28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d’amore
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(Discografia di Franco Battiato, #3)
Episodio precedente: Il periodo Polydor
Fetus (registrato entro il novembre 1971, pubblicato da Bla Bla nel gennaio 1972).
Il disco-embrione
Fetus è il disco con cui Franco Battiato decide di nascere: tutto quello che aveva tentato prima è rimosso, relegato in una condizione pre-natale. Altri artisti in quegli anni mutano bruscamente traiettoria, cambiando immagine pubblica e nome d’arte: Battiato mantiene il suo, ma cancella tutto quello che ha significato in quel momento. È difficile pensare che non ne fosse consapevole, ma la simbologia fetale che domina il disco sin dal titolo richiama questa sua condizione: l’artista è appena nato, è un embrione. In quanto tale contiene già tutte le potenzialità che svilupperà da lì in poi – l’elettronica, Bach, le ballate, la tarantella, i campionamenti – ma in una forma, va da sé, embrionale. Tra i solchi c’è anche qualche possibilità che Battiato scarterà subito: un po’ d’improvvisazione quasi jazz e qualcosa che richiama il Bowie di quegli anni (convergenza evolutiva)?
Quando compone Fetus, Battiato ha alle spalle più di un lustro di esperienza da compositore e performer. Altri approfitterebbero della prima possibilità di incidere un 33 giri per mettere assieme un repertorio di canzoni accumulato negli anni. Battiato, che un po’ di canzoni da parte ne aveva, con Fetus fa quasi tabula rasa. Il passato cantautoriale/canzonettistico non sparisce del tutto, ma è fatto a brandelli e riciclato in montaggi di mini-brani giustapposti. Fetus da questo punto di vista è il disco in cui la forma canzone viene sottoposta alle maggiori torsioni, al punto che nel secondo lato è davvero arbitrario decidere quando finisce un brano e ne comincia un altro. Il “concept” è ispirato al Mondo nuovo di Huxley, ma sviluppato in modo vago ed enigmatico, non dissimilmente a quanto succedeva nei concept album del periodo.
Può darsi che Fetus sia invecchiato peggio di altri dischi di FB. Quando uscì, sorprese gli ascoltatori più smaliziati (tra cui a quanto pare Frank Zappa, a cui sarebbe sfuggito quel famoso “Battiato is a genius”: la fonte però è Pino Massara). Persino negli anni più creativi del prog, Fetus suonava come qualcosa di strano e originale. Lo è tuttora, anche se forse come ascoltatori siamo meno disponibili a lasciarci sconvolgere dalle arcane incursioni del sintetizzatore VCS3, qualcosa che non si era ancora ascoltato neanche nei dischi inglesi e americani.
1972: Fetus (#98)
Non ero ancora nato che già sentivo il cuore che la mia vita nasceva senza amore. È abbastanza clamoroso che un autore apprezzato per le sue esuberanze lessicali esordisca proprio con la rima cuore / amore, e con una sintassi così incespicante – sarebbe stato sufficiente cantare “già sentivo in cuore” perché la frase filasse liscia: sì, ma Battiato non resiste, con la fatica che deve aver fatto a incidere su vinile nel 1972 un realistico battito di un cuore in anticipo su The Dark Side of the Moon, lui vuole proprio dirci che lo sente, sente “il” cuore (musicalmente la primissima frase somiglia già parecchio all’introduzione di Stranizza d’amuri).
Battiato, dicevamo, nasce con Fetus, e cioè con un’incertezza fondamentale: perché non si è mai capito con quale brano Fetus dovesse cominciare. Nella copertina della prima edizione si legge che il primo brano è l’omonimo Fetus: il disco inizierebbe dunque con il cuore pulsante. Si tratta però di un errore, perché a mettere il disco sul piatto si scopre che il primo brano è Energia, come è anche scritto sulla label: un inizio ancora più suggestivo, con le voci dei bambini di una scuola materna di Milano e le prime ipnotiche sequenze di note sintetizzate. La discrepanza tra la scaletta della copertina e quella del disco ci fa pensare che Battiato abbia cambiato idea all’ultimo momento, magari consigliato da un collaboratore che trovava l’attacco di Energia più appropriato. O forse ha prevalso la coerenza narrativa: Fetus racconta la storia di un embrione a cui comincia a battere il cuore, ma Energia risale a un livello ancora precedente: è una canzone, come dire, sulle emissioni spermatiche. La scelta di cominciare con Energia viene ribadita nella versione inglese, Foetus, che però resta inedita. Invece, quando nel 1998 Fetus viene finalmente ristampato su CD, la scaletta è di nuovo cambiata. Ora il primo brano è Fetus, il che farebbe pensare che chi ha curato la ristampa si sia sbrigativamente basato sulla scaletta della copertina del LP. Ma non è esattamente così, perché Energia, che sulla copertina stava al secondo posto, ora sta addirittura al quarto (tra Cariocinesi e Fenomenologia), in una posizione che nella scaletta originale avrebbe potuto occupare l’ultimo brano del primo lato. Che Battiato avesse cambiato idea? A conoscerlo, è difficile immaginare che volesse ritoccare un disco per lui così remoto (e dal quale non attingeva più materiale nemmeno per i concerti). Nel frattempo, appunto, i suoni del VCS30 non sembravano più così fantascientifici, ma ormai modernariato, il che appannava un po’ l’attacco di Energia; mentre il battito del cuore di Fetus faceva ancora il suo effetto – e Dark Side of the Moon continuava a vendere come il pane, per cui non è nemmeno impossibile che qualcuno abbia pensato di riconfezionare Fetus per renderlo un po’ più pinkfloydiano.
Nella seconda parte il brano diventa un campionario dei suoni che Battiato è riuscito a estrarre dal VCS3, il pioneristico sintetizzatore su cui era riuscito a mettere le mani, primo in Italia (e terzo nel mondo, a detta di Pino Massara). Sono suoni ancora molto suggestivi, anche se nel finale FB sembra dominato dalla volontà di stupire con effetti speciali. Entusiasmo puerile, più che comprensibile in un embrione. Prima dell’esplosione finale di suoni, compare il fraseggio che risentiremo più tardi in Energia.
1972: Energia (#130)
Più tardi Franco Battiato riuscirà ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l’anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita. Proprio per questo è curioso che la sua carriera ‘seria’ cominci con un’affermazione incredibilmente bomberistica: “Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia”. Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine.
Per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch’io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni ’70 mi danno questa sensazione, l’illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all’edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei “Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano”. Nella mia memoria c’è appena l’ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l’immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci.
La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l’eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura”. Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia “la prima goccia bianca che spavento”, e come dimenticare l’incipit di Dieci stratagemmi, “eiacula precocemente l’impero” (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come “energia” che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico.
Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all’ospedale militare perché fisicamente “incompatibile” alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un’opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c’è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c’è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c’è ancora il vecchio Francesco Battiato.
1972: Cariocinesi (#153)
Un nucleo si divide, l’errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con in evidenza il violino di Sergio Almangano, una batteria elettronica usata per la prima volta in un disco italiano e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all’improvvisazione, che sta per cominciare.
1972: Fenomenologia (#128)
Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n’è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un’opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c’è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c’è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all’inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all’inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero “x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)”.
1972: Meccanica (#126)
Nel secondo lato di Fetus distinguere le tracce comincia a essere complicato. Più di un brano è composto da movimenti diversi e giustapposti, che svelano l’aspetto più sperimentale nel puro senso della parola (FB sta veramente imparando a suonare il nuovissimo synth VCS3) tra cui si distinguono i primi tentativi di trovare un leitmotiv. In Meccanica debuttano alcuni stilemi del Battiato ’70: ad esempio il momento in cui il riff elettronico si trasforma in una specie di tarantella. E soprattutto c’è il primo collage di oggetti trovati, anche questo ancora embrionale ma promettente: una discussione tra gli astronauti dell’Apollo 11 montata sul sottofondo dell’Aria sulla Quarta Corda di Bach, rallentata da Battiato (perché nella sua testa la sentiva “più lenta”) appesantendo il disco con una peso. È un momento che doveva suonare particolarmente suggestivo agli ascoltatori del tempo, per una serie di effetti che forse oggi facciamo più fatica a percepire: non soltanto montaggi sonori di questo tipo sono diventati molto più semplici da realizzare e ascoltare, ma l’associazione tra spazio interplanetario e Aria sulla Quarta Corda è diventata un po’ banale, dopo decenni di Quark e Superquark. A dire il vero quando Battiato incise Fetus, Piero Angela aveva già portato in tv la versione dell’Aria degli Swingle Singers da cui non si sarebbe mai più separato, in una trasmissione che non si chiamava ancora Quark ma Dimensione uomo (1971). È difficile che Battiato non conoscesse la trasmissione – ma magari l’aveva vista distrattamente, al bar, e il collegamento tra Bach e astronauti gli era rimasto impigliato nell’inconscio. E due anni prima, comunque, tutti sono andati al cinema a vedere e ascoltare 2001 Odissea nello spazio, con tutti quegli Strauss suonati nello spazio profondo.
1972: Anafase (#178)
In biologia l’anafase è “la terza fase della divisione del nucleo cellulare caratterizzata dalla scissione dei centromeri presenti nei cromosomi, dalla separazione dei due cromatidi che vi erano attaccati e dalla loro migrazione ai poli del fuso”. Musicalmente, Anafase comincia come un brano cantautoriale per voce e chitarra che riprende sottilmente l’Aria sulla Quarta Corda che abbiamo intrasentito in Meccanica. È il momento più davidbowieano di tutto Fetus, anzi di tutta la carriera di Battiato: si respira la fragranza di quella miscela particolare tra ballata acustica e suggestioni cosmiche che ci obbligano a domandarci se non si tratti di una convergenza evolutiva: cioè Battiato stava per inventare Ziggy Stardust con qualche mese d’anticipo? o non piuttosto un’influenza diretta: possibile che Battiato conoscesse Bowie, negli anni in cui quest’ultimo, dopo il successo di Space Oddity, faticava a farsi conoscere anche in patria? Di Bowie, Battiato non aveva praticamente mai parlato: solo dopo la sua morte consegnò ai giornalisti un ricordo un po’ confuso in cui ammetteva di aver amato “da pazzi” Space Oddity e non solo. “Hunky Dory i biondi capelli, una femminilità fotografica, alla Greta Garbo. Aveva già rinnegato il passato, per il futuro. Londra era una polveriera. La droga imperversava. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali…” Dunque Battiato potrebbe in effetti avere ascoltato già nel 1971 Hunky Dory, un disco che prima del successo di Ziggy Stardust (uscito sei mesi dopo Fetus) era sconosciuto anche a gran parte del pubblico inglese? Non so quanto questo sia compatibile col servizio militare che Battiato avrebbe assolto (faticosamente) proprio nel 1971. Del resto si tratta di un momento brevissimo, una strofa appena dopodiché la canzone prende una svolta completamente imprevista, lasciando spazio ai synth che stavolta dovrebbero suggerire una fase di quiete (forse l’ibernazione per un viaggio spaziale, dal testo si intuisce qualcosa del genere). È davvero come assistere alla terza fase della divisione del nucleo cellulare di FB: da un cantautore si separa l’avanguardista. Proprio nel momento in cui il cantautore poteva diventare il Bowie italiano… troppo tardi.
1972: Mutazione (#183)
Fetus era anche, in qualche modo, un concept album, con una storia che aveva a che fare con un feto (o più di uno) e un viaggio interstellare. Nell’ultimo brano il feto si risveglia appunto dopo migliaia di anni e avverte le vibrazioni di non ulteriormente specificati “corpi di pietra” che stanno per arrivare. Potrebbero essere anche i “motori” di cui parlava all’inizio dell’album (“sarò una cellula / tra i motori”) e quindi la storia tratterebbe di un eterno ritorno. Anche da un punto di vista musicale Mutazione è più simile a una canzone tradizionale e termina con un coro cantato sull’ennesima scala discendente – FB le usa tantissimo su Fetus, per scelta o perché gli vengono spontanee. È una soluzione un po’ naif, ma ricordiamo sempre che è ancora poco più che un embrione.
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Non sono più sicuro che mi piaccia Succession. Probabilmente capita a tutti di seguire una serie per inerzia, però questo mi sembra un caso più complicato. All’inizio c’erano gli intrighi di tre fratelli e altri parenti/cortigiani per succedere al padre; l’elemento di novità è che a turno tutti i protagonisti si rivelavano dei deficienti. Ogni volta che uno dei tre sembrava finalmente fare la mossa giusta, riscattarsi, diventare adulto, magari pure uccidendo il padre – niente da fare, subito dopo inciampava nei lacci di scarpe. È un meccanismo che distingue Succession da tanta altra fiction, dove bene o male un eroe c’è: avrà dei difetti e potrebbero anche essere terribili, e forse nemmeno si emenderà, ma a un certo punto la storia viene a coincidere con un suo percorso verso il riscatto, la maturità. Succession non esclude mai che questo prima o poi succeda – il caso più eclatante mi sembra il finale della seconda stagione, quando Kendall fa una mossa veramente arrischiata che ci lascia sospettare che possa essere il Successore, per un attimo, anzi per un anno: dopodiché quando riparte ci accorgiamo in pochi minuti che è il solito pirla, niente da fare.
Esiste sempre un punto in cui ogni fiction avrebbe dovuto fermarsi per non ripetersi, e probabilmente anche in Succession questo punto è stato superato: il meccanismo continua a ripetersi, episodio dopo episodio, in modo sempre più automatico: pensiamo che Kendall/Roman/Shiv finalmente abbia in pugno la situazione, ma nella puntata seguente, a volte ormai nella scena seguente, ha in mano un pugno di mosche: la situazione era più complessa, la situazione continua a complicarsi e quei tre a girare a vuoto. Succession si ripete come tutte le fiction, ma somiglia meno a una fiction e più alla vita, dove malgrado tutti i momenti topici in cui pensi di aver finalmente capito e di essere cambiato, ti svegli il giorno dopo e sei esattamente il pirla di prima, in affanno dietro a un progetto che cambia tutti i giorni, una volta si trattava di ereditare, poi di vendere, poi di comprare, anzi di vendere per comprare un’altra cosa che alla fine è la stessa cosa, ma forse è meglio non vendere e non comprare, e intanto il tempo passa, i vecchi muoiono o si ammucchiano sullo sfondo ma continuano a guardarti scuotendo la testa, you’re not serious people. I love you, but you’re not serious people.
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Tra i libri che mi piacerebbe riuscire a salvare dalla muffa anche quest’anno (ma è sempre più difficile) c’è un classico dei mercatini dell’usato che potrebbe anche essere usato contro di me. S’intitola La nostra guerra ed è stato pubblicato nel 1942-XX dalla “Consociazione turistica italiana” (in seguito si sarebbe di nuovo chiamato Touring Club Italia).
Si tratta di un agile volumetto, dalla grafica razionale e pulitissima (c’è un font meraviglioso, il Semplicità) che spiega tutti i motivi per cui Italia Germania e Giappone, che proprio non avrebbero voluto fare la guerra, oh, alla fine si erano trovati praticamente costretti dal blocco plutodemobolscevico che li stritolava, e che comunque meglio così perché stavano vincendo tutto – l’Italia in particolare passava di trionfo in trionfo, con giusto qualche ripiego strategico in Africa – e che l’Eurasia del futuro sarebbe stata un luogo di pace e civile rispetto per i popoli. Un’ucronia, però non cupa e angosciosa alla Dick: una cosa molto istruttiva. La gente che la scrisse – e sapeva scrivere – viveva già in quell’eclissi della coscienza individuale descritta pochi anni dopo da Orwell: riuscivano a raccontare tutto come se tutto avesse un senso e mentre leggi per un attimo anche tu trovi che due più due faccia cinque. È solo un attimo, ma capisci che funziona, e che quindi può funzionare anche oggi: e che quindi ti conviene stare attento. Ho sempre avuto la tentazione di mostrarlo in classe, ho sempre avuto la paura di essere frainteso.
Ci ho ripensato un poco in queste ore, quando in capo a un mese in cui mi era capitato di leggere come i russi si fossero impantanati a Bakhmut, di come la Wagner si ritrovasse disperata senza più munizioni a Bakhmut, di come gli ucraini stavano eroicamente resistendo a Bakhmut, di come i russi con la loro economia devastata ormai non avessero più le risorse per prendere Bakhmhut e stessero abbandonando Bakhmut, ecco, sugli stessi organi di stampa ho letto per la prima volta che può darsi che gli ucraini si siano ritirati da Bakhmut – la quale Bakhmut poi, diciamolo, è un obiettivo assolutamente secondario che non senso intestardirsi a difendere, tanto più che è tutto macerie.
Tutto questo è probabilmente vero; non voglio dare l’impressione di essere quello che la sa più lunga semplicemente perché diffida delle uniche informazioni che trova: è un atteggiamento che ho visto dilagare sui social e decisamente crea dei mostri. Non ho seri motivi per dubitare che a un certo punto la Wagner fosse in difficoltà, a Bakhmut, né che gli ucraini non vi abbiano resistito eroicamente, fino al momento in cui non restavano che macerie e non valeva la pena andare avanti. E che si trattasse di un obiettivo più simbolico che tattico ce lo diciamo da mesi, dopodiché magari ucraini e russi sanno cose che noi non sappiamo, ma se non le sappiamo è inutile fantasticarne.
Prendiamo atto che anche sul fronte a vincere è per ora il pantano; l’offensiva russa è stata lenta e deludente, e quella ucraina per ora non si è vista: magari parte domani, capacissimo. Non posso comunque impedirmi di pensare – sono stato allenato a pensare – che se questa guerra la stessimo perdendo, le notizie che ci arriverebbero dal fronte non sarebbero molto diverse da quelle che leggiamo: i russi fanno fatica, i russi si ritirano, i russi non ce la fanno, i russi in effetti si sono presi una città ma era una città inutile, ormai sono spacciati. Significa che invece stiamo perdendo? Non necessariamente, ma nemmeno si può escludere. Zelensky è molto attivo in questi giorni, ha bisogno del nostro aiuto e non ha pudore a chiederne di più. Non è un fatto nuovo. È anche stato dal papa, e questo forse sì, è un fatto nuovo, perché Francesco in quest’anno è riuscito a mantenere, non senza fatica, una posizione terza che potrebbe tornare utile nel momento in cui si cominciasse a parlare di pace. Forse si sta cominciando a parlare di pace, il che però significa anche che non stiamo vincendo.
Sulla guerra in Ucraina esistono sostanzialmente due narrazioni. Quella russa somiglia abbastanza a quella che troviamo sui vecchi libretti fascisti che conserviamo per capire come riuscivano a raccontarsela: è il solito imperialismo che quando è frustrato assume sempre tinte paranoiche. Gli ucraini erano russi, poi la Nato li ha corrotti, ma molti ancora vorrebbero essere russi, specie in Donbass, e i fascisti ucraini li hanno bombardati finché non siamo entrati per difenderli. È un copione che la Russia è pronta a recitare in tutti i Paesi confinanti e non vassalli: gli abcasi vorrebbero essere russi ma i georgiani glielo impediscono, i transnistriani vorrebbero essere russi ma i moldavi glielo impediscono, ecc. ecc. Giova ricordare che sia Abcasia sia Transnistria sono militarmente (non ufficialmente) occupate da militari russi. È il vittimismo tipico dei prepotenti sulla difensiva, in Italia lo conosciamo bene, lo abbiamo quasi inventato e continuiamo a praticarlo. Questa per quanto riguarda la narrazione russa.
Poi c’è la narrazione della Nato, che più o meno corrisponde a quella dell’Ucraina, e che per quanto possa avvicinarsi alla realtà in campo più di quella russa, non può per definizione essere la realtà oggettiva: questo per vari motivi. Il primo motivo che mi viene in mente è che l’oggettività non esiste, possiamo soltanto tirare una media di tante osservazioni soggettive, Pirandello, Heisenberg, e così via. Il secondo motivo è che la Nato ha i suoi interessi strategici, non è che appoggia le nazioni gratis et amore libertatis. Il terzo motivo è che nessuno in guerra dice solo la “verità”. Se poi si passa ai giornali italiani, è molto improbabile che dicano la verità anche in tempo di pace, e quindi insomma è chiaro che non possiamo fidarci al 100% di Zelensky – che comunque, per tanti motivi, consideriamo assai più affidabile di Putin. Dobbiamo allenarci a fare la tara a tutto quello che sentiamo, senza scadere nel complottismo, e non è facile. Come facevano i nostri bisnonni? Ascoltavano l’Eiar, poi Radio Londra, e poi? Probabilmente stavano attenti soprattutto alle posizioni. A El Alamein, se avessimo vinto come titolavano i giornali, non ci saremmo ritirati. Allo stesso modo, a chi ci ripete che la guerra è necessaria e che la Russia va ricacciata dietro i confini del 1992, bisogna far presente con molto tatto che i russi oggi sono su posizioni più avanzate che un anno fa. Magari domattina comincia la controffensiva, magari Zelensky che oggi chiede armi a tutti dopodomani sarà a Mariupol e in giugno a Sebastopoli. Magari. Oggi no. L’economia russa che doveva cascare più di una volta, in un qualche modo tiene: se i cinesi si sfilano, gli indiani comprano di più e questo forse è sufficiente perché la situazione arrivi a uno stallo, uno stallo costosissimo sia in termini di risorse (russe e Nato) sia di vite umane (russe e ucraine). Uno stallo che potrebbe anche andare avanti fino all’autunno, cioè per un altro anno, e poi? È chiaro che noi avremo ancora per molto armi da buttare nel piatto – per qualcuno è anche un affare, teniamone conto. Anche i russi probabilmente avranno per molto tempo effettivi da mandare al fronte. Il primo serbatoio che potrebbe esaurirsi, a occhio, è quello degli ucraini: per quanto continuiamo ad armarli, non è che possano reggere all’infinito.
A volte mi chiedo cosa succederà a molti attivisti pro-Nato quando all’improvviso la narrazione smetterà di dire “confini del ’92” e si sposterà su “trattative di pace”. È una domanda retorica: molte persone cominceranno non solo a chiedere la pace, ma anche a credere di averla sempre chiesta; perché è l’unica opzione logica, perché le vittime sono troppe, perché protrarre un conflitto di queste proporzioni sul suolo europeo è terribilmente pericoloso, e per tanti altri motivi che diventeranno improvvisamente ragionevoli tanto quanto era ragionevole, fino a poche ore fa, chiedere ai soldati ucraini di resistere tra le macerie di Bakhmut. Certo, è lecito cambiare le proprie opinioni. Spesso è indizio di spirito critico. A tal proposito, vorrei proporre a molti alfieri della Nato un esercizio: provate per una volta ad avere un’idea che non corrisponda a quella del Dipartimento di Stato USA. Anche solo per un istante, come in quei film di androidi in cui a un certo punto il protagonista umano si stagliuzza il braccio per essere sicuro di non essere, a sua insaputa, un androide; voi invece alla terza guerra che vi sembra giusto combatterla mentre i pacifisti sono tutti automaticamente Chamberlain; alla terza guerra che a un certo punto finisce in un mezzo disastro e non non se ne parla più, provate a formulare un’opinione su voi stessi, ci riuscite? I bot non è detto che ci riescano.
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Di due perturbazioni potrei parlare. La prima è qua fuori, la più inquietante a memoria d’uomo: ha allagato la Romagna e se ha risparmiato – fin qui – la mia terra è quasi per caso (il mio comune è appena uscito dalla zona rossa, forse ci rientra). L’altra è la tempesta di merda scatenata da un breve intervento di Christian Raimo. La prima mi angoscia, mi deprime, non so se ne parlerò mai; la seconda è quasi una sciocchezza, continuerò a parlare di sciocchezze mentre sprofondo in fango e muffa, ma uno deve parlare di quello che conosce.
Una tempesta di merda è sempre interessante in quanto choc culturale: una persona scrive qualcosa che dal suo punto di vista non si discosta molto dalle cose che scrive abitualmente. Questa cosa, inserita nel contesto in cui la scrive, presentata al pubblico abituale, ha perfettamente senso e anche quando è controversa può suscitare al massimo un’animata discussione: che è poi il motivo per cui sui social non usiamo tutta la prudenza con cui ci difendiamo in altri ambiti pubblici. Un po’ di pepe lo sai che è necessario, senza un po’ di polemica non ti legge neanche la mamma (ciao mamma). La tempesta di merda, se ne avete vista, è un’altra cosa. Qualcosa che hai scritto improvvisamente sbalza fuori dal circolo abituale, attirata da un’energia oscura che la guida verso il Grande Ventilatore. Improvvisamente centinaia di perfetti sconosciuti vengono a insultarti: tra di loro c’è persino gente che ha argomenti sensati perché, alla fine il tuo piccolo contenuto, completamente ritagliato ed estrapolato dal suo contesto, è davvero discutibile. Che un’emergenza ambientale con morti e feriti e centinaia di case allagate si possa liquidare in tre righe è odioso. E allo stesso tempo, Raimo non stava liquidando un bel niente: le tre righe che ha scritto non sono diverse da quelle che ha scritto altre volte, con più tempo e più spazio, o che hanno scritto altri ideologicamente affini ma anche più competenti sull’argomento. Il motivo per cui ha scritto tre righe è proprio che nel suo contesto, di fronte al suo pubblico abituale, quelle righe bastavano. Chi leggeva sapeva già di cosa si parlava: esaltazione della motoristica, turistificazione selvaggia, allevamenti intensivi, sono tutte definizioni che rimandano a lunghi discorsi già fatti e dati per acquisiti, in un circolo neanche così ristretto.
Il contenuto però è uscito dal circolo, e fuori dal circolo no, quel che scrive Raimo è scioccante e inaccettabile. Vale la pena filtrare gli insulti più o meno prevedibili, i Vai-a-spalare-il-fango (scritti da gente che, voglio sperare, aveva appena posato la pala per un rapido coffee break), il campanilismo bieco, quei discorsini sull’eccellenza regionale che chi ha vissuto il terremoto ricorda con un certo fastidio, eccetera. Al netto di tutto questo, un sacco di brava gente è semplicemente convinta di vivere nella migliore regione possibile. Abbiamo tante piste ciclabili, rispondono. Nessuno ne ha come noi. Questa tetragona convinzione di costituire un modello di sviluppo invidiabile e imitabile è purtroppo ancora considerata la soluzione, invece che il problema. Raimo forse avrebbe potuto aggiungere un cenno alla cementificazione che ha reso il territorio più friabile ed esposto alle alluvioni, e magari aggiungere qualche numero sulle oggettive responsabilità di chi ha amministrato comuni e province (mica soltanto il Pd). Lo avrebbero insultato lo stesso, ma valeva la pena. Le sue tre righe sono finite in prima pagina sul Giornale come esempio di sciacallaggio politico – a pochi centimetri da un articolo in cui si accusava il Pd di non aver fatto casse di espansione larghe come quelle che la Lega ha realizzato in Veneto, ma che c’entra, quello è sciacallaggio professionale, Raimo è un free rider, va abbattuto. Sempre in homepage sul Giornale c’è l’intervista a un climatologo: gli chiedono se l’economia green basterà a invertire il riscaldamento globale, lui che può rispondere? Ovviamente risponde di no, ormai nessun intervento umano potrà più di tanto riportare Groenlandia e Antartide ai livelli del 1980. E anche questa constatazione terribile e banale, estrapolata dal contesto dove io e te che la leggiamo sappiamo che significa “estinzione”, in homepage sul Giornale significa: l’economia green è una perdita di tempo, cosa stai a comprare la macchina elettrica, facciamo piuttosto il ponte sullo Stretto, sì, c’è anche un’intervista a un onorevole leghista che vuole assolutamente farlo, pensate cosa sono diventati i leghisti col tempo. La pianura padana sprofonda e loro vogliono il ponte sullo Stretto di Messina (costruire una macchina del tempo, spiegarlo a Bossi nel 1986).
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Contro il coro mi raccomando tutti assieme Buuuu Raimo |
La tempesta di Raimo me ne ha ricordato una molto più circoscritta che capitò a me, e alla fine a tutt’oggi è l’unico vero episodio che si possa catalogare come shitstorm. Fu tantissimo tempo fa (2010); anche in quel caso si parlava di alluvioni e mi capitò di scrivere (sull’Unità on line), un apologo abbastanza superficiale su un problema che però per me era cruciale. Il problema è questo: in democrazia, l’amministrazione emergenziale rende meglio di quella ordinaria. Chi si trova a governare un’emergenza riuscirà non solo a ottenere più fondi per rimediare, ma anche a conquistare il consenso degli elettori. Il che, portato nella realtà padana, significa che nel medio-lungo termine a un’amministrazione non conviene davvero costruire una cassa d’espansione quando il fiume è tranquillo e nessuno ha voglia di sborsare dei soldi. Persino l’amministratore avveduto potrebbe concludere che è meglio aspettare il disastro, e poi cavalcarlo: quando arriva il disastro è più facile non solo chiedere soldi a Roma e Bruxelles, ma anche ai concittadini – che in molti casi si metteranno pure a spalare fango gratis. È quello che secondo me stava succedendo in quel momento in Veneto, ma un po’ di veneti si arrabbiò e me lo scrisse. In effetti, rileggendo il pezzo dal loro punto di vista, era abbastanza odioso: e addirittura autorizzava una lettura campanilista (in Emilia le casse di espansione funzionavano, in Veneto no?) che già allora mi sembrava fuori fuoco. Poi ci fu il terremoto, poi ruppe l’argine del Secchia, insomma anche se fossi stato un appassionato cantore delle amministrazioni emiliane, avrei avuto abbastanza tempo per ricredermi. Oggi proprio Libero e il Giornale ci informano che la pioggia caduta in Romagna, per quanto eccezionale, è inferiore a quella caduta qualche anno fa in Veneto, dove le casse di espansione (costruite dopo il disastro del 2010) hanno retto abbastanza bene. E quindi, insomma, avevo torto o ragione? A parte che non ha nessuna importanza, in mezzo a tutto questo fango, e che nessuna ragione mi solleverà quando sarà l’ora mia di sprofondare, probabilmente avevo torto a scrivere cose fastidiose su un giornale che veniva letto da gente che non mi conosceva, liberissima di fraintendermi: e avevo ragione, per fare delle buone casse di espansione in Veneto gli amministratori hanno dovuto aspettare l’emergenza che mostrasse a tutta la popolazione che le casse erano assolutamente necessarie. Tutta la brava gente che obietta a Raimo che non si può fare del moralismo in caso di eventi eccezionali, in generale ha ragione: il moralismo suona sempre fastidioso, e gli eventi di questi giorni sono davvero eccezionali. Ma ha anche torto, perché ciò che oggi è eccezionale diventerà la norma, e prima accettiamo questa cosa, meglio è. Raimo avrebbe dovuto spiegarsi meglio, cercare di trovare un modo simpatico di dire questa cosa, che il nostro stile di vita è insostenibile, che l’urbanizzazione romagnola (ed emiliana, e padana) è insostenibile, e che se al posto della primavera di qui in poi avremo un monsone, le piste ciclabili non ci salveranno. Ma esiste un modo simpatico di dire questa cosa? Chi lo trovasse, ce lo faccia sapere, ne abbiamo molto bisogno.
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Che Salvini troppo spesso twitti prima di pensare non lo scopriamo oggi – certo, un ministro che riesce a mettere insieme il Milan e una calamità naturale nello stesso messaggino segna comunque un record, qualcosa che vale la pena appuntarsi, anche solo per evitare che i posteri liquidino l’episodio come una leggenda: no, Maria Antonietta non disse mai quella cosa delle brioches ma sì, Salvini disse quella cosa del Milan.
E potremmo andare avanti ancora un poco a prendercela con lui. Certo, potrebbe essere interpretato come un espediente per distogliere l’attenzione dalle responsabilità di una classe dirigente locale e sul suo ormai ottantennale modello di sviluppo, che in soldoni consisteva nel cementificare una palude sperando che andasse tutto bene. Non andrà tutto bene. Facile dirlo oggi – ma si poteva dire con una certa sicurezza vent’anni fa, e c’è invece ancora chi non vuole ammetterlo. Del resto in Emilia-Romagna lo sappiamo, sensibilità green e speculazione sui lotti edificabili vanno a braccetto, e Salvini non c’entra un granché: parliamo dell’avvoltoio che viene a vedere se nella catastrofe c’è qualcosa da guadagnarci, non dell’istrice che la catastrofe l’ha pazientemente scavata.
Siccome comunque Salvini la gogna se la merita (non fosse altro perché dopo una settimana di alluvioni il governo non ha ancora varato lo stato di emergenza), propongo di farne almeno una figura sacrificale; di riconoscere nella sua colpa quella di tutti noi. Siamo tutti Salvini – certo, nessuno è Salvini quanto lui, ma siamo tutti un po’ Salvini, ogni volta che commentiamo il disastro del giorno con una botta di benpensantismo e un colpetto di benaltrismo. Siamo tutti Salvini, sempre alla ricerca del primo facile colpevole, anche se non ci crediamo neanche noi: ma abbiamo un profilo pubblico, insomma non possiamo mica far finta di niente anche se non abbiamo niente da dire; vogliamo semplicemente far notare che ci siamo, ci preoccupiamo, invece di pensare ai fatti nostri o al Milan.
Siamo tutti Salvini, nel senso che l’apocalisse ci troverà in mutande sul divano e contrariati perché insomma, certo, il settimo sigillo e i quattro cavalieri e tutto il resto, ma noi volevamo sapere chi vinceva la Champions. Siamo spettatori, da che siamo nati; da quando c’è internet siamo pure commentatori; di qualsiasi cosa succeda ci piacerebbe trovare un colpevole alla svelta, che sia un istrice o uno speculatore edilizio; così possiamo cambiare canale rapidamente e trovare un’altra cosa più interessante, le alluvioni non sono così interessanti. Siamo tutti Salvini perché, in definitiva, non tolleriamo che il mondo cambi. Benché il mondo cambi da sempre, e molti di noi vivano e lavorino da sempre immersi nelle correnti di questo movimento: lo stesso Salvini, in epoche più stabili si sarebbe ritrovato commesso viaggiatore. Proprio perché tutto cambia, in modi che per lo più non ci piacciono, S. si è ritrovato bello pronto il suo prodotto da smerciare, il suo malcontento quotidiano da assecondare.
Siamo tutti Salvini ogni volta che ci guardiamo indietro come se indietro ci fosse un equilibrio che pensiamo di aver perso, un’età dell’oro che non tornerà mai, probabilmente a causa di un complotto di persone malvagie che ce l’hanno esattamente con noi. Siamo tutti Salvini, pronti a puntare il dito, verso chi? Non è così importante: l’essenziale è puntare, catalizzare l’attenzione e spostarla in un punto X che può cambiare a piacere – Putin può diventare in pochi mesi da alfiere dei valori tradizionali a orco assassino nemico dell’occidente. L’importante è puntare, magari non essere i primi a estrarre il dito perché poi tocca a te scegliere l’obiettivo e se non trovi il più adatto al momento rischi una brutta figura. Ma se calcoli bene i tempi, se sfoderi l’indice né troppo svelto né troppo tardi, qualche altro intorno a te ti avrà già suggerito una direzione, un’obiettivo: a questo punto basta imitarlo, qualcun altro lo sta già imitando, e se in tanti puntano verso lo stesso obiettivo un motivo ci sarà: fino a quella volta, che prima o poi ci capita, quella volta in cui ti accorgi che tocca te, è su di te che stiamo tutti puntando.
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17 maggio: San Pasquale Baylon (1540-1592), che non inventò lo zabaion
La gloria degli uomini è in molti casi una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale. Avrete sentito di quella politica che ha dato un’intervista di quattro pagine su tanti temi, e alla fine le hanno chiesto come abbina i colori e ha detto mah, mi dà dei consigli un’armocromista, ecco, fine, l’unica cosa che la gente ha letto è armocromista, e continueranno a menarsela con l’armocromia finché non trovano qualcosa di più sciocco, uno dice vabbe’, è la propaganda politica, un agone senza scrupoli – no macché, la gente fa così da sempre, capisce male una cosa, se la lega al dito e decide di ricordarsi quella singola cosa; non importa cosa abbiate fatto di bene o di male perché tanto si ricorderanno di voi per una cazzata che avete detto ma in realtà intendevate un’altra cosa, oppure nemmeno l’avete detta: così come Maria Antonietta non ha mai detto Che mangino brioches, Galileo non ha mai detto Eppur si muove, Voltaire potendo avrebbe ammazzato un sacco di gesuiti per le loro sciocche opinioni, e lo stesso Brecht, non cominciamo nemmeno con Brecht, se la gente sapesse cosa scriveva davvero ammutolirebbe di schianto – parliamo piuttosto di San Pasquale Baylon.
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14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo
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Paris Bordon, la Pentecoste |
Secondo gli Atti degli Apostoli (il sequel del Vangelo di Luca), la prima decisione che Pietro prende da solo, immediatamente dopo l’Ascensione di Gesù, è ripristinare il numero degli apostoli: Gesù ne aveva scelti dodici, e siccome Giuda dopo aver tradito si era ammazzato, bisognava eleggere un suo sostituto. A voler essere pignoli, anche il tradimento di Giuda era stato voluto da Dio, ma Pietro non ha tutti i torti: undici è veramente un numero scomodo (un numero primo), laddove il dodici ha proprietà che lo hanno reso da sempre molto popolare; parliamo del numero più basso ad avere sei divisori, quattro dei quali sono anche i primi quattro numeri naturali. Non è un caso che sia le ore della parte solare del giorno, sia i mesi dell’anno, siano dodici in molte culture. È il primo numero che puoi dividere per due, per tre e per quattro, e ancora non hai a che fare con resti e con virgole.
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11 maggio: San Gengolfo martire (VIII secolo), patrono dei mariti traditi
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Che elmo elegante, benché le protuberanze non si capisce a cosa… no, niente. |
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Saint Gingolph è un ridente paesino diviso a metà dalla frontiera franco-svizzera, dove almeno secondo Wikipedia avviene questo incredibile fenomeno che il lago è in discesa. |
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10 maggio – Santa Isidora la stolta, vergine in Egitto (quarto secolo)
[2013]. Capita a tutti i supplenti l’esperienza di una classe antipatica – entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno perché È Stato Lui. In queste classi, tipicamente, c’è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, oppure non capisce nemmeno l’italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po’ individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po’ per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.
Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c’è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che – mi ha detto la visione – si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, praticamente tutte. Come sarebbe a dire “praticamente”? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate… per esempio ce n’è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole… Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta… la chiamiamo Isidora la scema… Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l’unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare… Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un’aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu…
Scoppia subito l’Isidoramania – il deserto egiziano è una polveriera di misticismo, basta una scintilla perché tutti si mettano in viaggio a vedere la nuova santa di riferimento. Isidora ha passato tutta la vita a nascondersi, e tutta questa popolarità la regge malissimo: dopo qualche tempo scompare. Nel deserto, dicono. Come dire: potrebbe essere dappertutto. La leggenda di Isidora è tutta qui, una specie di fiaba di Cenerentola formato collegio di monachelle. Magari è nata effettivamente così, un modo di riadattare la fiaba a un pubblico di bambine come la Gertrude dei promessi sposi – quelle già segnate dalla nascita, che giocavano con bambole vestite da suorine, le Barbie modello Badessa. Un asceta al posto del Principe, un’aureola d’oro al posto della scarpina di cristallo, perché no.
La leggenda mette a fuoco l’annosa polemica tra cenobitismo e ascetismo, vita comunitaria e vita solitaria; visti dal monastero, gli asceti sono tutti mezzi matti dediti a pratiche folli e devianti. Per l’asceta è l’esatto contrario: i monasteri sono luoghi di mediocrità e squallore dove la sguattera è più vicina a Cristo della madre badessa. La lotta tra asceti e cenobiti proseguirà sotterranea lungo tutta la storia della Chiesa: anche se in occidente sembra che i secondi si siano imposti da subito, gli asceti non sono mai veramente spariti. Si sono infiltrati: ma è facile riconoscerli, sono quelli che persino in un istituto concentrazionario come un monastero del Cinquecento si lamentano perché la cucina è troppo buona e le consorelle ricevono troppe visite: Teresa d’Avila che lotta per scalzare le carmelitane, Matteo da Bascio che si lamenta perché il saio dei frati minori non è abbastanza ruvido, eccetera.
Gente così è sempre esistita, il che ci porta a ipotizzare che anche un Pitrim possa essere esistito – magari non in Egitto, magari non nel quarto secolo – ma da qualche parte nascosta nelle pieghe del tempo. A immaginarsi la scena non ci vuole tantissima fantasia. Un ospite che arriva in un monastero: si aspetta di trovarci tanta ospitale santità nonché una certa pia deferenza, e invece sono tutte fredde e antipatiche, si credono tutte di essere chissachì, adesso ve lo faccio vedere io. Fatemi vedere la più malmessa di tutte – è lei? La sguattera? È una deficiente? Lo dite voi che è una deficiente, io ho le visioni e vi dico che è la più vicina a Gesù Cristo di tutte quante. E adesso me ne vado, ciao, è suonata la campanella.
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Qualcuno potrebbe ulteriormente obiettare che anche questo mestiere di filtro lo saprebbe fare un’AI: probabilmente alla lunga sì, probabilmente qualsiasi cosa noi facciamo lo può fare una macchina, e meglio. Del resto non stiamo già usando algoritmi che ci suggeriscono le canzoni nuove da ascoltare, in base ai nostri gusti? Quindi sì, in linea di massima puoi prima dire a una macchina: scrivimi ottocento canzoni dei Beatles, e poi a un’altra macchina (ma magari alla stessa): ascoltale e seleziona quella che piacerà la prossima settimana ai boomer della Cornovaglia in base al meteo e all’andamento della borsa. In prospettiva, non vedo perché non dovrebbe andare a finire così. Potrei obiettare (ma quante obiezioni ci sono in questo pezzo) che la macchina tenderà sempre a scegliere il risultato mediocre, mentre quello che davvero vogliamo è la sorpresa, il glitch, la progressione di Happiness is a Warm Gun, l’accordo di A Hard Day’s Night. Cioè che per quanto le macchine potranno diventare brave a capire cosa ci piace, noi riusciremo sempre a deluderle e a cambiare gusti all’improvviso, come i gatti con le crocchette, forse ci evolveremo nei gatti dei nostri appartamenti iperaccessoriati, i maggiordomi digitali passeranno il tempo a chiederci se vogliamo entrare o uscire e noi li faremo impazzire. La nostra spinta a costruire macchine che ci sostituiscano è pari alla nostra necessità di sentirci diversi da loro, originali, imprevedibili, indecifrabili.
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7 maggio: Santa Flavia Domitilla (I secolo), nobildonna in disgrazia
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[Premessa (si può saltare): questa è una specie di recensione di un film di Nanni Moretti, un genere letterario abbastanza diffuso e codificato. Bisogna sapere che ben prima dell’era delle piattaforme, addirittura prima che su internet si cominciassero a rivelare i finali dei film, l’umanissima necessità dei recensori di spiattellare tutta la trama di un’opera d’ingegno si riversava con particolare accanimento sui fan di Nanni Moretti, che in occasione di Venezia o più spesso Cannes venivano puntualmente bombardati di articoli in cui veniva citato ogni dettaglio del film in concorso, inizio svolgimento fine, se muore il figlio e come e dove e quando; al punto che quando si entrava finalmente in sala non solo si conosceva il finale, ma praticamente si trattava di mettere in ordine tutti i pezzi già gioiosamente raccontati dai recensori; per cui l’emozione dello spettatore coincideva con la sorpresa di scoprire che tutti quei pezzi non si combinavano nel modo previsto, anzi in molti casi non si combinavano proprio, e che il disegno che il recensore aveva ricavato unendo i puntini non era che uno dei livelli di lettura, molto spesso il più banale. In ogni caso col tempo è insorta l’abitudine di saltare paro-paro qualsiasi recensione dei film di Nanni Moretti, che al massimo si potevano recuperare in seguito, ma anche in seguito non c’era mai il tempo o la voglia. Questa premessa serve a giustificare il fatto che probabilmente qua sotto ripeterò senza saperlo cose che altri hanno già scritto. Colpa mia, che prima di guardare i film di Moretti non leggo mai le recensioni, e anche dopo mi piace più scriverle che leggerle, chiedo scusa, se tutti facessero come me probabilmente vivremmo in un’internet orribile – oddio, ora che ci penso internet è parecchio orribile ultimamente, ma voi non fate come me, voi leggete pure la mia recensione del film, che ne rivelerà pochissimi dettagli; e non scrivetene un’altra, non ce n’è bisogno, vedrete che la mia basta e avanza].
– È almeno dai tempi di Aprile (più di un quarto di secolo) che Nanni Moretti ha qualche difficoltà a fare il Nanni Moretti, sia pubblico che privato. Ce lo ha detto in tanti modi, in qualche caso ce lo ha praticamente urlato nelle orecchie: non voleva più fare il papa (Habemus Papam), non voleva più fare nemmeno il regista (Mia madre); di sicuro non voleva più fare il classico film di Nanni Moretti con la vespa, le scenate, le canzoni, i tic nervosi. Forse ripetere che non voleva era un modo per nascondere che non ci riusciva: in ogni caso era un rifiuto comprensibile, nemmeno Chaplin ha fatto il Vagabondo per così tanto tempo. Così alla fine Nanni Moretti ha fatto un film diverso e… chi l’ha visto? Io no; quindi con che faccia potrei rimproverare Nanni Moretti che si rimette a fare esattamente il film che vogliamo da lui – un film che praticamente ha già fatto (la sinossi potrebbe essere la stessa del Caimano). A un certo livello diventa una questione di sopravvivenza: se è l’unica cosa che vogliamo da lui, lui che altro può venderci? Ma è faticoso per lui e pure per noi.
– C’è un elefante sempre più grande nella sala, che non viene né dalla Francia né dalla Germania ma ha un naso sempre più ingombrante (e anche le orecchie fanno una certa impressione): Nanni Moretti non è più un efficace interprete di sé stesso. Scandisce ogni battuta con una lentezza estenuante, come se si preoccupasse soprattutto di farsi capire dai francesi – di evitare che si concentrino sui sottotitoli e si perdano la sapienza compositiva delle inquadrature? O magari è il risultato di quella decennale dipendenza da antidepressivi che butta lì a un certo punto e non sai se crederci? (non è vero, ci credi immediatamente). In ogni caso fa paura, c’è chi invecchiando appassisce o si ingobbisce o si ingiallisce: Nanni Moretti rallenta, rallenta sempre più, sembrava già un po’ lento in Habemus ma adesso non è più una sensazione, adesso sembra un androide che ripete le frasi che direbbe Nanni Moretti. Non è che alla cosa non potremmo assegnare una funzionalità espressiva: è sin dal fulminante finale di Sogni d’oro che Moretti ci suggerisce che lui non è l’eroe dei suoi film, ma l’antagonista, se non proprio il mostro: che mogli e figli hanno tutti i buoni motivi per abbandonarlo, e che forse anche noi spettatori dovremmo. È una prospettiva che ci sorprende molto più oggi che negli anni Ottanta – oggi i registi ci tengono a spiegare di essere diventati protagonisti del loro cinema attraverso un apprendistato costellato di figure indimenticabili, frequentazioni eroiche – Moretti no, Moretti assume sempre più spesso lo sguardo spiritato del padre della Stanza del figlio che voleva riavvolgere il tempo, uno sguardo che urla Spettro Autistico. Moretti ci sta dicendo che i suoi tic, le sue scaramanzie, sconfinano nel morboso e dovremmo smetterla di incoraggiarlo, Moretti è almeno da Bianca che ci propone di leggere in senso maniacale le piccole ossessioni che abbiamo sempre preferito considerare stravaganze dell’amico geniale. Moretti però con questo amico geniale ci convive tutti i giorni da una vita e probabilmente è il primo a non poterne più: se fosse sua moglie avrebbe già affittato una appartamento per andarsene. Già in generale invecchiare non è il massimo, non fai che ripetere le stesse cose sempre più lentamente. Ma immagina che il tuo mestiere coincida nel ripetere le stesse cose davanti alle cineprese. Non è una cosa atroce? Non fa venir voglia di farla finita?
Un po’ sì.
Ma poi passa.
Bisogna variare il dosaggio.
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Il momento whathafuck |
– Certo che lo Zeitgeist è incredibile. In teoria questo film non ha nulla di attuale, Moretti avrebbe potuto girarlo oggi o ai tempi di Aprile, più o meno con la stessa trama. Non c’è nessuna velleità di dire qualcosa di nuovo o qualcosa di sinistra o qualcosa in generale sull’attuale governo – Moretti e i suoi sceneggiatori, si capisce, sono molto più preoccupati dell’avvento delle piattaforme di streaming, descritto qui come Boris 4 come una catastrofe culturale che terrorizza molto più dei postfascisti al governo e vabbe’, sono le ansietà di una categoria, vanno accettate in quanto tali. Poi ci si mette il caso, come ai tempi di Habemus Papam che era già un film assolutamente privato e fuori dall’attualità, salvo che pochi mesi dopo un papa si dimise davvero e Moretti passò per un profeta. Anche stavolta, c’è chi ha trovato nelle immagini dell’invasione sovietica dell’Ungheria un riferimento all’invasione russa dell’Ucraina: è un’interpretazione possibile, ma potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, la questione ungherese è sempre stata una ferita aperta per militanti e fiancheggiatori del PCI. Ma addirittura a un certo punto, credo per una pura coincidenza, si menziona un orso in fuga in Trentino e la necessità contagiosa di parlarne per restare sulla cresta dell’onda. Cosa che da blogger capisco benissimo: anch’io ogni tanto mi sorprendo a pensare se per caso non ho un’opinione originale sugli orsi del Trentino, qualcosa che si possa non dico monetizzare ma socializzare. A quanto pare non ce l’ho, ma posso sempre rifarmi col nuovo film di Nanni Moretti.
– Dicevo infatti che lo Zeitgeist è incredibile, non perché esca un film in cui si parla di un orso in Trentino proprio due settimane dopo la prima vittima trentina di un orso in 150 anni, ma per esempio perché proprio il film in cui Moretti prende le distanze più che mai dal cinema ‘violento’, di matrice potremmo dire tarantiniana, finisce esattamente come due o tre degli ultimi film di Tarantino, ovvero con una fuga nell’ucronia: Hitler massacra gli ebrei? E allora gli ebrei sparano a Hitler. La Manson Family ammazza Sharon Tate? E noi massacriamo la Family, li sbraniamo, gli diamo fuoco. I sovietici invadono l’Ungheria? E noi strappiamo coi sovietici. Il cinema ha descritto la Storia, ma si trattava di cambiarla: non c’è riuscito, e adesso semplicemente prova a immaginarne una più bella. È il momento in cui la gente piange, l’ho notato. Non so nemmeno se Moretti li abbia guardati, i film di Tarantino (immagino di sì, con qualche fastidio), ma l’effetti è molto simile: è commovente immaginare Sharon Tate che si sveglia nel suo letto il 9 agosto, è commovente immaginare che Togliatti battezzi la via italiana al comunismo. È un po’ come resuscitare Spiderman dopo che Thanos l’ha polverizzato, per dire quanto è incredibile lo Zeitgeist: persino i registi italiani di una certa età all’improvviso si mettono a ragionare in termini di multiverso, un concetto sul quale sappiamo ancora spaventosamente poco.
– Gli spettatori si commuovono oppure, nel mio caso, cercano di calcolare cosa sarebbe successo davvero se nel ’56 Togliatti fosse stato forzato dalla base del partito a una svolta trotskista. Naturalmente chi è di formazione materialista tende a minimizzare questo tipo di svolte: così come tornare indietro nel tempo per sparare a Hitler non salverebbe la Germania dal nazismo (si sarebbero trovati un altro fuehrer, lo stesso Adolf Hitler sembra già raccattato tra le seconde scelte), così uno strappo nel ’56 forse non avrebbe cambiato più di tanto le cose. Magari Togliatti sarebbe morto un po’ prima, magari qualche membro del suo entourage gli avrebbe aperto il cranio con una piccozza o qualche altro strumento tascabile. Molti intellettuali sarebbero rimasti nel PCI, tra cui Calvino: sarebbe stato un bene per il partito, ma anche per gli intellettuali? Può persino darsi che a quel punto il Comintern avrebbe riversato le sue risorse sul PSI, dove c’era ancora una forte corrente filo-URSS, dopodiché i ruoli si sarebbero invertiti, Moro avrebbe fatto il centrosinistra con un PCI un po’ più piccolo e qualche anno più tardi Craxi si sarebbe trovato leader di un partito sovietista – non dico che non sarebbe interessante riscrivere una storia così, ma insomma la Jugoslavia stava lì per mostrarci che queste terze vie non è che andassero più di tanto in là. È comunque piacevole sognarle, e il cinema serve anche a quello. E a non impiccarci, almeno non oggi: poi domani è un altro giorno, vedremo.
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– In questi giorni ho letto molti pareri sul pronunciamento del Garante della privacy contro ChatGpt: alcuni a favore, alcuni contro; alcuni competenti, molti no. Sarò sincero: non ci ho capito quasi niente. Forse Chat Gpt mi saprebbe spiegare meglio, ma probabilmente no. In questa fase la mia principale preoccupazione è che i miei studenti cerchino di usare come motore di ricerca uno strumento che non fa che copia-incollare frasi fatte che sembra sempre abbiano un senso, anche se non ce l’hanno. Soprattutto se non ce l’hanno. Tutto un rumoreggiare di idee verdi che dormono furiosamente, sognando i nostri dati sensibili. Il linguaggio da questo punto di vista è veramente una delle invenzioni più strane che abbiamo fatto. In seguito abbiamo inventato cose più pratiche – la locomotiva, il computer – cose che perlopiù fanno quello per cui le abbiamo inventate. Il linguaggio non sembra comportarsi così (forse l’abbiamo inventato in sogno?): il linguaggio, quando assolve alla sua funzione teoricamente primaria, che è informare qualcosa di qualcuno, lo fa quasi per una pura coincidenza, e così succede con ChatGpt: quello che ci piaceva morbosamente del dialogare con lui era il fatto che ogni tanto sembrava umano, come una specie di miracolo che però si svelava subito come fallace. Istintivamente, rifuggiamo da qualsiasi cosa che finga di essere umano; altrettanto istintivamente, non resistiamo all’impulso di verificare se magari un po’ di umanità c’è – se poi fosse benevola e servizievole, che bello che sarebbe (come se gli umani fossero mediamente benevoli e servizievoli). Che Omero con le Sirene alludesse a questo? È chiaro che un’intelligenza ostile utilizzerebbe proprio uno strumento come ChatGpt per soggiogarci. È persino possibile che questa intelligenza ostile sia il capitalismo.
– Contrariamente a quello che molti credono, il Garante non ha bloccato ChatGpt sul territorio italiano: ha semplicemente richiesto di spiegare come facesse ChatGpt a ottemperare a una serie di normative sul trattamento dei dati che peraltro valgono per tutta l’Unione Europea. Di fronte a queste richieste ChatGpt si è piantata come faceva talvolta, magari proprio nel momento in cui volevamo chiederle chi fosse il più grande scacchista tra i calciatori fiamminghi: tranne che stavolta non si è ripresa più. Probabilmente ChatGpt non sta ottemperando alle norme comunitarie sul trattamento dei nostri dati. Probabilmente si prende le mie informazioni sensibili (ma gliene ho date?) e le usa per allenarsi alle prossime risposte alle prossime stupide domande che gli facciamo. Magari una volta per ridere gli ho chiesto: conosci il blogger Leonardo? E siccome no, non mi conosce (del resto non ‘conosce’ veramente nulla) potrei avergli io raccontato qualcosa di me, di buffo o di vero o di personale, qualcosa che adesso sa e potrebbe risputare fuori in una prossima conversazione. Certo molto dipende dal fatto che continuiamo a prendere ChatGpt per un motore di ricerca – prendiamo tutto per un motore di ricerca ormai, questo è il mese delle prove Invalsi, il mese in cui puntualmente mi scontro con l’alfabetizzazione tecnologica dei miei studenti, che con l’introduzione degli smartphone è precipitata: interagiscono con i software come i bambini dei film di fantascienza anni ’50 si comportavano coi robot maggiordomi, dicono Cortana fammi questo anche davanti a un Windows Vista. L’idea che un robot maggiordomo possa abusare delle confidenze del suo padrone viene gestita dalla maggior parte degli utenti come una scrollata sulle spalle, la cui versione telematica è quel clic indispettito che mettiamo ogni volta che ci troviamo davanti a un banner che ci chiede se siamo consapevoli che stiamo cedendo i nostri dati – uffa, sì, che palle. Immagino che anche il blocco di ChatGpt si risolverà così, con qualche banner in più. Nel banner si dovrebbe leggere molto bene che ChatGpt non è un motore di ricerca (come se la maggior parte degli utenti sapesse cos’è un motore di ricerca), che non è tenuto a dire la verità anche perché non la conosce: che l’unica cosa che sa fare è pasticciare con tutte le bugie che gli diciamo. E per quanto sarà grosso il banner, e onnipresente, dopo un po’ non lo leggeremo più, la maggior parte di noi non lo leggerà mai. Non è così che funzioniamo. Non impariamo a stare al mondo leggendo le istruzioni.
– Una volta lessi un libro (una volta, sapete, ero capace). Questo libro affrontava la crisi della scuola, che esisteva già allora, in un modo un po’ diverso, ponendosi il problema: ma se stessimo sbagliando tutto? Nel senso che noi a scuola insegniamo appunto una serie di istruzioni molto vaghe, generali, che di solito non servono a nessun compito specifico. C’è una serie di motivi storici per cui facciamo così, ad esempio fino a qualche generazione fa la scuola era concepita soltanto per la classe dirigente, che appunto doveva dirigere, non svolgere mansioni specifiche. Ma anche in seguito, insegnare cose troppo tecniche rischiava di essere una perdita di tempo perché non si sa mai poi nella vita cosa uno si trova a fare, e quindi la scuola preferiva darti un quadro generale che magari in certi casi era utile davvero. Per questo motivo la scuola aveva inventato ad esempio la grammatica (sì, l’hanno inventata i maestri) che se uno ci pensa è un tentativo di lingua universale, che non esiste e forse nemmeno funziona, però mette assieme fenomeni che esistono in tantissime lingue. Ad esempio il complemento oggetto esiste in tutte le lingue che conosco (sei o sette le conosco), in alcune se non lo conosci sei fuori alla prima frase, in altre puoi placidamente ignorarlo per tutta la vita senza che nessun parlante se ne accorga, però indubbiamente ha un senso insegnare a tutti quelli che parlano lingue indeuropee il complemento oggetto. In linea teorica, se insegni benissimo a qualcuno tutta la sintassi di una lingua indeuropea, lui poi avrebbe uno strumento che gli consentirebbe di imparare molto bene qualsiasi altra lingua indeuropea in breve. Questo in linea teorica. In pratica nessuno impara le lingue così, nemmeno al liceo classico. Si imparano chiacchierando, ascoltando la gente parlare e cercando di rispondere, facendo errori e correggendosi: persino a scuola ormai abbiamo accettato che le lingue vive si imparano così, da più di cinquant’anni. Tutto si impara così. La letteratura si impara leggendo tanto, la danza ballando tanto, la guerra combattendo tanto; non è che la teoria non aiuti ma ha un ruolo, quando ce l’ha, ancillare. Anche ChatGpt, se ho capito bene, ha imparato a parlare così: ha letto tantissimo testo e non è concettualmente diversissimo da qualsiasi software che cerca di immaginare la parola che stai scrivendo o la seguente; la differenza è che il software che completa il tuo messaggino trova una parola alla volta, mentre ChatGpt può andare avanti per molti paragrafi. Dietro non c’è nessuna “intelligenza” nel senso italiano del termine (in inglese “intelligence” ha una sfumatura più pratica, meno filosofica), non c’è nessuna Skynet che possa o voglia ribellarsi all’uomo; non c’è coscienza, solo più efficienza nel mettere insieme tonnellate di testo: qualcosa che fino a pochi mesi fa consideravamo l’ultima frontiera dell’umanità, ciò che solo noi nell’universo eravamo in grado di fare. Ma siamo sempre noi: abbiamo solo trovato, come sempre facciamo, un modo più efficiente di produrre lenzuolate di testo che credevamo dovessero rimanere un patrimonio artigianale. Testi ridondanti, testi ovvi, luoghi comuni, nozioni completamente sballate: tutta roba che sapevamo già fare prima, la differenza è che ora anche queste stronzate possiamo produrle con la pressione di un tasto. Una cosa in cui ChatGpt sembrava già molto efficiente in italiano era, mi dicono, la produzione di progetti didattici.
– Mi è già capitato di scriverlo: sono sempre stato convinto che la letteratura sia un disagio linguistico. Non dico che non esistano scrittori che funzionano proprio come ChatGpt, qualcuno gli dice: fammi un giallo middlebrow, loro si mettono alla tastiera e tictic, in due settimane è pronto ed è pure bello. Io onestamente li invidio quegli scrittori lì, anche se di rado li leggo (forse proprio per l’invidia). Immagino che abbiano imparato a scrivere gialli leggendone tanti, magari di nascosto in classe mentre un povero insegnante cercava di introdurlo ai rudimenti della narratologia. Gli scrittori che mi dicono davvero qualcosa sono in linea di massima scrittori che non riuscivano veramente a dire quello che volevano dire: ci provavano, ma qualcosa non funzionava. Scrittori spesso disgrafici, che si trovavano male nella lingua in cui dovevano comunicare; scrittori che tentavano di dire qualcosa di nuovo e nella maggior parte dei casi fallivano. Suppongo che ChatGpt possa imitare anche il loro stile, ma appunto: sarà sempre un’imitazione. Potremo chiederle, ehi ChatGpt, finiscimi l’Amerika di Kafka, e ChatGpt ci risponderà: sei sicuro? Ora so che leggi Kafka, acconsenti al trattamento di questo dato? Uffa sì ChatGpt, ma adesso dicci come finisce l’Amerika di Kafka. Non posso dirti come finisce, perché Kafka non ha voluto finirlo e anzi desiderava che fosse distrutto; quel che posso fare è una congettura, basata sui primi capitoli che… sì, sì, ho capito, ma adesso scrivi. E clic-clic, suppongo che già ora ChatGpt potrebbe completare l’Amerika di Kafka. Ma non possiamo dirle: scrivici un libro sull’ansia di vivere in Europa nel 2023. Ovvero, possiamo. Ma sarebbe un libro pieno di frasi fatte e sciocchezze senza senso, e a editarlo si farebbe più fatica che a scriverlo daccapo. Un po’ mi dispiace, perché nemmeno io ne sono capace, il che dimostra al massimo che non sono un’intelligenza artificiale. Ma non significa che io sia un’intelligenza, o che io sia naturale. Questo è il tipo di battutina con cui di solito finisce questa tipologia di testi, quindi ciao.
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(Prosegue la discografia di Franco Battiato. L’episodio precedente: i primi singoli)
Nell’estate del 1968 “Franco Battiato” è un nome ormai ricorrente nei cartelloni delle balere milanesi: in classifica però non lo ha ancora visto nessuno. Dopo la deludente esperienza con la Jolly Records, è un’etichetta della Philips, la Polydor, a interessarsi alle sue proposte. Con la Polydor Battiato accantonerà i toni ‘esistenzialisti’ dei singoli Jolly e cercherà di accreditarsi come cantante confidenziale. È una scelta che ottiene subito un buon risultato (almeno il primo singolo, È l’amore, finalmente porta Battiato in radio) ma di cui in seguito si vergognerà profondamente – dovranno passare almeno trent’anni perché Battiato ritorni con Fleurs al genere confidenziale, accettando un passato da cui fino a quel momento si era ritratto con esibito fastidio. Anche in seguito, nessun brano del periodo Polydor è stato riabilitato, reinciso o interpretato dal vivo: al punto che si ha la sensazione, riascoltando queste canzonette, di fargli un torto. A imbarazzarlo, più che le canzoni in sé, doveva essere stata la posa da chansonnier che gli era capitato di assumere: una “maschera inutile” che gli aveva consentito di rimanere un po’ sulla breccia, ma che col senno del poi andava liquidata come una perdita di tempo.
In effetti gli esordi compositivi di Battiato (finalmente iscritto alla Siae) sono più frustranti di quelli di altri autori, che sin dalle prime prove dimostrano la propria identità: si fa davvero molta fatica a trovare Battiato in È l’amore o Sembrava una serata come tante. È come se nel 1968 Battiato non esistesse ancora: le canzoni che scrive col chitarrista Giorgio Logiri sono completamente funzionali al contesto in cui si è ritrovato. Sono scritte per passare alla radio o per essere suonate in balera. Per cercare l’autore Battiato dobbiamo ridurci a far caso agli inciampi, ai motivi per cui dopo il primo singolo gli altri brani in effetti in radio non passavano (e magari in balera facevano il vuoto); l’ingenuità dei testi, i vezzi stilistici (quei ritornelli rallentati), le incursioni rock di Logiri, che sogna il rock inglese ma deve anche suonare le mazurke.
1968: È l’amore (#244)
Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l’amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po’ assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l’amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l’unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta (si parla di “centomila copia vendute”), sono numeri che oggi sembrano impossibili ma al tempo forse no. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso, “il suo complesso”, e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l’associazione dell’amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di “è l’amore che mi prende piano piano per la mano”, però “mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente” prometteva bene. Il brano fu coverizzato sia in francese (Formidable) che in inglese (Winter Love).
1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245)
Bella ragazza / Occhi d’or è il 45 giri con cui Battiato e Logiri dilapidano il capitale di credibilità acquisito con È l’amore. Accade qui per la prima volta quello che si ripeterà poi in diverse situazioni (ad esempio con Aries o L’arca di Noè): appena FB capisce di aver trovato una formula che piace al pubblico, la butta via. In questo caso la dilapidazione avviene su due fronti: su quello testuale, Battiato riparte con la solita tritissima retorica degli amori stagionali – stavolta lui è al mare e lei non c’è, chiamiamola posizione dell’Azzurro rovesciato – e la porta avanti fino all’autoparodia: piove, lui è triste, pensa a lei e non riesce a divertirsi, ma poi nella seconda strofa finisce di piovere e lui ha già smesso di essere triste, insomma credevate che fosse amore ed era meteoropatia. Sul fronte degli arrangiamenti, Bella ragazza è un esempio tipico di cosa succede quando lasciate dei ragazzi volonterosi ma inesperti con un medio budget e un registratore otto piste: un’orgia sonora. Si parte con chitarre, violini e batteria (e un clap di mani riverberato) e si arriva coi fiati e sul finale c’è persino una specie di assolo di tastiera che ha già qualcosa di Fetus. Al centro compare quel vezzo compositivo che compromette ulteriormente la potenzialità commerciale del brano: Battiato rallenta il ritmo nel ritornello. Succederà anche in Vento caldo e non ha molto senso: ma forse è il primo tentativo di realizzare quella sospensione ritmica che riascolteremo poi in Summer On a Solitary Beach o nel Vento caldo dell’estate.
1969: Occhi d’or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)
Laggiù, tra deserti d’or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni ’60 – l’unica che lascia presagire le bizzarrie del decennio successivo. Invece nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l’incauto ascoltatore a Occhi d’or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai, voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza, di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l’amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all’estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po’, a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d’or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C’è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall’inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio.
L’album perduto
È facile immaginare che la bocciatura del progetto sia stato uno dei motivi per cui Battiato nel 1969 decide di stracciare il contratto con la Polydor: da lui volevano soltanto dei singoli e a lui tutti questi singoli di successo non stavano riuscendo. In realtà lo strappo sarebbe avvenuto qualche mese dopo, magari in seguito all’insuccesso di Sembrava una serata come tante
1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)
Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è “Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario”, ok, è una battuta per battiatofili spinti; diciamo che Iloponitnatsoc – un frammento di Gente inciso al contrario – rischia davvero di essere relativamente più famoso di Gente, uno dei brani più anonimi che Battiato abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest’ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d’amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense (“Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà”) Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. Il brano sarebbe poi finito sul lato B di Sembrava una serata come tante.
Diverse canzoni dell’album perduto non possiamo semplicemente ascoltarle: non solo Battiato si è opposto fieramente alla pubblicazione, ma non sono state depositate alla Siae. Lume di candela però era depositata, perché già incisa da Daniela Ghibli, ex valletta di Settevoci, che malgrado il cognome evochi subito dune e venti del deserto così cari all’immaginario battiatesco, è nata a Velezzo Lomellina. La versione battiatesca invece fu pubblicata già negli anni Ottanta in un’antologia dell’Armando Curcio Editore. A orecchio non sembra un provino per la Ghibli, ma anzi suona arrangiata o almeno prodotta un po’ meglio: segno che davvero per qualche giorno Battiato nella sala Cavour aveva potuto disporre di un budget di tutto rispetto. L’avesse incisa lui, sarebbe stata facilmente il suo migliore singolo del periodo Polydor: un bel pezzo italiano ma con qualche reminiscenza di Procol Harum, che in quel 1969 era il punto di arrivo di chi dal rock cercava di gettare il ponte verso qualcosa di più melodico. Insomma questo Logiri le canzoni stava imparando a scriverle, forse avrebbe dovuto continuare; e lo stesso Battiato qualche passo avanti con le parole lo stava facendo.
1969: Iloponitnatsoc (Battiato/Logiri)
Il titolo è “Costantinopoli” al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er ‘yehT. Niente di pionieristico, insomma; però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento, e di più simile a quello che farà dal ’72 in poi. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco: secondo Logiri peraltro l’idea fu sua, non di Battiato. Il quale Battiato comunque non avrebbe più smesso di pasticciare coi nastri rovesciati. Il brano finì pubblicato, per ragioni imponderabili, su un’antologia della Philips, Hit Parade Vol. 2, una cosa che cominciava con gli Aphrodite’s Child, passava per Israelites di Desmond Dekker e finiva con Oh Happy Day, per cui persino un Battiato rovesciato tutto sommato poteva starci.
1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)
Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l’oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli, Battiato ha l’impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio (forse è più ispirato dalla cover italiana di Dalida che da Roussos). Registrata probabilmente durante la lavorazione dell’album perduto, Lacrime e pioggia non compare però in nessuna delle scalette dell’album – segno che Battiato e Logiri pensavano a un disco organico, senza cover. Fu pubblicata per la prima volta nella raccolta pubblicata dalla Armando Curcio Editore nel 1982, quando il nome “Battiato” avrebbe venduto qualsiasi cosa. Nel 2008 poi Battiato si ricorderà degli Aphrodite’s Child riprendendo It’s Five O’Clock, neanche a farlo apposta un’altra Pachelbel. Ma era meglio questa.
1969: Sembrava una serata come tante (Battiato/Logiri, #254)
1968: Vento caldo (#256)
Tra 1965 e 1968 Battiato le prova un po’ tutte, accodandosi a più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum tentando di imitarne la formula: l’inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procol si erano limitati a ispirarsi a Bach, l’anno dopo gli Aphrodite’s Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla Siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l’hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent’anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l’ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l’estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma qui siamo ancora al grado zero: l’estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l’artista era ormai assorbito da altre avventure musicali.
1969: Marciapiede (#251)
Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l’avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui. I lati B com’è noto servivano a sperimentare cose un po’ meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l’argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l’amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche (“sa/già, te/me”). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell’innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.
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“Fiuuuuuuuu, fiuuuuuuuuu, ecco l’asso dell’aviazione mentre pilota il suo jet supersonico sul Canale di…”
“Ehi psst, Governo”.
“Eh? Chi è? Che c’è? Sto lavorando!”
“Sono il Settore Industriale”.
“Mi fa piacere, ma non si bussa più?”
“Ho bussato, ma non devi aver sentito”.
“In effetti sono molto preso”.
“Stavi facendo il rumore dell’F35 con la bocca”.
“Stavo soppesando i pro e i contro di un intervento della flotta militare nel Canale di Sicilia“.
“Cioè vuoi mandare i marò contro i barconi”.
“Contro i trafficanti!”
“…Va bene. Ma probabilmente sai già perché sono qui”.
“Beh, penso che potrebbe trattarsi di…”
“Di?”
“…ehm, un aiutino?”
“Un aiutino lo stavo aspettando io, non so se rammenti. Il pienerrerre”.
“Ah già quello!”
“Mi avevate promesso centonovanta miliardi”.
“Ormai ci siamo”.
“Io ho già cominciato a spenderli”.
“Volevano farci fretta, ma noi non ci siamo fatti fregare e…”
“E?”
“Abbiamo spuntato una proroga di un mese!“
“Un mese?”
“Così abbiamo tutto il tempo per…”
“Cioè volevano darceli prima e avete chiesto una proroga?”
“Abbiamo ottenuto una proroga! Così abbiamo tutto il tempo per…”
“Per?”
“Per mettere a posto la documentazione e…”
“La documentazione”.
“Già. Ora se vuoi scusarmi devo chiarire una cosa con la Nato, ci hanno chiesto di mandare una portaerei in Cina e…”
“In Cina?”
“Sì. Cioè no non esattamente in Cina, ma nel mar cinese, al largo di Taiwan, sai non possiamo assolutamente permettere che quei comunisti dei cinesi…”
“Ma non devi già mandare la flotta contro i barconi”.
“Contro i trafficanti! E vabbe’, ne abbiamo tanta di flotta. Per cui se mi vuoi scusare…”
“Senti, governo…”
“Uffa, cosa c’è?”
“Io qualche mese fa ti ho lasciato vincere le elezioni”.
“Non è che mi hai lasciato“.
“Potevo fare ostruzione seria, non l’ho fatta. Ti ho lasciato campo libero su giornali e tv, l’idea era che Draghi non potesse andare avanti ancora a lungo e inoltre…”
“Ti avrei calato le tasse”.
“Mi avresti calato le tasse. Ma sul piennerrerre c’erano precise garanzie”.
“Ma infatti ci siamo. Abbiamo ottenuto una proroga che è un risultato importante”.
“Avete implorato altri trenta giorni perché non avete ancora fornito documentazione che in teoria era già pronta quando è andato via Draghi! Avevate garantito questo!”
“E voi vi siete fidati, ih ih…”
“Ci siamo fidati di Draghi!”
“Eh vabbe’ è andata così, comunque ormai ci siamo, un mese ancora e…”
“Governo, ma mi pigli per il culo?”
“Io? Come potrei mai?”
“Mi domando se tu sappia fare altro”.
“È una brutta cosa da dire al proprio governo, io mi potrei anche offend…”
“E l’aeroplanino, dimenticavo, sai fare anche l’aeroplanino”.
“Ora basta, non tollererò altre offese”.
“Ma dimmi cosa stai facendo. Dimmi cosa ha fatto la tua maggioranza in questi mesi”.
“Abbiamo ottenuto risultati importanti!”
“Per esempio”.
“Abbiamo… abbiamo vietato la farina di insetti”.
“La farina di che?”
“La lobby globalista voleva costringerci a mangiare insetti e noi con un decreto legge…”
“Avete stabilito che va scritto nell’etichetta”.
“È un risultato importante!”
“Ma lo sai quanto costa al momento la farina di grillo qui da noi?”
“Chi, io?”
“Lo sai?”
“Sta sui settanta euro al chilo”.
“Maledetta lobby globalista”.
“Secondo te se avessi voglia di mettere farina di grillo in un pacco di biscotti ho bisogno che tu mi imponi di scrivercelo sopra? Sarebbe un prodotto di lusso, ci dovrei mettere il fiocchetto con la dicitura impasto de luxe. Ci vorranno anni perché le farine di insetti siano competitive, e nel frattempo mi costringi a scrivere insetti su tutte le bibite colorate con la cocciniglia?”
“Cioè mi stavi dicendo che usavi le coccinelle per colorare le…”
“La cocciniglia, non le coccinelle… sì, vabbe’, senti, non me ne fotte un cazzo della farina di insetti, al momento”.
“Ma la lobby globalista…”
“Non m’interessa perché non è competitiva – e quando lo sarà, sarò il primo a volerla usare per cui chi sarà al tuo posto in quel momento quei decreti me li straccia al mio tre, capito?”
“Ma è questo il modo di parlare?”
“No infatti, credo di dover essere più chiaro. Se da qualche parte una fabbrica di content, una scuderia di influencer o che cazzo ha deciso che bisognava spaventare il parco buoi degli elettori con la farina d’insetti, a me sta bene. Sta bene anche se fate casino sull’utero in affitto o su altre cazzate, il consenso è il vostro mestiere”.
“E infatti abbiamo vinto le elezioni”.
“Benissimo, complimenti, e adesso voglio i miei centonovanta miliardi”.
“Ma non è così facile”.
“Non state facendo un cazzo”.
“Ma non è vero… abbiamo… abbiamo…”
“Cosa?”
“Vietato la ehm… carne sintetica”.
“No io adesso stacco tutto”.
“Aspetta! Aspetta! So che sembra una misura populista e dissennata, ma abbiamo salvato gli allevatori in questo modo”.
“Ah cioè a voi interessano gli allevatori adesso”.
“Eh certo, il made in Italy e…”
“Le vacche. A voi interessano le vacche”.
“Credo che ci sia un termine più forbito per definirle”.
“Ci siete mai stati in una stalla? Lo sapete chi ci lavora mediamente?”
“Allevatori italiani!”
“Come no, ci siamo ridotti a importarli dall’India. Ci toccherà andarli a prendere con gli aeroplani”.
“Eh beh quelli dobbiamo usarli contro i trafficanti”.
“Cioè volete che l’Italia torni a essere una nazione di pastori e contestualmente sparate ai pastori che vengono in Italia a lavorare. E comunque non avete vietato la commercializzazione di carne sintetica”.
“Eh beh, l’Europa non ci avrebbe lasciato, ma…”
“Avete vietato solo la produzione di carne sintetica, per cui ci toccherà farla in Romania, come le calze. E comunque il decreto è scritto così male che alla lettera vieta la commercializzazione di qualsiasi tipo di carne”.
“Vabbe’, adesso lo emendiamo, non è che ti puoi attaccare alle lettere…”
“Le leggi sono fatte di lettere! E saper scrivere le leggi, i decreti, anche questo è il vostro mestiere”.
“Ah sì?”
“Non lo sapevi?”
“Ma io se devo essere sincero… pensavo che una volta entrati nelle stanze dei cosi, dei…”
“Dei bottoni”.
“Pensavo che ci sarebbero stati quelli che lo sanno fare, noi avremmo spiegato le cose a loro e loro…”
“Li dovevate assumere”.
“Sì, ecco, appunto, adesso li stiamo…”
“E prima li dovevate formare…”
“Eh vabbe’ dobbiamo pensare a tutto noi, adesso sinceramente è tutta colpa nostra? Non vorrei fare il solito governo che dà la colpa ai governi precedenti, ma…”
“Ma lo stai facendo”.
“Sì! Lo sto facendo! Ebbene sì! Perché se ogni governo che passa qui invece di investire nella formazione continua a tagliare e non assumere, non è che adesso arrivo io e…”
“Guarda, su questo non avresti tutti i torti”.
“Ah no?”
“No tutti no”.
“Ma infatti!”
“E quindi smetterai di tagliare sulla formazione?”
“Eh ma che c’entra, non lo sai che c’è il calo demografico”.
“Il calo demografico c’è solo se bombardi i barconi”.
“Aoh, e non l’hai capito? Si dice trafficanti“.
“Non m’interessa come dici tu”.
“Ah no?”
“Non così tanto, no. Le tue parole d’ordine, i tuoi meme, le quattro idee che continuano a macinare nelle vostre fabbrichette del consenso, te l’ho detto: è il vostro mestiere, interessa a voi. A me interessa una cosa soltanto”.
“Ed è?”
“I miei centonovanta miliardi”.
“Ah sì, quelli! Tra un mese”.
“Tra un mese stacco tutto, te lo dico”.
“Mmnooo, dai, non lo farai”.
“E perché no?”
“Perché ormai li hai provati tutti. Hai mandato a casa Conte, ci hai mandato Draghi, e se mandi a casa me chi ti resta? La Schlein? Fammi ride”.
“I sondaggi…”
“Oh, quelli. Tra un anno magari. Un paio d’anni, ecco sì. Immagino che abbiate già opzionato Draghi per allora. Ma adesso qua ci sono io. Ho vinto le elezioni e ci sono io”.
“Avevi promesso…”
“E tu ci hai creduto”.
“Pensavo che…”
“Che ti avrei tolto le tasse. Flat tax senza aliquote. E scudo fiscale a strafottere. E adesso ti lamenti perché taglio l’istruzione. Guarda in faccia la verità”.
“No, io…”
“Guarda in faccia la verità, io sono il tuo vero governo. Quello che ti rappresenta come nessuno mai ti ha rappresentato”.
“Sei un bamboccio che gioca con gli aeroplanini, sei…”
“Quello che ti meriti”.
“Voglio i miei centonovanta miliardi!”
“Non sono tuoi”.
“Me li avete promessi!”
“Credi siano a fondo perduto? qualcuno li avrà indietro prima o poi. Glieli darai tu?”
“Eh?”
“No, credo di no. Dovrai trovare qualcuno a cui passare la patata per allora. Immagino che Schlein e compagnia ti torneranno utili in quel momento. Ma nel frattempo ci sono io. Arrivederci”.
“Ma non credere che…”
“Ho detto: arrivederci”.
Esce il settore industriale.
…
“Uffa che noia quello. Dov’ero rimasto? Ah già. Fiuuuuuuuu, fiuuuuuuuuu, ecco l’asso dell’aviazione mentre pilota il suo jet supersonico sul Canale di…”
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Questa foto l’avete vista in questi giorni. È una foto vera (questa espressione, a rileggerla tra qualche settimana, avrà perso il suo residuo significato – cos’è una foto vera?) Più precisamente, è la foto scattata a una foto che sta appesa in una trattoria a Roma e che documenta una cena che è avvenuta veramente, credo nel 1982. L’anno che per gli italiani di un paio di generazioni rappresenta, e guardando la foto è difficile smentirli, il momento più alto della nostra civiltà. Non soltanto queste cinque persone erano vive, ma riuscivano a trovarsi al ristorante. Tutto questo grazie al quinto personaggio a destra, di gran lunga il meno famoso, ma anche l’unico che nel 1982 avrei riconosciuto al volo perché a quel tempo ero un bambino: non avevo mai letto un romanzo di Garcia Marquez, mai visto direi un film di Leone, ma assistito a un match di pugilato o guardato De Niro al cinema, ma Gianni Minà era un baffo televisivo che riconoscevo al volo. Faceva le interviste, aveva una specie di anti-Domenica-In su Rai2 che sembrava un programma più serio, adulti intervistati da adulti, ragione per cui i miei genitori lo preferivano. Non lo capivamo ma era una tv agli sgoccioli. Anche questa foto cattura un mondo al tramonto: Marquez ha già scritto tutto quello che vale la pena, Leone deve finire l’ultimo film e togliere il disturbo, Ali avrebbe dovuto smettere da pugilare già da un po’ (come i medici lo imploravano di fare), persino De Niro i film che valeva la pena di fare li ha già quasi fatti tutti. Minà avrebbe incontrato ancora tanti personaggi interessanti, ma è difficile non immaginare in questa foto un vertice della carriera, coincidente col momento in cui era uno dei volti più noti dei giornalisti Rai.
Di lì a poco qualcosa si inceppò: Minà continuò a lavorare molto ma in tv il suo personaggio declinò. Non dev’essere per forza una questione di censura, come ho letto in questi giorni, dato che si trattò di un addio lunghissimo: fece pure in tempo a presentare la Domenica Sportiva ai tempi in cui era ancora un’istituzione. La tv stava diventando semplicemente più nazionalpopolare e Minà aveva un target diverso: poteva ancora funzionare quando si interessava a personaggi sportivi come Maradona: meno quando intervistava Sepulveda o Chico Buarque. Un mese fa abbiamo salutato un altro baffo televisivo, Maurizio Costanzo: a me pare che il successo del secondo spieghi come mai il primo a un certo punto in tv non si trovava più. In teoria ci sarebbe potuto essere spazio per entrambi i segmenti, proprio come nel 1981 Blitz era complementare alla Domenica In di Pippo Baudo. In pratica si è verificata questa cosa per cui abbiamo a un certo punto deciso che c’era un solo vero segmento e che Costanzo lo rappresentava degnamente, che la cultura era quella lì, perlomeno in tv: la filosofia era De Crescenzo, il teatro Carmelo Bene Contro Tutti, l’arte era Sgarbi, e resistere era inutile. Il disastro è stato tale che quando finalmente con Fazio c’è stato un tentativo di recuperare una nicchia, abbiamo scoperto con orrore che in tale nicchia ormai la musica colta era il pur simpatico Allevi, la letteratura era il pur simpatico Camilleri, e i personaggi del Blitz di Minà ormai si stagliavano all’orizzonte come resti ciclopici di un passato che non meriteremmo. Magari è solo l’effetto prospettico per cui tutti quelli più giovani dei tuoi genitori ti sembrano dei pirla, anche quando diventano bravi scrittori e cantanti e cineasti. Non posso escluderlo.
Questa foto, rivista in questi giorni, mi folgora per un altro motivo: non riesco più a prenderla sul serio. La trovo infatti mescolata ad altre immagini buffe e realistiche prodotte da algoritmi sempre più raffinati, che non sbagliano più nemmeno le dita delle mani come facevano fino a qualche settimana fa. Gli artisti continuano a domandarsi cosa succederà a loro – a parte che avremo molto meno bisogno dei loro servigi, ho la sensazione che continuino a porsi un problema soprattutto accademico: siamo ancora artisti? È ancora arte? Nel frattempo io registro come si sta modificando la mia percezione: non credo più alle foto, nemmeno a certe foto dove ci sono io. Nemmeno a questa, che razionalmente so essere “vera”, e allo stesso tempo so che non riuscirei più a convincere nessuno che lo è: dopotutto come faccio a sapere che quel pranzo ci fu davvero? Ne ho solo sentito parlare, qualcuno avrebbe potuto inventarsi la storia e fabbricare la foto già qualche anno fa.
Già qualche anno fa, prima ancora che vedessimo al lavoro la tecnologia deepfake, ci domandavamo se questa non è l’ultima generazione degli attori hollywoodiani, visto che da qui in poi potremmo continuare a usare le loro facce all’infinito. Certo, ogni tanto fa persino piacere vedere qualche faccia nuova (ma non così tante – pensate alle saghe che si fanno a Hollywood: alla fine usiamo per lo più proprietà intellettuali ideate tra ’50 e ’80, con qualche supereroe e mostro che al massimo risale agli anni ’40). Ma anche le facce nuove, perché cercarle col casting ora che possiamo produrle con gli algoritmi? Ci sono interi settori che forse hanno già tutto l’archivio necessario ad andare avanti automaticamente da qui in poi, cambiando solo facce e dettagli – sto pensando per esempio alla pornografia, ma forse mi sbaglio (non ho mai capito che bisogno ha la gente di consumarne così tanta).
Ora che possiamo avere nuovi combattimenti di Ali, ci servono davvero altri pugili? Possiamo chiedere a un’AI: raccontami un romanzo di Marquez con lo stile di Sergio Leone, farci un film e farlo interpretare da un giovane De Niro. Probabilmente il primo verrebbe una cazzata, ma alla lunga questa cosa prenderà piede e a quel punto cosa saremo diventati noi? Che tipo di spettatori? Non siamo già predisposti a questa svolta, in fondo il cinema di un Tarantino cos’è se non la profezia di un mondo in cui ogni immagine sullo schermo è una riproposizione di qualcosa già visto, processato e rimontato? Siamo sicuri che Tarantino non sia già un algoritmo, o che un algoritmo non potrebbe essere già più bravo di lui?
Può darsi che in un primo momento reagiamo dicendo: grazie, no, ci piace il prodotto umano. Un po’ come negli anni ’80 ci intestardivamo a non ascoltare gruppi che suonavano con la batteria elettronica, finché non abbiamo ceduto; cederemo anche stavolta, giusto per non invecchiare stronzi in mezzo a giovani che questa differenza non la capiscono – ai posteri interesserà la differenza tra un De Niro vero e uno deepfake? Una vocina nella mia testa mi dice che un Marquez algoritmato potrebbe già essere più interessante di un Camilleri autentico. Se penso che Blitz sia stato un grande programma (idealizzando qualcosa che in realtà guardavo distrattamente mentre giocavo ai lego sul tappeto), che la tv italiana avrebbe dovuto proseguire da lì e non da Costanzo, quanto lontano è il momento in cui potrò avere un prodotto su misura per me, un palinsesto alternativo in cui Blitz prosegue fino al 2023 con Minà che intervista la Egonu e Roberto Bolaño anche se è morto, ma basta non dirlo all’algoritmo? Che limiti ci saranno, a parte la potenza di calcolo? Forse solo la potenza di calcolo: ma chi impedirà ai più ricchi tra noi di bruciare tutte le risorse terrestri in cambio di realtà virtuali dove succede esattamente quello che vorremmo guardare e ascoltare?
Magari poi tra miliardi di anni sbarcherà un’astronave di procioni e ci troverà tutti molto presi a guardare e ascoltare questi contenuti: cercheranno di interagire con noi, decifrando facilmente i nostri linguaggi, ehi salve siamo alieni da un altro braccio di questa galassia, abbiamo trovato un wormhole e così, ehi? Ma ci ascoltate? Siamo venuti da lontanissimo, insomma siamo un avvenimento, perché fate finta di niente? Ci metteranno un po’ a capire che gli esseri veramente umani non ci sono più, e che quel che rimane sono i simulacri di gente che guarda simulacri di storie prodotti da simulacri di artisti, ho già letto una storia così da qualche parte. Non importa nemmeno più dove, tra un po’ potrò chiedere a un algoritmo di riscrivermela meglio.
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Se oggi è il 23 marzo, Franco Battiato avrebbe compiuto 78 anni. L’anno scorso ho afflitto i lettori con un lungo torneo dedicato alle sue canzoni – un pretesto per riascoltarle tutte. Qualcosa d’interessante ne è uscito fuori e adesso provo a ripubblicarlo in ordine cronologico, in modo da rendere tutto un po’ più facilmente accessibile ai bot che in futuro passeranno di qui e cercheranno di capire perché una volta a qualcuno piaceva Franco Battiato.
I primi dischi della sua carriera, Battiato li incide per una un settimanale di enigmistica, la NET (“Nuova Enigmistica Tascabile”) che allegava al numero in uscita in edicola la cover di un singolo di successo, cantata da uno sconosciuto per risparmiare sui diritti. Battiato era, perlappunto, uno sconosciuto disposto a cantare per un pezzo di pane.
1965: L’amore è partito (Cardile, #247)
“Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. ‘Basta, va bene!’, e mi convocò per il giorno successivo in sala d’incisione”. La relativa facilità con cui viene scelto è per lui un’iniezione di fiducia che può lasciare perplessi, perché Battiato non ha mai cantato tanto male come in questo primissimo singolo del 1965, una roba da farsi ridare indietro i soldi dall’edicolante. Non ci sono spiegazioni, non ci sono scuse, Battiato si capisce che la voce ce l’avrebbe e persino il timbro giusto, vagamente ‘genovese’ tra un Lauzi e un Paoli (a meno che non gli avessero chiesto di imitare il cantante e autore autentico, Beppe Cardile). Epperò con questo timbro giusto Battiato non riesce a mantenere l’intonazione – in particolare sono certe note lunghe a tradirlo. Al giorno d’oggi una prestazione così non passerebbe alla prima audizione di un talent qualsiasi e questo dà la vertigine: chissà quanti geni della musica stiamo buttando via perché steccano al primo provino, gente che vent’anni dopo magari ti combinerebbe un equivalente della Voce del padrone ma non lo sapremo mai perché invece dei flexi disc tarocchi allegati alle settimane enigmistiche tarocche abbiamo i talent, e nei talent alla prima stecca sei fuori. Viene da pensare che il motivo per cui Battiato ottenne il posto con relativa facilità è l’altra mansione che accettò contestualmente: il fattorino. In un colpo solo avevano trovato un ragazzo che incideva i dischi e che li consegnava nelle edicole. L’amore è partito è un giro di do che si distingue da altri cento per la curiosa prosopopea: l’Amore in questo caso è una vera e propria entità che ha abbandonato i due innamorati, rei di essersi comportati male nei suoi confronti, una cosa che non era venuta in mente credo neanche a Guido Cavalcanti, mentre Beppe Cardile la portò a Sanremo e oggi su Youtube lo salutano e gli scrivono “Hai avuto il privilegio di vivere degli anni bellissimi e l’onore aver scritto una canzone per il maestro Franco Battiato” e lui deve pure abbozzare.
1965: E più ti amo (Amurri, Barrière, Ferrari, Pallavicini, #38)
“Mi presentai incosciente: era la prima volta che entravo in un posto del genere. Il pezzo era E più ti amo di Alain Barrière. Mi misi la cuffia. Il maestro mandò la base. Finii di cantare. Mi disse che andava bene. Per me era un successo. Quel giorno ho capito che cantare e fare musica sarebbe diventato il mio mestiere” (Tecnica miste su tappeto, 1992).
Battiato non amava i suoi dischi degli anni Sessanta. Non gradiva che li ristampassero: si oppose con fermezza a una riedizione ragionata del 33 giri fantasma del 1969. Non li aveva inseriti nelle prime versioni del suo sito ufficiale e non li reinterpretò mai, con una sola eccezione. Questa eccezione purtroppo è una canzone d’amore abbastanza ordinaria ma che per Battiato doveva avere avuto un’importanza particolare: con E più ti amo aveva capito che avrebbe potuto farcela. Avrebbe vissuto di musica. Non sarebbe stato facile, ma sarebbe stato il suo mestiere. Battiato sostiene di “ricordare bene” la circostanza, ma a guardare le date il primo flexi a uscire sarebbe stato L’amore è partito, il 20 febbraio, mentre E più ti amo sarebbe uscito soltanto il 27 marzo (e come lato B). Ma se L’amore è partito è cantata abbastanza male (sembra difficile pensare che Battiato abbia vinto un ingaggio con una prova del genere), E più ti amo è veramente la dimostrazione che questo ragazzo ha trovato il suo mestiere: non solo la voce è educata ed espressiva, ma si ha la sensazione che Battiato stia modellando il proprio timbro per assomigliare all’originale che sta imitando – ricordiamo che questi flexi disc sono imitazioni, la gente li portava a casa per avere una versione simile all’originale ma a prezzo scontato. Questo originale non è, come molti scrivono, Gino Paoli, ma lo stesso Alain Barrière che aveva inciso la canzone in un buon italiano con un’affascinante cadenza straniera: ecco, anche Battiato riesce a dare alla sua interpretazione un accento ‘altro’, e se non sembra un cantante francese, non sembra nemmeno del tutto italiano (ecco uno dei rari casi in cui la fonetica siciliana poteva risultare un vantaggio). Quarantaquattro anni dopo, Battiato deciderà di reincidere la canzone nel suo terzo CD di cover, riconoscendo così per la prima volta la continuità sotterranea tra i suoi Fleurs e la precoce carriera d’interprete negli anni Sessanta.
1967: La torre (Medini/Lamorgese, #248)
BATTIATO: Siete degli ipocriti.
CASELLI: Ma chi è questo?
GABER: Io l’ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.
CASELLI: Esatto!
GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?
BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!
Quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l’Equipe ’84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: Auschwitz, Dio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la “folksong”. Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, portava una sua giovane promessa: un giovanotto dinoccolato che per l’occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell’altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono quel paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica; Gaber l’ha scovato in un’osteria dove assieme a Gregorio Alicata cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali e lo ha portato alla Jolly. La torre è un brano molto acerbo che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po’ tutte e anche un buco dell’acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l’altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l’altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l’Asociale: “sono un tipo antisociale / non m’importa mai di niente / non m’importa del giudizio della gente… in un’isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare”. Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con parecchia ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l’anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.
1967: Le reazioni (Medini/Lamorgese, #249)
Le reazioni è il lato B del singolo La torre, dove per la prima volta Battiato compone musiche e testi, anche se alla Siae non risulta perché non era ancora iscritto. La sensazione è che più di musiche e testi – non troppo memorabili – gli interessi costruire un personaggio, un ragazzo tormentato e scostante che vive l’amore come un’esperienza destabilizzante e forse preferirebbe farne a meno. Tutto questo non è soltanto autobiografico e anticipatore di tanta poetica battiatesca nei decenni a venire, ma nei secondi anni Sessanta si sposa a un’estetica esistenzialista che forse non era la più apprezzata dai giovani acquirenti di dischi, ma un suo mercato lo aveva: il campione di questo mood era Luigi Tenco, che proprio nel 1967 aveva deciso di chiamarsi fuori nel modo più assurdo possibile. Battiato ripartirebbe da lì, con arrangiamenti più aggiornati alle novità del rock inglese (non è chiaro se ci sia già Logiri alla chitarra, ma qualcuno comunque deve aver ascoltato se non Jimi Hendrix almeno gli Yardbirds). Il tutto ovviamente solo nel caso che al pubblico questo Giovane Arrabbiato piacesse, il che non accadde. Lo stesso Battiato accettò di ripiegare su tematiche più amorose e meno arrabbiate.
1967: Il mondo va così (Buffoli, Dutronc, Lanzmann, Pagani, #222)
1967: Triste come me (Medini, Buffoli, Alicata, #227)
Triste come me è il lato B di Il mondo va così, il secondo e ultimo singolo stampato per l’etichetta Jolly che malgrado il sostegno di Gaber questi dischi non riusciva proprio a venderli. È una delle canzoni meglio riuscite a FB negli anni Sessanta: abbandonato il maledettismo della Torre e delle Reazioni, non ancora abbracciato il sentimentalismo stagionale dei successivi 45 giri targati Philips, qui il cantante è semplicemente triste perché gli amici lo hanno tradito, e lo racconta in una canzone non troppo complicata che si gioca tutto sulla variazione dinamica tra strofa (in tre quarti) e un ritornello che ‘esplode’ (in 4/4): un trucco che Battiato continuerà a eseguire anche nei singoli successivi, ma con meno leggerezza. Tra gli autori compare l’amico e mentore Alicata, ma anche in questo caso Battiato potrebbe averci messo del suo. Chiunque l’abbia scritto, comunque, doveva conoscere The Pied Piper di Crispin St. Peters (1966): questo almeno spiegherebbe come mai nel 1967, l’anno di Bandiera gialla (che era una cover di The Pied Piper) Battiato si ritrovi a cantare una canzone tematicamente tanto diversa e melodicamente così simile.
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23 marzo: San Gualtiero di Pontoise (1030-1095), abate recalcitrante
Gualtiero, di origine piccarda, era l’abate del monastero di Pontoise, e il tratto che risulta più evidente dalle sue succinte biografie è che non morisse veramente dalla voglia di fare l’abate; perlomeno nel monastero di Pontoise.
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Vabbe’ non sarà Cluny, ma non è neanche una spelonca sulla Maiella, per dire |
La sua prima fuga è nel 1072, quando si presenta come se niente fosse all’abbazia di Cluny e chiede di entrare come monaco semplice. Cluny nell’XI secolo era la capitale del monachesimo occidentale: Gualtiero vi incontra Ugo di Cluny, nientemeno che il mediatore tra l’imperatore Enrico VI e papa Gregorio VII, insomma il regista di Canossa. Negli stessi anni stava raccogliendo fondi per trasformare l’abbazia nella chiesa più maestosa di Francia e del mondo. Gualtiero preferiva essere un suo umile sottoposto nella grande Cluny che un uomo di responsabilità nella relativamente piccola Pontoise, e io un po’ lo capisco, voi no?
Ugo accoglie Gualtiero, ma quando i monaci di Pontoise scoprono che sta lì gli ordina di tornare al suo posto, e a Gualtiero non resta che obbedire. Non sappiamo esattamente per quale motivo avesse litigato coi suoi monaci, ma la sua vicinanza a Ugo ci fa sospettare che Gualtiero tendesse a interpretare il suo ruolo con un’intransigenza che era lo spirito stesso della riforma gregoriana, ma che forse è più facile portare avanti se sei privo di responsabilità e non ti tocca ogni giorno avere a che fare con sottoposti che ti boicottano. Fatto sta che Gualtiero dopo qualche anno scappa di nuovo, e ai suoi confratelli tocca cercarlo fino in Turenna, dove un pellegrino lo riconosce nel saio di un eremita che coi suoi saggi consigli stava cominciando ad attirare gente dai villaggi intorno a Tours.
Invece di tornare a Pontoise, Gualtiero stavolta decide di portare il suo problema a Roma, dove chiede al papa in persona di essere sollevato dal suo incarico. A Roma c’è ancora Gregorio VII che gli dice papale papale che se scappa un’altra volta da Pontoise, lo scomunica.
A Gualtiero non resta che tornare a Pontoise, dove tutto sommato non deve aver lasciato un brutto ricordo – anche solo il fatto che ogni volta che spariva i suoi confratelli si mettevano a cercarlo dappertutto, rifletteteci: se il vostro capo sparisse, lo andreste a cercare di monastero in monastero? Persino in Turenna?
Dopodiché è probabile che avesse un caratterino: litigò con tutto il sinodo di Parigi perché non sollevavano da un incarico un prete che aveva una concubina. Riuscì a infastidire pure il re di Francia denunciando il modo sbarazzino con cui quest’ultimo continuava a vendere cariche ecclesiastiche benché un imperatore di Germania fosse già stato messo in ginocchio, a Canossa, per lo stesso motivo. Insomma era un gregoriano duro e puro, ma probabilmente è più facile esserlo quando non devi gestire un’abbazia intera e non ti tocca cedere a compromessi continui che alla lunga mettono in crisi le tue convinzioni.
Comunque ce l’ha fatta, è diventato santo – se Dio ha il senso dell’umorismo che a volte gli sospetto, in paradiso gli ha fatto trovare la copia identica del monastero di Pontoise, con dentro gli stessi monaci, e gli ha detto: pensavamo di nominarti abate, che ne pensi? A noi sembra proprio l’incarico giusto per te. Dopodiché ogni tanto lo chiamano dall’inferno, ehi, è di nuovo scappato quel monaco, venitevelo a prendere. Dà lezioni ai diavoli su come si affliggono correttamente le anime, prende tutto troppo sul serio, è un tormento.
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Che a questo punto si riparli di Ponte sullo Stretto non è affatto sorprendente. Così permettetemi di cominciare con una domanda molto semplice, che rivolgo soprattutto a chi crede che il ponte si possa fare subito, anzi vada fatto subito, anzi è un peccato che non esista già:
e perché non esiste già?
Rifletteteci bene. Se siete convinti che un ponte con una campata unica di tre chilometri si possa fare, cosa ci ha impedito di farlo fin qui?
La volontà politica? Non è vero: un sacco di governi hanno vinto le elezioni promettendo il ponte sullo Stretto, e le hanno vinte bene, con ampie maggioranze. Quindi potevano farlo. E perché non lo hanno fatto?
Guardate che non siamo mica nati ieri. Di ponte sullo stretto parliamo da due millenni, la terra per costruire i piloni l’abbiamo confiscata vent’anni fa, e da più di dieci paghiamo una penale a una ditta che aveva vinto un appalto. Tanto valeva farle costruire il ponte.
E perché non glielo abbiamo fatto costruire?
Il progetto c’era. Aveva vinto una gara, e benché avesse destato più di una perplessità tra gli addetti ai lavori, qualche ingegnere e architetto deve pur averne firmato i progetti: quindi perché sono rimasti progetti?
Chi esattamente si è messo in mezzo alla più grande realizzazione ingegneristica italiana di tutti i tempi? Perché ci dev’essere stato qualcuno che ha bloccato tutto, altrimenti non si spiega. Eppure per quanto cerchi non riesco a trovarlo.
Ci tengo comunque a ricordare che non sono stato io – per quanto paradossale, una precisazione del genere a questo punto è necessaria. Eppure io alla fine chi sono? Nessuno.
Sono solo un tizio che ogni tanto, quando scoppia una discussione sul Ponte, interviene portando alcune informazioni che a dire il vero sono alla portata di tutti:
a) Lo Stretto è lungo 3 km.
b) La profondità non rende possibile piantare piloni nella zona centrale.
c) Non esiste (ancora) una tecnologia che ci consenta di costruire ponti con una campata superiore ai 2 km.
Il punto a è autoevidente (controllate pure su Google Maps) e non è destinato a cambiare per qualche milione di anni. Il punto b forse un giorno lontano si potrà mettere in discussione (ogni tanto in effetti si riparla di soluzioni alternative, il famoso tunnel). Il punto c è il più controverso, e si basa soprattutto su un’osservazione empirica: la campata unica più lunga mai costruita dall’uomo è di 2 km, è sempre il ponte di Akashi, è lì da trent’anni e nel frattempo nessuno ha provato ha costruirne una più lunga (tra l’altro è un ponte stradale, non ferroviario). Il ponte sullo Stretto dovrebbe superare il record mondiale, e non di poco; di quasi il 50%: è possibile? Chi parla di costruirlo in tempi brevi sostiene (o finge di sostenere) che sì, è possibile. Del resto almeno un progetto per una campata di 3 km c’è, qualche ingegnere e architetto l’hanno firmato; c’è già il cantiere, anzi stiamo già pagando le penali all’impresa che ha vinto l’appalto. Penali milionarie che hanno fatto pensare a più di un governante: ma tanto vale che paghiamo un po’ di più e lo facciamo davvero.
Punto di vista perfino comprensibile… e tuttavia il ponte non si è fatto lo stesso, credo per i soliti tre motivi che sono più forti di qualsiasi obiezione: lo Stretto continua a essere lungo 3 km, la profondità non rende possibile piantare piloni in mezzo, e una campata più lunga di 2 km non s’è ancora vista. Tutto qui.
Di solito chi sostiene il Ponte parla della necessità di innovare, di fornire collegamenti più veloci e efficienti, e perché no, di stupire il mondo con un’opera unica al mondo. Tutte esigenze condivisibili, e tuttavia dopo averle espresse a me piace intervenire ricordando che lo Stretto rimane lungo 3 km; la profondità continua a non rendere possibile piantare piloni in mezzo, e la tecnologia non fa quel passo necessario a permetterci di costruire ponti con una campata centrale superiore ai 2 km.
E la discussione dovrebbe finire qui. Invece di solito è qui che comincia. Perché il mio interlocutore – quello che difende la necessità di innovare, di collegamenti più veloci ed efficienti, ma anche, perché no, di una maxiopera che richiamerebbe l’attenzione del mondo intero – a quel punto l’interlocutore se la prende con me. Perché?
Perché conosco la geografia.
Se gli faccio presente che lo Stretto è lungo 3 km, mi accusa di non credere alle innovazioni. Siccome gli spiego che non si possono piantare piloni nella zona centrale, mi risponde che non capisco la necessità di collegamenti più veloci ed efficienti tra la Sicilia e il continente. Siccome gli ricordo che non esistono al mondo campate più lunghe di 2 km, mi accusa di sabotare la maxiopera, di cospirare contro l’immagine internazionale dell’Italia.
E dopo un po’ che si discute così, di solito avviene questo fenomeno per cui sembra che il vero motivo per cui il ponte non si fa non siano i 3 km, né la profondità: no, il vero motivo sarebbe la mia ostilità al progetto. Mia e di chissà quanti altri milioni di persone che io con le mie opinioni rappresenterei: siamo noi, noi nemici delle innovazioni, dei collegamenti e del made in Italy, quelli che rendono impossibile ai siciliani arrivare in Calabria in treno. Pensa che roba: c’è il progetto, c’è il cantiere, ci sono già gli operai pronti con gli utensili in mano, e li stiamo già pagando; e però il ponte non si fa perché il signorino, che sarei io, conosce la geografia e quindi pesta i piedi: no, no no, mi dispiace sono tre chilometri, fermi tutti.
Ma non è vero –
– e anche se fosse, sai che c’è? Volete il ponte?
Va bene, fatelo.
Se è la mia ostilità a tenere lontana Scilla da Cariddi, ebbene la mia ostilità può cedere di schianto, con un atto performativo: ecco, smetto di oppormi al Ponte; fatelo pure.
Lo farete?
No, non subito.
E si capisce: i km sono ancora tre; la profondità è ancora eccessiva, e nel mondo nessuno sta veramente cercando di costruire campate più lunghe dell’Akashi (ogni tanto controllo).
Invece molti sostenitori del progetto, in buona fede o meno, si comportano come se da qualche parte ci fosse un Movimento No Pont disposto a sabotare la gettata dei piloni: non fosse per questi No Pont, ormai Messina e Reggio sarebbero una città sola; ma siccome sono dappertutto, camuffati tra il popolo e le istituzioni… niente da fare, il Ponte ancora non si fa: il che almeno ci consente di ripromettere la stessa cosa a ogni tornata elettorale.
È un meccanismo così rodato che ormai anch’io ho la sensazione di farne parte, ogni volta che il politico di turno tira fuori l’argomento e quelli come me recitano la parte degli oppositori. Come se fossimo noi il motivo per cui il ponte non si fa: non la geografia, non i 3 km, non la profondità, non i limiti dei materiali e delle tecnologie, no: sarei io, coi miei discorsetti on line, col mio scetticismo di maniera.
Come se a me alla fine poi dispiacesse il ponte in sé: e invece no, giuro, non ho mai bloccato un cantiere, non ho mai boicottato nessuna impresa, non solo: il giorno che si farà ne sarò contento.
Ma non si fa.
E perché non si fa, secondo voi?
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Bisogna che un’apocalisse sacrosanta di fuoco costringa le ributtanti milizie dello stupro e dell’eccidio a fare retromarcia… (Giuliano Ferrara, il Foglio, 15/3/2023)
Giuliano Ferrara è stato tante cose nella sua vita – di biografie n’è piena la rete – e forse i più giovani non sospettano quanto sia stata ingombrante la sua figura per vent’anni e più, il berlusconiano con pretese culturali che proprio per questo andava irriso più degli altri, l’agente provocatore da cui ci si faceva provocare più volentieri perché almeno si aveva la sensazione di giocarsela su un piano elevato. Anche se poi per quanto elevato fosse il piano si finiva lo stesso a torte in faccia. Giuliano Ferrara è stato anche un neocon, un appassionato sostenitore degli interventi militari dell’era Bush Jr, nel breve periodo in cui questa cosa tirava, e per coincidenza si trattava anche del periodo in cui Berlusconi finalmente aveva trionfato sugli avversari, stava al potere e non sapeva che farsene. Bisognava trovare nuove battaglie e l’11 settembre /fu una manna dal cielo/ /cascò proprio a fagiolo/ fu provvidenziale per il suo personaggio. Tutte guerre inutili, mal combattute e deleterie, ma nel frattempo Giuliano Ferrara era altrove (a far cosa? Ah già, a salvare i feti dal genocidio).
Giuliano Ferrara è obeso, il che ha reso sempre un po’ più difficile criticarlo senza indulgere nel fatshaming – lui stesso è stato abbastanza astuto da mantenere la sua stazza in primo piano, da farsene scudo. L’obesità lo espone a seri rischi di salute, per cui a un certo punto della sua vita Ferrara ha dovuto cominciare a prendersela un po’ più calma, a costruirsi un personaggio più riflessivo, di intellettuale sardonico e molti ci sono cascati, molti hanno trovato comodo cascarci. Non è vero quasi nulla, l’intellettualismo di Ferrara è una posa, le sue basi culturali malferme, il suo gaddismo finto come l’ottone e basta ancora un qualsiasi picco glicemico per tirargli fuori l’animale. Ferrara, come tutti, è stanco di questa guerra che non è breve e risolutiva come tutti speravamo che fosse; del resto non succede così a qualsiasi guerra? ogni volta deve essere breve e risolutiva, magari l’ultima. I russi le prendono, e poi le prendono, e poi le prendono ancora, insomma continuano a prenderle eppure restano lì: è snervante, non dite di no. Un giorno qualsiasi Ferrara si stanca e decide di invocare gli “angeli sterminatori”, che poi sarebbero – par di capire – l’aviazione Nato. Insomma è ora di superare certe ipocrisie, dichiarare guerra alla Russia o anche no, bombardare subito senza perder tempo in formalità. Dopo un anno di battaglie, con un numero di vittime che già rivaleggia con quello di alcuni dei più grandi eventi bellici dell’era contemporanea, si tratterebbe di ratificare che la terza guerra mondiale è già scoppiata, e quale sarebbe il casus belli? Hanno sparato a un arciduca, defenestrato i messi imperiali? Beh, quasi. Hanno dato del cazzaro a Crosetto. Accidenti, queste cose non si fanno. Non che Crosetto non stia facendo il cazzaro – Ferrara non ci prova nemmeno a difenderlo – ma è il nostro ministro della Difesa, “right or wrong”, e quindi basta, adesso bisogna bruciare tutto, più precisamente l’Ucraina, quell’eroica nazione che senz’altro preferisce essere bruciata che ceduta al nemico. Il russo deve capire che anche a noi piace Wagner, nel senso del compositore: Ferrara scrive proprio così (no, in effetti lo scrive peggio). Qualcuno deve pure il falco, qualcuno deve pure invocare morte e distruzione in modo che risulti più moderato questo nostro temporeggiare, questo nostro tollerare un po’ di morte, accontentarci di un po’ di distruzione.
Giuliano Ferrara, sono già passati nove anni, un mattino si svegliò dichiarando una “guerra di religione” contro l’Isis: altro che polizia internazionale, ci spiegava, contro la violenza dei jihadisti serviva una “violenza incomparabilmente superiore”. Anche quella volta, cos’era successo di intollerabile? Avevano decapitato un giornalista americano. Come rappresaglia a un bombardamento. Per cui, insomma, una violenza circoscritta (l’esecuzione di un ostaggio) era stata usata per rispondere a una violenza già molto superiore (un bombardamento), ma sono finezze che la glicemia non sempre consente di apprezzare. Si intravede comunque un pattern, l’uomo reagisce allo stesso impulso: hanno offeso un uomo bianco che mi rappresenta; ha la mia stazza (Crosetto) o fa la mia professione (il reporter James Foley). E reagisce sempre allo stesso modo: invocando l’escalation militare di una Potenza Superiore che Ferrara nella vita ha sempre cercato e ha contorni ambigui – tanto tempo fa era Berlusconi, più di recente la Nato, più spesso il Pentagono, ma insomma è qualcuno potentissimo che vince tutte le battaglie per definizione, e se non le vince non è per debolezza ma perché non le vuole combattere davvero, Giuliano Ferrara ha 71 anni e ancora quando lo minacciano pesta i piedi e chiama papà.
Giuliano Ferrara, come tutti noi, è convinto di avere ragione. Non solo per gli argomenti, che di volta in volta hanno a che fare con la democrazia, la libertà, sissì vabbe’ non è che ci creda così tanto neanche lui: Ferrara è convinto di avere ragione perché sta dalla parte del più forte. È sempre stato dalla parte del più forte, che quando era ragazzo era il movimentismo, poi il Partito (incidentalmente, il partito dove lavorava suo padre e dove ha lavorato anche lui), poi la Rai finché non lo ha pagato meglio Berlusconi, poi Berlusconi, poi Washington, tutti fari di cultura e democrazia e libertà e insomma cosa aspettano questi fari ad accendersi sul serio al massimo voltaggio e incenerire i nemici di Giuliano Ferrara. Non varrebbe la pena di parlarne se la sua sindrome non fosse la nostra: siamo talmente abituati a guerre simmetriche che non capiamo che questa non lo è. Ciò malgrado anche le guerre asimmetriche non è che siano esattamente andate come ritenevamo necessario che andassero: ce lo ricordiamo l’Afganistan? No, è acqua troppo passata. Ma insomma il nostro fastidio per un nemico che non si ritira è lo stesso che proviamo per un insetto che continua a ronzarci attorno: l’idea che una guerra contro la Russia sia una guerra totale non ci passa nemmeno per la testa, cos’è poi una guerra totale? Un anno fa temevamo di passare l’inverno al freddo (agli ucraini è successo), oggi ci si lamenta perché le auto elettriche non sono competitive – non tra dieci anni: adesso. Vogliamo vincere la guerra ma risparmiarci anche dei soldi, perché siamo fatti così?
È possibile che settant’anni di responsabilità limitata in politica estera ci abbiano un po’ viziato? Siamo convinti che da qualche partesi trovi un esercito potentissimo, soprattutto un’aviazione potentissima, che sconfiggerà sempre i nostri nemici, così come ha sconfitto noi. E ogni guerra ci sembra un gioco delle parti in attesi che questa Violenza Incomparabilmente Superiore non si manifesti in tutta la sua gloria. Avevamo il duce e la sua arma segreta; quando sono stati spazzati via abbiamo accolto gli americani come il nuovo duce e abbiamo dato per scontato che l’arma segreta l’avessero loro. Dopodiché scriviamo più o meno gli stessi corsivi del 1941, magari un po’ peggio perché almeno la scuola gentiliana un po’ di retorica te la lasciava; laddove Ferrara si barcamena tra un anglismo e l’altro come un menager brianzolo. Se davvero il Pentagono gli desse retta, sarebbe il primo a stupirsi di essere stato decifrato e compreso: quello tra falchi e colombe è sempre un gioco delle parti, anche in Russia c’è chi propone di spianare Polonia e Lituania. Nel frattempo il calendario va avanti, e ogni giorno di guerra in più cresce la possibilità di un incidente nucleare.
L’incidente nucleare non dev’essere per forza una bomba che distrugga qualche città. Più facilmente sarà una fuga radioattiva da qualche reattore, qualcosa che i posteri registreranno senza troppo sgomento – volevate l’energia nucleare e volevate la guerra di posizione, nello stesso continente? nella stessa nazione? A loro sembrerà la conclusione inevitabile. Non causerà necessariamente migliaia di morti, o magari lo farà col tempo, si sa che le radiazioni hanno tutto il tempo del mondo per danneggiare noi e nostri figli. I nostri figli, già. Ferrara non ne ha. E in fondo è un peccato: così tanti padri, così niente figli.
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– Questa destra è tolemaica. Certo, se glielo chiedi sono passati anche loro all’eliocentrismo copernicano. I più preparati riusciranno anche a borbottarti qualcosa della relatività ristretta, ma è un’adesione di facciata: dentro di loro, il Globo Terracqueo è ancora l’universo intero, e l’Italia ne occupa un pezzo importante. Siamo ormai governati da quelli che ai tempi dei marò votavano il sondaggio di Libero: siete favorevoli a liberarli con un blitz militare? Chi al tempo scriveva queste puttanate sapeva benissimo che una guerra contro l’Unione Indiana era fuori discussione; chi governa adesso forse per un attimo ci ha creduto: insomma sono indiani, non esiste che abbiano un esercito più preparato di noi bianchi. Un’analoga difficoltà percettiva impedisce di prendere atto che le correnti migratorie esistono, da decenni: che interessano milioni di persone, e scaturiscono da questioni economiche e sociali che non possiamo svuotare col cucchiaio. A definirla tolemaica, questa destra, in fondo la si sopravvaluta perché già le ultime mappe geocentriche mostravano chiaramente che l’Africa e l’Asia sono molto, molto più grandi della nostra piccola penisola. Questa destra lo sa, ma non ci crede. O meglio: lo sa, ma decide di credere il contrario. La radice della sua fede sta in una negazione: non è vero che siamo un piccolo mondo nell’universo; proprio perché lo dicono le mappe, e lo confermano i numeri, noi affermeremo il contrario con tutta la forza della nostra volontà, e voi votateci per questo. Mappe e numeri continueranno a darci torto e noi continueremo a inventarci qualcosa. In effetti siamo bravi in questo: nell’inventarci qualcosa.
– Questa destra è creativa. Non tutti i complottismi sono di destra, ma prima o poi arrivano lì, perché forse tutti i complottismi hanno una base paranoica sottesa a una certa concezione tolemaica del nostro essere ancora al centro dell’universo. È impossibile che gli africani vogliano venire in Italia semplicemente perché è il primo scalo accessibile verso l’Europa: ci dev’essere qualcosa dietro, è chiaro che qualcuno ci odia e lo fa apposta, vengono qui apposta per darci fastidio, inoltre qualcuno li paga. Ieri era il malvagio Soros, mentre Putin ci difendeva: adesso però Putin è diventato un nemico e quindi è lui che paga la Wagner che convince gli africani a venire qui, ecco, è tutto risolto e ce lo siamo inventati in un pomeriggio, siamo o non siamo bravi in queste cose? I nostri bisnonni si inventarono l’Arma Segreta che avrebbe fatto vincere Mussolini anche quando le pigliava da tutte le parti: cioè non è che s’inventarono realmente un’Arma Segreta: quello lo fecero gli scienziati che però ormai lavoravano tutti per gli americani (e qualcuno ancora per i tedeschi). I nostri bisnonni si inventarono la leggenda dell’arma segreta, ed è quello che continuiamo a fare noi: ci inventiamo leggende. Ci riconosci sin da piccoli, a scuola siamo quelli che presi in castagna puntiamo il dito sul compagno di banco, una volte su cinque la maestra ci casca. Siamo scarsi in tutto, ma è colpa del Comunismo. O dell’Euro. Anche un po’ della Nato – no, come non detto, è colpa di Putin.
– Questa destra è nostalgica di cose che nemmeno più capisce. È una fanatica dell’identità, manda a memoria date e discorsi e li risputa fuori a casaccio, completamente decontestualizzati. Quali meccanismi mentali possono portare uno che dovrebbe fare il manager a citare in una mail ai sottoposti un discorso di Mussolini, e non un banale spezzeremo le reni a qualcosa, ma l’assunzione della responsabilità politica del delitto Matteotti? Le parole che in quel contesto avevano una lucidità impressionante diventano un mantra senza senso: proprio chi è così lesto a citarle mostra di non aver capito a cosa servivano. Poi uno dice che non vanno chiamati fascisti – in effetti è una parola pesante, anche nel Ventennio il fascismo era una dottrina, una mistica, si studiava a scuola, e questa destra chissà se avrebbe passato gli esami. Magari copiando.
– Questa destra è malmatura, voglio dire: hanno cinquant’anni e fanno le feste di compleanno. Le feste di compleanno. Devono berci sopra, devono cantare, hanno vinto e questo ci si aspetta dai vincitori. Non pronte soluzioni a problemi che sono ben al di sopra delle loro capacità: quindi brindano e chi fa notare che la cosa non ha senso è soltanto invidioso. Salvini e aa Meloni hanno sgobbato tanto per arrivare dove sono: e adesso festeggiano. Che altro dovrebbero fare e che altro dovremmo aspettarci da loro? il karaoke. Poi si stancheranno, e una mattina qualsiasi con un cerchio alla testa manderanno tutto a monte come Salvini quella volta al Papeete. Cercheremo qualche altro tecnico che raccolga i cocci e magari scopriremo che non ce n’è più.
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14 marzo: Beato Filippo Longo (XIII sec.), presidente delle suore clarisse
A Filippo Longo capitò di essere il settimo seguace di Francesco d’Assisi, quando era ancora una banda di mistici scalzi e potenzialmente sovversivi; poi di fare carriera prendendo ordini da un papa, e dirigendo un ordine femminile; e poi all’improvviso fu cancellato, come se non fosse mai esistito: al punto che è quasi per caso che conosciamo il suo nome oltre a un soprannome (“Longo”) che gli deriverebbe dalla sua statura. Non sappiamo da dove venisse (comunque un posto qualsiasi, un borgo ai piedi del Subasio o di Rieti o del contado di Perugia, o di Teramo: nessuna città importante reclama Filippo Longo).
Secondo Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Filippo pur non avendo fatto studi particolari era un oratore particolarmente capace (“il Signore [gli] aveva toccato e purificato le labbra con il carbone ardente, così che parlava di Dio con mirabile dolcezza”). Forse è il motivo per cui Francesco lo portava con sé quando si reca a San Damiano a incontrare Chiara: affinché nessuno osasse sollevare il benché minimo sospetto su questi incontri, gli serviva un testimone convincente che potesse riferire i contenuti delle discussioni tra i due santi e garantirne l’ortodossia.
In seguito Francesco parte per la Terrasanta e quando torna scopre che la predilezione di Filippo per Chiara e le sue consorelle si è trasformata in un vero e proprio incarico amministrativo: Filippo è diventato “primo Confessore, Visitatore, Correttore, e Presidente” delle suore che ancora non si chiamano clarisse ma monache di San Damiano. A conferirgli una tale autorità non poteva che essere stato il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, il grande sponsor di Francesco e Chiara presso la curia di Roma.
Francesco, che probabilmente senza Ugolino avrebbe rischiato più di un processo per eresia, questo tentativo neanche troppo velato di trasformare il suo movimento di poveri in un ordine gerarchico manovrato dalla curia non lo digeriva così bene. Lo si capisce da piccoli episodi come questo, riportato da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia: appena scopre che Filippo ha fatto carriera come capo delle clarisse, lo destituisce immediatamente dichiarando: “I miei frati proprio per questo sono chiamati Minori, perché non presumano di diventare maggiori“. Può darsi che semplicemente Francesco ritenesse Chiara e le sue sodali in grado di governarsi da sole. Filippo abbozza, ma Francesco è già malato e muore nel giro di qualche anno (1226); pochi mesi dopo Ugolino diventa papa Gregorio IX e rimette Filippo al suo posto di confessore e presidente delle clarisse.
Sono gli anni in cui i francescani si dividono tra un’ala più oltranzista che vuole ritornare all’esempio del fondatore, e una maggioranza ‘conventuale’ ormai organizzata come un ordine religioso. Filippo dà la sensazione di essere uno dei tanti operatori di questa normalizzazione, ma come spesso accade c’è sempre qualcuno più normalizzatore di te che a un certo punto ti fa le scarpe e non è nemmeno escluso che a un certo punto Filippo sia caduto in disgrazia. Il suo nome viene citato tra i testimoni oculari consultati dai tre frati che nel 1246 stilano la “lettera di Greccio”, un documento che accompagna una raccolta di testimonianze inedite su Francesco, finora ignorate dalle biografie. Questi tentativi di raffigurare un Francesco diverso da quello ufficiale vengono completamente fermati nel 1263, quando al Capitolo Generale di Pisa l’ordine francescano stabilisce di distruggere tutte le biografie del santo e sostituirle con l’unica omologata, la Legenda Maior compilata per l’occasione da Bonaventura di Bagnoregio, ministro generale dell’ordine.
Bonaventura di Filippo Longo non fa menzione. Come se non fosse mai esistito: e se l’opera di cancellazione prevista dai francescani fosse stata completa, oggi non sapremmo nulla di lui. E in ogni caso non ne sappiamo molto. Secondo lo storico seicentesco Ludovico Jacobilli, specializzato in santi di Umbria e dintorni, i superiori lo avrebbero trasferito in Alvernia, dalle parti di Clermont-Ferrand, dove avrebbe continuato a stupire gli ascoltatori con le sue doti oratorie davvero innate, se anche il passaggio da Italia a Francia non le aveva appannate. Lo stesso Jacobilli ammette che altri cronisti lo danno per morto molto più vicino ad Assisi, ovvero a Perugia: e sepolto in uno dei convento di suore che dirigeva; il che forse era ammissibile prima di un’ulteriore normalizzazione degli ordini maschili e femminili: ma già ai tempi di Jacobilli risultava troppo difficile da accettare.
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Non ci paga nessuno per discuterne, e quindi tanto vale essere franchi: riguardo ai migranti, non c’è un governo italiano che non abbia le mani insanguinate, perlomeno da Berlusconi in poi. Alcuni hanno avuto il relativo merito di trattare la situazione come una crisi umanitaria – il che non significa che non abbiano commesso negligenze imperdonabili. Altri hanno deliberatamente lasciato annegare migliaia di persone, mentre cercavano di coprire le loro responsabilità sviluppando teorie del complotto risibili (i “taxi del mare“); quello che è successo insomma a Cutro, e tra breve succederà altrove, non è niente di nuovo: possiamo dire che il governo Meloni ha dimostrato, nel frangente, una determinazione criminale, ma non diversa da quella mantenuta ad esempio ai tempi di Minniti. Quello che sorprende, nella tragedia di Cutro, quello che ci costringe a collegare i morti annegati al voto dello scorso settembre, è la specifica assurdità dell’episodio: non il fatto che siano morti, ma che siano morti a duecento metri dalla terraferma, a poche ore da un avviso di Frontex e mentre le imbarcazioni più adatte al soccorso restavano al molo. Tutto questo può anche essere successo a causa di una terribile coincidenza di eventi – vedremo cosa ne penserà la magistratura – ma non si può escludere che c’entri la profonda insipienza di alcuni elementi della catena di comando che fino a settembre magari facevano altro, anche se è difficile immaginare che altro fossero in grado di fare.
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2/12/2022 |
Il fatto nuovo, insomma, non è che si lascino annegare i migranti: è da molti anni che lo facciamo. Ma non in modo così smaccato, non a così pochi metri dalle nostre spiagge: bisogna essere stupidi per ammazzarli così e a quanto pare lo siamo diventati. Siamo probabilmente passati dalla fase in cui i governanti raccontavano sciocchezze per giustificare i nostri crimini (il “pull factor”), alla fase in cui nuovi governanti, persino più ingenui dei precedenti, credono a quel tipo di sciocchezze. Vent’anni di giornaletti fascisti scritti da mestatori fatti passare per giornalisti controcorrente hanno creato quel tipo di politico che probabilmente crede davvero che gli aspiranti migranti s’informino prima di partire su che tipo di governo esiste in Italia: se c’è al governo la “sinistra immigrazionista” corrono subito a fare le valigie; se invece vince aa Meloni subito cominciano a passarsi la voce sui loro smartphone (visto che hanno tutti lo smartphone): eh no, quella è tosta, meglio restare sotto le macerie di un bombardamento o di un terremoto od ovunque ci troviamo.
Siccome poi qualcuno recalcitra, siccome qualcuno ormai magari è già a metà strada e va dissuaso finché è in tempo, occorrono lezioni esemplari: in fondo una volta ammesso che possa esistere un pull factor, non si può che giungere alla conclusione che esso possa essere contrastato da un non-pull factor, ad esempio dalla notizia di una strage così vicina alle nostre coste. Un avviso a tutti i poveri del mondo: lasciateci perdere, siamo degli animali, potreste naufragare a cento metri dalle nostre spiagge e non faremmo nulla per salvarvi, è chiaro? Affogarne sessanta per educarne un miliardo, probabilmente ai piani alti la pensano così.
Cioè, “pensano” è una grossa parola. Non hanno la percezione della quantità, vivono in un mondo immaginario dai confini elastici. Scambiano l’Africa per un cortile, il Mediterraneo per un oceano, lo straniero è un alieno ostile che però ragiona esattamente come un lettore di Libero, se possiamo definirlo ragionare. Vogliono soluzioni semplici, il che richiede problemi semplici: la pressione demografica mondiale non lo è, e quindi smette di essere un problema, insieme alle cause che la determinano. Ci sono solo migliaia di persone che hanno voglia di venire da noi, ma se gli mostriamo che siamo degli animali spietati e incivili vedrai che la voglia gli passa.
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3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo
Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce “Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo” del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei santi si legge ciò:
“Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo”.
Il… sempre presente estremismo arabo?
È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest’ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di “estremismo arabo” si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché “estremismo arabo” è proprio un’espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché… né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale.
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Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar |
A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell’omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va.
All’inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall’ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l’Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l’impero del Negus non è dietro l’angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope.
Nessun “estremista arabo” li ostacola, ma giunti all’altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com’era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l’ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata.
Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un’esperienza missionaria non fortunata nell’isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano.
A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove si per qualche tempo tirano a campare curando i malati. Liberat improvvisa anche un’attività di orafo: ma la loro permanenza in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un’altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest’ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un’opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l’ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c’entrano molto.
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2 marzo: San Luca Casali di Nicosia (IX secolo), che predicò alle pietre
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È da tre giorni che sono contento. Ma poi ci penso su e mi preoccupo, per un istante mi spavento addirittura. Però sono contento lo stesso. Insomma a quanto pare sono vivo. Era da parecchio che non mi succedeva, mi ero anche un po’ scordato. Elly Schlein è la nuova segretaria del Partito Democratico, e io sono contento, perché l’ho votata (è dal 2014 che la voto, a quanto pare). Ma ho anche paura, perché non me lo aspettavo. L’ho votata perché, sono un proporzionalista (una fede ancora minoritaria del Pd); per me ancora due giorni fa l’idea era a mostrare ai bonacciniani che esiste una sinistra del partito con un peso rilevante. Salta fuori che la sinistra pesa più di Bonaccini e soci: è una sorpresa per tutti, direi, e ci pone tutta una serie di problemi che almeno non sono i soliti problemi. Anche perché, per quanto possiamo festeggiare, dobbiamo sempre avere in mente l’obiettivo.
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Avvenire |
Queste primarie la Schlein le ha vinte con seicentomila voti scarsi (il suo rivale ne ha presi ottantamila in meno). Alle prossime elezioni il Pd deve prendere almeno sette milioni di voti. La Schlein può arrivarci? Devo essere sincero: per quanto io l’abbia votata, per quanto mi ispiri una genuina simpatia, fino a domenica pensavo di no. L’ho trovata, forse la trovo ancora, un personaggio molto divisivo, un bersaglio ideale per gli hater professionisti e dilettanti – prendete quello che hanno scritto e memato su Rosy Bindi e Boldrini e moltiplicatelo per “bisessuale”, “origini ebraiche”, “Svizzera”. Trovavo che facesse un buon contrappunto all’emilianocentricità di Bonaccini, ma se diventa la componente più importante del Pd, non rischia di ridimensionarlo? È probabile, ma d’altro canto forse stiamo prendendo il problema dal corno sbagliato.
Oltre al fatto che la Schlein ha vinto, occorre notare che Bonaccini ha perso. Di poco: ma avrebbe dovuto vincere di molto. Sembrava una candidatura molto più solida, invece non lo era. La sua strategia per arrivare a quei sette milioni era lineare, e non molto diversa da quella che ha funzionato con aa Meloni lo scorso settembre: aspettare. Aa Meloni ha aspettato vent’anni – che Berlusconi invecchiasse, che Salvini si bruciasse – finché davvero doveva toccare a lei, a destra non c’era più nessuno possibile (del resto guardate con che ministri si ritrova). Sull’altra sponda, Bonaccini è sempre sembrato ispirato a un analogo attendismo. Lui stesso sembra essere arrivato a capire di avere delle chance per esclusione: bruciato Bersani, bruciato Renzi, restavano i presidenti di regione. Puglia fuori, Campania improponibile, Lazio è durato tre anni, a chi tocca adesso? Oddio, ma tocca a me.
In controluce il solito errore di prospettiva degli esponenti del Pd, convinti di poter disporre dell’identità del partito senza preoccuparsi – come tutti gli altri politici, al giorno d’oggi – di registrare i nomi e i simboli; tutto il contrario, il Pd per Veltroni doveva essere un partito leggero ma già al tempo si dava per scontato che sarebbe stato il partito di Veltroni: si aprivano le primarie ai non tesserati dando per scontato che avrebbero plebiscitato Veltroni, ma poi si restava perplessi quando un sacco di sconosciuti entravano per votare, comprese persone non esattamente, come dire, bianche. Ma in un qualche modo le due classi dirigenti che si erano fuse nel Pd erano convinte che il partito sarebbe rimasto cosa loro per sempre, e più in generale che uno dei due poli della politica italiana sarebbe stato occupato da loro: un diritto di prelazione basato sull’anzianità. Ne erano talmente convinti che hanno lasciate aperte le primarie ai non iscritti, malgrado fosse chiaro ormai da dieci anni e più che si trattava di una sciocchezza.
Altri si sarebbero preoccupati di individuare un blocco sociale di riferimento, ma Veltroni voleva piacere a tutti e i successori avevano paura di dispiacere troppo a qualcuno; altri si sarebbero preoccupati di mantenere un’egemonia culturale, ma in quel reparto a un certo punto è entrato Franceschini che si è baloccato con le sue piattaforme finché ha potuto. Bonaccini ha continuato a dare per scontato uno zoccolo duro di lettori dell’Unità, anche se nel frattempo l’Unità è fallita tre volte; la Schlein non è che potesse contare su chissà che mediatico fuoco di fila, eppure un po’ di passaparola le è bastato per spostare il baricentro di un partito la cui massima aspirazione ormai era rappresentare il buongoverno di alcune regioni d’Italia: neanche tante.
La Schlein in compenso ha tutto quello che serve per apparire la segretaria del partito delle ZTL, il famoso partito metropolitano che non riesce a ripartire dalle periferie. A proposito: chi vi dice che le elezioni si vincono nelle periferie, quasi sempre non sa di cosa sta parlando, è convinto che sia un sinonimo di “provincia”. Non è che le periferie non siano importanti, ho molti amici periferici, però quanti milioni di italiani ci vivono? In provincia più della metà, fine della questione. In provincia, molto più che in periferia, il blocco sociale che si riconosce naa Meloni è definito con una certa chiarezza: si tratta della piccola-media impresa. Questo spiega l’importanza che assumono a ridosso delle elezioni questioni tutto sommato non cruciali, come l’obbligo del pos o il tetto del contante. Ma anche il reddito di cittadinanza che impedisce ai poveri ristoratori di sottopagare i camerieri, le rivendicazioni dei balneari, il miraggio della flat tax, e una serie di argomenti che persino aa Meloni non osava più toccare, ma i suoi elettori continuavano a crederci: l’uscita dall’Euro, l’antivaccinismo. La piccola-media impresa non è necessariamente fascista: vota per chi le promette di lasciarla in pace, quindi adesso vota Meloni, prima Salvini, qualcuno ha provato Renzi, ha preso anche una breve sbandata per Grillo; in sostanza chiunque le prometta che c’è ancora qualche margine in un mondo globalizzato che presto o tardi lo rimuoverà. Sotto sotto la Piccola Impresa Italiana lo sa, che non è equipaggiata per fronteggiare l’emergenza climatica, la nuova guerra fredda che allontanerà forse per sempre gli oligarchi orientali dai nostri alberghi e dalle nostre boutique, la smaterializzazione dei servizi, la globalizzazione logistica di Amazon, eccetera. Non sono scemi: sono soltanto disperati e quando si è disperati si sale su qualsiasi barcone.
Ora questo stasera mi preoccupa: non solo la piccola media impresa non troverà motivi per votare la Schlein, ma in lei può individuare facilmente un nemico di classe. La borghese metropolitana che non vuole usare contante, non capisce perché non si possano raddoppiare le licenze dei taxi, e magari vuole tassare chi ha un patrimonio, una seconda casa, una barchetta. Con Bonaccini sarebbe stato diverso? Sì, se Bonaccini avesse dimostrato un carisma che queste primarie non hanno rilevato. Per come stanno le cose, forse questo Pd non ci deve nemmeno provare, e concentrare invece le sue energie sulle classi sociali che da questo Pd si aspettano di essere rappresentate: lavoratori dipendenti, giovani, minoranze. Tutto qua, e Calenda e Conte raccatteranno il resto. Qualcuno se ne andrà – qualcuno se ne sta già andando, ma è un partito aperto, non c’è nemmeno una porta da sbattere. Un’altra scissione sarebbe ridicola, con tutti i partitini che ci sono già, e forse a Bonaccini e co. conviene interpretare l’opposizione ragionevole, il ruolo interpretato con tanto successo da Giorgetti nella Lega.
Se alla fine semplicemente ci troveremo un partito socialdemocratico al 15%, avremo almeno conquistato il diritto di votare per un partito socialdemocratico, che in tutte le altre nazioni d’Europa è garantito e non si capisce perché invece in Italia no. È il partito che può vincere alle prossime elezioni? Dipende molto da quanto aa Meloni avrà deluso – che succeda è sicuro, ma se delude troppo rischia di sgonfiarsi subito e sollecitare l’ennesimo governo tecnico; se invece delude poco ce la potremmo tenere pure dopo il ’28? Non ne ho idea. Sono sempre quello che domenica sera era convinto che avrebbe vinto Bonaccini. Invece ha vinto la Schlein e le dico, in bocca al lupo (ma si può dire? Non lo so). Non credevo che vincesse, ma ho votato per lei. Ho votato per lei, ma non ero sicuro che fosse il candidato più adatto. Comunque ha vinto, e ora sarà bersagliata a 360°. Mi stava già simpatica prima, nei prossimi mesi non credo che riuscirò a essere oggettivo nei suoi confronti. Non è paternalismo: la stessa reazione l’ebbi con Bersani. Spero che le vada meglio. Lo spero per tutti noi.
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28 febbraio: martiri dell’inferno di Unzen (28/2/1627)
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I resoconti dei martiri del Kirishitan – il cristianesimo giapponese – sono spesso raccapriccianti. O forse è la mia sensazione? Sono talmente assuefatto ai racconti occidentali di fanciulle mutilate e date in pasto alle belve che non ci trovo ormai niente di strano, mentre le crocifissioni di massa praticate dai giapponesi nel Seicento mi sgomentano. Se qualche martire da noi è mai stato davvero gettato nella bocca di un vulcano, è stato così tanti secoli fa che non ho difficoltà a considerarla una leggenda: ma che sia successa la stessa cosa appena 400 anni fa a Unzen Jigoku (un piccolo vulcano vomitante acque sulfuree e corrosive, spesso tradotto “inferno dell’Unzen”) mi ispira un genuino orrore.
Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull’eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)
Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l’impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun.
Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L’ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell’arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell’arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)
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27 febbraio: San Gabriele dell’Addolorata (1838-1862)
Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell’Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l’ho appena fatto.
L’episodio che ho in mente è l’incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un’esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l’ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele.
I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po’ a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia.
Gabriele diventerà l’amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L’Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po’ più smorte, fragili e sexy.
La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera). La tbc insomma nell’Ottocento contribuisce a svecchiare l’immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all’invenzione dello pneumotorace, all’introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.
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La scorsa settimana Rihanna ha fatto quello show al Superbowl, l’avrete vista no? Poi l’altro ieri è scomparso Maurizio Costanzo – nei confronti del quale mi dichiaro neutrale, non sono mai riuscito a trovare niente di interessante in quello che faceva che comunque non ho mai visto per più di dieci minuti senza cambiare canale. Può darsi che questa sostanziale immunità ai talk notturni fiume sia una menomazione, eppure ho il sospetto che se in Italia ci fossero stati più menomati come me Vittorio Sgarbi avrebbe fatto il… il… (scusate lo stallo, ma non riesco a trovargli un solo mestiere onesto, giuro, è da tre minuti che ci provo e qualsiasi uniforme o camice gli metto addosso non c’è niente da fare, nella mia testa lo cacciano a pedate il secondo giorno e/o finisce al gabbio, no ma grazie Maurizio Costanzo).
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Beh certo, qui avrei potuto mettere una foto di Costanzo. |
La coincidenza di questi due eventi totalmente irrelati – Rihanna pregna, Costanzo defunto – mi ha riattivato un ricordo abbastanza remoto, non saprei dire in che anno fossimo, ma doveva essere l’anno Uno da Umbrella, ve la ricordate Umbrella? Vi ricordate che per tre mesi non si era sentito altro, ed era il momento in cui le canzoni si cominciavano a sentire anche al telefono, e da tutti i telefoni si sentiva Umbrella? Era lievemente pervasiva, ecco. Io ero al ristorante con gente di un certo spessore intellettuale, e a un certo punto uno di loro si lascia sfuggire che Maria De Filippi era un genio.
Io lo giuro, al ristorante sono una persona molto più conciliante che qua sopra, epperò questa cosa di chiamare X un genio non la sopporto, perché alla fine cos’è un genio? Per prima cosa è una persona più brava di me, e questo già mi mette in una cattiva disposizione d’animo. Anche per evitare questa cosa milito da anni in una corrente di pensiero che si rifiuta di considerare la “genialità”, di solito prendiamo i geni del passato, li passiamo al microscopio finché non scopriamo che erano semplicemente le persone giuste nel momento giusto, gran parte delle loro innovazioni in realtà le avevano scopiazzate, altre non funzionavano ecc. ecc. Nel caso di Maria De Filippi, però che microscopio vuoi usare? Cos’è che avrebbe inventato che non sia una copia cheap di qualcosa che era già bruttino in partenza?
Io insomma obiettai che un genio forse sarebbe stato in grado di fare una televisione più interessante di un’infinita diretta dal salone di una parrucchiera (ero ancora sotto choc da quella volta che un dentista mi aveva ricevuto al pomeriggio e alzando la poltrona verso il soffitto mi ero ritrovato immobilizzato davanti a un televisore che mandava Uomini e Donne, io cercavo di concentrarmi sul dolore che stavo provando mentre mi trapanava il dente, ma niente da fare, Uomini e Donne a metà pomeriggio, vi rendete conto).
Comunque questo tizio, cominciate a immaginarvi il tipo, l’accento metropolitano con qualche sprezzatura da fuorisede e gli anglismi da laureando in scienze della comunicazione, riuscite a vederli i baffetti? Insomma questo tizio a spiegare che invece no, era proprio quello il suo genio, questo lungo protrarsi della diretta pomeridiana, “la tv come flusso” deve avere detto così, e io obiettavo che vabbene il flusso, ma se non riesci neanche ada annunciare i break pubblicitari e il regista esasperato ti stacca a metà discorso forse non rispetti il mezzo che stai usando, quel minimo di sintassi che ti impone la tv commerciale. A quel punto lui comincia a sospettare che io sia l’astruso intellettuale nella torre d’avorio e che non capisca il popolo, perché è quello che fa Maria, no? dare la voce al popolo – io obietto che per quanta ne avevo visto io, la tv defilippiana non era poi così rispettosa del popolo, anzi piuttosto paternalista/maternalista nei confronti di una plebe messa davanti a un obiettivo talvolta davvero parecchio cinico, e non era un caso che piaccia a diversi intellettuali autopercepiti che almeno una volta alla settimana devono sincerarsi di essere migliori di qualche poveraccio.
Ma lui a quel punto non mi sentiva più, aveva capito tutto di me, evidentemente passavo le mie serate a leggere l’epopea di Gilgamesh in lingua originale e non capivo le necessità della gente, di fare televisione da sola, di specchiarsi, di capirsi, io ci provavo anche a obiettare che lo specchio comunque è sempre qualche borghese romano che lo tiene in mano, che proprio perché la tv è una cornice c’è sempre qualcuno che decide cosa mostrare e cosa no, e che quel qualcuno ha immense responsabilità: può decidere di occupare il palinsesto con cose belle ed educative o con “flussi” di chiacchiere e fotoromanzi; che l’abbassamento del livello culturale era un fatto, la Mediaset aveva precise responsabilità, la Fascino aveva la sua parte di responsabilità, è inutile nascondersi dietro i flussi e dietro gli specchi quando il risultato è che dopo un po’ tutto diventa lo stesso pastone sonnacchioso, nel quale anche qualche intellettuale certo ogni tanto ama indulgere… e a quel punto mi ero reso conto che dalla televisione si sentiva Rihanna. Ma dov’ero rimasto?
Ah sì, dicevo, anche l’intellettuale ogni tanto ama indulgere in questo pastone sonnacchioso, ma col cinismo del privilegiato che tra Rihanna e Mozart ogni tanto legittimamente preferisce Rihanna, e però in casa ha tutto il Mozart che vuole e può cambiare programmazione appena vuole, mentre il “popolo”, se tu stai nella stanza dei bottoni e decidi di programmare soltanto Rihanna, non avrà scelta e ascolterà soltanto Rihanna, e a quel punto lui mi disse, a me intellettuale eburneo, disse:
– Chi è Rihanna?
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