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Spiderman è tornato nella Casa

Spider-Man: Homecoming (Jon Watts, 2017)

C’era una volta un supereroe così smagliante, così perfetto, che volle sfidare Atena: vediamo chi tesse la storia più avvincente. Invano Atena cercò di ricordargli i precedenti: guarda che chi sfida gli Dei casca malissimo. Eh ma io non casco mai! disse il supereroe, è impossibile! E fu proprio così. Quando vide la sua storia, Atena strabuzzò i suoi larghi occhi: era la migliore mai tessuta, persino le Parche in tanti eoni non avevano mai concepito roba del genere. E tuttavia chi sfida gli Dei va punito: pertanto Atena condannò il supereroe a rivivere quella storia per sempre. Ogni cinque, massimo ogni dieci anni, un narratore o una major cinematografica lo avrebbero fatto ricominciare da zero: di nuovo si sarebbe trovato in quel laboratorio di chimica e sarebbe stato morsicato da un ragno radioattivo, e suo zio sarebbe morto assassinato eccetera eccetera, nei secoli dei secoli dei secoli. Hai scritto la storia migliore? Non te ne libererai mai. 

Non è Octopus e non è Venom; non è nessuno dei trentadue goblin. Non è J. J. Jameson (che ci manca tantissimo, torna JJJ). Il peggior nemico dell’Uomo Ragno, da sempre, è sé stesso. No, non il suo clone (ma è indicativo che nessun altro supereroe abbia avuto tanti problemi coi cloni). Proprio sé stesso. Il suo essere, banalmente, il miglior supereroe possibile. Quello che salta tra i grattacieli e schizza ragnatele: non ce n’è uno più spettacolare di lui, né sulla carta né sullo schermo. Se ci fosse lo sapremmo, perché è da mezzo secolo che ci provano. Spidey piace perché è un insetto? Hanno provato con qualsiasi altro insetto. O forse piace perché è un ragazzino? Hanno provato con tanti altri ragazzini. Sarà l’ironia? Abbiamo avuto ondate di supereroi ironici, ma niente da fare. Abbiamo avuto anche un milione di variazioni sul tema: dozzine di Donne Ragno e Uomini Ragno potenziati. Ultimamente va forte uno Spiderman nero – per dire, la gente che si lamenta che Zia May nel film è troppo giovane, li legge i fumetti? Lo sa che nei fumetti esistono Zie May giovani, Spidermen neri, Peter Parker in pensione? Per dire che le hanno provate veramente tutte. Niente.

Non riescono a cambiare nemmeno il costume. Steve Ditko lo inventò nel 1963, e in capo a un anno si era già stancato di disegnarci le ragnatele. Hanno provato a semplificarlo, a renderlo più d’impatto: niente da fare. Alcuni costumi di Spiderman sono diventati dei personaggi a sé, ma Spidey resta rosso e blu. Ormai quando prova a cambiare costume lo sai già, che è solo una finta per far impazzire i lettori.

The Amazing Spider Man, #1 Annual

Il peggior nemico di Peter Parker non è Elektro e non è senz’altro l’Avvoltoio, quel poveraccio. Il peggior nemico di Spiderman è il suo successo. Il suo creatore pensava a un supereroe con superproblemi, ma come fai a essere credibile se qualsiasi tua versione va a ruba, il tuo merchandising è una solida certezza, e al cinema vorrebbero farti un film all’anno? Come fai a sembrare fresco come un teenager, dopo cinquant’anni di produzione industriale? Come fai a ripresentarti dopo 15 anni e cinque film e dire, ehi, azzeriamo tutto per la terza volta, sono di nuovo un semplice liceale che scopre di restare attaccato ai muri?

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? A riprendere un eroe oggettivamente un po’ consumato – gli ultimi due episodi Sony non erano andati benissimo – e a ridargli vita come se fosse un concetto appena inventato? Come fa a inserirlo in una saga cinematografica già pesante e sfaccettata come quella degli Avengers, riuscendo però a suggerire forte e chiaro il messaggio che Spiderman sarà sempre un’altra cosa, una cosa un po’ a parte (una dinamica non troppo diversa da quella dello Spidey originale coi Fantastici Quattro)? Ammettiamolo, è un po’ irritante il modo in cui la Marvel sembra sempre arrivare al risultato – e senza darci nemmeno la consolazione di gridare al colpo di genio, perché non c’è niente di geniale in Homecoming: c’è solo il lavoro di squadra di un pool di sceneggiatori che sa fare il suo mestiere e non disprezza il suo pubblico. Uno degli aspetti più appariscenti dell’operazione – il ringiovanimento di Zia May – sembra alla fine più un trucco per attirare un po’ di polemica fine a sé stessa: Marisa Tomei è ovviamente perfetta, ma è dosata con il contagocce. Una trovata brillante è quella di riassumere la puntata precedente (il siparietto di Spidey in Civil War) con la sintassi di Youtube. Nota l’abissale differenza con Suicide Squad e la sua mezz’ora di preambolo in formato trailer: mentre la Warner tratta gli adolescenti come bimbominchia a cui somministrare riassuntini, Homecoming si pone il problema di capire come si raccontano, oggi, i liceali: con quali mezzi, con quali risultati. Perché ogni generazione ha le sue differenze, anche se a una certa distanza non sembrano un po’ granché, se lavori per loro queste differenze sono importanti. La Marvel lo sa, ma non si dimentica nemmeno tutti i quaranta-cinquantenni che continuano imperterriti a entrare al cinema a vedersi i suoi film. Quelli che forse non avevano più voglia di vedere per l’ennesima volta lo zio Ben morire, ma a tante altre cose non saprebbero rinunciare.

E la Marvel gliele dà. C’è una breve scena – quella dell’ascensore – che dà le vertigini per la quantità di riferimenti che contiene in pochi secondi. Quando vediamo l’inesperto Spiderman tentare il salvataggio della sua bella che precipita, non possiamo non pensare a Gwen Stacy. Quando un attimo dopo si trovano tête-à-tête – lui ovviamente in posizione invertita – qualcuno sussurra “baciala” e non possiamo non pensare a Tobey Maguire e Kirsten Dunst. Non sono inutili strizzate d’occhio: la scena è spettacolare e funziona, probabilmente, anche per chi tutti questi precedenti non li conosce; ma chi ha già qualche dimestichezza con Spidey si sentirà più in ansia quando Liz cade; e sta già dicendo “baciala” prima che si senta forte e chiaro. Se Spidey è condannato a rivivere la stessa storia ogni tot anni, noi possiamo ogni volta trovarci a nostro agio e scoprire qualcosa di più, qualcosa di meglio. È questa semplice, banale cosa che alla Marvel hanno capito. Forse perché a cucinare gli stessi personaggi da cinquant’anni ci sono abituati. Homecoming non è un capolavoro – nemmeno ci prova: si ferma di fronte a certi punti fermi quasi con riverenza: costruisce una scena notevole come quella del traghetto che sembra fatta apposta per farti pensare: non sono ancora lo Spiderman di Raimi che salvava quel treno sul binario sospeso e poi veniva salvato dai passeggeri; ma sto crescendo, dammi il tempo di fare i miei disastri e vedrai.

Anche se la trovata migliore del film resta il riscatto dell’Avvoltoio. Michael Keaton trasforma uno dei personaggi più patetici dell’universo Marvel – la tipica invenzione che Stan Lee poteva buttar giù in cinque minuti al gabinetto – un antieroe spaventosamente simpatico, che ha quasi il compito di mettersi tra noi genitori e Spidey: non provateci neanche, dice Keaton, i giorni in cui vi potevate immedesimarvi in un Tobey Maguire sono finiti. Oggi voi somigliate a me. Vi sentite presi a pugni dal sistema e fareste qualsiasi crimine per garantire ai vostri figli un futuro migliore. Keaton non ruba il film al suo eroe – la Marvel è troppo sgamata per commettere un errore del genere – ma è il primo villain della Casa che avremmo voglia di rivedere in un sequel. E se le cose vanno così non dovremo nemmeno aspettare molto. Nel frattempo Spiderman: Homecoming è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).

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Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)



2:22 – Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).

Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?

Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?

Grand Central ha già qualcosa di metafisico.

Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l’interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un’ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell’impostore di molte madri), Get Out sull’invidia etnica… 2:22 è un film sull’apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po’ irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell’anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern… (continua su +eventi!)

Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti.
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Ammazzarsi in Amazzonia (ma di noia)

Civiltà perduta (The Lost City of Z, James Grey, 2016)

Ma mettetevi per una volta anche nei panni dei Guarani. Ve ne state andando a raccogliere qualcosa da mangiare per la vostra famiglia, quando vi imbattete non in un boa di un quintale, non in un ragno gigante, non in un cane a due nasi, ma in qualcosa di peggio: un esploratore europeo. Allora non è una questione di razzismo, davvero, però non è esagerato dire che il più pulito degli esploratori europei come minimo ci ha la rogna. Anche quello che non intende disboscare il quadrante di foresta e venderti al mercato degli schiavi più vicino, anche quello che più che ai soldi pensa all’avventura, alla gloria, a lasciare un nome minuscolo su una carta geografica che fin lì è rimasta bianca, anche lui, diciamolo: puzza.

Hanno quest’abitudine ad andare sempre in giro coperti di tessuti, sudarci dentro e lamentarsi; e con la scusa dei barracuda, non si lavano mai. Nel posto più umido al mondo. Mio cugino una volta ha dato la mano a un esploratore inglese e nel giro di tre anni tutta la loro civiltà si era estinta, oh, sono cose successe davvero. Dunque quando vi ritrovate davanti un esploratore – non importa quanto piccolo, e simpatico, lo so, certi son proprio carini, verrebbe voglia di portarteli a casa e rosicchiarseli con calma – la cosa più sensata da fare sarebbe farli secchi, una freccia al collo e via: è anche una cosa pietosa, più rapida della malaria o del veleno dello scorpione. E però certe volte come fai? Te ne arrivano di talmente buffi, con quei baffi biondi e quei gingilli lucenti. È come prendere a calci un cucciolo.

A un certo punto si sente anche una nota di flauto.

Allora di solito cosa fa un buon indio che non vuole grane? Saluta e tira dritto. Se l’esploratore insiste (insistono sempre) scusi buon uomo, mi saprebbe dire dove si trova l’Antica Civiltà Eccetera, tu gli indichi l’est, in realtà andrebbe bene qualsiasi punto cardinale ma l’est funziona meglio. Se quello comincia a chiederti: c’è una città laggiù? strade? fortificazioni? vasellame? tu fai sì sì con la testa, certo, certo, non so cosa sia il vasellame ma tu vai a est che non ti sbagli. Così lui se ne va e puoi stare sicuro che non torna più.

A un certo punto del film, il leggendario e sfortunato esploratore Percy Fawcett si ritrova coi suoi fidi compagni su una zattera alla deriva del fiume. È proprio alla deriva. Non sta remando nessuno. Eppure fin qui era stato ripetuto fino alla noia che l’obiettivo di Fawcett era trovare la sorgente di un fiume. Ora io non vorrei millantare tutta queste esperienza di cose amazzoniche, ma per quel che ne so, anche laggiù i fiumi scorrono dalla sorgente alla foce, e quindi insomma, come fa Percy Fawcett a trovare la sorgente – alla fine della stessa scena – senza mai remare controcorrente? Dici vabbe’, è solo un blooper, la troupe ha passato mesi in Amazzonia ma forse questa cosa delle correnti non l’ha abbastanza interiorizzata. E però è indicativo di quel che Grey ha capito della foresta. Con le riprese en plein air cercava il realismo, ha ottenuto l’esatto contrario (continua su +eventi!)

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La mummia contro Tom Cruise

La mummia (Alex Kurtzman, 2017).

“Tom Cruise, la MUMMIA” (ma solo io ci sento l’ironia?)

Nessuno resiste al suo sguardo, nessuno sa opporsi alla sua parola. Giace da ere immemori, in una tomba che non è una tomba, ma una prigione. Imbalsamato vivo, per le sue colpe e affinché il suo orrore sia per sempre occultato ai mortali. Eppure non è lontano il giorno in cui ancora una volta il suo non-sonno sarà disturbato. Qualcuno ancora una volta ritroverà la cripta; qualcuno, per scommessa o per necessità, alzerà il sarcofago e farà la sua proposta:
Salute a te, divino Mapother Quarto“.
“Chiamami pure Tom, come butta?”
“Senti, io rappresento l’Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici”.
“Volevate fare un film su di me?”
“…non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico”.
“Perché, io non sono un mostro classico?”
“N-non ancora”.

Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l’avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po’ vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare – in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.

“Hai ucciso tuo padre!”
“Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse”.
“Hai ucciso sua moglie… e il bambino!”
“Erano tempi diversi”.
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).

No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l’altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po’ prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio – però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c’è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C’è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po’ troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti – una cosa che è già un po’ old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l’hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C’era senz’altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?

Forse il fatto che La Mummia abbia floppato negli USA e stia andando forte nei mercati emergenti ha a che vedere con questo aspetto di Tom Cruise. Là dove Tom Cruise viene considerato ancora un essere umano, La Mummia stenta a convincere. Lontano dalla patria, dove forse è una specie di mito senza tempo (Italia compresa), la sospensione della credulità rientra nei limiti di norma. (Poi non è che in luglio escano tutti questi film imperdibili, eh).

Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) (continua su +eventi!)

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Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici – ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un’arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti – neri, bianchi, grigi – non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz’altro lo sanno. Magari – se sopravvivono – te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l’uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman – e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d’azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),

No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man…), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell’anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 – Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d’azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell’esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c’è davvero chi ha aspettato il 2017, e l’arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c’è un’eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l’hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.

C’è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! – malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale… (Continua su +eventi!)

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L’amore illegale

Loving (Jeff Nichols, 2016)

Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo, ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma “ok” è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.

Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C’è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato – ecco perché l’ha appeso, allora – lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.

La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell’iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!)

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D’amore e d’ombra

Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver…

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c’è Gal Gadot, riservista dell’esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.

Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c’è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l’utopia sionista di “far fiorire il deserto” trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).

Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!)

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C’è un giudice a Sana’a

La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana’a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent’anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un’occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt’altro che banale… (continua su +eventi!)

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, internet, privacy

L’uomo che si spogliò per rivestirci

Citizenfour (Laura Poitras, 2014; Oscar al miglior documentario).

Quando dopo un quarto d’ora di film improvvisamente compare – sulla poltrona di quell’anonima stanza d’albergo che abbandonerà soltanto negli ultimi minuti – non possiamo che identificarlo: a distanza di appena tre anni il suo volto è diventato un’icona inconfondibile. Ma questo Edward Snowden ancora non lo sa. Su quella poltrona, è ancora semplicemente Citizenfour: un tizio affabile, dalle idee chiare e dalla parlantina sciolta che ha appena disertato, tradendo la fiducia del suo Paese e del suo datore di lavoro. Sa che non tornerà mai più a casa. Sospetta che verrà arrestato e rinchiuso a tempo indeterminato, come Chelsea Manning. Ci parleresti di te?, gli chiede Glenn Greenwald. Snowden all’inizio nicchia: non vorrebbe attirare l’attenzione su sé stesso. Quel che importa davvero è nei file, e nell’enorme significato che quell’enorme raccolta di dati sensibili ha per tutti i cittadini del mondo. Bisognerebbe parlare di questo. Ma la Poitras continua a stringere l’obiettivo su di lui.


Citizenfour è un documento e un paradosso: la regista invitata a documentare l’eroico atto di ribellione di uno dei più grandi paladini della privacy, per fare bene il suo lavoro non può che lederne la privacy. È lo stesso Greenwald, in una scena successiva, a difendere l’approccio: solo la trasparenza assoluta può togliere argomenti a chi accuserà Snowden di spionaggio, di complotti, di intelligenza col nemico. Dichiarare subito il nome, il cognome, raccontare la storia, spiegare le motivazioni: Snowden non vorrebbe, ma da semplice tramite di informazioni preziose deve trasformarsi in contenuto. Può essersi giocato la carriera e la libertà per difendere la nostra privacy, ma la sua è finita per sempre. La Poitras lo mostra a letto, in bagno, lo spia mentre si veste; documenta gli istanti esatti in cui il mondo si accorge di lui, attraverso i telegiornali che lo stesso Snowden ispeziona dal televisore di quell’anonima stanza d’albergo che è diventata da un momento all’altro il luogo più caldo al mondo. Nessun documentario su un divo musicale o televisivo è mai stato così vicino al suo soggetto nel momento in cui dall’anonimato viene assunto nell’empireo dei personaggi globali, quelli il cui volto viene proiettato sugli schermi dei grattacieli (continua su +eventi!)

Bob Dylan, cinema, musica

Pat Dylan e Bobby the Kid

Pat Garrett and Billy the Kid (1973; colonna sonora originale dell’omonimo film)

(Il disco precedente: Greatest Hits II.
Il disco successivo… si dimentica facilmente).

Oltre il fiume spareranno a vista:
lo sceriffo è già sulla tua pista.
I bounty killer ti hanno sulla lista.
Non gli gusta la tua libertà.

È un film imbottito di scene madri, ma la più famosa non è stata girata: nel buio della sala di proiezione, mentre guarda i giornalieri, il grande Sam Peckinpah, (ubriaco, una pistola carica in tasca), si rende conto che una lente è difettosa, che il lavoro di un’altra giornata va sbattuto via. Furioso, si alza, si sbottona e lascia sul telo dello schermo il suo segno – una “S” di urina. Dietro di lui, Bob Dylan si volta verso Kris Kristofferson: non dice niente, ma quello sguardo Kristofferson non lo dimentica più. Kris, ma in che pasticcio mi hai portato?

Passi notti intere, giù in Berenda,
a smazzare carte in un’hacienda,
finché trovi uno che ti stenda,
Billy, se hai bisogno, sono qua.

Un pasticcio che non si sarebbe perso per niente al mondo. Un film sul più famoso fuorilegge del west. Girato dal regista del Mucchio Selvaggio. Nei panni del protagonista l’amico Kristofferson, quel bel cantante country che qualche anno prima aveva retto i bonghi durante la registrazione di Lay Lady Lay. Talmente ghiotta era l’occasione di recitare e scrivere una colonna sonora western, che Dylan, per una volta nella sua vita, si presentò coi compiti fatti. Peckinpah, per dirla con Kristofferson, “non s’intendeva molto di musica”, insomma non aveva la minima idea di chi fosse quel trentenne ricciolino che Kristofferson gli stava presentando. Ma il tizio aveva già Billy in canna. Gliela fece sentire. Scritturato. A Billy non si resiste.


Fai la festa a qualche señorita,
nell’ombra di una camera ti invita,
nel buio solitario lei ti guida…
Billy, a casa non ci torni più.

Voi fischiettate ogni tanto? Se vi capita, e se amate Dylan, ci siamo già capiti. Billy è l’abc, il pezzo dylaniano più fischiettabile. Si può andare avanti per giorni interi, e per milioni di variazioni sullo stesso tema triste. “Billy, you’re so far away from home“. Che ti è successo, Billy? Quale ingiustizia, quale imprudenza, ti ha portato così lontano? Quando i redattori di Mojo stilarono la classifica delle cento canzoni di Dylan, si scordarono di Billy. Sarà gente che non fischietta. Forse è un dono di natura, c’è chi ci nasce e c’è chi per capire Dylan è costretto a cercare barlumi di genio in dozzine di dischi opachi, quando basterebbe saper fischiettare Billy. Una delle melodie più semplici che abbia usato: una di quelle canzoni per cui vale la pena citare Robertson a proposito delle canzoni della Cantina: “non si capiva se fossero sue o no”.

Nessuno, che io sappia, contesta a Dylan la paternità della melodia di Billy. Allo stesso tempo, è così basica che sarebbe veramente strano se l’avesse scoperta proprio lui. La incide in tre versioni diverse, come se non sapesse come riempire il disco (e invece parecchio materiale restò fuori). La maneggia come se fosse un interprete, anzi tre interpreti diversi: come se non fosse sua, ma un brano tradizionale che si può leggere in tanti modi e stravolgere a piacere. Come se la stesse cercando, per tentativi: è in cerca di Billy, come in Self Portrait era in cerca di Little Sadie. Se quel disco era l’autoritratto di un cantautore attraverso cover di altri artisti, Pat Garrett è il disco meno personale di Dylan (il primo che non ha la sua faccia in copertina), malgrado non ci sia una nota, una sola parola che non abbia scritto lui.

C’è chi prende mira dietro a specchi,

fori di pallottola sui tetti,
se non muori presto o tardi, invecchi:
Billy, sei rimasto solo tu.

Oggi Billy sembra fatta apposta per un western – il tema ideale qualsiasi panoramica in cui su un tramonto si stagli il profilo di un cowboy dal destino segnato – ma è un errore di prospettiva: prima di Billy le canzoni del film western erano diverse. Le scrivevano i migliori compositori sul mercato. Liberty Valance è di Bacharach (ha anche scritto Rain Keeps Falling On My Head per Butch Cassidy, ma non credo che si possa considerare un brano western). Ci mettevano un sacco di stilemi riconoscibili a colpo sicuro – chitarre country, violini, voci virili, qualche messicanismo – e ritornelli orecchiabili. Dylan i violini ce li ha, di chitarre quante ne vuoi (c’è Roger McGuinn alla 12corde, è la prima volta che incidono assieme); per la voce virile può fare un tentativo, ma Billy è tutta un’altra idea del west. Più elegiaca, più minimale. Può piacere o non piacere, ma finalmente è un’idea – da quand’è che non gliene veniva una?

Billy è il punto di arrivo di un sentiero accidentato che partiva dal 1967, dalla Cantina e da John Wesley Harding – un percorso ascetico, a ben vedere. Via il ritornello, via gli orpelli inutili: un tema solo, insistente come il blues, e in grado di sopportare centinaia di strofe. Quel tipo di ballate che secondo lui una volta la gente ascoltava per ore e ore, prima dell’avvento della radio e del cinema. Billy è già a suo modo un film. La storia che racconta non è molto più oscura ed episodica del copione che Peckinpah si era riscritto. C’è un bandito che dovrebbe fuggire, e invece gira in tondo. C’è uno sceriffo che (spoiler) lo ucciderà, ma un tempo era un suo amico. Le strofe che seguono non sono che variazioni sul tema del conflitto a fuoco. Due canaglie giocano a nascondino in una prateria senza senso, chi non è sceriffo è ladro di bestiame. Entri in saloon da assassino, ne esci con la stella di latta sul petto. In che pasticcio mi hai portato, amico?


Dormi con un occhio mezzo aperto
se con Garrett hai quel conto aperto.
Ogni suono è il La per il concerto
che la sua pistola suonerà.

In che pasticcio mi hai portato, Kris? Mettetevi nei panni di Bob Dylan, per una volta. Ce l’ha fatta: finalmente è sul carrozzone di Hollywood. Gente seria, valori solidi, mica quella bolla di sapone che è il mondo musicale, schiavo dei capricci di ascoltatori teen-ager e critici ventenni. Qui c’è gente che ha fatto la guerra, gente che ha già il suo nome scolpito sul marmo della Storia, James Coburn con tutte le sue meravigliose rughe (non le fanno più delle facce così), e Sam Peckinpah. Questo è il mondo degli adulti: Coburn e Peckinpah. Insieme per lavorare a qualcosa che andrebbe a vedere anche Abram Zimmerman, se fosse ancora al mondo – e sui titoli avrebbe visto il nome finto di suo figlio accanto a quello di quei grandi. Ce l’hai fatta, Robert “Bob Dylan” Zimmerman. Non sei più il ridicolo ‘portavoce’ di un evanescente ‘generazione’. Sei un musicista dal talento riconosciuto e un caratterista di buon livello. Sennonché.

Sennonché siamo nel 1973, e anche il mondo degli adulti sta andato a puttane. Il grande Sam Peckinpah è un alcolizzato furioso che tutte le notti spara alla sua immagine nello specchio. Litiga coi produttori, litiga coi collaboratori, col cast, prima o poi se la prenderà anche con Dylan. Il copione è un casino, sul set a Durango gira di tutto, compreso il virus dell’influenza. Perderanno un sacco di tempo, e alla fine il regista abbandonerà il film al suo destino. Montato alla benemeglio, stroncato anche dai fan di Peckinpah, il disastro eclisserà il valore della colonna sonora – sapete chi ha vinto l’Oscar alla migliore canzone del 1973? Barbra Streisand, The Way We Were. Ora non dico che Billy avrebbe avuto una chance (in lizza c’erano anche Jesus Christ Superstar Live and Let Die, fu un anno durissimo), ma Knockin’ on Heaven’s Door non si meritava una nomination? Il fatto è che per qualche tempo nessuno si accorse che per quel film sfortunato Dylan aveva scritto uno o due capolavori.

Viene il sospetto che il vecchio Sam avesse capito prima di tutti, e meglio di tutti… (continua sul Post).

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Black is the New Barbablù

Scappa (Get Out, Jordan Peele, 2017)

Indovina chi viene a cena – in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un’anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è… nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché… è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?

Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento – ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c’è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore – spaventarlo, divertirlo, consolarlo – non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l’impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici – occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all’improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)

L’orrore è una lacrima.

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L’ingloriosa caduta dell’Excaliburino

King Arthur, il potere della spada (Guy Ritchie, 2017) 

A Camelot qualcosa non va, la tavola rotonda è in fermento: da indiscrezioni sembra che qualche Valoroso Cavaliere sia scappato con la cassa. Il valoroso sir Ritchie non si trova, nelle sue stanze il re Artù si tormenta: è colpa sua. Non doveva dar retta a quella banda di disperati, pur riunita sotto lo stemma di un nobile blasone, la Compagnia dei Fratelli Warner. Ma loro si erano fatti avanti con suadenti lingue biforcute… una saga in sei film promettevano, sei film! Roba da Guerre Stellari, come dire di no? Finalmente la fama di Excalibur avrebbe raggiunto i quattro angoli del mondo, rivaleggiando con quella dei supereroi e dei robottoni componibili. E mentre già volava con l’immaginazione, mentre già visualizzava il suo pupazzetto barbuto spuntare da un happy meal sudcoreano, il nobile Artù forse non si accorgeva che gli stavano rubando l’anima?

“Che avete detto? Devo passare la giovinezza in un bordello? Ma non ero un maniscalco?”
“Maestà, abbia pazienza, è per attualizzare il personaggio”.
“Ah perché i bordelli sono attuali?”
“Ehm”.
“Cioè io ogni tanto ci vado al cinema, nei blockbuster di adesso vedo un sacco di donne guerriere, qui c’è solo qualche strega repellente e un po’ di prostitute di contorno, tutta questa attualità, scusate…”
“Àstrid Bergès-Frisbey dà comunque vita a un personaggio femminile cool e non scontato, ammetterà…”
“Potrei anche ammetterlo, ma… neanche un bacetto, niente… poi a un certo punto la rapiscono, e mi potrebbe anche stare bene, la Damigella in Pericolo è proprio materia bretone, l’abbiamo inventata noi, praticamente”.
“Perfetto, maestà”.
“Poi però nella scena d’azione successiva serve un deus ex machina e quindi la liberano. Il malvagio re Vortigern la libera senza un plissé. Aveva chiesto in cambio Artù, e invece la libera prima che arrivi Artù. Ora io di buchi narrativi un po’ me ne intendo, e questo…”
“La liberano perché gli hanno promesso che Artù sta arrivando!”

“Dunque io Vortigern me lo ricordo, e così imbecille proprio no. Ha in ostaggio una maga e un bambino e libera la maga. Ma chi ha scritto questo copione, si può sapere?”
“I nostri migliori artigiani, maestà”
“Ovvero?”
“Ehm… Joby Harold”.
“Ovvero?”
“Sta lavorando alla nostra versione di Flash e di Robin Hood“.
“Sta lavorando. Ma un film intero lo ha già scritto?”
“Certo, ehm, Awake…”
“Mai visto”.
“Un buon successo del… del… 2007”.
“E poi non ne ha più scritti?”
“Ha fatto altro, e proprio per questo gli abbiamo affiancato un altro valentissimo professionista e coproduttore, Lionel Wigram”.
“Ovvero?”
“Ehm…”
“L’avrà mai scritto un film questo qui”.
“The… The Man from UNKLE“.
“Ma ha floppato!”
“No, non ha floppato, no… diciamo che non ha raggiunto i risultati previsti. Ma mica per colpa sua, lo script era buono”.
“È stato più un problema di regia, dice?”
“Ehm….”
“Mi aiuti a ricordare, io faccio il re nella materia bretone non è che mi intendo così tanto… chi stava dietro la macchina da presa quando avete prodotto The Man from UNKLE?”
“Guy Ritchie”.
“Signori, aiutate un povero monarca altomedievale a capire… volete fare una saga sulla materia bretone in sei episodi, solo per il primo quanto avete intenzione di spendere?
“175 milioni di dollari”.
“È una cifra spaventosa, epperò… si tratta di rivaleggiare coi draghi dello Hobbit, immagino…”
“No, veramente niente draghi per ora”.
“Come niente draghi?”
“Dopo lo Hobbit pensavamo appunto di cambiare un po’, pensavamo a degli elefanti”.
“Elefanti? Ma io sono re Artù”.
“Elefanti enormi!” (continua su +eventi!)

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Gold, il grande spoiler

Gold – la grande truffa (Gold, Stephen Gaghan, 2017).

Per quanti anni l’ho cercato. Ormai avevo perso le speranze, quando mi arrivò una dritta: nella suite di un grande hotel della capitale sopravviveva a sé stesso uno degli ultimi Titolisti del Cinema Italiano. Aspettava che qualcuno salisse ad ammazzarlo o scendesse a pagargli il conto. Entrambe le cose erano al di fuori della mia portata, ma provai ugualmente a salire con una bottiglia di scotch. Si sciolse subito. In fondo moriva dalla voglia di raccontare, di difendersi.

“Quando ha capito che voleva fare il Titolista?”
“Non c’è stato un momento preciso… ho sempre saputo che l’avrei fatto, lo faceva mio padre, e il padre di mio padre, il cinema italiano è così”.
“Anche suo padre cambiava i titoli dei film stranieri?”
“È stato uno dei più grandi. Ha presente Non drammatizziamo… è solo questione di corna?
Domicile conjugale, di François Truffaut”.
“Ahah, sì”.
“È stato suo padre a cercare di far passare un film di Truffaut per una commedia sexy con Lando Buzzanca?”
“Ci siamo comprati un’Alfa Giulia con quel titolo”.
“Lei invece è quello che ha tradotto Eternal Sunshine of the Spotless Mind con…”
“No, non sono io quello…”
Se mi lasci ti cancello“.
“…purtroppo. Che invidia. Grandissimo titolo”.
“Crede che in qualche modo abbia giovato alla fruizione del film?”
“Non lo so. Ma lo ha portato in un centinaio di sale in più. Migliaia di biglietti in più. Il nostro mestiere serve a questo”.
“A vendere illusioni”.
“Non è l’essenza stessa del cinema?”
“Non pensa che un titolo così sia in qualche misura truffaldino? A che è servito riempire centinaia di sale in più, se la gente che entrava credeva di vedere una commedia con Jim Carrey…”
“È servito a vendere loro biglietti, ecco a cosa. E magari a uno su dieci il film sarà pure piaciuto. Come dovevano tradurlo?”
“Non so, per esempio L’eterna luce di una mente pura“.
“Wow”.
“Grazie”.
“Forse un centinaio di biglietti in tutt’Italia riusciva a venderli anche lei. L’eterna luce di una mente pura, ma certo. Che razza di ipocriti”.
“Prego?”
“Mi ha sentito benissimo. Voi, voi tutti che ci odiate, siete solo ipocriti. Per mille euro in più cambiereste il nome anche ai vostri figli”.
“No, non credo”.
“E per diecimila?”
“N-no, direi di no”.
“E qual è il problema? Mi dica, qual è il problema se un film invece di avere un titolo noioso ne ha uno un po’ più accattivante? Ha paura di trovare più gente quando entra in una sala?”
“Mi dica soltanto una cosa. Lei si ricorda un film del 2017, di Stephen Gaghan…”
“Buio assoluto”.
“Con Matthew McConaughey, che fa il cercatore d’oro…”
“Ah, quello! Non male dopotutto”.
“È lei che ha deciso di sottotitolare la versione italiana “La grande truffa“?”
“Sì, è successo”.
“Mi può spiegare il perché?”
“Non c’è già arrivato da solo?”
“Ma…”
“Senta, il nostro non era un lavoro da dilettanti (continua su +eventi!)

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La galassia si salva ballando

I guardiani della galassia vol. 2 (James Gunn, 2).

Da qualche parte in una galassia meno lontana del solito, i Guardiani aspettano un mostro litigando su chi deve combattere e chi mettere su i dischi. Alla fine ci pensa il piccolo Groot. E siccome di combattimenti con i mostri galattici al cinema se ne vedono tutte le settimane, ormai, James Gunn decide di stringere l’obiettivo su Groot. È una scena che dura i quattro minuti di Mr Blue Sky, ma è più che sufficiente. Se non vi è piaciuta, potevate già alzarvi dalle poltroncine, perché i Guardiani Due è tutto qui. And if you don’t love me now you will never love me again…

È un film su un bambino e sui suoi tanti padri. Il bambino si mette nei spesso nei guai e i padri non sono sempre attenti e presenti come dovrebbero essere. Se vi aspettate colossali scene d’azione resterete interdetti, se credevate che tra un combattimento e l’altro i Guardiani facessero dialoghi brillanti ci resterete male: si ride, sì, ma di battute abbastanza innocue e reiterate a uso degli spettatori più giovani. I Guardiani 2 è, come i migliori film Marvel, un film particolarmente fluido, senza vere soluzioni di continuità tra azione e commedia. Non ci sono personaggi seri e personaggi buffi; non ci sono scene madri, recitativi e siparietti buffi.

Come nei fumetti della casa madre, i personaggi scherzano mentre lottano, spiegano mentre uccidono, si confessano a degli sconosciuti perché non c’è una sola vignetta, una sola scena che non debba mandare avanti la storia, far ridere e stordirti con forme e colori. È quel groviglio di tensioni e di affetti, di forme ed effetti e di nuvolette fitte che raramente al cinema funziona, ma alla Marvel più spesso che agli altri. I Guardiani 2 è uno dei cinecomic più divertenti di sempre non per gli sfondi o gli effetti (computergrafica abbastanza standard, con qualche ricercatezza cromatica); non per le scene d’azione, e nemmeno per i dialoghi: ma perché riesce ad amalgamarli a puntino e alla fine non sapresti davvero cosa togliere e cosa aggiungere, un film così o ti piace tutto o dovevi andartene subito.

Anche l’ossessione per gli anni Ottanta è un mezzo più che un fine. I nonni che portano i nipotini al cinema almeno avranno qualche bella canzone da ascoltare; i padri si ricorderanno di qualche pomeriggio in sala giochi; i figli e i nipoti si immedesimeranno in Rocket e Drax, che non hanno ancora capito come funzionano le strizzate d’occhio, ma ci stanno lavorando. Fan di Guerre Stellari e Avengers non lo ammetteranno mai, ma i Guardiani stanno dando punti a entrambi… (continua su +eventi!)

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Storia di un panino deludente

The Founder (John Lee Hancock, 2016)

L’arca dell’alleanza.

Non c’è niente al mondo che valga come perseveranza. Non il talento: nulla è più comune di un fallito di talento. Neanche il genio: il genio misconosciuto ormai è un luogo comune. Né l’istruzione: il mondo è pieno di straccioni istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. (Da The Power of the Positive, un libro che non esiste).

Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l’idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell’impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.

La terra promessa

The Founder, il film di John Lee Hancock dedicato a Ray Kroc, assomiglia un po’ a quei primi esperimenti che i fratelli MacDonald avevano tentato prima di imboccare la strada giusta (e incontrare Kroc). Sulla carta, l’idea è perfetta. Un biopic su un personaggio controverso e visionario, commesso viaggiatore per vocazione più che per necessità. L’America che ha in mente è un luogo usa e getta, smontabile e ricomponibile, una pista autostradale solcata da viaggiatori frettolosi e rapaci come lui; prima di incrociare i fratelli MacDonald, Kroc aveva provato coi bicchieri di carta e i tavolini pieghevoli. I suoi primi veri discepoli sono disperati che vagano di strada in strada, di corridoio in corridoio, cercando di vendere qualsiasi cosa (fulminante l’episodio del venditore ebreo di bibbie protestanti). Come l’Aviatore di Scorsese, il Petroliere di Anderson, lo Zuckerberg di Sorkin e Fincher, Kroc è innovatore e prototipo: se si porta dentro una psicosi, non sarà contento finché non la condividiamo. The Social Network in particolare sembrava un ottimo precedente: anche stavolta l’eroe mefistofelico ruba l’idea a due bravi ragazzi non altrettanto determinati. I Big Mac non saranno interessanti e attuali come i social network, ma il loro pubblico al cinema in teoria ce l’hanno, specie se ne parli male (volete sentirvi vecchi? Super Size Me compie tredici anni). The Founder poi poteva contare sulla regia di John Lee Hancock, il regista di uno dei biopic più interessanti e stratificati degli ultimi anni, Saving Mr Banks: e del momento di grazia di Michael Keaton, dopo Birdman e Spotlight (due Oscar al miglior film in due anni). The Founder non poteva proprio andare male. E invece…

A quattro mesi dall’uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!)

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Daniel Blake sono io, sei tu, noi voi essi

Io, Daniel Blake (Ken Loach, 2016).

Che inquadratura statica, asimmetrica, che colori smorti.

Daniel Blake un giorno era un signore che si fece arrestare fuori da un ufficio dell’impiego. Non ce la faceva più. Dopo un infarto il medico del lavoro gli aveva proibito di lavorare. La previdenza sociale, per dargli il sussidio, pretendeva che cercasse un lavoro. Così lui andava in giro cardiopatico per le officine, lasciava il suo curriculum, e il bello è che qualche lavoro glielo offrivano pure ma lui doveva dire di no, lui non poteva lavorare. Poteva solo cercare lavoro, anzi era obbligato a farlo.

(C’è chi dice che i film di Ken Loach non sono cinema. Tanto per cominciare sono tutti a tesi, e pure la tesi è sempre quella, non potrebbe almeno cambiarla un po’? E poi è sempre tutto così appiattito, così realistico –  ma senza quella fissa per i dettagli dei cineasti che hanno pretese – in una parola, così televisivo).

Che fotografia discutibile, e le luci poi, mah. 

Daniel Blake è quella collega che un giorno in lacrime ti ha chiesto se potevi passarle un assorbente; è quel vicino a cui stavano staccando la luce l’estate, il riscaldamento in ottobre. Daniel Blake è quel signore in biblioteca che deve andare su internet per compilare un modulo, e all’inizio ti fa ridere perché non sa dove mettere il mouse, ma dopo dieci minuti che cerchi di spiegarglielo no, non ti fa più ridere un cazzo, il mondo contemporaneo dal punto di vista di un non vedente.

(C’è chi dice che Ken Loach è superato. Non ha l’intensità dei Dardenne, la profondità di Mungiu, alla fine gira sempre lo stesso film).

Daniel Blake è quel tuo collega che un giorno si è ammalato e a tutti dispiaceva, all’inizio; ma col tempo ha prevalso il fastidio, lui proprio non si rassegnava a pre-pensionarsi e faceva sempre più assenze, sempre più problemi, finché un giorno è morto e di nuovo a tutti è dispiaciuto, ma almeno aveva finito di soffrire: e anche voi.

(C’è chi dice che Ken Loach non fa più cinema, se mai l’ha fatto. Prende un caso limite, e ci imbastisce il solito temino veterolaburista. Il suo Daniel Blake è l’ennesimo martire della società. Non ha difetti, divide il suo sussidio con gli orfani e la prostituta).

Daniel Blake sarò io, il giorno che qualcuno mi dirà che non posso più farcela… (continua su +eventi!)

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Il fantasma di Scarlett (e il suo guscio)

Ghost in the Shell (Rupert Sanders, 2017).

Mi vuoi ancora bene?

Nel futuro saremo tutti replicanti e…
“Ancora?”
Aspetta, aspetta, nel futuro saremo tutti replicanti e smontabili e…
“Già visto”.
Aspetta, aspetta, saremo tutti connettibili con gli spinotti dietro la nuca!
“Ancora gli spinotti? cos’è, il primo numero di Nathan Never (1991)? Persino la prof delle medie ha un tablet senza prese usb, vuoi dire che neanche nel futuro riusciremo ad avere un bluetooth decente?”
Nel futuro saremo tutti replicanti di Scarlett Johansson.
“Comprato”.

Cosa ti piace di Scarlett Johansson? Quanti pezzi di Scarlett Johansson possiamo togliere a Scarlett Johansson prima che non ti piaccia più? Un braccio, ok, quello si può togliere anche a Charlize Theron, ma proviamo a togliere tutto tranne il broncetto. Sei ancora preso da Scarlett Johansson? Togliamo anche quello. Se ci pensate non è nemmeno il primo film in cui vi si pone il problema. Usciresti con un alieno assassino se però per attirarti si travestisse da Scarlett Johansson? Usciresti con un sistema operativo se almeno avesse la voce di Scarlett Johansson? (E se poi lo facciamo doppiare da Micaela Ramazzotti, ti innamoreresti lo stesso?) Nessun’altra diva ha giocato così tanto a decostruirsi, a farsi a pezzi, a ridursi a fantasma. Se date un’occhiata alla sua filmografia recente, sembra che non le interessi fare altro. Doppia cartoni animati, presta il viso a personaggi di fumetto che vengono animati da controfigure o computer-grafica, e si prende in giro da sola in una sequenza dei fratelli Coen. Che cosa sta cercando di fare Scarlett Johansson?

Il cyberpunk aveva questa fobia del vuoto, grattacieli, grattacieli ovunque,
come i salami di Jacovitti.

E tu? Cosa sei disposto a guardare per Scarlett Johansson? Un altro film degli Avengers? Un film di Luc Besson? Il remake di un anime degli anni ’90, Blade Runner in salsa di soia? Tutto quel cyberpunk così terribilmente datato, quello coi cavi e gli spinotti e i pistoloni? Non potrebbe fare commedie brillanti, Scarlett Johannson? Sarebbe perfetta, no? Possibile che l’unica commedia rilevante sia stato un Woody Allen di più di dieci anni fa? È così carina quando sorride, perché deve fare la cosplayer imbronciata? In fondo anche alla Marvel la usano per i siparietti, e alla Marvel sanno quello che fanno, più che altrove.

(Magari non è colpa sua – avete visto commedie americane di recente? Forse il genere è stato preso in ostaggio da trenta-quarantenni misogini in addio al celibato da una vita. Mentre Scarlett si è data ai fumetti. È tutto sottosopra).

Il nemico (spoiler), è una versione Beta del protagonista, il che non mi pare che succedesse nell’originale, ma ormai è un tropo dell’immaginario hollywoodiano: persino il Teschio Rosso cinematografico è un Beta di Capitan America.
L’equipaggio dell’ultimo Star Trek incontra un equipaggio precedente che è diventato cattivo, ecc.
(Forse il messaggio subliminale è: ti sei ricordato di scaricare gli aggiornamenti?
Un device che non si aggiorna diventa malvagio!)

Magari semplicemente la Johansson cerca quello che la Marvel non le ha voluto dare: il franchising (continua su +eventi!)

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Caccia al profeta in patria

Il cittadino illustre (El ciudadano ilustre, Gastón Duprat, Mariano Cohn).

“Gli autori dovrebbero morire dopo aver pubblicato il libro”, diceva un autore vivo e vegeto, ormai tanti anni fa. Infatti di solito sopravvivono e alla lunga diventa seccante, vederli aggirarsi tra le loro opere, sempre più grigi e meno interessanti, come se attendessero all’ingresso le interpretazioni: questa può passare, questa proprio no, diventano i buttafuori delle loro creazioni, ma non si vergognano? Bisognerebbe ammazzarli; purtroppo è vietato. Il sistema più educato che abbiamo trovato, per farglielo capire, sono le statue. Quando lo scrittore vede che gli stanno innalzando un monumento, ecco, se non è un deficiente dovrebbe arrivarci da solo: è l’ora di togliersi di mezzo. Funziona anche coi premi, ma solo quelli molto prestigiosi, ad esempio il Nobel.

Gli argentini non hanno mai vinto un Nobel per la letteratura. Se pensate che vabbe’, Borges a parte non è così strano, in fondo sono soltanto 40 milioni, ecco, tenete conto che il Cile ne ha vinti due. Il Cile, come dire il gemello cattivo – e uno l’ha vinto pure il Perù, 30 milioni di abitanti (tra cui Vargas Llosa). In Columbia poi è nato García Márquez, come fai a non darlo a García Márquez? Però a Borges no. C’è che Borges, di tutti i più celebri scrittori latinoamericani, è il meno latinoamericano – non sarà un po’ il problema dell’Argentina, troppo periferica per essere mainstream, troppo bianca per essere almeno esotica? Magari El ciudadano ilustre è nato così, un esercizio mentale della premiata coppia di cineasti: uno scrittore argentino da premio Nobel, come te lo immagini? Un po’ schizzinoso, senz’altro (continua su +eventi!)

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Lei non si lascia scomporre

Elle (Paul Verhoeven, 2016)

Tua madre è innamorata, si è fatta un altro po’ di botox. Tuo papà è ergastolano, ma ancora sta in tv. Tuo figlio vuol fare il papà, ha messo incinta una matta, chiede due mesi d’affitto più le spese. Al lavoro c’è un dipendente che gioca a incollare la tua faccia su delle animazioni 3d sodomite, ma d’altro canto se lavori nel campo dei videogiochi la tua quota di psicopatici ti tocca. Il tuo amante sta diventando un po’ ossessivo, l’ex marito è depresso perché fa lo scrittore francese, che altro? Ah già, c’è un tizio che ogni tanto entra in casa e ti violenta. Quasi dimenticavi. Buon Natale, Michèle, e felice anno Nuovo.

Paul Verhoeven non si è mai dato troppa pena di giustificare quello che faceva. Gli piaceva un certo tipo di violenza che Hollywood, fino a un certo punto, gli ha consentito: oltrepassato quel punto è tornato in Europa, dove le regole sono più ambigue, non necessariamente più tolleranti. Dopo un lungo purgatorio è finito in Francia, ed è incredibile quanto ci si sia ambientato – non avrei mai immaginato che un film tanto verhoeveniano potesse anche essere tanto francese. È un film di ordinaria follia, ma anche di borghesi che vanno al Monoprix a scegliere il borgogna da accompagnare alla lasagna, se trovano il vicino di casa lo invitano – e hanno tutti una cantina insonorizzata dove chissà che cosacce fanno. O potrebbero averla. Non dovresti fidarti di nessuno, ma poi sono tutti così gentili che lo fai lo stesso. Anche se è tratto da “Oh…”, un romanzo di Philippe Djian (da cui la quota sindacale di ironia sui romanzieri francesi) Elle non doveva essere così francese, in partenza. La produzione cercava un’attrice americana, ma non si trovava, e bastano pochi minuti di film per capire il perché. Alla fine è entrata Isabelle Huppert, a cui nel film capita qualsiasi cosa, ma forse la violenza peggiore è vederla doppiata. Quando l’anziana madre le chiede: ma se mi risposassi tu cosa faresti?, e lei le risponde: ti uccido, beh, in originale è un j’te tue, così semplice, così naturale, con la stessa intonazione con cui sceglierebbe un dessert o negherebbe un premio di produzione a un dipendente, che ti fa capire che non scherza: per lei l’idea di uccidere la madre è davvero la cosa più naturale al mondo.

Elle deve aver fatto uno strano effetto agli spettatori di Cannes. In mezzo a tanti film sul disagio del neoproletariato europeo, un film di borghesi parigini che si scopano e si uccidono con quel savoir faire che incute sempre un certo rispetto, se non ammirazione. Però non credo, come Francesco Boille, che a Verhoeven interessasse mostrare la degenerazione di una determinata classe sociale. Verhoeven non ce l’ha con la borghesia francese: è che alla prova dei fatti solo la borghesia francese è in grado di esprimere film così. Romanzo, soggetto, ambientazioni, attrice: altrove sarebbe stato impensabile. Invece Boille non ha tutti i torti sul modo in cui l’assenza di moralità di Verhoeven ci consente, per contrasto, di verificare la nostra: come ai tempi di Starship Troopers, più che un film fascista un test sul fascismo: lo prende, lo colora, lo rende più pop e più gender equal, e poi te lo sbatte in faccia: ti piace? Perché anche se ti piace rimane fascismo lo stesso, facci caso.

A Verhoeven interessa la violenza (continua su +eventi!)

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Non sono il tuo computer di colore

Il diritto di contare (Hidden Figures, Theodore Melfi, 2016)

WE ARE THE COMPUTERS.
(COLOURED COMPUTERS).

Lo sapevate che nei primi tempi della Corsa allo Spazio, la NASA non aveva ancora un computer; non riusciva a installare l’IBM che aveva ordinato per una serie di disguidi tecnici, ad esempio era troppo grosso per passare dalla porta? E lo sapevate che nel frattempo i calcoli li facevano a mano, più spesso donne che uomini, non perché più portate ma perché (ovviamente) costavano meno? E che le “calcolatrici” bianche e quelle nere a Houston stavano in edifici separati? E che la calcolatrice più brava si chiamava Katherine Jones ed era stata ammessa al padiglione centrale, dove ricalcolava tutti i numeri necessari a mandare la capsula di John Glenn in orbita, ma quando le scappava la pipì, essendo nera, doveva farsi un chilometro a piedi per trovare il bagno segregato? Non lo sapevate?

Bene, perché in effetti non è successo.

Ma in fondo è successo qualcosa di simile ad altre, quindi tutto sommato va bene così.

Ti ci mando io in orbita, baby.

Povero Theodore Melfi, poveri produttori. Io me li immagino, un anno fa, mentre si dicono: che ci vuole a far man bassa di Oscar? Quest’anno sono tutti preoccupati perché non sono riusciti a candidare nemmeno un attore afroamericano. Bella gaffe. Quindi adesso noi troviamo una storia di afroamericani – no, non basta, devono essere ancora più minoranza, diciamo una storia di donne afroamericane. Di più. Donne afroamericane e matematiche – i matematici funzionano sempre nei film da Oscar, non c’è un motivo, è così e basta. Sono esistite importanti matematiche afroamericane? Sì. Hanno fatto qualcosa di importante? I calcoli della corsa allo spazio. Vabbe’, ma è un film che si scrive da solo. Praticamente ti danno una nomination anche solo a pensarci. Chi lo può battere un film così, nel 2017? Chi?

Dove nessun uomo è andato prima, o almeno io
su quel piolo non ci ho ancora avuto il coraggio.

…Poi arriva un mezzo sconosciuto, un carpentiere, e con due soldi ti gira a Florida un film autobiografico di afroamericani gay spacciatori, santo dio, di tutti gli anni proprio nel 2016 doveva uscire Moonlight e vincere quell’Oscar? Posso dirla grossa? È un po’ un furto. Non perché Hidden Figures sia un film migliore. Ma gli Oscar si danno a Hollywood, sono l’annuale celebrazione del cinema di Hollywood, e Hidden Figures è dieci, cento volte più hollywoodiano di quello strano frutto europeo trapiantato in Florida che è Moonlight – quel tipo di film che ti mostra il mondo nei suoi lati peggiori, ti fa sentire un po’ in colpa e un po’ sollevato per essere nato altrove, e poi si congeda senza nessuna parola di consolazione. Premiateli a Cannes, quei film lì. Là vanno matti per i marciapiedi sbeccati e l’odore di muffa degli appartamenti sfitti, c’è un trenino che parte ogni ora, la gente scende dagli yacht e va al palazzo del cinema a farsi la sua gita organizzata, un’ora e mezza di povertà – tre ore se lo spettacolo è doppio – dev’essere corroborante. I film americani sono diversi, perlomeno una volta lo erano. Non mostrano il mondo brutto com’è – in generale gli spettatori non hanno bisogno che qualcuno glielo ricordi – ma come dev’essere. Forse non c’è mai stato un direttore della Nasa a forma di Kevin Costner che prende a mazzate il cartello “bagno riservato alle donne di colore”, ma avrebbe dovuto esserci. Deve esserci. Dobbiamo mostrarlo al cinema finché non prende forma nella realtà. Fare finta finché non diventa vero. Print the legend. Dici che è più propaganda che cinema? Va bene. C’è gente a cui interessa più cambiare il mondo che cambiare il cinema, tutto qui.

Io insegno in una scuola e ogni tanto mi capitano ragazze che quando vogliono fare una domanda, esordiscono dicendo: “Non ci capisco niente”. E tutte le volte: ma perché dici così? (Continua su +eventi!)

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Wolverine sanguina! (finalmente)

Logan (James Mangold, 2017)

Frank Miller, 1983.

Logan è il migliore in quello che fa. Ma quello che fa non si può mostrare in un cinecomic per bambini. È il solito problema. Spiderman può appiccicare i cattivi alle pareti con una colla speciale che non lascia alla polizia nemmeno la fatica di ripulire; Iron Man può stordirli con qualche tipo di raggio che non lascia segni; Superman o Batman trovano sempre il modo di stendere a cazzotti dei nemici che non riportano mai commozioni cerebrali gravi. Persino il Terribile Hulk al massimo i suoi nemici li scaglia a km di distanza, a suo modo è pulito: niente sangue. Ma Logan è… Wolverine, e Wolverine ha questi artigli affilati d’adamantio con i quali non è che possa dare un buffetto agli avversari.

È sempre stato così, anche sui fumetti: gli altri eroi in costume possono anche fingere di non essere assassini, Logan questa ipocrisia non se la può permettere. Quante volte ha accostato un pugno al torace o al volto del suo nemico, quante volte abbiamo letto “SNIKT” nella vignetta successiva, senza che il disegnatore si mettesse nei guai mostrandoci i dettagli della macelleria? Ma se Wolverine è sempre stato così difficile da gestire, a chi è venuto in mente di farne un eroe in carta e pellicola? Ai lettori.

Logan non era nato per fare l’eroe. All’inizio era una comparsa in una storia di Hulk, uno di quegli antieroi esotici dai nomi buffi e dai poteri bizzarri che devono prenderle dal titolare della serie. A metà degli anni Settanta si trova inquadrato quasi suo malgrado in una banda di personaggi di secondo livello riciclati nel tentativo abbastanza disperato di salvare una testata. La testata è X-Men e nel decennio successivo diventerà anche grazie a Wolverine la più fortunata dell’universo Marvel, eppure già nei primi numeri Logan rischia il licenziamento: viene salvato da uno dei disegnatori, Byrne, per una questione di mero campanilismo (è l’unico eroe canadese). Ma all’inizio davvero non si sa come gestirlo: c’è anche qualche tentativo di utilizzarlo come una spalla comica, il tappo incazzoso che si arrabbia per primo e le prende più di tutti. Paperino. Poi piano piano il personaggio rivela delle potenzialità.

I lettori scoprono che è più vecchio degli altri; che sotto la maschera ha due basette d’altri tempi; che gli artigli non sono un gadget, ma parte del suo scheletro, per quanto questo sia anatomicamente impossibile; che le sue origini sono molto più intricate di quelle di qualsiasi altro eroe, e forse per sempre occultate da multipli lavaggi del cervello; che tutte le persone a cui vuol bene finiscono male; che guarisce da qualsiasi ferita con una velocità che varia a seconda delle esigenze di sceneggiatura, da pochi minuti a qualche giorno: quanto basta per renderlo protagonista di una serie di storie in cui prima viene massacrato da qualche nemico prepotente, poi risorge cristologicamente per vendicarsi con operazioni di chirurgia sommaria senza anestesia. Erano ancora i primi anni Ottanta e i lettori della Marvel non avevano mai letto o visto cose del genere. Wolverine, a una certa distanza è più facile capirlo, è il primo eroe americano post-Vietnam: è un reduce, è un mostro, si vergogna ma è pur sempre il migliore in quello che fa. Più vicino a Rambo che a Capitan America, Wolverine era l’eroe perfetto per far annusare un po’ di sangue ai lettori preadolescenti che non potevano più riconoscersi in un Superman perfettino o uno Spiderman Bello di Nonna. Dopo di lui i fumetti si sarebbero riempiti di cloni, cyborg e ninja, tutti un po’ troppo sbilanciati rispetto all’originale: con Wolverine la Marvel aveva azzeccato per puro caso il mix migliore tra umanità e ferinità.

Questo tipo di cose.

Wolverine è anche uno dei primi eroi Marvel ad arrivare al cinema, nel film che anticipa la moda dei cinecomics, il primo X-Men. Era il 2000 e nel ruolo di Logan c’era già Hugh Jackman. Nei successivi 17 anni ha interpretato lo stesso personaggio in otto o nove film, credo che sia un record. Per me – se solo me l’avessero chiesto – era fuori parte sin dall’inizio: Logan è un animale che lotta per diventare umano e restare tale, Jackman è un attore di Broadway, canta e balla e in smoking sta una favola (non ho nemmeno idea di quante volte l’ho scritta, questa cosa). Bisogna però ammettere che ce l’ha sempre messa tutta. Scegliere un damerino per interpretare una macchina da uccidere la diceva lunga, già nel 2000, sull’approccio che la Fox aveva deciso di dare al personaggio e in generale a tutti gli X-Men: proprio mentre i fumetti si diversificavano e cercavano di crescere coi loro lettori, i cinecomics mantenevano la barra sul grande pubblico e cercavano di non allontanare i minori di 13 anni, il che almeno negli USA significa niente nudità e (quasi) niente sangue. E gli artigli? Eh. Col contagocce, o con nemici deumanizzati (ad esempio un cyberg-samurai gigante). Non aveva neanche molto senso lamentarsi, i supereroi al cinema si facevano così. Mentre il Wolverine cartaceo diventava uno zombie, un vampiro, un vendicatore, un preside, moriva, veniva sostituito da un clone con le tette (e gli artigli anche nei piedi), risuscitava ma più vecchio, quello sullo schermo sembrava condannato a roteare gli artigli in rassicuranti numeri di danza, finché…

Si chiama Dafne Keen: non è un amore?

Finché l’anno scorso un tizio improbabile in costumino rosso e fattore rigenerante, Deadpool – un supereroe di seconda fascia che senza Wolverine non sarebbe esistito nemmeno nella fantasia di un aspirante sceneggiatore di otto anni – non ha sbancato i botteghini con il primo vero cinecomic vietato ai minori di 14: un bel paradosso, per un film che non aveva molto da dire ai maggiori di 16. Ma insomma, in un panorama ormai inflazionato si è scoperto che i film di supereroi con sangue e nudità non solo si possono fare, ma funzionano meglio degli altri. E quindi? Avanti con le nudità, direte voi. Seh, magari.

Il passo successivo della Fox è stato convincere Jackman a rimettersi per un’ultima volta quei maledetti artigli, ma stavolta per usarli davvero (Continua su +eventi!)

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Il mondo finisce un’altra volta

È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)

Ogni volta che muori, il mondo finisce con te: quindi di che cosa ti preoccupi? Di chi ti lasci indietro? Li hai ignorati per tutta la vita, la morte cosa cambia? Vorresti lasciare un buon ricordo? Comprensibile, ma forse è un po’ tardi. Vuoi chiedere scusa? Si vede che non sei ancora così morto, ai morti queste cose non interessano. Non si sentono in colpa, non si sentono in dovere, non si preoccupano di noi.

“Tutto bene?”
“Sì che vuoi?”
“Niente. Sei occupato?”
“Devo scrivere la recensione”.
“Ottimo. Ti è piaciuto il film?”
“Devo pensarci”.
“Allora non ti è piaciuto”.
“Ma a te poi che ti frega?”
“Quando ti piacciono te ne accorgi subito”.
“Non hai veramente niente di meglio…”
“Quando tergiversi, quando vai a vedere le recensioni, le percentuali di giudizi positivi, i premi… hai paura di fare una brutta figura”.
“Io? Si vede che non mi conosci”.
“È più giovane di te, vero? Il regista”.
“Questo cosa c’entra”.
“Mi preoccupo, sai, perché…”
“Ma perché ti devi preoccupare, non ha proprio senso”.
“…succederà sempre più spesso, man mano che avrai avanti. Musicisti più giovani, registi più giovani, persino un presidente del consiglio, se non sbaglio”.
“Era l’ultimo dei suoi problemi”.
“Devi cominciare ad accettarla, questa cosa”.
“Che sto invecchiando? La accetto”.
“Bravo”.
“Non che ci fossero alternative”.
“Una c’era. Quanti anni ha il regista?”
“Non lo so… va per i trenta”.
“Uh, un ragazzo!”
“Non è questo il problema”.
“Sicuro?”
“C’è un tipo di cinema che proprio non mi prende. Colpa mia. Io nasco lettore, è la mia formazione. Se mi prendi un testo teatrale e sostituisci i monologhi con gli sguardi intensi e i primi piani, io non ci casco”.
“Quindi è un limite tuo”.
“Non dovrei scrivere di cinema. Non di questo tipo di cinema, almeno. Per me il primo piano più intenso non sarà mai significativo come un discorso. Se hai da dire delle cose, dille. Se guardi fisso in camera non mi stai dicendo cose. Non importa quanto sia espressivo il tuo broncetto e ben impaginata l’inquadratura, tu non mi stai dicendo cose”.

A lei comunque voglio bene.

“Il cinema è fatto di immagini”.
“In movimento, però”.
“Perché non sei andato a vedere Lego Batman?”
“Non mancherà l’occasione”.
“Insomma non ti è piaciuto”.
“Non è il mio tipo di film”.
“L’età non c’entra niente?”
“Cosa dovrebbe c’entrare?”
“Dolan non ha trent’anni, che vuoi che ne sappia?”
“È un regista bravissimo e bisogna dargli atto che un’ora e mezza filano dritte come un treno, sembra sempre che stia per succedere qualcosa di orribile che poi…”
“Non come regista. Come persona. Che vuoi che ne sappia di cosa vuol dire morire?”
“Immagino che ci abbia ragionato, come tutti”.
“A vent’anni? Lo sai anche tu come sono i ventenni?”
“No non lo so”.
“Romantici”.
“Sai che non sono d’accordo. Davanti alla morte abbiamo tutti la stessa età”.
“E quindi cos’è che ti affligge?”
“Non lo so, è una sensazione, è… hai presente Natural Blues di Moby?”
“Why does my heart feel so bad?”
“Quella?”
“Ti piace?”
“La odio”.
“Ecco, mi pareva” (continua su +eventi!)

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Jackie è nella Casa

Jackie (Pablo Larraín, 2016)


Signora Kennedy lei non ha / bisogno di scusarsi per il fatto che si trovava fuori sul bagagliaio / negli attimi successivi al momento in cui suo marito era stato colpito. / tutti hanno potuto vedere quel che era successo / in queste fotografie con i propri occhi … / perché è stata distorta la verità di esseri umani? / a che serve questa immagine eroica? / nessuno è un eroe… / perché sono deliberatamente ingannato con confuse menzogne / a proposito di ciò che vedo con occhi sani / chi sono io per essere insultato così? 

Prima di ricomporsi in pubblico e adottare quella maschera cool che ci si aspettava da lui, Bob Dylan ebbe il tempo per lasciarsi sconvolgere dall’assassinio di Kennedy come qualsiasi altro americano. Scrisse quattro ‘poesie’ a caldo – in quel periodo definiva ‘poesia’ tutto quello che gli usciva di getto senza preoccupazioni metriche –  la prima delle quali era dedicata alla vedova Jacqueline. Più che una poesia è una lettera, senza le affettazioni tipiche del Dylan-alla-macchina-da-scrivere-che-si-crede-un-poeta. È un messaggio di scuse, quello che oggi potrebbe scrivere un personaggio pubblico sulla bacheca di facebook di un altro personaggio pubblico. È anche una riflessione su come i media e le fotografie mettono le persone in cornice o sulla gogna. Nei giorni immediatamente successivi all’assassinio politico più famoso del XX secolo, qualcuno era riuscito a biasimare Jackie Kennedy perché invece di difendere in un qualche modo il marito si era alzata, sporgendosi sul bagagliaio. Ufficialmente lo aveva fatto per aiutare una guardia del corpo a salire sulla berlina. Nell’intervista a Theodore White, giornalista di Life, emerge un altro probabile motivo: un pezzo di testa del presidente Kennedy era schizzato sul bagagliaio; Jackie si era alzato per raccoglierlo. Lo aveva rimesso al suo posto. Era evidentemente in stato di choc. Ma era anche Jacqueline Kennedy: avrebbe tollerato che le cose non fossero al loro posto?

Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, a distanza di mezzo secolo, è ancora un personaggio delicato, che impone cautela a chi lo maneggia. Forse addirittura sta diventando più delicata col tempo – ho in mente quella vecchia serie NBC degli anni Ottanta, in cui tutto sommato passava per una signora di buona famiglia ossessionata dagli interni della Casa Bianca – nozione che il regista Larraín o lo sceneggiatore Noah Oppenheim non tentano nemmeno di smentire: si tratta piuttosto di scavarci intorno, di problematizzare la cosa, di spiegare che dietro la cura per soprammobili e passamanerie c’era una riflessione sulla regalità della figura del Presidente, che emergeva ormai dalle brume della prima guerra fredda come l’uomo più potente del mondo. A quel punto era necessario lavorare sui simboli e sulle scenografie: un re deve vivere in una reggia, e sfoggiare una regina consorte. Sennò poi succede come ieri, che ti ritrovi su tutti i giornali una tizia coi piedi sul divano in Sala Ovale, e la cosa potrebbe avere ripercussioni in politica estera.

Un certo tipo di mitologia casabiancana nasce proprio con Jackie, che fu molto criticata in vita per questo (anche dal marito). Oppenheim osa finalmente dichiarare l’evidenza: Jacqueline Kennedy era, nella coppia, la più all’altezza del ruolo. Il marito era un mezzo disastro, un miliardario pasticcione che in tre anni si fece coinvolgere nel flop della Baia dei Porci, nell’escalation del Vietnam, e con la crisi dei missili portò il mondo a un passo dal conflitto atomico. La stampa conservatrice lo trattava più o meno come i liberal ora trattano il nuovo inquilino miliardario. Nel frattempo la moglie trasformava la Casa Bianca in Camelot, che è poi la vera grande eredità del 35mo presidente degli Stati Uniti. Era tempo che Hollywood riconoscesse a Jackie quello che era di Jackie. Senonché ci si è messo in mezzo Pablo Larraín. Una scelta abbastanza bizzarra, ma curiosamente in linea coi tempi, che sono piuttosto confusi.

Ci pensavo l’altro ieri, a Oscar consegnati. Secondo me Hollywood è nel pallone (continua su +eventi!)

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Quattro funerali e due divorzi a Manchester (sul mare)

Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan, 2016).

Hai presente certi ceffi che vedi al bancone, nel tardo pomeriggio o se ripassi all’ora di chiusura, sempre una pinta davanti mezza vuota, hai presente quel tipo di espressione…

“Non fissarlo”.
…ma è più una smorfia, di uno che la vita l’ha preso a legnate ma per qualche motivo si è dimenticato di darle il colpo finale, e forse la birra serve a questo, o a lenire il dolore, o a dormire senza sogni, chi può dirlo.
“È meglio se non lo fissi, dammi retta”.
È che mi ricorda qualcuno.
“Casey Affleck in quel film?”
Oddio cosa mi hai fatto pensare.
“Con venti chili in meno, magari”.
Che è il principale problema di quel film.
“Un problema? Che Casey Affleck è in forma?”
Sono contento per lui e il suo affezionato pubblico, ma interpreta un tizio che, hai presente la trama? Beve una birra all’ora almeno da dieci anni. E ancora ha una linea fantastica…
“Sarà la neve che spala dal suo abbaino”.
…ed è il sogno erotico delle inquiline dei palazzi in cui lavora da tuttofare. Allora sì, dico che c’è un problema con i corpi che Hollywood presta al cinema d’autore. Non sono realistici, non mi parlano del mondo in cui abito, non ho niente contro Casey Affleck, gli auguro tutti i premi, ma sembra calato nel Massachusetts da un film di gangster, o di supereroi, è di nuovo lo stesso problema di Captain Fantastic: sono tutti troppo belli perché io me la beva. E bersela è un po’ il senso di andare al cinema, no?
“La sospensione dell’incredulità”.
Esatto.
“Adesso comincia a fissarti lui, vedi?”
Chissà che gli è successo, poveraccio.
“Non sono fatti nostri”.
Perché invece quello che succede a Casey Affleck?
“Eh? Stai scherzando?”
No. Spiegami per quale motivo al mondo dovrei interessarmi all’elaborazione del lutto di Casey Affleck. Un lutto finto, tra l’altro. Come se non avessi già i lutti miei che mi danno da fare.
“Hai bevuto”.

Questo in realtà è un altro film, ma è la foto più recente
che ho trovato di Casey Affleck al bancone. 

Un po’ sì, ma in malto veritas. Spiegami sul serio: perché devo stare male? Perché mi ha fatto star male, quello stronzo di Lonergan. Mi ha fatto stare in pena per gente che non è mai esistita. Come se non avessi già la mia gente, viva o morta, che reclama attenzione e lacrime, no, devo pure provare pena per questi figurini che patiscono come la gente normale e bevono più della gente normale ma non ingrassano mai.
“Senti. È un film che è piaciuto a tutti. A tutti, capisci?”
E beh certo, chi vuoi che si metta contro dei bambini morti (continua su +eventi!)

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L’ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)

Moonlight (Barry Jenkins, 2016).

Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c’è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un’altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l’hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.

Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?

Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c’è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L’omosessualità è l’ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d’amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All’inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono “man” ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po’ il terzo incomodo – che è quello che succede in tutti i film d’amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano – in Adele succedevano anche altre cose, per dire.

Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l’attimo: l’anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell’Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l’America razzista – o come si dice adesso, alt-right – ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d’autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)

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L’audace colpo dei soliti ricercatori

Smetto quando voglio 2 – Masterclass (Sidney Sibilia, 2017)

Sono tornati, hanno ancora fame. Dopo essersi spinti ben oltre i limiti della legalità, dopo averne pagato le conseguenze con gli interessi, i Ricercatori hanno finalmente trovato un Ente statale che apprezza le loro straordinarie competenze. E ha un lavoro da offrire, capite? Un lavoro.
A progetto, naturalmente.
Senza assicurazione, beh, ovvio.
In nero, già. Di chi si tratta?
Della Polizia di Stato. Cosa hanno da perdere? Tutto.
Possono almeno smettere quando vogliono?
No.

Sono passati appena due anni – sembra un’era – da quando Sidney Sibilia, al suo esordio dietro la macchina, scoprì la formula che trasformava in action comedy una frustrazione tutta italiana (la fuga dei cervelli, il precariato dei ricercatori). Smetto quando voglio ci pigliò benissimo, era qualcosa di cui non sapevamo quanto avessimo bisogno, finché non l’abbiamo provato.

Da allora la situazione è parecchio cambiata. Mentre Sibilia riposava altri si sono inseriti nel mercato, mettendo in circolazione formule ancora più spinte. Jeeg Robot e Veloce come il vento non sono nemmeno più commedie, sono action e basta: le inevitabili tracce di parodia ridotte al minimo. Smetto quando voglio 2 accetta la sfida: volete l’action? Vi daremo inseguimenti nel parco archeologico e un assalto al treno merci in side-car, con scazzottata in cima ai vagoni. E questo è ancora niente, per la terza puntata ne abbiamo in serbo di fortissime… Per fortuna Sibilia è molto più consapevole dei propri limiti di quanto non appaia: sotto l’apparenza sbruffona c’è una precisa valutazione di quello che può funzionare e quello che sarebbe bello sulla carta, ma è meglio lasciar perdere. Per esempio a un certo punto ci porta a Bangkok, ci illude facendoci sentire odore di kickboxing, ci guida tra i meandri di un mercato e proprio quando sembriamo arrivati a un ring clandestino, taglia corto e la butta in farsa. Action sì, ma con criterio, certe competenze non s’improvvisano. La scena più simbolica è davvero l’inseguimento ferroviario, movimentato e complesso ma prudentemente mantenuto ai sessanta km all’ora. Più forte di così per ora il cinema italiano non può andare: è un problema? Per un regista italiano è già molto, come fai a prendertela con Sibilia? Dopo un inverno di cinepanettoni, cinepandori, cinetorroni, i suoi ricercatori-supereroi sembrano venire da un altro pianeta. Lui stesso sembra sapere che i suoi clienti gli permetteranno qualsiasi cosa e ormai si comporta da impunito, scherza coi feticci del Terzo Reich, flirta col proibizionismo ma solo per far andare avanti la trama. Per quanto ispiri simpatia, si merita d’essere preso sul serio, perché è vero che ha già fatto tanto per l’ecosistema del cinema di genere italiano, ma con un piccolo sforzo potrebbe fare anche di più.

Per esempio: c’era proprio bisogno di ampliare il cast? (Continua su +eventi!)

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La La La ti sento eccome


La La Land (Damien Chazelle, 2016)

“Buongiorno in cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno, io… io ho visto La La Land“.
“Allora ha chiamato il numero giusto, questo è…”
“E non m’è piaciuto!”
“…il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano…”
“C’è qualcosa che non va in me?”
“Assolutamente no, signora. È una questione di gusti”.
“Ma è piaciuto a tutti tranne che…”
“No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale”.
“Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure…”
“Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?”
“Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!”
“Forse non le interessano i musical”.
“Non saprei”.
“Ha apprezzato altri musical di recente?”
“Io, boh… una volta ho visto Cantando sotto la pioggia…”
“Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene”.
“…e non c’è paragone”.
“Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po’ come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza”.
“Ed è sbagliato?”
“Non c’è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l’asticella un po’ più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita”.
“Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical”.
“In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?”
“No”.
“Dieci anni fa. Forse l’ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp”.
“E in Italia non l’hanno distribuito?”
“Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical”.
“Sul serio?”

“Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l’avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical”.
“Ma perché ce l’avremmo coi musical, noi italiani?”
“Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano”.
“Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata”.
“Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film”.
“Ma l’ho visto in lingua originale!”
“Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra”:
“Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?”
“Il calo di tono è necessario, fisiologico – sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz’ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi… le complicazioni”.
“Niente di nuovo insomma”.
“No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia”.
“Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici”.
“Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli”.
“I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis…”
“Ok, c’è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro – anzi, no, sin dall’inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c’è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è”.
“Un bianco che spiega il jazz ai neri”.
“Per la verità è il contrario; è l’amico nero che gli spiega cos’è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L’hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L’idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un’età dell’oro, dell’argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo’ Better Blues…
“Vagamente”.
“…che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev’essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev’essere Ryan Gosling”.
“Anche se non balla un granché bene”.
“Ma ne è sicura?”
“Un po’ legnoso”.
“Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?”
“A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone”.
“Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende… perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull’orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero”.
“E anche lei doveva essere bianca per forza?”
“Anche su questa cosa, ci ho riflettuto”.
“Addirittura”. (Continua su +eventi!)

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Dio è morto, il Giappone è una palude, e Scorsese sta benissimo


Silence, (Martin Scorsese, 2016).

Verso il 1650 cominciò a girar voce che Sawano Chūan, già conosciuto come Cristóvão Ferreira, fosse morto: e prima di morire avesse ritirato la sua scandalosa apostasia, e proclamato a gran voce davanti all’inquisitore del Giappone la sua fede in Cristo, che 15 anni prima aveva rinnegato. Per questo era finalmente stato condannato al supplizio del pozzo: sospeso a testa in giù e dissanguato lentamente. La solita propaganda dei gesuiti: chi andò a controllare scoprì che Sawano-Cristóvão aveva avuto un funerale buddista, presso il tempio che aveva scelto conformemente alle leggi dello shogunato. Il suo nome giapponese si legge ancora sulla lapide. Forse in segreto continuò a credere nel dio cristiano per tutto quel tempo: ammesso che si possa credere a un Dio in segreto. C’è chi non lo ritiene possibile.

Un vero fumie: il volto di Gesù è consumato
dalle centinaia di piedi che lo hanno calpestato

Scorsese ci crede. I suoi eroi non cambiano mai, non rinnegano mai. Toro resta scatenato, il lupo di Wall Street perde solo il pelo. Qualsiasi cosa ti abbia portato a sbattere contro il muro – la religione che hai imparato da bambino, la mafia in cui sei cresciuto o la propensione genetica al consumo di sostanze, o al gioco d’azzardo, o a picchiare il prossimo o a fotterlo – non importa quanto forte sbatterai, non importa quanto in basso striscerai. Dentro di te resterai sempre il mafiosetto che eri, il giocatore che eri, il pugile, il truffatore, il drogato, il gesuita. Non importa quanto vai lontano, non puoi rinnegare te stesso. Quando uscì L’ultima tentazione di Cristo, molti cattolici rimasero scandalizzati. Qualcuno al Vaticano pensò di regalargli il romanzo di Endo, Silenzio, sulla repressione del cristianesimo giapponese. Una scelta lungimirante. Se ci ha messo vent’anni per trovare il modo di metterlo su pellicola, Scorsese non ha comunque avuto bisogno di cambiare qualche passo o di aggiungere niente di personale: Silence era già scorsesiano in partenza. Ambizioni, tentazioni, arroganza, caduta. La solita parabola.

Eppure Silence non è il film che il pubblico si aspetta da lui – men che meno i giurati dell’Academy, che in fondo hanno sempre diffidato di questo corpo esterno, questo seminarista fallito e riconvertito al cinema. Il film sembra concepito per confondere e tradire gli spettatori che abbiano una fede superficiale nel suo cinema. Scorsese li attende silenzioso al termine di un lungo viaggio in un Giappone antipittoresco, e dopo due ore e mezza non ha ricompense da offrire a chi lo trova: solo silenzio. Può darsi che non sia il suo migliore film. Neanche tra i suoi primi dieci film. Ma anche quando tace e prega, può tranquillamente dare lezioni di cinema e vita a chiunque sia disposto a imparare. Più che con altri suoi film, trovo inevitabile confrontarlo con quello che passano gli altri conventi: per esempio giusto un anno fa stavamo tutti applaudendo per Revenant. Anche quello un film lungo e senza compromessi, anche quello ambientato in un paesaggio naturale alieno, ostile, e ispirato a un fatto vero.

È un confronto impietoso (continua su +eventi!)

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Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?

Arrival (Denis Villeneuve, 2016).

Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d’essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell’ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d’incontro obbligato: “triangoli”, “cateti”, “ipotenusa”, “uguale”, “quadrati”, sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.

Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i ‘loro’ elementi non siano diversi dai ‘nostri’? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l’idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?

Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe… (ma che rivincita per il relativismo umanistico).

Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato
che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo?

Nel film Amy Adams è la linguista (adorabile), Jeremy Renner lo scienziato (simpatico). Quest’ultimo all’inizio sembra sicuro del fatto suo: gli alieni vogliono comunicare? Spedite una sequenza di Fibonacci, vedrete che ci intenderemo. Dopo due scene si è già ridotto a fare la valletta per la collega. Nel racconto ovviamente la cosa è più complessa. Gli alieni effettivamente mostrano di conoscere gli elementi e qualche altra nozione scientifica di base, ma tutto si ferma lì, finché un giorno non riescono finalmente ad avere una conversazione sul principio di Fermat. La parte del racconto dedicata a questo principio è la più interessante: è anche quella necessaria, perché gli alieni di Chiang sono solo un’ipotesi narrativa, ma il principio di Fermat funziona davvero e stabilisce (grosso modo) che il percorso di un raggio di luce tra due punti è quello che si attraversa nel tempo minore. Da cui la domanda, ingenua e inevitabile: ma come fa la luce a sapere in partenza qual è il percorso che potrà attraversare nel tempo minore? Come può prevedere gli imprevisti di percorso? Forse perché per la luce non esiste un prima e un dopo, una partenza o un arrivo, perlomeno non nel modo in cui lo percepiamo noi umani?

E se anche per gli alieni non esistesse il “prima” e il “dopo” degli umani? In questo caso la domanda più banale (“perché siete qui?”), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un “perché” in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte – come gli alieni – non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.

Questo parallelismo non così banale – il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? – è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un’idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l’arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day – qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l’arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.

Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all’altezza del compito (continua su +eventi!)

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Brad Pitt, spia imperfetta (per fortuna)

Allied – Un’ombra nascosta (Robert Zemeckis, 2016)

A un certo punto – non rivelo nessun punto saliente della trama – Brad Pitt e Marion Cotillard stanno scappando in automobile. Brad si ferma un attimo davanti a un negozio perché deve sistemare una questione. Marion lo aspetta a bordo, con la bambina in braccio. Lui ha promesso di far presto, invece ci sta mettendo un po’, e quindi lei non sa che fare. Non può entrare con la bambina, non può restare ferma lì. Dentro il negozio in effetti stanno succedendo delle cose, ma niente che non accada tipicamente nei film: rivelazioni, sparatorie. Soltanto un pretesto. Quello che veramente importa è nell’auto: l’attesa, l’angoscia, la bambina che è insieme un ostacolo e il senso di tutto quello che sta succedendo.

A un certo punto pensavamo di aver perduto Robert Zemeckis. Il regista di Ritorno al futuro 2, di Roger Rabbit, della Morte ti fa bella, aveva deciso di concentrarsi sull’animazione, e in particolare di quella branca dell’animazione in digitale che fin qui ha dato a investitori e spettatori meno soddisfazioni: la performance capture. Polar Express e A Christmas Carol erano due esperimenti freddissimi, come certe feste organizzate più per dimostrare le proprie capacità che per mettere a proprio agio gli invitati. La performance capture non è né animazione disegnata né realtà filmata: è una sfida della tecnologia digitale a entrambe. Un giorno vincerà, e gli attori saranno sostituiti da manichini digitali assolutamente identici ai modelli. La carriera delle star degli ultimi trent’anni (una generazione già longeva di suo) si prolungherà di qualche secolo: che bisogno c’è di cambiare le facce quando il pubblico è già affezionato a quelle vecchie? Qualche attore ringiovanito digitalmente lo abbiamo già visto. La scelta della Walt Disney, che dopo la morte di Carrie Fisher ha deciso di non utilizzare più la sua versione digitale, non ci incanta: ci aspettano altri cent’anni di Tom Cruise, di Di Caprio, di Matt Damon. Persino di Brad Pitt.

Non tanto l’uso del green screen, quanto il voler farcelo notare.

A un certo punto ci siamo accorti che Brad Pitt tutto sommato era bravo. Non tanto a recitare quanto a resistere. Non è solo una questione di tenuta fisica – in realtà se l’allestimento di Zemeckis ha un limite, è proprio in quel volto tirato che sembra un po’ più finto di quello che dovrebbe essere: un trentenne interpretato da un 50enne – splendido quanto si vuole, ma non è il volto che s’incastrerebbe alla perfezione in quei costumi d’epoca. Non gli giova il confronto con la Cotillard, lei sì perfetta in qualsiasi abito, in ogni fotogramma – una spia ideale, mentre Brad se vuole non farsi scoprire deve paracadutarsi all’ultimo momento e fingere di non sapere le lingue. Come in Basterds, esatto – del resto è sulla consapevolezza dei propri limiti che Pitt ha costruito il suo impero, o almeno ha saputo conservarlo dagli assalti di attori a volte più giovani, e sempre più talentuosi. Alcuni coetanei che sembravano tanto più dotati stanno cedendo terreno, lui tiene botta (continua su +eventi!)