cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, musica, nostalgia

La La La ti sento eccome


La La Land (Damien Chazelle, 2016)

“Buongiorno in cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno, io… io ho visto La La Land“.
“Allora ha chiamato il numero giusto, questo è…”
“E non m’è piaciuto!”
“…il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano…”
“C’è qualcosa che non va in me?”
“Assolutamente no, signora. È una questione di gusti”.
“Ma è piaciuto a tutti tranne che…”
“No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale”.
“Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure…”
“Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?”
“Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!”
“Forse non le interessano i musical”.
“Non saprei”.
“Ha apprezzato altri musical di recente?”
“Io, boh… una volta ho visto Cantando sotto la pioggia…”
“Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene”.
“…e non c’è paragone”.
“Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po’ come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza”.
“Ed è sbagliato?”
“Non c’è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l’asticella un po’ più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita”.
“Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical”.
“In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?”
“No”.
“Dieci anni fa. Forse l’ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp”.
“E in Italia non l’hanno distribuito?”
“Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical”.
“Sul serio?”

“Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l’avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical”.
“Ma perché ce l’avremmo coi musical, noi italiani?”
“Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano”.
“Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata”.
“Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film”.
“Ma l’ho visto in lingua originale!”
“Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra”:
“Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?”
“Il calo di tono è necessario, fisiologico – sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz’ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi… le complicazioni”.
“Niente di nuovo insomma”.
“No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia”.
“Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici”.
“Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli”.
“I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis…”
“Ok, c’è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro – anzi, no, sin dall’inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c’è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è”.
“Un bianco che spiega il jazz ai neri”.
“Per la verità è il contrario; è l’amico nero che gli spiega cos’è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L’hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L’idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un’età dell’oro, dell’argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo’ Better Blues…
“Vagamente”.
“…che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev’essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev’essere Ryan Gosling”.
“Anche se non balla un granché bene”.
“Ma ne è sicura?”
“Un po’ legnoso”.
“Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?”
“A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone”.
“Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende… perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull’orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero”.
“E anche lei doveva essere bianca per forza?”
“Anche su questa cosa, ci ho riflettuto”.
“Addirittura”. (Continua su +eventi!)

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I fantasmi dell’84 (non li cacci via)

Ghostbusters 3d (Paul Feig, 2016)

C’è stato un tempo in cui avevamo paura dei fantasmi. C’è stato un tempo in cui ridevamo dei fantasmi. Oggi tutto questo è molto lontano, oggi i fantasmi siamo noi. Viviamo in un limbo di cose né morte né vive, cose che principalmente sono successe intorno al 1984, e per un bizzarro inghippo del destino non sono state dimenticate. Infestiamo questa casa, tirando orribili scherzi a chiunque prova a entrare per dare un’occhiata. La maggior parte bisogna dire che se lo merita, vogliono solo grattare qualche soprammobile vintage e rivenderlo, c’è un mercato pazzesco per queste cose. Altri invece sono solo curiosi, è tutta la vita che sentono parlare di questo benedetto/maledetto 1984, vorrebbero capire cosa si provava a entrare in una sala per vedere Ghostbusters e beccarsi i primi trailer di Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Perché se davvero c’è stato un momento in cui tutto il nostro immaginario si è azzerato ed è ripartito, non può che essere l’anno di Terminator, Nightmare, Gremlins, Karate Kid, Amadeus, La storia infinita, Footlose, e potrei andare avanti. È successo qualcosa di pazzesco nel Palazzo Incantato del 1984, ed è normale che la gente voglia entrare per capire, per provare, anche solo per passarci la notte.

Ma non ne hanno il diritto, quel palazzo appartiene a noi. Li cacceremo via, li prenderemo a sassate su Youtube o Imdb. Come osano reclamare la proprietà intellettuale sui marchi dei nostri ricordi, su ciò che ci tiene vivi, ammesso che sia vita questa (se la passi a trollare le attrici di Ghostbusters 2016 probabilmente non lo è).

A un certo punto della leggenda dei sequel di Ghostbusters – leggenda che si perde ormai nella bruma dei tempi, è da trent’anni che il progetto restava nel limbo delle cose inevitabili quanto irrealizzabili – sembra che Bill Murray avesse dato l’ok per partecipare al terzo film, soltanto a un patto: avrebbe dovuto interpretare un fantasma. Era in effetti un’idea geniale, che inspiegabilmente Paul Feig ha lasciato cadere. Avrebbe dato una profondità a un film che sembra volerla evitare a ogni costo. È come se dopo aver rilevato un marchio che ha lasciato un segno indelebile su una generazione; dopo aver avuto l’idea forte, e commercialmente rischiosa, di investire su un cast femminile (e usare Chris Hemsworth come damigella in pericolo, più che un’idea una gag), Feig avesse tirato i remi in barca e pensato solo a ridurre i danni. Il marchio è pesante, il cast è controverso, il budget impressionante, il film è una commediola divertente che si comincia a dimenticare già prima dei titoli di coda. Tocca difenderla perché è stata messa sotto attacco dai troll maschilisti e razzisti, ma la difenderemmo più volentieri se Feig oltre a mettere le donne in primo piano ci avesse anche dimostrato che sono brave: che possono fare un Ghostbusters non dico migliore dell’originale, ma spassoso, potente, originale.

Purtroppo non è andata così, però sarebbe ingiusto prendersela con Feig per il fatto che il suo Ghostbusters non funzioni come quello del 1984. Non è colpa sua se certe merendine non torneranno più. C’è qualcosa di particolarmente irripetibile, nel successo del primo film, che lo rende un tesoro tanto prezioso della nostra preadolescenza. Nell’elenco sommario dei grandi successi del 1984, Ghostbusters spicca per un motivo che a prima vista magari non si vede: è l’unica commedia. Quasi. Altri film hanno grossi inserti di commedia, ma Ghostbusters è l’unico a nascere intorno a un gruppo di attori e autori comici – Aykroid e Ramis, che all’inizio pensavano a Belushi, e poi lanciarono cinematograficamente Murray. Il risultato fu un film che metteva insieme ingredienti instabili, mai mescolati prima, in un’alchimia probabilmente irripetibile: commercializzato come prodotto per le famiglie, convinse tanti decenni come noi a farsi portare al cinema, per vedere non solo le prime scene horror della nostra vita (gli effetti speciali sono ancora notevoli), ma anche la prima commedia per adulti – una scena in cui un’entità invisibile slaccia la cintura a Dan Aykroid nei coevi film di Bud Spencer non s’era mai vista.

Uscivamo dalla sala, nel 1984, con la sensazione di aver finalmente passato una serata coi fratelli maggiori, quelli che già fumavano e si portavano le tipe negli angoli: e non è che ci avessimo capito molto, ma ce l’avevamo fatta, nessuno ci aveva mandato via, nessuno ci aveva preso in giro, alla fine ci eravamo anche divertiti. Forse tra i troll maschilisti che hanno preso di mira le attrici del nuovo film c’è qualche mio coetaneo che visse quella proiezione del 1984 come un rito di passaggio all’età adulta; un rito che evidentemente non ha funzionato molto bene, ma di tutto questo Feig e il suo cast non hanno responsabilità. In un certo senso la scommessa di Feig conserva qualche tratto dell’impudenza dell’originale: Aykroid e Ramis volevano mescolare l’horror, l’action e il Saturday Night Live. Feig vuole mettere d’accordo i nostalgici degli anni Ottanta con i fan e soprattutto le fan delle migliori attrici comiche e monologhiste della sua generazione, e sulla carta è un’idea coraggiosa. Ma è proprio l’idea che non si realizza. In molti casi, semplicemente, le ragazze non sono divertenti come dovrebbero, come potrebbero essere. Specie se il film lo guardi doppiato, e due o tre sketch basati sui doppi sensi vanno a farsi benedire.

Ma forse il problema dell’adattamento è più profondo: pensate all’ultima commedia americana che avete trovato divertente (continua su +eventi!)

giornalisti, nostalgia, repliche

Sei mai stato esperienziato?

[Dieci anni fa non esistevano gli iPhone. In effetti, non esistevano nemmeno gli iPod, e i telefonini avevano il display in bianco e nero. La cosa più trendy della Apple era uno scatolone di plastica blu. I computer delle persone normali erano scatoloni di lamiera bianca. Niente banda larga, niente youtube. Niente facebook, ovviamente. In Italia non esistevano neanche i blog, tranne questo (e quello di Ludik). Per festeggiare la sopraggiunta anzianità, la redazione pubblica dieci pezzi di dieci anni diversi. Questo è del novembre 2002, e saluta la nascita di un quotidiano vecchio, pardon, nuovo, pardon, boh, non si capisce più, è passato troppo tempo].

Segni del tempo. (Un omaggio al Riformista, più o meno dieci anni dopo).

Sto ascoltando Are you experienced?, come oggi prescrive Polaroid, e intanto penso: però è una cosa strana, la nostalgia. Non sempre ha a che vedere coi ricordi. A volte è pura fantasia, è un universo parallelo che ci costruiamo coi ricordi degli altri. E non serve aver vissuto in un periodo per rimpiangerlo, anzi.

E poi è strano come certi periodi siano familiari a tutti e altri no. Tra un revival e l’altro ci sono zone d’ombra che nessuno ancora ha iniziato a rimpiangere. Prima o poi torneranno di moda – tutto torna di moda – ma nel frattempo a me piacciono così, accessibili e poco frequentate.

Quella manciata d’anni tra Ottanta e Novanta, per esempio, mentre veniva giù la cortina di ferro e Andreotti regnava, assai meno popolare allora di quanto non sia diventato dopo tangentopoli e un paio di processi per mafia. Vi ricordate? No, non vi ricordate, è un’epoca sbiadita, se cercate un volto o un ritornello non vi viene in mente niente. A furia di rievocare il Boom, il Sessantotto, gli anni di piombo, i favolosi Ottanta, abbiamo cancellato dalla memoria cache il passato più recente. Poco male, sarà divertente re-installarlo tra qualche anno, e giocarci.

Tutti i ricordi che ho di quegli anni sono per sottrazione – per esempio, ricordo che Internet non c’era, eppure si viveva; i cellulari ispiravano un misto d’invidia e disapprovazione, e Andreotti li fece tassare; in tv non c’erano tutti quei talk show politici di adesso, eppure non ci sentivamo affatto disinformati: forse compravamo qualche giornale in più.
Ecco, questo me lo ricordo bene: nelle edicole c’erano ottimi quotidiani. Per esempio, c’era il Riformista di Polito, che poi non so che fine abbia fatto. Una pietra miliare.

Oggi forse è difficile rendersene conto, ma in tempi in cui la dialettica della sinistra consisteva in eterne schermaglie tra PCI e PSI, il “Riformista” ebbe il merito di proporre una terza via, qualcosa di veramente innovativo. In tempi in cui tutti, a destra e sinistra, facevano blanda professione di fede europeista, “il Riformista” fu il primo a criticare seriamente le politiche protezionistiche della Comunità Europea, specie in materia agricola. Peccato non aver conservato certi editoriali, scommetto che ci troverei in seme tutta l’ideologia noglobbal d’oggigiorno… E poi, la scelta tutt’altro scontata di puntare il futuro della sinistra su un giovane politico di buone speranze, D’Alema… Insomma, per certe cose, quel piccolo quotidiano di opinione era davvero dieci anni avanti.

Ma non era solo una questione di politica. “Il Riformista” è stato il primo quotidiano ad accorgersi della svolta generazionale di quegli anni. Fu il primo a far caso a un mondo giovanile che esplodeva: il mondo delle autogestioni, delle prime braghe grigioverdi, dei 99 Posse, (anche di Jovannotti, ahimè). Insomma, fu il primo quotidiano a prendere atto che i figli dei sessantottini stavano prendendo la patente.
Tutto questo dieci anni fa, più o meno. Poi ci sono state le imitazioni, e le imitazioni delle imitazioni, e dell’originale si sono perse le tracce.

Eppure a me capita sempre più spesso, in questi giorni di dibattito politico rovente, di pensare: chissà cosa ne penserebbe, oggi, “il Riformista”. Sarebbe noglobbal o siglobbal? Darebbe addosso ai giudici o ai loro corruttori? Continuerebbe a sostenere il vecchio timoniere o lo affonderebbe senza pietà? Sono domande senza senso, lo so. Nessuna verità è valida in assoluto: l’importante è trovarsi nel momento giusto con le idee giuste. In quella manciata di anni tra Ottanta e Novanta, il Riformista aveva forse le idee migliori in circolazione. Probabilmente quelle stesse idee, su un quotidiano di oggi, le troveremmo patetiche. Ma è il destino del giornalismo, anche di quello buono, non durare che l’éspace d’un matin, lo spazio di un mattino.

Intanto il disco è finito. Are you experienced?, Jimi Hendrix, 1967. L’ho messo su perché oggi Hendrix avrebbe compiuto sessant’anni. Mio padre li ha compiuti in giugno. È buffo pensarci.
Mio padre nel ’68 stava mettendo su un’autofficina. Non mi pare che nutra molta nostalgia per quegli anni. Per lui i Beatles furono una meteora: fecero il botto nel ’65 e quattro anni dopo si erano già sciolti. Non fece neanche in tempo ad affezionarsi. È strano pensare che i 99 Posse sono durati molto di più. È strana tutta questa storia della nostalgia, dei ricordi finti che sono più struggenti di quelli veri, del passato che possiamo modellare a nostro piacimento, tanto ci sfugge lo stesso. È strano, è curioso. Ma è anche tardi, adesso.

Non perdetevi domani mattina (sì, giovedì 28 novembre 2002) questo pezzo del Riformista:

Tra corsi di cucito e dibattiti sulla guerra nei licei va in scena l’autogestione
Amano il vestiario militare, leggono la biografia del Che, ascoltano Jovanotti e i 99 Posse: ecco i figli dei sessantottini, la nuova generazione di studenti italiani.
Viaggio nel mondo della scuola che si appresta ad essere okkupata.

jukebox '10, musica, nostalgia

And if you think it obsolete

Noi ogni tanto sentiamo parlare di qualche vecchio disco; da come ne parlano le persone in cui riponiamo la nostra fiducia, capiamo che si tratta di un disco che potremmo amare. E allora cosa aspettiamo a procurarcelo? Il fatto è che abbiamo il triste sospetto che sia troppo tardi, per innamorarsi di una dozzina di canzoni. Una cosa puerile in fin dei conti, e noi cominciamo ad avere un’età. Certe canzoni dovevamo incontrarle per caso quando avevamo ancora il cuore giovane, come sconosciute al campeggio: farci l’amore una notte e poi magari non scordarcele più. Se non è successo, è inutile recriminare: abbiamo avuto altre canzoni, poteva andarci molto peggio. Per esempio, avere 16 anni oggi e doverseli gestire coi ritornelli di Rihanna…

Forever Changes non è un disco che si incontra per caso. Bisogna andarselo a cercare, e quindi tanto vale programmare l’esperienza: tirarne fuori tutto il meglio che si può ricavare da un incontro tra adulti. Certo, non sarà l’amore dei nostri sedici anni, ma ci si può imbastire comunque un rapporto solido, basato sulla fiducia e il rispetto reciproco. Io consiglio di aspettare l’estate (la prossima, perché questa ormai è andata: fatevi un appunto per il giugno 2011). Raccomando di non nutrire aspettative eccessive, perché vi è già successo di portarvi in casa questo o quell’osannato capolavoro e scoprire che in fin dei conti era solo l’ennesima collanina di canzonette vintage. Ecco, prendetela così: Forever Changes è una deliziosa collanina di canzonette vintage, istoriata con fregi spagnoleggianti, quasi fintoaztechi. Un regalo della cugina avventuriera che ha passato un fine settimana a Tijuana. Se poi vi capiterà di innamorarvene sul serio, tanto di guadagnato. In caso contrario, avrete pur sempre una collanina buffa da tirare fuori nei giorni d’estate.

Consiglio di aspettare il termine della siesta pomeridiana, quando il sudore vi appiccica i pensieri. Ascoltatelo svagati, in una stanza rivolta a occidente, pensando ad altro e facendo altro, mode repeat all, senza preoccuparsi di distinguere i ritornelli. Può darsi che vi cresca dentro, così come può darsi di no. Dategli comunque un po’ di fiducia all’inizio: riconoscete che è un lavoro fatto con grande amore e un notevole sprezzo del pericolo, in anni in cui il rock non si sapeva ancora esattamente che direzione avrebbe preso (avrebbe preso la direzione opposta, poveri Love). Lasciatelo aperto fino a tutto il tardo pomeriggio, che s’impregni dell’afa del giorno e della luce del tramonto. Ripetete l’applicazione più volte nel corso dell’estate, e a fine agosto richiudete ermeticamente fino al giugno successivo.

Se tutto va come deve andare, sarete riusciti a insufflare un po’ della vostra personale melanconia estiva in Forever Changes: che ve la restituirà fedelmente, ogni volta che gliene chiederete. Se non funziona, che vi posso dire. Ognuno s’innamora di quel che può (no, l’amore non si merita: ti capita e basta). Magari a voi è toccata Rihanna. Inutile recriminare.

blog, nostalgia, segnalazioni

the midnight picnic once upon a time

Da dove venivamo, dove andavamo

Succede che mentre dicembre precipita, la mia vecchia casella di posta si riempie di re:re:re: di fantasmi del passato che senza alcun ragionevole pretesto si mettono ad evocare un vecchio raduno internettiano, il BlogRodeo di Rozzano, maggio 2004. La spiega meglio Livefast:

Succede questo: Effe fa un post, io scrivo un commento, Effe scrive una mail a tutti quelli che si ricorda che c’erano, tutti raccontano il proprio ricordo (tranne me, che resto fermo al fetentissimo commento originale), ne nasce un instant-blog ed è solo l’inizio: la Mondadori vuole farci un libro, la Paramount un film, il Pentagono un bombardamento all’Iran e la Russia una pasticca al polonio. La gente dovrebbe stare più attenta a quello che scrive.

A chi non c’era un’iniziativa come Chieravamo potrebbe apparire inutile come la nostalgia altrui, ma riflettete. Quella sera tra rodeo, bar, e ampio parcheggio, c’erano in zona almeno quaranta scrittori (laddove per scrittori intendasi “gente che sa scrivere quel che vede e vive in modo interessante”). Se tutti e quaranta riuscissero a produrre un ricordo coerente, parlando anche semplicemente dei fatti loro, avremmo un meraviglioso romanzo collettivo su quaranta persone, con una scena centrale in cui la stessa serata viene vista da quaranta punti di vista diversi. Come i telefilm complicati di adesso, per intenderci.

E se Chieravamo non è riuscito a essere questo, non è senz’altro colpa di Effe, quanto dell’alcol, che brucia ricordi che è un piacere. Sul serio, vien la vertigine a tastare quanto sono grandi i buchi tre anni dopo. Ma intanto Effe è riuscito non dico a resuscitare, ma a riportare on line alcune voci che almeno a me mancano parecchio: La Pizia, Marquant, eccetera. Ragazzi, come state? perché non vi fate vivi più? ma si stava così male qua dentro? In altre parole: è davvero così interessante là fuori?

(Dall’archivio, i due pezzi scritti all’epoca del blogRodeo: Sono schizzato e non mi piaccio così, e King David Objectively. E’ strano, mi sembra di essere più bravo adesso).

auto, design, fiat, nostalgia, pubblicità

Coi tuoi problemi di avviamento, 2

Neanche la nostalgia è più quella di una volta

In fondo cosa vedi di una macchina, dopo tante chiacchiere e reclame, la prima volta che la incontri per strada? Il sedere.
Il sedere della nuova 500 – l’ho visto – non è un granché. E questo è curioso. Voglio dire: cosa ci voleva a disegnare una 500 carina?
Io non sono un designer e probabilmente neanche tu che leggi lo sei, ma di sederi di macchine ne abbiamo visti parecchi e tutto sommato le regole per costruire un remake di successo di una polverosa utilitaria del passato le conosciamo. Li fissarono in un reparto design californiano della Volkswagen J Mays e Freeman Thomas, più o meno 10 anni fa: nessuna pretesa filologica (tecnicamente parlando il New Beetle non aveva nessuna parentela col maggiolone); del vecchio modello si prendono le curve che hanno ancora un vago senso estetico o razionale, si annullano le altre, si semplifica e si ingrandisce. Dopo il maggiolone è arrivata la Mini, di cui la 500 è un’emulazione quasi imbarazzante.
E dunque: dato il modello di partenza, date le regole del gioco, era quasi impossibile disegnare una macchina bruttina, eppure al Lingotto ce l’hanno fatta. Com’è stato possibile?

Eppure vista dal vivo la piccoletta non ha granchè di eccitante: è un trabiccolo mediamente ben disegnato, con molta plasticaccia dentro, con un muso da vecchia 500 e un retro da nuova Mini.
(The Design Council)

In un certo senso questa macchina è arrivata tardi. Con le sue linee curve, la vecchia 500 era il modello ideale per un remake di successo alla fine degli anni Novanta, quando furoreggiavano le carrozzerie tondeggianti e bombate. È curioso che la catastrofica inaugurazione torinese, dovendo introdurre il presente, abbia usato accanto agli ormai ecumenici ballerini hiphop, la musica di quel periodo: Prodigy, Underworld, Lauryn Hill, tutta gente che alle mie orecchie ormai devastate da Polaroid suona più datata dei Beatles, ma è anche vero che nel frattempo ho cambiato tre indirizzi e persino qualche fidanzata (senza parlare dei mestieri); a qualcun altro sembrerà invece l’altroieri.
Comunque oggi le macchine non le fanno più così, lo avrete notato. Non è che la linea curva sia andata in pensione; diciamo che i designer se ne sono stancati anche se non hanno ancora trovato qualche idea altrettanto buona; così ora mettono qualche spigolo più vivo, qualche linea retta, qualche accenno di pinna, qualche fanale appuntito, nulla di veramente rivoluzionario. La verità è che siamo in una fase di transizione, e la 500 la sconta tutta. È tonda senza il coraggio di esserlo veramente. Dev’esser dura citare gli anni Cinquanta ma allo stesso tempo non sembrare roba anni Novanta. C’è una brutta crepa tra le cose già degne di nostalgia e quella che nessuno ha ancora rivalutato, quelle vecchie e basta, e la 500 non voleva cascarci dentro. Il risultato è deludente.

In pratica in FIAT hanno fatto così: hanno preso una Panda, modificato la carrozzeria per farla assomigliare ad una versione peggiorata della 500 originale, “ritoccato” il prezzo del 30% e investito un miliardo di euro in pubblicità per far credere al vulgo profano trattarsi di automezzo “cool” e degno di essere posseduto dalla gente che piace. (Sviluppina)

Allo stesso tempo però è un risultato che consola. L’Italia industriale, lo sappiamo, si trova al bivio: o china la testa al made in China e si rassegna a una rapida decadenza, o si riconverte tutta quanta all’unica cosa che in teoria sa fare bene (o che cinesi e indiani non sanno ancora fare meglio): la qualità artigianale, l’eccellenza, l’alta moda, eccetera. Però trasformare un’intera nazione nel famoso Polo del Lusso non è un’operazione indolore. Per strada c’è ancora tanta gente bruttina, che non ha soldi per vestire elegante, oppure non ne ha voglia. Se lo stivale deve diventare un centro commerciale trendy, più Lafayette che Oviesse, anche noialtri che siamo perlopiù inservienti, o inservienti di inservienti, dovremo darci un contegno: curare il trucco e l’acconciatura; e anche la macchina, mi raccomando, carina. Già.
Il problema (ma è davvero un problema?) è che la Fiat, storicamente, strutturalmente, tradizionalmente, le macchine non riesce a farle carine. Sono nate scatolette in lamierino, e Lapo o non Lapo continuano a sembrare scatolette in lamierino. E meno male! Sul serio, è persino consolante pensare che nell’Italia del lusso e dell’extralusso, Alfa Lancia Macerati Ferrari Lamborghini, c’è ancora un ufficio design che non riesce, per quanto s’impegni, a disegnare una bella macchina. Il problema è che te la fanno ugualmente pagare come un’opera d’arte: ecco, questo non è giusto.

La Fiat è arrivata tardi anche all’appuntamento con la nostalgia – la Fiat arriva sempre tardi. Mentre a metà ’90 i californiani ridisegnavano il maggiolone, a Torino cercavano di vendere come “Nuova Cinquecento” l’ennesima scatoletta in lamierino, un po’ più tondeggiante del solito. Quella del jingle di Gino Paoli, qualcuno si ricorda? No? Ecco. Quando Lapo diceva la Fiat deve tornare a essere figa, non stava parlando di nessun periodo storico in particolare: si stava semplicemente inventando un passato che non c’è mai stato. La Fiat non è mai stata figa, non si è mai posto il problema. La sua vocazione alla bruttezza non era una tabe ereditaria, ma una precisa scelta di marketing: dopo aver dato una macchina (simpatica, certo non ‘figa’) agli italiani poveri ma belli del boom, si era guardata intorno, e nel mercato mondiale dell’automobile aveva scelto di vender macchine soprattutto nei mercati emergenti: il Sudamerica e l’Europa dell’Est. Era come se dopo il boom italiano la Fiat volesse cavalcare un boom mondiale che non c’è mai stato. Col senno del poi aveva torto, ma ancora negli anni Ottanta sembrava un ottimo calcolo: avere una buona posizione in un mercato emergente significa costruirsi opportunità enormi.

Se queste opportunità non si sono mai veramente realizzate, non è colpa della Fiat. Il mondo ha girato in un certo modo. Negli anni Ottanta abbiamo scoperto che gran parte dei Paesi in via di Sviluppo non si stavano sviluppando affatto, che non avrebbero mai avuto i mezzi per procurarsi nemmeno le 126, né le strade per farle girare. Con la caduta del Muro anche il mercato dell’est è diventato più competitivo. La Fiat si è dovuta rassegnare a rincorrere le altre case automobilistiche europee nella lotta per conquistare il sempre più esigente automobilista globale.

Questo automobilista è un po’ antipatico, si sa. È nato in una società del consumo adulta, satura, ha già visto di tutto. Vuole la novità, ma allo stesso tempo ne ha paura. Gli piace la nostalgia, e pazienza se è nostalgia per cose che non ha mai vissuto; tanto è cresciuto davanti alla tv e nemmeno se ne accorge. Vuole l’utilitaria perché tiene poco posto, però vuole anche la prestazione sportiva. Vuole tutto e paga bene, quindi ben venga la Cinquecento. È tutto un po’ discutibile, e ampiamente discusso: che senso ha fare concorrenza in un settore già inflazionato da macchine oggettivamente più “fighe”, Mini in testa? Dovremmo comprare per amor di patria una macchina prodotta in Polonia? Ma come, l’idraulico polacco ci fa paura e l’assemblatore polacco di scocche lo dobbiamo apprezzare a prescindere? Perché invece di sedurre i fighetti la Fiat non rimane fedele alla sua tradizione, e non sforna macchine solide per i nuovi proletari, che sono tanti, anche se non parlano bene bene l’italiano? Non è una sconfitta che i magrebini continuino a preferire le Peugeot, o si mettano a comprare le Logan? Davvero nell’Italia del lusso non c’è spazio per una casa automobilistica, una sola, che faccia ancora auto per i poveri ma belli e non per i paesani rifatti? Di pretenziose scatolette in lamierino non bastavano le Y scolpite da Gabbana?

Quello che mi pare deludente è lo spot svenevole-epico con le scene di “Nuovo cinema Paradiso” montate assieme alle immagini in bianco e nero di personaggi e momenti della storia italiana. L’idea, confezionata con tutta la retorica estetica del caso, è drammaticamente datata (Wittgenstein)

Tutto questo annegherà, è già annegato, in una campagna pubblicitaria senza scrupoli, che pompa l’irrazionale ai massimi livelli e tra Madre Teresa, Falcone e Borsellino trasforma un’utilitaria in una protagonista del Novecento. Un secolo già ampiamente finito, ma chi se ne frega. Ne venderanno un botto. E le strade d’Italia sfoggeranno l’ennesima scatoletta in lamierino, con qualche pretesa in più.
Voglio augurarmi che sia una fase. Se la fiat è il destino dell’Italia, spero che abbia la sagoma vagamente squadrata della Panda a metano. Bruttina, forse, ma ha un carattere, una dignità, un senso, che la 500 non ha. E persino il sedere è più simpatico.

Berlusconi, mafie o camorre, nostalgia, o Prodi o basta

voglio rifugiarmi sotto il Patto di Varsavia

Non c’è nessuna foto di Sircana con un trans; e se anche ci fosse, non farebbe così tanto schifo.
Invece, volete vedere una foto che fa veramente schifo? Ecco qui.

O nostalgia, o vergogna

O nostalgia per quel Muro, che quando c’era, tutto era molto più chiaro; c’era un Rosso e c’era un Bianco; e con un po’ di astuzia si poteva essere un po’ rossi di qua e tifare per quelli un po’ bianchi di là, e insomma sentirsi in pace con tutti, in quella vecchia Europa di una volta.
Quell’Europa che a volte ancora mi sorride dalle cartine appese alle aule, quella senza Ucraina e con una Germania in più, ma piccola; l’Europa del BeNeLux e della Coppa Campioni, e della Jugoslavia. O com’era strano e bello confinare con la Jugoslavia.
Quell’Europa campo minato nucleare. O che nostalgia. O che vergogna.

O come ci siamo ridotti, a rimpiangere Bresnev e Gromiko; i Giochi Senza Frontiere e il tempo delle Mele, e la Uno Fiat che ormai non fanno più neanche in Polonia.
Quegli anni che a viverci ti sembravano di fango, coi democristiani sempre uniti e al governo; perché ancora nessuno ti aveva spiegato che peggio di una Grande Balena, ci sono solo due o tre balene piccole, tutte ansiose di far bella figura davanti alla Grande Foca in ermellino. O vergogna tra le vergogne, di provare nostalgia per Aldo Moro, per Fanfani, per Andreot… no, aspetta, per Andreotti no.

O che nostalgia, per i tempi in cui la Russia si chiamava CCCP, si pronunciava urss, e significava Impero del Male; ma un Male talmente Male che più che spavento faceva tenerezza. Perché scusate, qualcuno di voi è mai riuscito veramente a odiare Ivan Drago? Il povero Ivan Drago, in guantoni rossi, concepito in laboratorio per spiazzarti in due?

O nostalgia per quel tenero Impero del Male, di facce stanche e tristi come quella di Darth Fener dietro il casco; un Impero di povera gente con un esercito da far paura; con le spie e i cosmonauti, che guardavano il mondo da un oblò e tornati a casa facevano una brutta fine. O terribile poesia dell’Impero del Male Contadino, che lancia le cagne in orbita. La povera Laika, ma l’hai guardata negli occhi? Gli americani, imperialisti, usavano gli scimpanzé. Il Male lo vedi nei dettagli. Che cattiveria, che disperazione, in un Impero contadino che per farsi bello sacrifica anche l’animale da cortile.

E insomma eran cattivi, ma anche poveri; li si poteva temere ma un po’ ammirare e un po’ anche compatire; e in ogni caso stavano di là dal muro, e quindi tutto era chiaro. Nessuna compromissione. Al massimo compassione.
O terribile nostalgia, di quando i ricchi eravamo noi.

E adesso che ci resta? Di mendicare il gas, ci resta. E pazienza se il padrone dei gasdotti è un mafioso, agente del KGB, istruttore di arti marziali, uno che sembra il cattivo di un film con Sean Connery, uno che insomma non fa alcuna tenerezza. Non c’è più un muro che ci salvi, da uno come lui. Non c’è più decenza. Ci tocca abbracciarlo, sbaciucchiarlo, perché sarà anche un mafioso, un assassino di giornalisti, un corrotto e un corruttore: ma è il padrone dei gasdotti, e il gas ci serve.

Ci fosse almeno un intermediario, un capro espiatorio, un italiano un po’ più schifoso degli altri che facesse questo sporco mestiere per noi. Che si facesse fotografare lui, a braccetto con lo Zar della Mafia. Ci fosse un nanetto da insultare, mentre entriamo in casa e distrattamente alziamo il riscaldamento. Ci fosse un Berlusconi. Ecco, l’ho detto. Ci fosse la faccia pagliaccia del potere, da insultare e adoperare.

E invece no. O schifo, o vergogna, ad abbracciare e baciare Putin ci deve andare l’uomo che ho votato io. Perché sia chiaro che lo schifo è tutto mio, che la vergogna sono io, che i giornalisti a Mosca ho dato una mano ad ammazzarli anch’io. Quando? Ecco, se almeno mi si potesse dire quando. Ogni volta che accendo il gas? Una volta ogni due? Si può misurare la mia complicità nel genocidio ceceno? Dei quattro bossoli accanto Anna Politkovskaja, quanti ne ho pagati io?

E cosa dovrei fare adesso, a parte provare vergogna e nostalgia? E cosa aspetta insomma il riscaldamento globale a lessarci tutti quanti? E dopo sarà tutto sterile e pulito. Niente più gas, niente più mafia, niente. Neanche più la nostalgia. Niente.

2025, nostalgia

– 2025

Cosa c’è nella stanza 68

“E proprio quando io e Aureliana credevamo, Signore, di aver scoperto chissà quale mistero intorno a Leonardo – la sua doppia personalità, intendo, Immacolato vs. Arci – bene, proprio in quel momento lo perdemmo. Smise di venire in facoltà. Le mogli lo cercavano. Sulle prime pensammo che ci avesse scoperto. La verità era più banale: si era cacciato nei guai. Guai professionali. Guai politici.
Come forse non le ho ancora detto, Immacolato lavorava partime per il Ministero della Propaganda del Teopop, presso il Reparto Nostalgia. Pare che fosse stata la bismoglie più giovane a brigare per fargli avere quel posto, nel quale sembrava particolarmente dotato. La cosa non sorprende, visto che il reparto stesso era stato fondato da “Arci”, ovvero da lui medesimo.

Gli impiegati del Reparto Nostalgia (detto anche “Progetto Duemila”) sono addetti alla memoria collettiva. Riciclano materiali audiovisivi di repertorio risalenti a 20 anni fa e li trasformano nel Passato Ufficiale del Teopop. Ovviamente tagliano le cose che intendono dimenticare e far dimenticare. Immacolato aveva una buona memoria (requisito importante per lavorare al Reparto), ma che a volte lo tradiva, mettendolo nei guai. Per esempio, in occasione del ventennale della morte di Papa Giovanni Paolo II, sostenne davanti a un alto prelato di aver visto ai suoi tempi l’immagine video del Grande Papa che stringeva le mani a un dittatore cileno. Un finto ricordo, tipica illusione dell’inconscio. Ma Immacolato scelse male il tempo e il modo, e la figuraccia davanti al cardinale costò il posto al suo principale (mentre lui rimediò solo un’espulsione). In questo modo favorì involontariamente l’ascesa di Pioquinto, un viscido funzionario clericale che fu nominato responsabile del reparto. Immacolato lo conosceva già (e lo disprezzava), ma non poteva sapere che Pioquinto apparteneva alla fazione papista del Teopop – una corrente che appoggiava il Papa del Teopop, e il suo tentativo di riprendere saldamente il controllo del regime.
Pioquinto si era affrettato a richiamare Immacolato al lavoro – ne conosceva le doti e preferiva averlo con sé che contro. Ma Immacolato non era più l’impiegato remissivo di un tempo. Forse la possibilità di confidarsi liberamente a un blog aveva risvegliato in lui sopiti istinti di ribellione… fatto sta che Pioquinto si trovò più volte ai ferri corti con lui, e alla fine, per una banale divergenza di vedute, lo condannò alla Stanza 68. Non mi faccia quella faccia, Signore. Non ha mai sentito parlare della stanza 68?

La Stanza è una delle peculiarità logistiche del Teopop italiano, un po’ come i bunker di cemento in aperta campagna erano la peculiarità del comunismo albanese. Ogni edificio pubblico (cioè, in pratica, ogni edificio) è equipaggiato con una stanza 68. Di solito è in fondo al corridoio, di fianco all’infermeria. A volte manca l’infermeria, ma di solito non manca la stanza 68.
Si tratta sostanzialmente di un’elementare forma di castigo, prevista dal regime: se qualcuno continua a pestare i piedi al superiore, quest’ultimo come extrema ratio può indirizzarlo alla stanza 68. Lo stesso Immacolato, nell’unico luogo dove era in grado di esercitare un minuscolo potere (la facoltà di Scienza Inutili) aveva qualche tempo prima ricorso alla Stanza 68 con uno studente che lo innervosiva. Va detto che si tratta di solito di casi molto rari; tutti preferiscono essere buoni e ubbidienti piuttosto che passare una mezza giornata nella Stanza 68. Ora lei, Signore, vorrà sapere cosa ci sia di così universalmente deterrente nella Stanza 68. Beh, non mi crederà.

La Stanza 68 è una capsula del tempo.
Contiene libri, riviste, manifesti, materiale audiovisivo, tutto risalente a un determinato periodo della storia d’Italia. E di solito, in ogni stanza 68 seria c’è anche una persona, anch’egli risalente a quel periodo, il cosiddetto “aguzzino”. Da questo punto di vista la Stanza 68 risolve uno dei problemi fondamentali del Teopop: lo smaltimento di una generazione in esubero. Si tratta ovviamente della generazione nata tra il 1940 e il 1955 – i babyboomers.
Come sicuramente sa, Signore, in tutto l’Occidente la generazione del baby boom è quella che ha avuto la possibilità di crescere, mettere famiglia e conquistare il potere nella fase migliore di tutto il Novecento – e forse di tutta la storia dell’umanità: la Guerra fredda garantiva stabilità (e una relativa pace); i mercati si espandevano, c’era lavoro quasi per tutti, ecc. ecc.. Furono gli anni della conquista dello spazio e della rivoluzione sessuale, Signore, senz’altro lo sa meglio di me, non aggiungo altro. In ogni caso, già verso gli anni Ottanta questa fase di benessere stava rapidamente declinando. In alcune nazioni declinò molto più bruscamente che in altre – è il caso dell’Italia, naturalmente.

Deve sapere che durante la Guerra fredda l’Italia aveva goduto di una sorta di rendita di posizione. Voi americani avevate tutto l’interesse a mantenere a un certo livello di benessere una nazione al centro del Mediterraneo, a ridosso della cortina di ferro e del Medio Oriente. Era un modo per dimostrare la superiorità dell’Occidente, della Nato. Ma dopo il 1989, le priorità cambiarono. L’Italia doveva tornare a camminare con le sue gambe, e riprendere il mediocre destino di sottosviluppo a cui sembrava condannata dalla Storia. Questo lasciò spiazzati i babyboomers. Essi erano nati e cresciuti in un mondo pieno di opportunità. In un certo senso, pensavano che tutto fosse loro dovuto: pensioni sempre più cospicue, scuole sempre più formative, ospedali sempre più puliti, lavori sempre meno faticosi… ma questo non era più sostenibile. Economicamente.
La reazione emotiva di questi babyboomers fu devastante. Si chiusero in un passato fatto di canzoni e immagini della loro gioventù. Siccome erano la fascia di popolazione più numerosa, il mercato rispose massicciamente alla loro fuga della realtà, producendo un revival infinito sugli anni Sessanta-Settanta. Il processo regressivo fu tale, che l’Italia fu l’unico Paese in cui i babyboomers non andarono mai al potere. Nella stanza dei bottoni ci rimasero i nonni: i papà a un certo punto si rintanarono nella stanza dei giochi e non ne uscirono più.

Il Teopop – che era stato ideato da esponenti della generazione dei figli, cioè dalla mia – si era naturalmente posto il problema: cosa facciamo di ‘sti bamboccioni – nel frattempo diventati tutti arzilli pensionati, assolutamente improduttivi, ma ancora pieni di voglia di raccontare dei loro anni ruggenti in cui loro sì che sapevano divertirsi ballare fare la rivoluzione? Ci sarebbero voluti ancora molti anni prima di smaltirli: i babyboomers avevano usufruito di una sanità pubblica efficiente e avevano un’aspettativa di vita altissima. Si calcolava che l’ultimo scaglione di babyboomers non avrebbe smesso di intonare canzoni di Battisti prima del 2035. Bisognava dunque rassegnarsi ad altri vent’anni di ritornelli di Battisti in tv? Qualche membro del Teopop iniziava già a parlare di eutanasia di massa.
Ma altri si opponevano. “Nel Teopop c’è posto per tutti”, dicevano. “Possiamo trovare un posto anche per loro”.
La soluzione definitiva fu piuttosto ingegnosa, e non mi stupirei se il diabolico Arci non fosse stato tra gli ideatori. Rientra un po’ nel suo stile, per così dire. I babyboomers furono esaminati per quello che erano: un branco di sessanta-settantenni inutili e nostalgici. Che cosa potevano ancora fare, di utile?
“L’unica cosa che sanno fare è tediare il prossimo con nostalgie inutili. È una tortura”.
“Già, ma nel Teopop c’è bisogno di tutto. Anche di torturare il prossimo, quando se lo merita”.

E fu così che nacque il progetto “Stanza 68”. Il babyboomer, detto anche “aguzzino” fu preso e isolato nella sua Stanza dei giochi – poster, libri, dischi, film, tutto il più possibile originale, tanto di quella paccottiglia ce n’era in eccesso. E quando qualcuno si comporta male… lo si manda nella Stanza 68 a farsi raccontare i vecchi tempi: la Vespa, Celentano, quel che Pasolini disse agli studenti di Valle Giulia, ecc., ecc., ecc..
Il risultato (anche solo dopo mezza giornata) è devastante. Pare che tu possa sentire le tue cellule grigie liquefarti. Non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico.
Ora che ci penso, il mio peggior nemico era lui.

2025, Berlusconi, nostalgia, pubblicità, racconti, Rutelli, Teopop

– 2025

Reparto nostalgia

 

“Ci siamo tutti? E Immacolato?”
“Son qui”.
“E quel brutto taglio sulla fronte, cos’è?”
“Uno spigolo della doccia”.
“La doccia? Ti funziona la doccia?”
“Gli spigoli sì, benissimo”.
“Allora, se ci siamo tutti, aprirei la riunione. Sia lodato Gesù Cristo”.
“Sempre sia”
“Seduti”.
“A proposito, direttore, i migliori auguri”.
“Eh?”
“Oggi è Sant’Antonio Abate, la sua festa, “.
“Oddio, avete fatto bene, m’ero già dimenticato…”

Nome: ANTONIO-ABATE (bisbattezzato il 17/1/2015)
Qualifica: Direttore del progetto Duemila
Età stimata: 45, giovanile
Capacità mnemoniche: è un miracolo che si ricordi di venir qui la mattina
Cosa penso io di lui: al suo posto farei di meglio, ma mi annoierei
Cosa pensa lui di me: sappiamo tutti che sei al capolinea, quindi: non darmi grane, e da me non ne avrai.

“Bene, se è la mia festa fatemi dire solo due parole: Basta Tsunami. Non se ne può più”.
“Ma io ho appena trovato un video amatoriale tailandese che…”
“No”.
“E il bimbo birmano trovato sotto le macerie dopo quind…”
“Stop”.
“E i retroscena sui bimbi rapiti dai ped…”
“Zitto, Loreto, basta! Se continui ti spedisco al Reparto 68! ”

Nome: LORETO (bisbattezzato il 17/12/2016)
Qualifica: Assistente
Età stimata: 23
Capacità mnemoniche: se ne parla tra vent'anni
Cosa penso io di lui: simpatico, volonteroso, ma non capisce niente. Sta lavorando per diventare un utile idiota, per ora non è ancora abbastanza utile. Si farà.
Cosa pensa lui di me: non ho ancora capito chi è il nonnino qui di fianco.

“Loreto, apprezzo i tuoi sforzi, ma noi qui stiamo lavorando alla nostalgia. Tu sai di cosa si tratta, naturalm”.
“Direttore, in quanto laureato in scienze della nostalgia…”
“…sai benissimo che un immane disastro naturale non è un buon veicolo di nostalgia. Posso capire qualche scenetta edificante, un bivacco di volontari nel fango, ogni tanto, questo è ochei per la nostalgia. Ma i cataclismi no. La gente vuole dimenticarli, i cataclismi. Sono millenni che la gente ne dimentica. Questa è saggezza popolare, Loreto. Per favore, ripassati un po’ la saggezza popolare. Ochei?”
“Sì, direttore”.
“Io preferirei aprire con qualcosa di molto familiare. Tipo Berlusconi. Ho visto che il pubblico ha molto apprezzato il treppiede, 15 giorni fa. Se avessimo qualcosa del genere, o almeno un detto celebre…  “
Se il comunismo andasse al potere l’esito sarebbe miseria, terrore e morte“.
“Dai! Questa l’ha detta vent’anni fa?”
“E’ qui su un ritaglio del 17 gennaio 2005”.
“Questa mi piace, questa funziona. Miseria, terrore e morte… Questa vedrete che diventa un tormentone”.
“Ci sarà chi la troverà profetica”.
“Tanto meglio. Apriamo con questa, allora”.
“Mi dispiace, direttore, non possiamo”.
“Oh, andiamo, Pioquinto…”

 

Nome: PIO V (bisbattezzato il 30/4/2012)
Qualifica: Diacono, commissario politico della redazione, nominato dalla Curia. Veglia sulla nostra integrità morale. ('veglia' è una grossa parola. Diciamo: sonnecchia sulla nostra integrità morale).
Età stimata: 34
Capacità mnemoniche: non ricorda niente. Solo i peccati degli altri. Quelli non se li scorda più
Cosa penso io di lui: classico esempio della Generazione di mezzo. Vede ovunq peccati e tentazioni, un po' lo invidio. Sa solo dire No No No, come se la vita fosse una lezione di catechismo e lui il maestro. E piantala di vestirti in nero, bacherozzo, mi sa che porti pure sfiga.
Cosa pensa lui di me: puoi nasconderti finché vuoi, ma resti sempre un'anima nera di defargista e giuda, e verrà un giorno... verrà un giorno... ronf.

 

“Le devo ricordare, direttore, che si tratta di un soggetto molto delicato”.
“Berlusconi, intende?”
“Si è aperto il processo, lo sa…”
“No! Un altro processo. Non ne sapevo niente”.
“Intendo il processo di beatificazione”.
“Ah, quello. Ma potevate aspettare la morte clinica, almeno”.
“Direttore, le rammento che questi colloqui sono registrati”.
“Ma sì, ma sì, è tutto registrato, Pioquinto. Va bene, niente Berlusconi. C’è qualche altro politico interessante?
“Nello stesso ritaglio c’è una dichiarazione di Rutelli: L’approdo della Margherita non è la socialdemocrazia“.
“Bene. Cioè, bene per niente. Spiegatemi intanto chi era questo Rutelli e cos’era questa margherita”.
“Rutelli era un lider politico, già nei  radicali, poi nei verdi, in seguito fondatore della Margherita. Creata nel 2000, quest’aggregazione di centro in seguito confluì nel…”
“Chi se ne frega. Non mi dice niente. E’ ancora vivo, lui?”
“Vivo e operante, dopo il Bisbattesimo è noto al pubblico come Cardinal Crispino, direttore della Congregazione Fides et Spes”.
“In effetti non è approdato alla socialdemocrazia”.
“No, proprio no”.
“Beh, mi pare abbastanza dimenticabile. Assunta, tu che ne pensi?”

 

Nome: ASSUNTA (bisbattezzata il 15/8/2016)
Qualifica: Vice-direttore. Inoltre è la mia seconda moglie. Sì, il posto lo devo a lei.
Età: 35.
Capacità mnemoniche: non saprei. Dimentica in fretta, quando vuole, questo sì.
Cosa penso io di lei: col mio consenso, mi tradisce con un uomo più giovane. Ufficialm non me la prendo.
Cosa pensa lui di me: sei troppo buono e saggio per prendertela, vecchio coglione.

 

“La penso come lei, direttore. E credo che dovremmo lasciar stare la politica per un po’, era una fase di stanca. Io pescherei dalla cronaca”.
“Morti ammazzati?”
“Pensavo qualcosa di più riposante. Per esempio, questo lupo trovato alla periferia di Cupolona”.
“Un lupo a Cupolona?” 
“Sì”.
“Ma questa che notizia è, scusa”.
“Era il primo in 70 anni”
“Ah sì? Cioè, vent’anni fa non c’erano lupi a Cupolona?”
“No, era una razza in via d’estinzione. E’ interessante vedere le reazioni. Ho un servizio in cui un animalista spiega di stare tranquilli, che i lupi non assaltano gli uomini…”
“Un folle!”
“In effetti no, le cose stavano così, in quegli anni i lupi avevano paura degli uomini. Anche questo, appena arrivato in città fu messo sotto da un’ auto”.
“Beh, beh, è interessante. Potremmo aprire con questo”.
“Io non sono tanto d’accordo, Direttore”.
“E perché non sei tanto d’accordo, Immacolato?

 

Nome: IMMACOLATO (bisbattezzato l'8/12/2010)
Qualifica: Redattore semplice. Già membro del Partito, collaboratore di Arci, in seguito inquisito per defargismo, dal 2023 pentito e rieducato.
Età: 51 e mezzo.
Capacità mnemoniche: Scarse. Più di tutti questi idioti messi assieme, comunq.
Cosa penso io di me: non mi ci far pensare

 

“Col suo permesso, Direttore, un lupo a Cupolona non è un frammento di passato da conservare nel presente, semmai il contrario: un frammento di presente incastrato nel passato”.
“In sintesi”.
“In sintesi, ha a che fare più con quello che ci succede oggi che con quello che succedeva vent’anni fa. Oggi i lupi a Cupolona sono una piaga sociale, sgozzano pecore e pastorelli a tutt’andare. Se diamo al nostro pubblico la possibilità di ricordare che vent’anni fa le cose non stavano così… rischiamo di non creare solo nostalgia. Rischiamo di creare anche malcontento”.
“Il confine è molto sottile”.
“Ragione in più per essere prudenti. Credo che anche il Commissario Pioquinto sia d’accordo con me. Sbaglio?”
“Zzz… eh?”
“Ssst, lasciamolo tranquillo. Tanto è tutto registrato. Ma va bene, Immacolato, capisco quel che intendi. Però siamo qui da dieci minuti e non abbiamo ancora trovato un’apertura. Tu hai qualcosa, almeno?”
“Sì, ho varie cose. Per esempio, le primarie in Puglia, un fatto politico molto importante. In un certo senso è la data che segna la nascita della democrazia partecipativa in Italia, che prelude in qualche modo all’affermazione del Teopop”.
“Ma…”
“Poi ho trovato un ritaglio, qui, su “Affari e Finanza Moda e Design” di lunedì 17/1/05, in cui si anticipa con una preveggenza straordinaria l’imminente crisi strutturale della media impresa italiana. Sentite: Mentre un po’ di tempo fa queste stesse realtà industriali dicevano di voler comprare aziende in Cina ora la musica è cambiata e più che comprare vogliono vendere… Che ne dite?”
“Ecco, veramente…”
“Ochei, stavo solo scherzando. Ho già qui tutto pronto: dieci minuti di montato su Pitti Uomo”.
“Il Pitti Frocio! Ma potevate dirmelo prima …”
“Una piccola sorpresa per il suo onomastico. E altri dieci minuti sui reality show che andavano per la maggiore in quel periodo, mi sembra giusto che la gente non se li dimentichi”.
“Restano cinque minuti…”
“Ho un’idea anche per quelli, sono riuscito a scovare un’altra intervista alle Lecciso”.
“Ancora loro!”
“Sì, abbiamo visto che funzionano”:
“E dire che io me ne ero completamente dimenticato”.
“Tutti se ne erano completamente dimenticati. Ma adesso, grazie a noi…”
“…Non se ne dimenticheranno mai più. Perfetto. Abbiamo finito. No, aspetta. Lo spot”.
“Ne ho già due pronti. Una casa che si piega e si trasforma in un telefono cellulare. Molto bello”.
“Ne abbiamo già parlato, io preferirei non insistere sui telefoni cellulari. Meglio dimenticarli, no?”
“Già. Allora abbiamo quello dell’uomo che corre nudo allo stadio”.
“Aspetta! Quello me lo ricordo!”
“Con musiche di Morricone”
“…e voce brasileira, sì! Incregibile Amici!, ahah! Me lo ricordo! E’ fantastico”.
“Sta avendo una madeleine, Direttore?”
“Incredibile. E’ l’unica cosa che mi ricordo davvero di quel periodo”.
“Beh, come si dice, Nessun Ricordo, Buon ricordo”.
“Già. Bene, quindi se la scaletta è completa, io scioglierei la riunione. Sia Lodato Gesù Cristo”.
“Sempre sia”.

2025, anniversari, nostalgia, Teopop

– 2025

Il muro di cristallo

Caro Leonardo,
in questi giorni non ti ho scritto molto. Casini. Superlavoro. Ecco, volevo parlarti un poco del lavoro che faccio.
Beh, è tanto e vario. La sera, se c’è luce, correggo le bozze per un paio di riviste Supernet. Al mattino sono titolare precario della cattedra di narrativa ucronica – un bel lavoro, non credo che me lo pagheranno. E al pomeriggio sono qui, al Progetto Duemila.
Il progetto è… mah, temevo peggio. Quando arrivai ero convinto che facesse parte della punizione. Ma adesso credo che abbiano davvero bisogno di me. Al campo di rieducazione hanno scoperto che ho memoria, e questa per loro è una risorsa importante. (Per la verità, a me non pare di avere tutta questa memoria, adesso. Più di chiunq altro in circolazione, questo sì. Ma non così tanta, in senso assoluto).
Il Progetto Duemila non è niente di che, in sostanza è la rielaborazione Supernet di un programma tv che è sempre esistito – ricordo di averne visto qualche puntata da ragazzino, al tempo si chiamava “20 anni dopo”. Segno che i Cicli Nostalgici esistevano, e venivano adoperati, anche prima che Arci li osservasse scientificamente e ci costruisse la famosa teoria dei cristalli.

La famosa teoria dei cristalli – un’altra volta mi piacerebbe discuterne con te in senso generale. Io non è che ci abbia capito mai molto, però ho collaborato con Arci in quel periodo, lui mi faceva molti test, mi metteva un casco in testa, cose così. Per cui mi sento in qualche modo responsabile.
Comunq l’essenziale, al fine del Progetto Duemila, è solo laparte di teoria in cui si studiano le cause e gli effetti della Nostalgia.
Arci scoprì che si trattava di un fenomeno molto simile al sonno, che come il sonno seguiva precisi cicli fisiologici. Lui partiva dall’assunto che il Passato è perso per sempre, e che ne conserviamo in memoria soltanto alcuni frammenti più o meno casuali, proprio come ci succede di ricordare solo una minima parte dei sogni che facciamo la mattina.
Successivam, noi trasformiamo questi frammenti in una narrazione: li montiamo, come in un film, gli diamo un senso. Tutto questo, nel caso dei sogni, accade nei primi minuti successivi al risveglio; invece i ricordi prendono molto più tempo: mesi, e a volte anche anni. Arci scoprì che c’era un limite massimo entro il quale un ‘frammento di passato’ poteva essere riutilizzato, montato all’interno di una narrazione e trasformato in un vero e proprio ‘ricordo’: e questo limite, guarda un po’, erano proprio i 20 anni. (20 anni e 47 gg., vabbè). Questa soglia è stata poi chiamata “Muro di Cristallo”: un’espressione impropria per dire che dopo i vent’anni i ricordi si cristallizzano, prendono la loro forma definitiva. I frammenti che non si cristallizzano entro i 20 anni si perdono, vengono definitivamente evacuati dalla memoria. E questo spiegava un sacco di cose.
Per esempio, spiegava perché negli anni Sessanta molte persone sognassero di vivere negli anni Quaranta, rifare le brigate partigiane eccetera, e perché negli anni Ottanta la gente non facesse che cantare canzoni degli anni Sessanta, disprezzando quelle che uscivano in quel momento, che naturalm furono rivalutate e tornarono di gran moda nelle discoteche vent’anni dopo. E così via. Arci aveva capito che le persone vivono due dimensioni temporali diverse: mentre agiscono nel presente, nel loro cervello stanno ricostruendo il Passato. C’è un intervallo di 20 anni e 47 gg. in cui il passato è ancora magmatico, informe, solo parzialmente cristallizzato, e ognuno può rimodellarlo un po’ come vuole: dopodiché, fine: il Sogno è costruito, il Ricordo è completo, il Tempo Perduto è Ritrovato, e non c’è più niente da fare.
Grazie ad Arci, il Teopop aveva gli strumenti scientifici per interpretare il fenomeno. Rimaneva da capire come usarlo.

Su questo, ovviam, il Teopop si divise. Secondo Defarge la Nostalgia non era un bel lavoro, essa impediva ai cittadini di vivere con pienezza il presente. Ci scrisse anche un’enciclica, dal titolo “Compagni, la Nostalgia non è un bel lavoro!”
Secondo altri, la Nostalgia poteva sempre servire, ed era meglio che servisse al Teopop. Così fu delegata una commissione, che propose un programma, il quale prevedeva l’istituzione di un comitato che supervisionasse un progetto – il progetto Duemila. Si chiama così perché è stato fondato nel 2020, con lo scopo di “assistere i cittadini affinché la ricostruzione mentale dell’anno 2000 sia la più oggettiva e la meno turbativa dell’Ordine Pubblico possibile, a maggior lode e gloria di Nostro Signore Onnipotente, amen”. Dopo il Duemila ci fu il Duemila E Uno, il Due, il Tre, il Quattro, e adesso stiamo iniziando il Cinque. In pratica ci muoviamo a ridosso del Muro di Cristallo: ogni settimana ripeschiamo avvenimenti, filmati, foto di vent’anni fa, ci costruiamo un programma e lo mandiamo in prima serata sulla terza rete Supernet. La gente lo guarda, e pensa: “Toh, vent’anni fa eravamo proprio così”, e in un qualche modo riadatta i suoi ricordi a quelli che abbiamo proposto noi. Nel giro di poche settimane quel riadattamento si cristallizza definitivamente, e i frammenti indesiderati vengono evacuati. E anche il 2005 “è Passato”. Fine.

Un lavoro molto creativo, a raccontartelo.
Un gran paio di palle, certi lunedì mattina.
Ma di questo ti parlo un’altra volta. Alla prossima. Mac.

chiudere i licei (con i prof dentro), essere donna oggi, nostalgia

Maestri di vita (14): Gianna

Gianna in realtà non si chiamava così, ma facciamo finta che.
Gianna una volta disse una cosa che non mi dimenticherò mai. Ma andiamo con ordine.

Un giorno io cominciai a pensare che la solitudine è un destino, che una persona porta con sé dalla nascita. Non ha nulla a che fare coi vestiti che uno indossa, o col peso e l’altezza, e nemmeno con l’alito, per quanto uno possa lavarsi i denti; oppure invece no, ha a che fare con tutte queste cose, ma le determina: non si è soli perché si veste da sfigato, ma ci si veste da sfigati perché si è soli, e nessuno ci ha mai spiegato i vestiti da indossare e la corretta igiene orale. È un circolo vizioso che comincia alla scuola materna, forse anche prima, e non c’è modo di evadere. Neanche cambiando città: ovunque vai, la solitudine ti precede. È come un araldo che si fa strada suonando un campanaccio: “Udite, udite! Sta arrivando Davide, è un solitario, emarginatelo”.

Queste cose io cominciai a pensarle seriamente, una mattina del settembre 1987: era il secondo giorno nella nuova scuola, e in classe quasi nessuno si conosceva. Ognuno, quel mattino, aveva scelto il banco secondando l’istinto. Orbene, c’erano 26 banchi in coppie di 2, e 25 ragazzini. Come un ballo della scopa infernale.
Io però ero stato uno dei primi ad arrivare, perciò pensavo che da un punto di vista strettamente statistico avrei avuto meno possibilità di restare solo. Mi sbagliavo. Evidentemente il mio araldo mi aveva preceduto. (“Qui si sederà Davide: mi raccomando, lasciatelo solo, lui preferisce così”). Io credevo molto all’imprinting, guardavo ai miei compagni come a tante oche di Lorenz, così al suono di quella campana pensavo che le cose si fossero decise per sempre: sei coppie maschili, sei coppie femminili, e uno sfigato. Avrei passato cinque anni così, amen.

Poi, dopo cinque minuti, la porta si aprì ed entrò Gianna, trafelata. Borbottò qualcosa su un treno che era arrivato in ritardo, e senza neanche guardare venne a sedersi di fianco a me. Questo, capite, cambiava tutto: dodici coppie omo e una coppia etero. E l’unico maschietto con una femmina di fianco ero io. Ecco che il destino mi dava un’opportunità incredibile: avrei saputo sfruttarla bene? Avevo cinque ore per fare una buona impressione. Ma come si fa buona impressione sulle ragazze? Non lo sapevo. Non lo sapevo assolutamente.

Per la verità, non è che fossi vissuto sulla luna: alle medie di cose ne avevo imparate. Per esempio, sapevo come si fanno incazzare. Ma non era certo questo il caso. Sapevo anche come innamorarmi di loro, prendermi delle sbandate storiche in totale solitudine. Avevo anche imparato come reagire con assoluta indifferenza a semi-esplicite richieste di attenzione, cosa di cui mi rimprovererò per tutta la vita. Ma tutto questo ora non mi serviva. Ora dovevo cercare di convivere con una ragazza. Dovevo dimostrare che poteva trovarsi a suo agio di fianco a me. Come fare?

Gianna era sottile, scura di carnagione, e stava dormendo. Non le era bastato perdere il treno. Il caschetto castano basculava incerto sulle spalle, e rischiava di piombare sul banco da un momento all’altro. Quando finalmente si svegliò del tutto, ebbe fame. Ogni tanto dal suo corpo partivano strani brontolii udibili sin dalla cattedra, tanto che la prof d’inglese commentò. Io non avevo mai sentito lo stomaco di una ragazza brontolare. La scuola media superiore si stava rivelando densa di sorprese.

Quanto a me, non credo che riuscii a interagire con successo il primo giorno, ma scoprii presto che la cosa non era importante. Il mattino dopo le coppie erano ormai fatte, e io ero di nuovo l’unico maschietto solitario, finché Gianna non arrivò: aveva perso il treno di nuovo. Gianna continuò a perdere il treno per tutto l’anno, anzi, perse il treno per tutti i cinque anni del liceo sperimentale. Vorrei ringraziarla qui di nascosto per aver ignorato così sistematicamente le lamentele dei docenti, e aver continuato a scegliere le pigre ferrovie di Sassuolo invece di una più rapida autocorriera. Fu grazie a questa sua scelta di vita che io imparai come si condivide il posto di lavoro con una ragazza. Lezione importante, una delle più importanti che ho imparato quell’anno (molto più importante delle declinazioni del latino, per esempio).

Per prima cosa, è inutile strafare. Bisogna essere sé stessi, anzi, diventare sé stessi, perché a 15 anni uno non è ancora niente. Se lei non ha voglia di parlare, non disturbarla. Se si mette a scherzare col maschietto che sta davanti a te, ignora le punture che ti trafiggono al petto. Se si addormenta, scuotila, con dolcezza: te ne sarà grata. Se poi si riaddormenta, non insistere troppo. Se in aprile basta sbirciare dalle maniche della maglietta per vedere il reggiseno (coi cuoricini), non girarti: non puoi fare il guardone con una persona che hai di fianco continuamente.
Se invece ogni tanto ti viene in mente qualcosa di divertente da dire, aspetta, scegli il momento giusto, e dilla sottovoce. Se lei non la troverà divertente, non se ne accorgerà nessuno.
Ma se lei si metterà a ridere come una forsennata, con la risata che aveva Gianna, che sembrava svegliarsi in quel momento ed esplodere in una cascata sghignazzante: se riesci a farla ridere, sarai il maschietto più felice della terra, perciò, presta attenzione. Come si costruisce una battuta? Come si racconta una storia? Datti da fare, ragazzo. Non emarginarti, non farti mettere in un angolo anche stavolta.

Gianna fu la prima compagna di quella classe a mostrare di gradire la mia compagnia, e io le sarò eternamente grato. Dopo di lei vennero tanti altri: Gigi che mi disegnava piselli sul diario, Ghigo che in un giorno di sciopero mi portò dal mitico Notari a provare le chitarre elettriche, Mega così detto dalle dimensioni delle cazzate che diceva, Zanna con cui misi su un complesso, Alberto che fa il giornalista, Carol che in quarta m’invitò a prendere una pizza per discutere le rispettive scelte ideologiche, Silvia che adesso ha una bambina, e tanti altri, e alla fine scoprii che stavo bene più o meno con tutti. Con gli anni i maschietti vennero duramente selezionati, rimanemmo solo in sei. Era un liceo quasi totalmente femminile, e saper interagire con le ragazze era importantissimo. Tutta la mia vita, a dire il vero, si è svolta in luoghi a preponderanza femminile. Non so se sia un destino o un caso, e non sempre mi sono trovato così bene. Ma quei cinque anni sono stati davvero i più belli della mia vita, e le ragazze hanno giocato un ruolo molto importante.

Racconto questo perché è l’otto marzo, e volevo ringraziare in un qualche modo tutte le donne che in un periodo della vita hanno dovuto sedersi di fianco a me.
Può darsi che in futuro questa storia risulterà incomprensibile. L’idea di far lavorare insieme maschietti e femminucce nell’età della crescita non ha un gran fondamento scientifico: è una di quelle stramberie pedagogiche del tardo Novecento, che i nipotini della Moratti non tarderanno a smantellare. È giusto che i poveri stiano in classe coi poveri, i ricchi coi ricchi, i bianchi coi bianchi e i maschi coi maschi. È più sano, e anche per i prof è più facile lavorare. I ragazzi arriveranno a vent’anni senza aver mai interagito con una ragazza: no problem: stiamo già pensando di riaprire i casini, per il corso accelerato. Cosa c’è di strano? Una volta si faceva così, no? Siamo noi quelli strani, maschietti che non vogliono fare i maschioni e femminucce che non si rassegnano a fare le casalinghe. Uno scherzo della storia. Ma non durerà.

Non era più l’87, era già passato qualche anno, quando Gianna disse questa cosa, che non scorderò mai. Non la disse a me, ma a una nostra compagna nell’intervallo. Io passavo di lì per caso. Disse: “se penso che devo convivere con me stessa per tutta la vita…
Non ci avevo mai pensato, eppure anch’io sono nella stessa situazione. Ormai mi conosco, e tante cose di me non le sopporto. Ma le devo sopportare: ogni giorno devo portarmi in giro, ascoltarmi quando parlo, e tante volte non faccio che dire le solite cose. È una gran palla, Gianna aveva ragione.
Fortuna che ci sono le ragazze, che tollerano di sedersi al tuo fianco, che accettano la tua compagnia, che ti costringono a tirare fuori da te stesso qualcosa di nuovo e divertente: e che a volte ti spiegano la vita. Io sono un maschietto del tardo novecento, sono cresciuto con le ragazze e ci sto bene. A volte la mia donna non la capisco proprio. Ma quando ride, per una cosa che ho detto, io sono felice. Anche ora.

invecchiare, karaoke esistenziale, musica, nostalgia

Tutti abbiamo diritto almeno a una canzone che ci faccia sentire immensamente tristi e stupidi, non trovate? Almeno, io la penso così.

Karaoke esistenziale, ciak! 12

“Show me, show me, show me
how you do that trick
The one that makes me scream” she said
“The one that makes me laugh” she said
And threw her arms around my neck

Anche se ormai tutto è finito, non ci restano che le briciole. Non tornerà più l’inverno tra l’ottantasette e l’ottantotto, pioggia battente e mezza pagella insufficiente, e Robert Smith, con quella voce che assomiglia a un bambino che ha pianto per ore e ore, e se anche ora cerca di smettere non riesce; Robert Smith che dice che va tutto bene, che è come il Paradiso.
Perché anche se non riesce a smettere di frignare sa che da qualche parte c’è una persona che ti ama: tu non la conosci, ma lei ti aspetta da qualche parte nel tuo futuro, per ridere, per urlare, per gettarti le braccia attorno al collo, per correre via con te.

“Show me how you do it
And I promise you I promise that
I’ll run away with you
I’ll run away with you”

Passeranno gli anni, ti farai una cultura, e quando ti troverai davanti Verlaine, col suo Rêve familier, ti sembrerà davvero familiare: “Faccio spesso questo sogno, strano e penetrante / di una donna sconosciuta che io amo, e lei m’ama / e che ogni volta non è mai la stessa,/ e non è nemmeno un’altra, e mi ama, e mi capisce”: e per lei “il mio cuore trasparente / cessa di essere un problema”. “È bruna, bionda, rossa? Non lo so”. Per forza. Come facevo a saperlo?

Spinning on that dizzy edge
I kissed her face and kissed her head
And dreamed of all the different ways I had
To make her glow

Come potevo essere sicuro che esistesse? Solo la certezza di volerle bene, e il tempo passato a sognare “tutti i modi diversi di farla avvampare”. Perché sei così lontano?, lei chiede, in sogno, Perché non capisci che ti amo?

“Why are you so far away?” she said
“Why won’t you ever know that I’m in love with you
That I’m in love with you”

Com’è bello l’inglese con la sua aggettivazione incongrua, com’è bello sapere parole dolci in una lingua che non corrispondono alle nostre. È come perdere il proprio corpo (e a quindici anni uno ne ha tanto bisogno), o come calarsi in un corpo diverso, che non c’entra nulla col tuo. “Soft”, in realtà, è traducibilissimo con “dolce”, ma per me il corpo di questa donna sconosciuta era davvero “soffice”, lieve, qualcosa da premere con cura, come quando qualcuno mise un lento giù in saletta da Mario, e Anna mi abbracciò come se fosse la cosa più naturale del mondo, e aveva una camicia di flanella. Soft and only. Qualcosa a vedere con la flanella.

You – Soft and only
You – Lost and lonely
You – Strange as angels
Dancing in the deepest oceans
Twisting in the water
You’re just like a dream

E poi sentirsi solo, ma non solo come uno che ha ancora tutti i suoi amici alle medie e non sa con chi scherzare in corriera, no, non come uno che a 15 anni rischia di farsi segare e fallire la prima occasione della sua vita (dicevano che non mi avrebbero riammesso), di più: solo nell’universo, come gli astronauti di Odissea nello Spazio, congelati e poi abbandonati nel vuoto. Perché tutti pensano ai due astronauti svegli: nessuno che spenda una lacrima per quei poveracci che stanno nelle celle frigorifere, immobili e morti per tutto il film. Io ero uno di quelli. E stavo sognando. E se sognavo lei, era Proprio Come il Paradiso.

Daylight licked me into shape
I must have been asleep for days
And moving lips to breathe her name
I opened up my eyes…

“Ciao, non ti spaventare. Questa è una visione”.
“Mi state scongelando?”
“Non proprio. Vedi, tu sei Davide Ognibene, hai quindici anni, stai attraversando un periodo di depressione, ma ti passerà, non ti devi preoccupare”.
“E tu chi sei per dirlo”.
“Io, ehm, sono te stesso da grande”.
“Da grande?”
“Sì, diciamo… a trent’anni”.
“A trent’anni?
“Non far caso alla pancia, è provvisoria. Sono venuto a confortarti in questo momento, che ora ti sembra il più difficile della tua vita, e in un certo senso lo è: ma vedrai, ce ne saranno altri”.
“Altri momenti difficili?”
“Sì, molto più difficili di questo, ma come vedi li supererai, infatti io li ho superati”.
“Hai dei capelli bianchi”.
“Senti, bimbo, io già ti faccio un favore ad apparirti in sogno, e lo faccio solo perché credo che tu ne abbia bisogno, ora vedi di non rompere troppo i coglioni, eh? Se lo vuoi sapere, dall’autunno prossimo ti aspetta un acne giovanile devastante. Ho ancora i segni sotto la barba, guarda. E poi sconfitte e umiliazioni a non finire, pianto, stridore di denti… solo per farti un esempio, hai presente Berlusconi? Quello del Milan? Ti sta sulle palle?”
“Un po’ sì”.
“Ecco, non hai idea. E storie d’amore squallide, sai quante? Non t’immagini neanche quante”.
“Ma alla fine lei c’è?”
“Lei chi, scusa”.
“Lei”.
“Aaaah, intendi quella della canzone dei Cure? Be’…”
“C’è o no, dimmelo”.
“Se proprio vuoi saperlo, c’è”.
“E mi aspetta?”
“E ti aspetta”.
“E quanto tempo ci vuole ancora?”
“Vediamo… tu hai quindici anni, no? Allora te ne vogliono ancora, ehm, altri quindici”.
“Quindici?”
“Così praticamente è come se tu fossi a metà strada! Non sei contento?”
Quindici?
“Dai, non prendertela, meglio tardi che… che…”
“Meglio tardi che cosa? Questo è molto peggio di restare ibernato per sempre nello spazio! Mi stai dicendo che la ragazza della mia vita mi aspetta a quindici anni da qui? E cosa dovrei fare nel frattempo, laurearmi? Fare il missionario? Fare la rivoluzione?”
“Ecco, sì, occuparsi un po’ di tutte queste cose. E anche tirare giù il Commodore dal solaio, è un filone che ti consiglio di…”.
“Vattene via, tu non esisti. Non ti voglio credere. Anzi, ti misconosco. Tu non sei il mio futuro. Tu sei il futuro di un altro sfigato. Io non ti merito. Non ho fatto niente di male”.
“Se la metti così…”
“Vattene!”

And found myself alone alone
Alone above a raging sea
That stole the only girl I loved
And drowned her deep inside of me

You – Soft and only
You – Lost and lonely
You – Just like heaven

(Cure, 1987. It’s torture, but I’m almost there).

nostalgia, poesia

(Il pezzo di ieri in realtà era questo).

PLAGIO DA VERLAINE

Nel vecchio parco, sui viali innevati
due antichi amici si sono incontrati

Tra i freddi marmi e tra le grigie aiuole
ne echeggiano leggere le parole

Nel vecchio parco, buio e congelato
due spiriti rievocano il passato.

Rammenta, deh, la nostra estasi antica?
“No, francamente non ricordo mica”.

Mi tiene ancora giorno e notte in mente?
E quando sogna, sogna me?
“Per niente.”

Ah quei bei giorni in cui era dolce amarsi,
tra verdi siepi, io e lei…
“Può darsi”.

E azzurro il cielo, e grandi le speranze!
“Venne poi Autunno a chiudere le danze”.

Nel vecchio parco, dai viali innevati,
due spiriti si sono congedati.

Tra i freddi marmi e tra le grigie aiuole
si perdono, leggere, le parole.

calcio, fratelli d'I., mondiali, nostalgia

Vincere sì, ma soffrendo

Va bene, siamo tutti contenti perché la Francia ha preso un gol dal Senegal nella partita inaugurale, e in più anche stavolta l’Italia è tra le favorite. Io onestamente non me ne intendo, ma a questo punto un pronostico voglio farlo: e dico che la Francia andrà lontano, mentre l’Italia oggi potrebbe benissimo pareggiare o perdere, anzi, forse sarebbe meglio così.
Non sto remando contro: tifo Italia, come tutti. Non è una questione politica, Berlusconi non c’entra nulla, o forse sì. È una storia lunga e complicata che adesso cercherò di raccontare.

Parte da quando ero piccolo, e non sapevo di vivere nella quinta potenza mondiale: nessuno me l’aveva insegnato a scuola perché probabilmente nessuno lo sapeva. Dando uno sguardo al mappamondo era molto chiaro come l’Italia, che pure aveva un passato importante, gli antichi romani, ecc., era solo una penisola tra tante, assai meno visibile del Cile, poniamo, o dell’Arabia Saudita, per non parlare del Canada e di quell’altra nazione talmente grande da permettersi di chiamarsi con un nome lunghissimo: U n i o n e d e l l e R e p u b b l i c h e S o c i a l i s t e S o v i e t i c h e.

D’un tratto tutto cambiò, forse perché cominciavo a capire il telegiornale, o forse perché, in un pomeriggio del luglio 1982 la nostra nazionale vinse 3 a 2 contro il Brasile, con tre gol di Paolo Rossi. Quei giocatori italiani di vent’anni fa, dai nomi leggendari, in realtà fino a quel momento erano stati molto criticati, dai giornalisti giù giù sino al più umile cameriere di Bar dello Sport. Era una squadretta difensivista e smorta, che aveva rimediato tre mediocri pareggi con Polonia, Peru e… Camerun (ricordo un funebre titolo della Gazzetta: IL CAMERUN CI FA PAURA). Ad ogni modi una squadra tra tante, destinata a essere macellata tra i grandi nomi del torneo: Argentina e Brasile, per esempio.

Poi, all’improvviso, accadde qualcosa che ricordiamo tutti: la stessa squadretta, senza nulla cambiare, sconfisse Argentina e Brasile, e da quel momento fu a tutti chiaro che avrebbe vinto il mondiale, e infatti lo vinse, e vent’anni da allora mi sembra di che non abbiamo smesso di festeggiare quella vittoria inattesa, indiscutibile, che metteva la nostra penisola sopra a tante altre figure del mappamondo. Da quel momento il calcio, fino ad allora passione tutto sommato innocua, diventò una mania. La gazzetta dello sport incominciò a vendere più del corriere della sera, anche d’estate, e siccome d’estate non succedeva niente, i presidenti cominciarono a far parlare di sé comprando tutti i stranieri che trovavano sul mercato. Il nostro campionato divenne Il Più Bello Del Mondo, perché ci giocavano Zico e Maradona. Coincidenza, proprio negli stessi anni i nostri governanti cominciarono a dirci che sì, d’accordo, la mafia, la corruzione, il mezzogiorno, però malgrado tutto eravamo pur sempre la quinta potenza economica del mondo: i nostri alleati iniziarono a invitarci al G7, Craxi si mise a fare la voce grossa, e così via.

Però attenzione, io non sto dando la colpa a Paolo Rossi, che tornato al calcio dopo un anno di squalifica, tutti davano per cotto e mandò a casa i brasiliani con tre goal: la colpa è nostra, gli italiani hanno ogni tanto questi sussulti di grandeur. Ma la vittoria in Spagna è qualcosa di più: per me è sempre stato il simbolo della riscossa, dell’ottimismo della volontà, del “tu-mi-credi-finito-e-adesso-te-la-faccio-vedere”. Ho un debole per le vittorie sofferte, per quel 3 a 2 che l’anno dopo il Torino inferse alla Juventus segnando tre gol in due minuti. Secondo me tutte le vittorie dovrebbero essere sofferte, altrimenti non vale.

Otto anni dopo (dopo una figuraccia in Messico che nessuno rammenta) tutto il mondo fu ospite dell’Italia-quinta-potenza, in un campionato del mondo che non sembrava poter essere vinto da altri. La squadra, intanto, era fortissima, poteva permettersi il lusso di non far giocare Vialli. C’era l’uomo del destino, un tale Schillaci che come lo mettevi su segnava, e partita dopo partita gli avversari iniziavano a scansarlo terrorizzati. C’era una difesa imbattibile, Zenga non prese un gol in cinque partite, record. E soprattutto non c’erano avversari: la Germania era il solito squadrone tutto muscoli, il Brasile stava sperimentando un nuovo ruolo, il difensore, e soprattutto, l’Argentina era inguardabile, figuratevi che aveva perso la partita inaugurale uno a zero col… col Camerun! Tutto il mondo aveva riso di lei.

C’è bisogno di ricordare come andò a finire? (il resto domani)

giornalisti, gita scolastica, nostalgia

ho visto cose che voi mortali...Pensieri – spiccioli (continuano da ieri)

3. Io cerco di non affezionarmi a nulla, ma le vecchie, sane cento lire, quelle così dolci al tatto, quelle mi mancheranno. Nessun altro oggetto ho potuto stringere in una tasca per così tanto tempo. Erano grandi, universali, antichissime: ne avete ancora una in tasca? Che data porta?
Io qui ne ho una dell’88. Prima superiore, rimandato in francese, magari me l’hanno data di resto per un Dylan Dog. (che costava 1600 lire, oggi credo quattromila).
E un’altra del ’67. Cosa ci compravi con cento lire nel ’67? L’avranno usata per comprare una copia di Penny Lane? E so che ce ne sono di risalenti a dieci anni prima. Tutte uguali, solo un po’ più opache e segnate, ma neanche tanto.

4. Per dirla alla brunovespa: È una selezione naturale: chi sopravviverà? Io certamente no, perché sono della razza dalle dita piccole e tozze, e con le monete non ho nessuna speranza. Ma non necessariamente sopravviveranno i maniaci della conversione, quelli che si ostinano a calcolare qualsiasi cosa e a dirti l’equivalente in lire.
Quelli vanno bene in gita scolastica, e in fondo questa sembra ancora un’allegra gita scolastica collettiva. Ci metteremo ancora un po’ a renderci conto che da questa gita non si torna, che non c’è nessuna mamma a casa pronta a riprendersi i nostri euro avanzati per convertirceli in lire, che insomma l’ombelico è troncato per sempre.
E allora forse i pigri, quelli che ormai hanno rinunciato a saltarci fuori con le conversioni, forse saranno proprio loro a ereditare il mondo. Se al mese prendo 900 euro, ogni euro che tiro fuori mi vale un novecentesimo di stipendio. È tutto quel che c’è da sapere.
Chi gira armato di euroconvertitore prenderà meno sòle nei primi mesi, ma rischia di rincitrullirsi nel medio-lungo termine. Come quegli anziani francesi che pensano ancora in termini di “vecchio franco”, e dicono al nipotino: “ti do mille franchi per il gelato”, e il nipotino tutte le volte ha una doccia fredda: mille franchi vecchi sono dieci franchi nuovi. (più o meno un euro e mezzo). Una volta lessi che due pensionati, all’idea che De Gaulle gli avesse decimato la pensione, si suicidarono. (Chi non ha avuto un colpo al cuore al primo estratto conto in Euro scagli la prima pietra).

nostalgia, tv

Because the night belongs to us

C’è vita oltre Ghezzi?
[continua da ieri]
“Ma no, dai, sul serio, da quanto tempo è lì?”
Nessuno di noi ha memoria di un’era televisiva priva di Ghezzi. Io, che nel gruppo sono il più vecchio, rammento vagamente di un periodo in cui Ghezzi c’era già, ma sembrava una cosa originale… forse era arrivato da poco… o forse ero giovane io, e ogni colore aveva uno smalto più vivido… ma tipo 15 anni fa.
Nel frattempo è caduto il muro di Berlino, non esiste più l’Unione Sovietica, gli USA hanno avuto altri due presidenti, gli italiani hanno combattuto in Iraq, in Somalia, in Kossovo, e forse mi sto scordando qualcosa. Il PCI non esiste più, e al tempo era l’azionista di riferimento di Rai 3, che era chiamata TeleKabul, e nel frattempo anche a Kabul si sono susseguiti tre o quattro regimi diversi. Tutto scorre. Ma Enrico Ghezzi?
Forse è sempre stato lì – una specie di monolito nero. È lì dal principio dei tempi, ma l’uomo lo scopre soltanto quando inizia a esplorare la luna (noi scopriamo Ghezzi soltanto quando iniziamo a esplorare la tv notturna). Nessuno sa cosa voglia veramente dire, ma ha un certo fascino, causato forse dall’immobilità.
Un’altra teoria interessante è che Ghezzi viva in una dimensione temporale differente dalla nostra (più lenta). Per noi sono passati quindici anni, ma per lui molti meno, magari una mezza giornata. Questo spiegherebbe il problema del fuori sincrono: in realtà quelle che ascoltiamo sono le sue registrazioni accelerate, quindici minuti di Ghezzi corrispondendo a intere stagioni di noi mortali. Spiegherebbe anche perché Ghezzi, che a memoria d’uomo ha sempre avuto pochi capelli, quei pochi che ha non li ha mai persi…
Lo stesso si potrebbe ipotizzare per Marzullo (che capelli ne ha tanti, ma sempre gli stessi…)