finisse avvelenato, era abituata a inciderli un po’ accelerati, per far ballare la gente. Dunque il vero Robert doveva avere un tono più basso – più simile a quello di altri bluesmen del Delta, e una tecnica un po’ meno mostruosa. Ma Dylan non lo sapeva, mentre copiava i blues a Johnson. Sonny Boy Williamson glielo aveva pur detto, che suonava troppo veloce. (Sonny aveva suonato con Johnson la notte in cui rimase ammazzato) (è un episodio troppo significativo per non sospettare che Dylan se lo sia inventato).

E il tuo orologio si fermerà alla porta di San Pietro. Tu gli chiederai l’ora, lui ti risponderà: “È troppo tardi”. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai (I’d Hate to Be You on That Dreadful Day).


“Che copertina elettrizzante, diversa da tutte le altre!
La guardavo incantato” (Chronicles 1).

Il modo migliore di ascoltare i 47 Witmark Demos (registrati tra ’62 e ’64, non solo alla casa editrice musicale Witmark), è immaginare Dylan come uno dei suoi vecchi idoli in bianco e nero molto sgranato; quelli che registravano un po’ di pezzi e poi scomparivano nel nulla misterioso da cui erano emersi. Se di Bob Dylan conoscessimo soltanto il nome e i Witmark Demos, sarebbe comunque una già una leggenda, come Johnson. Dopotutto c’è Blowin’ in the Wind, c’è Hard Rain, c’è Don’t Think Twice, c’è The Times They Are A-Changin’ (al pianoforte!), c’è Mr Tambourine Man. E poi ci sono almeno 15 pezzi misteriosi mai più incisi dal suo autore: se non conoscessimo nient’altro di Bob Dylan, comunque ne avremmo abbastanza per costruirci su di lui la leggenda di un musicista vagabondo in giro per l’America rurale a rimorchio dei treni. Anche Robert Johnson era probabilmente un performer molto più vario di quello che ci suggeriscono le sue incisioni: quando lo invitavano alle feste sapeva suonare qualsiasi cosa. Ma i bianchi discografici volevano sentire il blues, e lui incise quasi soltanto del blues.

E il vino scorrerà a fiumi, a cinque cents al bicchiere: così ti frugherai le tasche e scoprirai che ti manca giusto un cent. In quel giorno orribile, lo sai? Non vorrei essere in te, mai e poi mai. 

Subito dopo la realizzazione del primo disco, John Hammond, il talent scout di Dylan lo aveva messo in contatto con la Leeds Music, una casa editrice che era interessata a pubblicare le sue composizioni, in spartiti sciolti o in un libro. Pochi mesi dopo Grossman, il suo nuovo manager, lo convinse ad annullare il contratto con la Leeds e passare alla M. Witmark & Sons. Abbiamo già notato che a volte le performance di Dylan sembrano più partiture che esecuzioni vere e proprie: questo è vero soprattutto per i Witmark Demos, registrazioni che non erano concepite per essere incise su disco, ma ascoltate da un trascrittore che ne avrebbe ottenuto uno spartito. Fu così per esempio che Blowin’ in the Wind fu divulgata sulle pagine di Sing Out! prima che Dylan la incidesse per The Freewheelin’. Ma il vero mercato della Leeds e della Witmark era l’ambiente musicale: gli spartiti venivano inviati per posta agli artisti. Chi manifestava il proprio interesse per un pezzo poteva domandare alla Witmark l’invio di un disco in acetato con l’esecuzione dell’autore. Questi acetati naturalmente non dovevano essere divulgati al grande pubblico, un po’ come le copie dei film che oggi le major inviano ai critici, ah ah ah.

Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo ti mostrerà le carte. Dimmi un po’ cosa farai quando il diavolo eccetera, ehi dimmi un po’, eh, cosa farai? (Watcha Gonna Do).

Che gli i pezzi di Dylan, per quanto oscuri o irregolari, potessero avere un potenziale commerciale, era chiaro sin da quando Peter, Paul e Mary avevano inciso la loro Blowin’ in the Wind. Per ottenere un’altra hit bisognerà aspettare il ’65, quando i Byrds raccatteranno Mr Tambourine Man e la useranno per inventare un nuovo sound californiano. Nel frattempo, a New York, Dylan si arrangia, scrive di tutto e di tutti, incide quello che gli viene in mente. A un certo punto lo sentiamo dire: proviamo pure questa, giusto per (“Just for kicks”). Qui non sta cantando e suonando per il pubblico, ma per un trascrittore che deve saper riconoscere al volo note e parole. È insomma più importante scandire bene gli accordi e i testi, senza virtuosismi o eccessi teatrali. Il pianoforte può essere più comodo della chitarra, certo non per Dylan che lo suona in modo rudimentale (sui tasti neri) ma per chi deve trascrivere gli accordi. È anche consentito fermarsi e correggersi, o spiegare al tecnico che non si ricorda più il testo della prima strofa ma gliela farà avere più tardi. Il fascino dei Demos è anche nell’approccio intimo che Dylan sembra instaurare col suo ascoltatore: la libertà di mollare un pezzo a metà perché, insomma, “l’ho già cantato così tante volte” (Let Me Die In My Footsteps).

Un uomo è morto per un pugnale affilato, un altro per la pallottola di una pistola. Un uomo è morto col cuore spezzato nel vedere il linciaggio di suo figlio. Tanto tempo fa, lontano lontano… Queste cose non succedono più al giorno d’oggi, non è vero? (Long Ago, Far Away).

È tutto meravigliosamente estemporaneo e irregolare: e ai dylaniti piacciono le cose estemporanee e irregolari. Veramente tanto. Sennò non amerebbero Dylan – c’è sicuramente in giro gente che canta meglio, che incide meglio, che arrangia meglio. Il che non significa che Dylan sia un protopunk, che canti male apposta, o che non si preoccupi della resa delle sue canzoni in sede di registrazione. C’è un grande malinteso di base tra Dylan – che si considera un musicista rigoroso, a modo suo, e che ha sempre cercato di incidere canzoni che considerava belle con arrangiamenti che considerava necessari – e i suoi fan, che a volte danno la sensazione di volerlo sentire suonare male per il gusto di. Questa cosa lo tormenterà per anni, lo vedremo. Ma per ora non lo sa, è convinto di suonare soltanto per un tizio che trascrive. Il pubblico dovrebbe restare fuori da tutto questo. Noi non dovremmo saperne niente (continua sul Post).

Bob Dylan, Brecht, musica

Kennedy è morto, Dylan ubriaco

The Times They Are A-Changin’ (1964).

(L’album precedente: Live At Carnegie Hall
L’album successivo: The Witmark Demos)

Quando William Zantzinger irruppe nell’Emerson Hotel era passata da un po’ la mezzanotte dell’otto febbraio. A voi sarebbe sembrato ridicolo, un ventenne con un bastone giocattolo da un quarto di dollaro, col quale già al ristorante aveva scimmiottato Fred Astaire e bastonato qualche cameriere. Ma era figlio di un piantatore di tabacco, era a Baltimora per spassarsela e non c’era modo di fermarlo. Si aggirava nella hall ubriaco e continuava a prendere i neri per birilli. Colpì un facchino, poi un’inserviente. La prima cameriera che chiamò “negra” scappò in lacrime. La moglie, che cercava di calmarlo, finì al tappeto. Zantzinger si ritrovò al banco del bar dove lavorava quella sera la povera Hattie Carroll. 51 anni, madre di otto figli (alcuni dicono dieci). Dammi un bourbon, negra.
“Subito signore”.

Lo stava ancora versando quando Zantzinger cominciò a colpirla sulla schiena e in testa. Sbrigati brutta nera figlia di puttana. Hattie continuò a servirlo e poi si ritirò in cucina, mentre Zantzinger ricominciava a tirar calci alla moglie. Hattie si sentiva svenire, lo disse ai colleghi: mi sento male, quell’uomo mi ha così tanto turbato (“that man has upset me so“). Morì in ospedale otto ore dopo: emorragia cerebrale. Era ipertesa, forse non lo sapeva.

Ma voi che filosofate sulle disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.

Hattie Carroll
La moglie in seguito dichiarò: nessuno tratta bene i negri
come mio marito, qui da noi

Il tredici dicembre dello stesso anno (ma è stato un anno lungo e pazzesco, i Beatles hanno fatto due dischi, Kennedy è stato ammazzato) il giovane promettente folksinger Bob Dylan irrompe a una cena di gala dove qualcuno (non ha neanche capito chi) ha intenzione di premiarlo. È ubriaco e nervoso perché tutti portano lo smoking. Si era portato degli amici per farsi coraggio, ma non li hanno fatti entrare, non erano vestiti abbastanza bene. Quando gli passano il microfono, lui sa che non può cantare. Deve fare un discorso, ringraziare per il premio. È questo che lo rende nervoso? Parte a ruota libera, a volte funziona; quella sera no. Se la prende coi commensali, scherza sulla loro età e le loro calvizie, si dichiara orgoglioso di essere giovane (“ci ho messo molti anni a diventarlo“). Dice che accetta il premio ma che non lo accetta; afferma con forza che non esistono più né Sinistra né Destra (“solo Su e Giù“); spiega che ha molti amici “negroes” ma che non gli piacciono le uniformi, di nessun tipo. A proposito di amici, spiega che anche Phillip Luce è uno dei suoi e che vuole ritirare il premio anche per lui. Luce è un membro del Progressive Labour Party, una scheggia maoista fuoriuscita dal partito comunista americano. In quei mesi organizza viaggi studio a Cuba (in seguito ammetterà di aver trafficato armi e organizzato covi sovversivi a Harlem). Dylan forse non se ne rende conto, ma sta parlando a una cena di autofinanziamento del movimento per i diritti civili. Sta dicendo a dei liberal rispettabili – gente che dopo il dessert dovrebbe metter mano al portafoglio – di rassegnarsi alla pensione, e che non c’è niente di strano se la gente vuole andare a Cuba. Non gli resta che tirar fuori un bastone e cominciare a menar colpi a caso. O può far di peggio?

Pochi secondi dopo, il disastro sociale che è Bob Dylan decide di spiegare che lui si sente un po’ come Oswald, il cecchino di fede comunista che aveva freddato Kennedy a Dallas (una pedina dei cubani?) “Ho visto qualcosa di lui in me stesso”, farfuglia. “Non pensavo che saremmo arrivati a questo punto, ma… devo avere il coraggio di ammettere di aver sentito le cose che lui sentiva… beh non al punto da sparare”. Dall’attentato non era passato neanche un mese, nessuno aveva smesso di pensarci. Qualcuno comincia a fischiare, lui invoca la Costituzione, il diritto di parola e ringrazia per il premio anche a nome di quelli che vanno a Cuba. “O Dio“, scriverà in seguito in una lettera di scuse, “cosa avrei dato per non essere lì” (qualcuno ancora si domanda come mai a Dylan non piacciano le premiazioni?)

Qualche anno fa successe una cosa del genere a Cannes. Lars Von Trier, all’apice della sua carriera, di fronte a un plotone di giornalisti, circondato da Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst, cominciò a spiegare che per anni aveva pensato di essere ebreo, ma adesso era diverso, adesso un po’ capiva Hitler, come doveva essersi sentito “seduto nel suo bunker, alla fine…” Fu cacciato dal festival del cinema. Era stato un altro esperimento? Aveva voluto testare la tolleranza di uno dei circoli culturali più progressisti del mondo? O era stato punito da un superego capriccioso che gli rimproverava il successo mondano, che da sempre cerca di sabotarlo? (“Feci uscire tutto quello che avevo in testa e dissi: sii onesto, Dylan, sii solo onesto“).

William Zanzinger, che a 24 anni
possedeva 200 ettari di piantagione di tabacco; 
e genitori facoltosi che lo proteggevano,
e amici altolocati nello Stato del Maryland,
si fece arrestare scrollando le spalle.
Imprecava e scherniva, e mostrava la lingua,
e fu fuori su cauzione, in pochi minuti.
Ma tenete ancora a posto i fazzoletti.
Questo non è il momento delle lacrime.

Quando assesta il primo colpo di bastone alla sua reputazione di cantante di protesta, Dylan ha un un disco pronto. Uscirà in gennaio. Sarà il suo disco più politico: i tempi stanno per cambiare. Niente più buffonate, niente talking, appena due canzoni d’amore, ma tristi, asciutte, rassegnate. Niente cover, tutti testi originali. Anche le musiche, tutte di Bob Dylan – o almeno così sarà scritto in copertina, e chi non sarà d’accordo se ne farà una ragione. Sarà il disco definitivo per il folk di protesta: nessuno potrà più farne uno migliore. Sarà il suo disco più impegnato: ma, ecco, cos’è l’impegno per Dylan? Come funziona, a cosa serve? A suscitare indignazione per la morte solitaria della cameriera Hattie Carroll, per l’assassino dell’attivista Medgar Evans, per la povertà che spinge Hollis Brown a uccidere i suoi figli, per i minatori disoccupati di North Country Blues, vittime precoci della globalizzazione? (“Dicono che è molto meno caro giù in Sudamerica, dove i minatori lavorano quasi per niente“). O serve a capire gli assassini, a sentirsi nei panni di Hollis Brown, di Zantzinger, di Oswald? Bisogna entrare nelle persone, cercare di capirle da dentro, o non sarà meglio osservarle da lontano, a una distanza prudente? Dylan il problema se lo è posto. È da anni che ci lavora.

Una cosa che a questa altezza ha già scartato senza rimpianti è la satira. Lo abbiamo visto cimentarcisi con Talkin’ John Birch Paranoid Blues, un brano in cui aveva creduto così tanto da cercare di proporlo in diretta televisiva. Se in seguito gli avvocati della Columbia gli avevano impedito di inciderlo nel secondo disco, ora le cose erano davvero cambiate. Blowin’ in the Wind era stata una bomba, The Freewhelin’ aveva venduto bene, Dylan stava diventando importante e nessuno gli impediva di cambiare qualche riga del testo e inserirlo nel nuovo disco. Non ci pensa nemmeno. In John Birch aveva preso di mira l’uomo comune del Midwest; aveva descritto le sue paure come paranoie, ridicole ossessioni di un ignorante. Ma Dylan è un uomo del Midwest. È lì che si è formato, è quel mondo che gli interessa recuperare. Le sue radici individuali, rimosse nei primi dischi, riaffiorano finalmente in North Country Blues. La paura di morire in un olocausto nucleare – o soffocato in un rifugio antiatomico – Dylan la conosce per esperienza diretta: era la stessa che le maestre gli avevano infuso a scuola durante le lezioni e le prove di evacuazione. Il razzismo non è un problema astratto, un virus esotico isolato nel Sud del Paese: Dylan lo ha sperimentato a Hibbing, Minnesota, quando ancora si chiamava Robert Zimmerman (“A Hibbing, i finlandesi odiavano i boemi, i boemi odiavano i finlandesi e praticamente tutti odiavano gli ebrei”). Per ridere di tutto questo dovrebbe ridere di sé stesso. Ma se ride di sé stesso, chi lo prenderà più sul serio? Dylan rideva degli anticomunisti, finché un comunista non ha sparato al Presidente. Dovrebbe fingere che non è successo, che le cose a questo punto non cambiano?

My name it is nothin’,
My age it means less.
The country I come from
is called the Midwest…

Un’altra possibilità rapidamente scartata è la canzone indignata: quella che punta il dito contro un male del mondo, più o meno specifico. Anche qui non mancano esempi di precoci tentativi: una delle sue prime canzoni, The Death of Emmett Till, era il racconto indignato di un altro fatto di cronaca, la storia vera di due buzzurri razzisti che avevano ammazzato un bambino afroamericano e l’avevano fatta franca, sulle note di House of the Rising Sun. È un pezzo efficace per quanto ingenuo (ma non lo sono tutti i pezzi di protesta? Non lo sono tutti i pezzi folk?) Dylan avrebbe potuto cantarlo a Washington senza imbarazzi. Invece se ne è sempre vergognato. Non tanto dell’ingenuità dei versi, quanto di aver pensato di poter scrivere una canzone del genere. Dalla morte di Emmett Till a quella di Hattie Carroll il passo sembra breve. Ma qualcosa è successo. Qualcosa che non ti aspetteresti da un folksinger con robuste radici nel tessuto culturale americano. Dylan ha scoperto Bertolt Brecht.

(“Hai letto molte cose di Brecht?”
“No, però l’ho letto”).

Dylan è un autodidatta, in molti sensi. Il modo con cui si confronta con la cultura, in cui impara le cose è del tutto particolare, pre-moderno in un certo senso. In Chronicles dà l’impressione di poter afferrare i concetti soltanto quando qualcuno glieli riduce alla forma orale. Può essere un amico o un tizio incontrato per caso durante una gita in motocicletta: un matto o un profeta. Quando a vent’anni comincia a farsi delle domande sulla Guerra Civile, trova indispensabile chiedere un parere a Van Ronk – il quale non fa che ribadire un’ovvietà da sussidiario. Dylan era perfettamente in grado di leggere un sussidiario, ma aveva bisogno di sentirsi dire certe cose da un Van Ronk. Dylan in realtà legge più di quanto sembri, ma anche quando si tuffa nella libreria del suo padrone di casa, descrive la sua esperienza come un incontro con scrittori in carne e ossa: Balzac sembra un suo amico, beve litri di caffè, perde un dente e si domanda: “cosa significa?” (“Balzac is hilarious“).

Hattie Carroll, che era cameriera in cucina, 
con 51 anni e dieci bambini,
che serviva portate e gettava immondizie
e che in vita non sedette mai a capotavola
e che non rivolgeva mai parola ai clienti,
e che raccoglieva gli avanzi dai tavoli,
e su un altro piano svuotava i portacenere,
fu uccisa da un colpo inferto da un bastone
che girando nell’aria piombò in quella stanza,
determinato a uccidere ogni gentilezza,
e non aveva mai fatto niente a Zanzinger!
Ma voi che filosofate di disgrazie, e criticate tutte le paure, tenete ancora a posto i fazzoletti. Questo non è il momento delle lacrime.

lotte lenyaQuanto all’incontro con Brecht, esso non passa nemmeno dalla pagina scritta: Dylan ascolta Jenny dei pirati in un teatro di Christopher Street, mentre aspetta Suze Rotolo che lavora dietro le quinte. Forse non c’è modo peggiore di accostarsi al teatro epico brechtiano, quello che a uno spettatore disincantato non dovrebbe offrire allo spettatore “suggestioni”, ma “argomenti”. Il Dylan ventenne è lo spettatore meno brechtiano che si possa immaginare. Quando nel buio della sala ascolta la storia della Fregata Nera, “tutta vele e cannoni”, che arriva in città per raderla al suolo e salvare una sola persona, la suggestione è potentissima, gli argomenti scompaiono. È il ricordo dell’infanzia a Duluth, Minnesota, porto internazionale sul Lago Superiore, dove le navi andavano e venivano in continuazione e “l’intenso fischio delle sirene ti prendeva per il collo e ti toglieva il senno… sembrava sempre annunciare qualcosa di grande”.

Jenny dei pirati è una canzone bastarda (continua sul Post).