Bob Dylan, manifestaiolismi, musica

Mr Dylan va a Washington

Live at Carnegie Hall 1963 (2005)

(L’album precedente: Brandeis University 1963
L’album successivo: The Times They Are A-Changin’).

Qualcuno qui magari si ricorda di Placanica. Quel ragazzo che sparò a Giuliani a Genova – in realtà dagli atti del processo risulta che sparò in aria ma la pallottola incontrò un sasso, e vabbe’. Qualcuno rammenta che aria tirava nei mesi successivi? Ecco, immaginate che a un’enorme manifestazione, convocata in quei mesi per chiedere verità e giustizia sui fatti di Genova, un giovane cantautore prendesse la chitarra in mano e davanti a tutti cantasse: lasciate stare Placanica, non è mica colpa sua. È solo una pedina nel loro gioco. No, non mi pare che sia successo. Ci sarebbe voluta una certa incoscienza, una certa faccia tosta, una certa miscela di entrambe che è merce rarissima.

Una pallottola da un cespuglio si prese il sangue di Medgar Evers…

Tra il festival alla Brandeis University e il concerto alla Carnegie Hall ci sono appena cinque mesi, ma i tempi stanno decisamente cambiando, non solo per Dylan. Il ragazzo ha iniziato a vendere dischi – non tanto i suoi, all’inizio: è la versione di Blowin’ in the Wind di Peter, Paul and Mary a essere entrata in top ten. Ma è Joan Baez soprattutto che lo ha preso sotto la sua ala. Con già tre dischi d’oro all’attivo, la Baez non è soltanto una cantante folk: lei è popolare davvero. Il suo pubblico è molto più esteso di quello del folk festival di Newport (dove comunque chiama sul palco Dylan in luglio); più trasversale della piccola comunità di studenti e hipster metropolitani che cercano nel folk una connessione sentimentale con l’America vera (il Paese reale, lo chiameremmo oggi). Lo si vede chiaramente appena un mese dopo.

Il 28 agosto centinaia di migliaia di manifestanti marciano su Washington per chiedere pace, lavoro e diritti civili. Se guardate le foto, è uno di quei casi in cui in Italia si parla di un milione, un milione e mezzo (centomila per la questura). L’80% erano afroamericani e probabilmente non avevano mai assistito a concerti folk. Ma Joan Baez aveva le carte in regola per prendere il microfono – qualche ora prima che il reverendo Martin Luther King annunciasse “I had a dream” – e intonare Freedom, intonare We Shall Overcome. La Baez però si era portata anche Dylan. Che occasione storica per cantare Blowing in the Wind davanti a centinaia di migliaia di persone, no? Pensate che Dylan la coglierà?

E poi vi stupite che non vada a Stoccolma. A un pubblico così diverso dal solito, il giovane cantautore bianco non propone il suo primo (e fin qui unico) successo, l’unico brano che avrebbero potuto sentire in radio; l’unico di cui qualcuno avrebbe potuto canticchiare un ritornello – è vero che da qualche parte del corteo lo avevano già intonato Peter Paul e Mary, ma nessuno se la sarebbe presa per un bis. A un pubblico tanto affamato di cori da chiesa e/o da stadio, Dylan propone un pezzo che ha appena scritto e non ancora registrato, una canzone che conosce solo lui, ispirata un po’ alla Bibbia un po’ alla Jenny dei Pirati di Bertolt Brecht, When the Ship Comes In. Nel filmato si vede la Baez arrivare in un secondo momento, un po’ a sorpresa, quasi come se avesse capito solo in quel momento che c’era bisogno di dare una mano – ma neanche lei sa le parole, e allora che fa? Canta la melodia. Con l’acustica approssimativa che doveva esserci, con quel benedetto ragazzo che si ostina a masticare parole nuove davanti al microfono, l’unico modo di salvare l’esibizione è far sentire la melodia. Lei se ne rende conto subito, e interviene. Una professionista, lei.

(Non tutti quelli che amano Dylan sono obbligati ad amare la Baez. Ma di solito più conosci lui, più scopri di stimare lei).

Gli sceriffi, i soldati, i governatori sono pagati, e i federali e i poliziotti; ma il povero bianco è nelle loro mani come uno strumento. Nelle scuole gli insegnano dall’inizio che le regole e le leggi sono dalla sua parte, per proteggere la sua pelle bianca e conservare il suo odio perché non veda mai le cose come stanno, e il ruolo che gli è capitato; ma non va incolpato. È solo una pedina nel loro gioco…

“Ma cosa sta dicendo?”

Come autosabotaggio When the Ship non era sufficiente. Quando lo richiamano sul palco centrale, Dylan aggiunge un altro inedito, Only a Pawn in Their Game, che oltre a essere una delle melodie più brutte mai trovate da Dylan in 50 anni di altalenante carriera, è anche il brano che cerca di contestualizzare, se non di minimizzare, le responsabilità individuali di Byron De La Beckwith, l’assassino dell’attivista per i diritti umani Medgar Evers appena due mesi prima. Andrà ancora in giro per molti anni a vantarsi di aver mirato al negro che tornava a casa da una riunione; due giurie di soli bianchi lo proclameranno innocente. Ma è solo una pedina nel loro gioco, dice Dylan. Ha ancora i capelli molto corti, l’inquadratura stringe sul suo bel viso imberbe, la chitarra non si vede e quasi non si sente, non è mai stato così poco cantante e così predicatore. Qualche manifestante sembra sbigottito, ma forse sta solo cercando di capire le parole: l’acustica era pessima. Oggi la definiremmo una provocazione, ma non tanti si accorsero di quello che Dylan stava facendo – lui stesso non era così consapevole: non ancora abituato a essere interpretato e sviscerato per ogni parola e ogni silenzio. E davvero, quel giorno tutti avevano ben altro a cui pensare. Chi c’è stato, ricorda che sulle corriere lo stato d’animo prevalente era l’ansia. Non andavano a una festa, sapevano di potersi prendere gas o pallottole. La marcia su Washington è solo l’inizio: poi ci saranno altre battaglie, e Joan Baez ci sarà quasi sempre. Dylan invece è già a disagio – o è un’impressione?

Due mesi l’artista emergente fa una data al Carnegie Hall. La registrazione è così buona che alla Columbia pensano di farne un disco; hanno già mandato in stampa la copertina quando cambiano idea, non si è mai capito il perché. Live at Carnegie Hall 1963è il disco che ha rischiato di essere il primo live ufficiale di Dylan, dieci anni prima di Before the Flood. I brani hanno circolato per trent’anni su bootleg abusivi prima di entrare, un po’ alla spicciolata, nel catalogo ufficiale: una nuova versione di Talkin’ John Birch Paranoid Blues e un inedito, Who Killed Davey Moore?, escono nel primo volume della Bootleg Series nel 1991; una Hard Rain e When the Ship Comes In usciranno nel settimo volume, la colonna sonora del documentario No Direction Home di Scorsese. Allo stesso volume viene allegato un minialbum con sei canzoni, che è quello a cui stiamo facendo riferimento adesso, perché Dylan senz’altro ci interessa ma non siamo fanatici. Se fossimo fanatici, potremmo recuperare tutte le canzoni del concerto dall’edizione limitatissima in sette 33giri di tutti le incisioni di Dylan del 63, che la Columbia ha stampato per evitare che dopo 50 anni scadano i diritti (ne esistono soltanto cento copie in vinile).

Restiamo sui brani del miniLP, che ci sarebbe già tanto da dire. Il concerto comincia con quella che dovrebbe essere la prima versione mai incisa di The Times They Are A-Changin’, un brano che attualmente su Spotify risulta ascoltato 48 milioni di volte – il doppio di Blowing in the Wind. Tra le canzoni di Dylan, solo Like a Rolling Stone la sorpassa. Io quando l’ho risentita in tutto il suo nudo splendore, sui titoli di apertura di Watchmen, non la ascoltavo probabilmente da 15 anni. È chiaro che quando chiede ai genitori di dont’t criticize what you can’t understand non mi fa più l’effetto che mi faceva alle scuole medie. È chiaro che se dovessi ridurre tutto Dylan a un verso solo probabilmente sceglierei proprio “don’t criticize what you can’t understand”, che è poi quello che ha ripetuto ai critici per mezzo secolo, invano. (In effetti, cosa stiamo facendo in questo esatto momento?) Ma se ora l’ascolto nella sua prima versione live è perché sto cercando di toglierla dal suo involucro di canzone-famosissima-di-BD e cercare di calarla in un contesto storico, sociale – in realtà qualsiasi contesto andrebbe bene, pur di riuscire ad ascoltarla con orecchie nuove. Per me è sempre stata un buffo ossimoro, una canzone vecchia che parlava di rivoluzione, di cose nuovissime che sarebbero arrivate. Lasciamo perdere.

Restiamo all’ottobre ’63; quell’estate Dylan ha visto i manifestanti sul mall di Washington, ha ascoltato il reverendo King; gli hanno chiesto di cantare una canzone ma forse lui non aveva quella giusta da cantare. Pochi giorni dopo il suo amico bluesman e scrittore Tony Glover lo va a trovare nel suo appartamento sulla Quarta Strada. Sul tavolo di lavoro i soliti scartafacci. Glover intravede un paio di versi che già nel ’63 sembrano i meno dylaniani in assoluto: “come senators, congressmen, please heed the call“. Venite senatori e deputati, per favore, ascoltate l’appello. A quel punto Tony racconta di aver detto: “ehi, ma che roba è?” (What is this shit, man?), per sentirsi rispondere; beh, sai, sembra che sia la roba che alla gente piace ascoltare. Seguirà un mezzo secolo di ritrattazioni, in cui Dylan negherà di aver mai cercato coscientemente di cambiare il mondo con le canzoni, o di aver mai ambito a un ruolo da portavoce di un movimento o di una generazione. Forse l’unico modo di riascoltare The Times con orecchie vergini è tentare un po’ di sano revisionismo: c’è stato un momento in cui ci ha davvero provato, in cui si è messo a tavolino e ha tentato di costruire la canzone adatta per la prossima Grande Marcia. La sua We Shall Overcome. E c’è riuscito?

Oso rispondere di no (continua sul Post).

25 aprili, ebraismo, Israele-Palestina, manifestaiolismi, resistenza

Tutti nazisti anche quest’anno, buon 25 aprile

È un discorso che si è già fatto, ma se ripetere non sempre aiuta, sicuramente non nuoce: i rappresentanti della Brigata Ebraica hanno tutto il diritto di partecipare ai cortei del 25 aprile senza essere fischiati.

www.combattentiliberazione.it

A chi li contesta – non sono poi in tantissimi – manca senz’altro un po’ di educazione, non tanto nel senso di buone maniere. Da qualche parte c’è una lezione sulla memoria e sulla Resistenza che qualcuno avrebbe dovuto studiare meglio; ci sono concetti come sionismo ed ebraismo che non dovrebbero essere così fumosi. E così via. È una responsabilità che ci dobbiamo prendere un po’ tutti sulle spalle, come educatori o anche solo come gente che scrive on line – visto che siamo tutti nel nostro piccolo educatori, siamo tutti gente che scrive on line. Nella nostra ideale festa del 25 aprile è invitato chiunque voglia ricordare i combattenti contro il nazifascismo, e se proprio si vuole contestare qualcuno, si contesta chi rimane a casa.

Ah, e il Gran Muftì non c’entra niente.

Perché se prendersela con tutti gli ebrei per l’occupazione della Palestina è un gesto ignorante e arrogante, accusare tutti i filopalestinesi di intelligenza col nazismo è più o meno sullo stesso livello di ignoranza e arroganza. Anche questo, mi rendo conto, è un discorso trito e ritrito: durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono palestinesi che combatterono Hitler e altri (un po’ di più) che collaborarono con lui – qualcosa di simile a quel che successe in Italia, tutto sommato. Questo toglie agli italiani il diritto di festeggiare il 25 aprile? Questo dovrebbe impedire ai palestinesi di chiedere la liberazione da un’occupazione militare? Lo sfogo di Peppino Caldarola mi sembra indicativo di un atteggiamento lievemente autoreferenziale: le contestazioni tra filopalestinesi e rappresentanti della Brigata avranno coinvolto al massimo qualche centinaia di persone. È senz’altro un incidente fastidioso e – parlo almeno per me – di una prevedibilità mortale. Si può fare qualcosa per evitarlo in futuro? Non lo so. Ma il punto è che per Caldarola non vale nemmeno la pena: se succede qualcosa del genere, va chiuso il 25 aprile, fine. Ah: e chi sventola una bandiera palestinese è un nazista.

Ecco: io sarei disponibile anche a scrivere tutti gli anni lo stesso pezzo in cui spiego che chi sventola la bandiera della Brigata Ebraica non è responsabile dell’incancrenirsi della questione israelo-palestinese. Ma se dall’altra parte, ogni volta, mi tocca sentire che tutti palestinesi sono nazisti, e anche tutti i loro amici, e anche gli amici dei loro amici… mi sa che ogni anni ripartiremo da zero.

attivismo, guerra, manifestaiolismi, terrorismo

Avevamo il 5% e avevamo ragione

Avevo in bozza la fine del ragionamento sul partito di sinistra del 5%, che questa settimana sembra abbastanza superato (alligna in me almeno il germe dell’ottuso-bravo-cittadino, quello che nei momenti di crisi si stringe alla bandiera e alle istituzioni; al punto che riesco ad apprezzare un buon discorso di Renzi e persino qualche degno intervento di Angelino Alfano; e a sospirare al pensiero che nelle stanze dei bottoni ci siano loro e non altre creature sempre meno antropomorfe).

Una cosa però la voglio buttare giù, visto che in questi giorni è facile andare col ricordo al periodo della guerra al terrore. Bene, se c’è stato un momento, negli ultimi vent’anni, in cui una sinistra minoritaria ha dimostrato di essere utile, se non necessaria, è stato quello. Non eravamo tantissimi, non avevamo necessariamente categorie più raffinate dei neocon che avversavamo; non eravamo eleganti, non sapevamo capitalizzare i successi dei forum sociali e dei cortei no-war. Non eravamo l’avanguardia intellettuale del Paese e non meritavamo senz’altro di conquistare l’egemonia; però avevamo ragione.

Ce lo hanno mostrato i fatti, lo ha ammesso persino il mellifluo Tony Blair. Qualsiasi ingenua analisi postata su un blogghetto amatoriale (che mi costa una certa fatica andarmi a rileggere) sembra comunque illuminata da una spaventosa chiaroveggenza, se solo la paragono alle ciarle che nello stesso periodo facevano sbrodolare alla povera Fallaci. Avevamo ragione sui rischi di destabilizzazione del Medio Oriente, avevamo ragione nel liquidare a sberleffi le ideologie contraddittorie dello scontro di civiltà e dell’esportazione della democrazia; eravamo forse un po’ più ingenui quando parlavamo di petrolio, ma almeno avevamo capito che sotto la trama religiosa c’è sempre la cara vecchia economia.

In seguito c’è chi è partito per la tangente; chi aveva troppo fiuto per i retroscena ha iniziato a vedere false flag e scie chimiche; però l’intuizione iniziale era buona, e veniva da un ambiente che conservava gli strumenti per vedere quello che altri non potevano o non volevano vedere, per diplomazia o per interesse o pura e semplice insipienza. Non è che abbia nostalgia di quello spazio e di quel momento (che non è mai riuscito a costituirsi in un partito organizzato, peraltro). Ma credo che molti giovani avrebbero bisogno proprio di un ambito del genere, dove coltivare un sano dubbio post-ideologico e imparare a irridere gli impavidi arruolatori di ogni stazza ed età. Certo, le elezioni non si vincono subito e forse non si vinceranno mai. C’è però anche altro nella vita: e anche il piccolo orgoglio di avere avuto i dubbi giusti e quasi sempre ragione non è da sbatter via. Ci si può costruire qualcosa.

(Vien quasi la vertigine, a pensare quanto ero stupido quando avevo sempre ragione. A me poi piacerebbe anche aver torto ogni tanto, son quel classico Tramaglino a cui piacerebbe annoiare il prossimo raccontando i propri errori di gioventù. Ne avessi fatti un po’ di più! e invece quasi niente).

1500 caratteri, manifestaiolismi, scioperi, scuola

Quelli che non scioperano domani

Quelli che tanto non serve.
Quelli che altro che sciopero, il blocco degli scrutini ci vorrebbe, l’insurrezione, il meteorite! Quindi domattina non scioperano.
Quelli che vuoi pure dargli i miei soldi, a quei ladri? E non scioperano.
Quelli che lo hanno già fatto il mese scorso con la gilda-precari-secondafascia o i cobas-fondovalle perciò stavolta no.
Quelli che sarei d’accordo ma poi i genitori chi li sente?
Quelli che devono spiegare il DNA, Kant, le lotte operaie dell’800 per ottenere i diritti sindacali, e quindi non scioperano.
Quelli che non se lo possono permettere.

Quelli che al corteo no, con gli studenti poi. E se qualcuno tira giù il cappuccio e tira una bombacarta, sarà colpa mia che “non ho saputo isolarlo”?
Quelli che lo isolerebbero anche, ma con che? Spranghe, sampietrini, nude mani? Davanti ai poliziotti? Come distingueranno il vandalo dall’isolatore di vandalo? E se nel dubbio mi bastonano e mi ritrovo sanguinante nel tg, e Renzi mi dà del figlio di papà? Piuttosto sto a casa, scrivo su facebook #iosciopero e litigo con quelli che #iononsciopero, almeno la testa è salva.

Quelli che sembriamo fancazzisti che non vogliono essere valutati. Valutati come? Non si sa, il Ddl non lo dice. È la terza riforma che non lo dice. Eh ma sembra lo stesso colpa nostra.

Quelli che eh, ma poi chi sciopera il preside se li segna.
Dici: e che ci fa?
Oggi niente.
Ma domani deciderà tutto lui.
Ah già.

Quelli che però domani scioperiamo lo stesso. Anche per te, se non ti spiace.

1500 caratteri, manifestaiolismi

I Black Bloc non sono il problema (sono la soluzione)

Dispiace che molti ne parlino ancora come di un problema, neanche fosse il 2001. Ma sarebbe incredibile se dopo tanto tempo nessuno avesse trovato un modo per volgere il fenomeno a proprio vantaggio. È il 2015, e i Black Bloc così come li vedete al tg non sono più un problema, davvero. Sono la soluzione.

Repubblica

C’è da qualche parte un movimento di protesta, un corteo di scontenti? Niente paura, ci sarà sempre qualcuno che ne approfitterà per calare il cappuccio e rompere qualcosa. Inflitrati? Fascisti? Non necessariamente. Rompere cose è divertente, il rischio è calcolato, il biglietto per sentirsi in prima linea nella guerra anti-sistema si stacca praticamente gratis.

Lo ammette la stessa catena di comando, su fino al ministro: non si poteva contenere il fenomeno meglio di così. La devastazione che avete visto in video è esattamente la quantità di violenza che ritenevano necessario mostrarci. Nel frattempo al Manifesto si affannano a prendere le distanze – 15 anni che prendono le distanze, ma non basterà mai. La reazione compatta e sdegnata del cittadino medio che il giorno dopo si ritrova in piazza con la scopa in mano è la migliore dimostrazione di quanto siano utili i Black Bloc, ogni volta che si vuole screditare un movimento di protesta (“figli di papà“! Come conosce i suoi polli). E quindi?
E quindi ne avremo sempre. Non tanti, ma sempre. Che fare? La polizza antincendio alla macchina, per esempio, al vostro posto la farei. Anzi l’ho già fatta.
1500 caratteri, manifestaiolismi

Uno schiaffo (con affetto) a Zambardino

Siccome a Vittorio Zambardino voglio bene, lo schiaffo che gli darei è da intendersi come affettuoso, ma pur necessario come quello che si dà a un compagno in choc: ehi, sei ancora tra noi? Cioè sul serio pensi che i tizi in felpa nera si siano decisi a dar fuoco a Milano solo dopo aver scoperto che Erri De Luca riconosce agli oppressi il “diritto-dovere di sabotaggio”?

Quando scrivi che ti senti colpevole, tu e la tua generazione che ne ha dette e fatte tante… non so quanti scheletri tu abbia nell’armadio, però lo capisci che non c’entra più niente? Che i ragazzi in felpa non hanno la minima idea di chi voi siate e di che abbiate fatto di buono e di cattivo; che “l’ambiente informativo che abbiamo dato ai nostri figli” ha su di loro un sedicesimo dell’influenza che può avere Assassin’s Creed?

Che si va ai riots a Parigi o Londra per l’adrenalina; per provare il proprio coraggio ed emulare i compagni più grandi che esibiscono cicatrici e raccontano di epiche battaglie; per i triti motivi per cui cent’anni fa si partiva volontari e mille fa s’andava alle crociate; e in tutto questo il ruolo tuo, di De Luca e della vostra benedetta generazione non è che uno starnuto nell’eterno russare della Storia?

Quando la smetterai, almeno tu, di crederti così centrale; di sentirti in colpa ogni volta che un coglione che non conosci ribalta un cassonetto, di voler portare il mondo sulle spalle? Non è mai stato sulle vostre spalle. È un’altra cosa che vi raccontavate, per sentirvi grandi.

1500 caratteri, giornalisti, Il G8 di Genova 2001, manifestaiolismi

Date un quotidiano a Calabresi

A questo punto potremmo vedere nel vandalismo in felpa nera un fenomeno pandemico, che s’annida in qualsiasi manifestazione, da Baltimora a Milano, indifferentemente dai motivi per cui si convoca, parassitandone la visibilità. Potremmo anche pensare che questa è la prima occasione che ha la polizia, dopo la sentenza di Strasburgo, di farsi un po’ desiderare: basta lasciar campo libero ai vandali (in fondo la stessa tecnica del G8), e in pochi minuti le nostre bacheche si riempiono di invocazioni agli uomini in uniforme. Potremmo pensare tutto ciò: e Mario Calabresi ci darebbe torto. Lui sa perché oggi davano fuoco ad auto e vetrine. È successo perché nessuno ha mai parlato delle devastazioni al g8.

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Chiaro, no?
Qualcuno potrebbe trovare la cosa opinabile: a me per esempio sembra di ricordare che se ne parlò parecchio. Questa per dire era la prima di un quotidiano di Torino che Calabresi forse conosce, il 22 luglio: nota bene che la sera prima la polizia aveva devastato le Diaz, in un orario in cui le redazioni non erano ancora chiuse. Non c’era la Diaz in prima.

E il giorno dopo?

Uno potrebbe far notare che non solo di vandalismi si è parlato, ma che ci sono stati processi e sentenze (un secolo di galera diviso tra 10 condannati in appello). Ma si tratta di obiezioni speciose. Forse Calabresi ha ragione: se dai più visibilità ai vandali, loro magari smettono. Se solo Calabresi potesse farci qualcosa, se solo qualcuno gli desse la possibilità dirigere un quotidiano.

1500 caratteri, 25 aprili, antisemitismo, Israele-Palestina, manifestaiolismi

Giochiamo al 25 aprile (il fascista lo fai tu)

Non credo proprio che mi leggano, ma gli Amici di Israele, decidendo di sfilare al corteo del 25 aprile senza la bandiera dello Stato di Israele, hanno fatto la cosa più intelligente: e chi ha continuato a fischiarli, nonostante sventolassero solo i simboli di una brigata che combatté nazisti e fascisti, la più sbagliata.

Da ieri chi accusa i filopalestinesi di antisemitismo ha un argomento in più; chi ha interesse a descrivere un’Italia e un’Europa sempre più difficili per gli ebrei, un nuovo episodio da raccontare. Rimane un mistero come tutto questo possa risultare utile alla causa dei palestinesi, di cui sventolate orgogliosi le bandiere: a occhio sembra più un favore ai sionisti, che i vostri fischi rendono più forti. D’altro canto è pur vero che in corteo si procede a tentoni, e da lontano tutte le bandiere si somigliano; che il clima era pesante da settimane; che la richiesta di bandire dal corteo le bandiere palestinesi era una provocazione bella e buona, e l’assenza di bandiere israeliane una relativa sorpresa: è tutto vero, e non vi scusa. Vi siete fatti fregare.

A questo punto il fatto che siate davvero antisemiti o no è irrilevante: era la parte che avevano scritto per voi, e non vi siete posti nessun problema a recitarla. Non si è mai idioti inutili; ci sarà sempre chi dalla vostra idiozia saprà trarre vantaggio, e non è con lui che ha senso prendersela.

1500 caratteri, manifestaiolismi

Il ritorno del no global pentito (un’esclusiva per il Foglio)

Sul Foglio.it campeggia la letterina di un tizio che andò minorenne al G8 di Genova, “aizzato” tra l’altro da una trasmissione di Fabio Volo (?) Dopo aver preso un po’ di mazzate, invece di tamponarsi la testa sanguinante si unì a un gruppo di devastatori, provando un inedito “furore punk” – ma sfogandosi su una vetrina già rotta “per solidarietà”. Comunque se n’è pentito. Se n’è pentito davvero tanto. A Genova “quasi tutti fummo colpevoli”, dice, ma nessuno ammette i propri errori. Parla per te, è la più ovvia reazione: io non ho rotto niente e mi caricavano comunque. Ma non è questo il problema.

I ragazzi erano seduti a terra con le gambe
 incrociate e le braccia in alto, quando furono
trascinati via dagli uomini della Digos.
Perugini e quattro sottufficiali falsificarono
i verbali della cattura, farcendoli di bugie.
Durante il trasferimento in macchina al carcere,
due dei no-global furono minacciati con
una pistola: Vi ammazziamo, bombaroli di merda”.

Il testo è di 4 anni fa: chissà se l’autore nel mentre si sarà liberato dal senso di colpa per la povera vetrina. Il suo racconto da piccolo Fabrizio Del Dongo alla battaglia sembra mescolare episodi del 20 (agguati e camionette) e del 21 (corteo sul lungomare), il che non significa che sia falso: capitò a molti in quei giorni di confondere ricordi personali con le immagini che venivano riversate in tv o internet. Neanche questo è il problema.

È che alla fine tutti questi racconti sono uguali: treno-mazzate-devastazioni-treno. Quanto sarebbe più interessante un coraggioso sito o foglio che pubblicasse il ricordo di un poliziotto giovanissimo, addestrato da “maestri” che gli raccontavano di gavettoni di sangue infetto, e poi mollato in libertà a sparare controvento gas urticante e picchiare i primi che incontrava. Quella sì, che letterina sarebbe. Com’è che non la scrive nessuno.

Cgil, lavoro, manifestaiolismi

La colpa del sindacato è che esiste

http://video.corriere.it/video-embed/74a76c18-5f56-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57aCredo che le scemenze buttate lì dalla Picierno siano un autogol tale da non meritare nessun tipo di reazione oltre alla replica ufficiale e sorniona della CGIL. Se mi metto qua a parlarne non è perché mi piaccia vincere facile, pescando nel torbido dell’indignazione: mi interessano meno come infamie che come lapsus, proprio come la questione del gettone dell’iphone, che diceva molto di più di quello che intendeva dire. Perché alla fine di cosa stava accusando la CGIL, senza ovviamente prove, l’onorevole Picierno? Di scarsa trasparenza nelle consultazioni interne, e di corriere pagate. Nientemeno.

La prima è un’accusa più volte mossa al PD stesso durante le primarie, quando in effetti nelle sedi a votare possono entrare un po’ tutti – e quando arrivano i cinesi o gli africani scoppia sempre il caso, c’è una certa democratica diffidenza per le truppe cammellate non ariane. Usare la stessa freccia per colpire la CGIL significa aver frainteso la consistenza del tuo avversario: non è il partito leggerino che fa entrare chiunque; è un sindacato pesante, novecentesco, con le tessere di cartoncino, le quote associative e i timbri addirittura. Con una frecciata come quella della Picierno ci si stuzzicano i denti – non sono mica simpatici volontari sorridenti che per due euro consegnerebbero una scheda elettorale a Gengis Khan; è una gerarchia di soldati di carriera, c’è gente che per salire i vertici si è dovuta lavorare la base per decenni. Ah, e non so da voi, ma qui è anche uno dei posti dove ti capita di vedere più stranieri: e tutti con le carte in regola. Magari i documenti di identità no, ma le trattenute sì, non è mica un ente di beneficenza.

La seconda accusa è meravigliosa. Corriere pagate. Da chi? Non ci fu dato sapere. Non resta che una congettura: siccome per decenni abbiamo sentito la stessa accusa ogni volta che un movimento riempiva una piazza, “eh sì ma le corriere ce le ha messe la CGIL, troppo facile così“, e in effetti c’è sempre stata una bella differenza tra manifestazioni organizzate, o anche solo fiancheggiate dalla CGIL, e quelle in cui il biglietto del treno lo pagavi pieno – ecco, probabilmente la Picierno si è ritrovata in mano lo stesso copione e senza riflettere lo ha recitato fino al corto circuito finale: anche la CGIL, se riempie le piazze, è perché qualcuno paga le corriere. Chi? La CGIL.

No, ma davvero, una vergogna, dove andremo a finire? Un’associazione di cittadini che non solo organizza delle manifestazioni di protesta, ma addirittura è in grado di autofinanziarsele… Ti immagini se anche i partiti facessero così, senza bussare agli sponsor col cappello in mano; ti immagini i poveri lobbisti senza più ragion d’essere? La Picierno vive già in quel partito futuro leggero, leggerissimo, lo diresti di carta velina; il partito che rifugge i rimborsi pubblici e li abolirà persino (un pochino); il partito che di conseguenza per sussistere, per galleggiare, oltre a gonfiarsi d’aria dovrà scaldarla con le generose donazioni di privati cittadini (comunque è tutto on line, fidatevi), tra cui alcuni molto interessati che poi giustamente vengono a parlare alla Leopolda e a spiegare che futuro hanno in mente per noi; e dall’alto di quel partito leggero non può che irridere le sbuffanti e novecentesche corriere sindacali. Ma dove credono di andare quelli là, che ingenui: ancora a pagarsi la benzina nel 2014.

***

Io credo che se siamo in questa situazione in cui siamo oggi, nessuno sia esente da colpe responsabilità: e meno di tanti il sindacato, a cui tanti errori si possono rinfacciare: strategici, tattici, davvero, quanti se ne vuole; e però di questi errori non sento quasi mai parlare.

La maggior parte delle accuse che sento rivolgere al sindacato – sia uno che trino – non riguardano la tattica o la strategia: riguardano il sindacato in sé. La CGIL non si è sbagliata in questa o quella occasione; la CGIL è sbagliata perché è, semplicemente, la CGIL: un sindacato. E fa le cose che fanno i sindacati (ad esempio, i cortei con le corriere pagate).

Ma in generale, quello che risulta intollerabile ai più è che la CGIL lotti per tutelare i propri iscritti (e contribuenti). Invece di avere un’idea di futuro, di bene in comune, una speranza per i giovani e per l’umanità, tutte queste belle cose che producono i partiti e più sono leggeri meglio è, la CGIL si ostina a difendere la posizione di chi paga ogni mese la CGIL.

Ciò risulta a molti insopportabile, come osa la CGIL tutelare i suoi iscritti? Magari a discapito – summa iniuria – di chi alla CGIL iscritto non è? Ma non si vergogna?

È un po’ come prendersela con Marchionne perché cerca di ottimizzare i profitti – ha diritto di farlo, no? Arricchirsi – nei limiti definiti dalle leggi – è un diritto. Lo sanno tutti. Qualcuno forse sta dimenticando che anche associarsi per difendere o migliorare le proprie condizioni di lavoro è ancora un diritto. Conquistato parecchio tempo fa, a un prezzo ragguardevole: per toglierlo servirà abolire qualcosa di un po’ più profondo di questo ormai mitologico articolo 18.

Si accusa il sindacato di conservatorismo, come se la diffidenza del lavoratore per le novità non fosse un dato acquisito sin dai tempi in cui i braccianti distruggevano le trebbiatrici a vapore – o più su, fino a Re Ludd. (Peraltro la Cgil è stata, nella maggior parte dei casi, molto più reattiva alle novità del mondo del lavoro dei partiti che la sostenevano o osteggiavano: ha iniziato a fornire servizi a precari e stranieri molto prima che diventassero soggetti di un qualche discorso politico: e non per filantropico disinteresse, ma perché per quei servizi i precari e gli stranieri sconosciuti alla politica erano disposti a pagare). Si invoca a gran voce una Thatcher italiana; lo si fa più o meno dai tempi della Thatcher vera: quarant’anni in cui non è che siano sempre stati costantemente al governo i comunisti – no, davvero, è un gran torto quello di non essersi abbassata quel tanto da permettere a Berlusconi o qualunque altro liberista alle vongole di camminarle in testa. In sostanza, il gran torto della CGIL è di aver protetto i diritti acquisiti dei suoi iscritti, ovverosia di aver funzionato: magari un po’ meglio di tante altre imprese in questi anni.

La CGIL si può accusare di cento cose, ma non è che possa sciogliervi per farvi piacere. È il frutto di lotte lunghe dolorose e complicate: se ve la trovate tra i piedi, non è un incidente di percorso che si possa risolvere con due battute in tv o due manganellate in piazza. La CGIL ha degli obiettivi che non sono necessariamente i vostri, proprio come i vostri non sono necessariamente quelli della società in toto. Può anche darsi che voi sappiate meglio della CGIL ciò di cui l’Italia ha bisogno per crescere, o semplicemente per vivacchiare all’ombra di qualche potenza economica che se continuiamo ad abbassare le tutele magari potrebbe essere tentata a delocalizzare qui da noi. Capisco anche che Renzi e i suoi non la possano metter giù così brutale, che debbano per esigenze narrative tirar fuori in tv il Futuro, la Speranza, il Crederci e altre puttanate. Può benissimo darsi insomma che voi abbiate capito molte più cose di quante ne sanno giù alla Camera Del Lavoro.

Io, quando ci entro, continuo a vedere più varietà di facce che nelle adunate dei vostri partiti di carta velina. Facce giovani, adulte, anziane; bianche, scure, asiatiche; tanta gente che alla Leopolda per un motivo o per un altro ancora non ci va. Ma questo magari non significa nulla: in bocca al lupo.

aborto, attivismo, manifestaiolismi, omofobie

Come dar ragione alle Sentinelle

Trentino – Corriere delle Alpi, 5 ottobre
È molto difficile immaginare ormai come sarebbe la mia vita senza social network – senz’altro più piena, più soddisfacente, e chissà quanti libri avrei letto in più eccetera – in particolare credo che questa settimana non avrei sentito parlare delle Sentinelle, un gruppo non particolarmente numeroso o interessante di attivisti pro-life e anti-gay, che a quanto pare si ritrova nelle piazze a legger libri. Svanito l’effetto novità, un tipo di manifestazione del genere è destinato a scivolare nelle pagine locali dei quotidiani, dove senz’altro non me lo sarei andato a cercare: e probabilmente a questo punto me le sarei anche dimenticate, le Sentinelle. 
Invece è da sabato che sento soltanto parlare di Sentinelle sui social network, il che è molto interessante dal momento che come tutti tendo a selezionare, più o meno consapevolmente, i contatti che condividono con me informazioni e sensazioni. Chi continua a farmi sapere quanto siano fasciste le Sentinelle, intolleranti le Sentinelle, stupide e ignoranti le Sentinelle, è una persona che più o meno la pensa come me su tante cose. Nello specifico, considera l’aborto un diritto, e il matrimonio pure, e ritiene che finché quest’ultimo non sarà esteso anche ai gay, essi saranno vittima di una grave discriminazione. Io perlomeno la penso così, e così più o meno la pensa la nuvola di contatti che mi circonda sui social. Ed è da tre giorni che gran parte di questi contatti mi sembrano scandalizzati, piccati, in alcuni casi persino arrabbiati, perché un gruppo di attivisti che non la pensa come loro sta manifestando in alcune piazze nel modo più pacifico possibile.
È come se l’abitudine di circondarsi di persone che la pensano come noi ci stesse in un qualche modo disabituando a convivere con un dato di fatto: là fuori c’è un mondo, che molto spesso (quasi sempre) non la pensa come noi. In particolare l’omofobia delle Sentinelle, per quanto penosa, si attesta probabilmente intorno alla media nazionale: che è poi il banale motivo per cui in altri Paesi i gay si sposano tranquillamente da anni, ormai, e da noi i politici fanno ancora un po’ di fatica a parlarne. Però con le Sentinelle avviene una curiosa inversione: quando sento parlarne sui social, mi sembra quasi che la minoranza siano loro. Insomma, tutti gli danno addosso. Tutti li prendono in giro. Li trovano ridicoli, irridono le loro fisionomie e i libri che leggono, li paragonano a nazisti o mullah, eccetera. Un’altra caratteristica dei social, proprio perché formano comunità più o meno lasche di individui, sono le dinamiche di branco; non importa quanto siamo in pochi, c’è da qualche parte in rete uno spazio in cui siamo la maggioranza, la pensiamo tutti uguale, e quindi possiamo infierire sulla pecora nera. Con le Sentinelle il meccanismo scatta fin troppo facilmente, anche perché pur muovendo da premesse fasciste e omofobe, ostentano in piazza l’atteggiamento più passivo possibile. Si mettono lì in piedi e leggono un libro (va bene uno qualsiasi). Troppo facile prenderli di mira, no? Appunto. Così facile che basta rifletterci appena un po’ per fiutare il trabocchetto. Il tizio che va in piazza, e nemmeno ha uno slogan da comunicare; nemmeno prova a convincerti; si mette lì impalato e sfoglia un libro, che altro sta facendo se non offrirsi proprio al tuo sdegno? E se ti sdegnerai, come in fondo è normale che sia se solo accetti di dargli un po’ della tua attenzione, non gli starai per caso facendo un favore?
Si fanno chiamare Sentinelle, ma funzionano da esche: si mettono in mostra affinché li odiamo, e in breve riescono a invertire il quadro. Non sono più espressione di una maggioranza silenziosa omofoba o antiabortista, ma eroici difensori di una minoranza perseguitata, vilipesa, e sbeffeggiata. Poi, sì, restano omofobi; ma con poca fatica sono riusciti a dimostrare che sono gli altri a odiarli: gli altri, la maggioranza succube dell'”egemonia omosex”. E per farlo è sufficiente passare una mezza giornata in piedi. Non male per un gruppo né particolarmente numeroso né molto interessante. A volte davvero basta avere l’idea giusta. 
Io credo che irridere i propri avversari non faccia avanzare di un passo la lotta per difendere o estendere i diritti civili, e che insomma la migliore risposta alle Sentinelle sia ignorarle. Non mi stupisce che a Bologna si sia fatto l’esatto opposto: nello stemma ideale dei movimenti bolognesi è ormai iscritto il motto “sbagliamo tutto dal ’77”. Reagire al loro silenzio con un silenzio incomparabilmente superiore: mi rendo conto quanto sia difficile, nel momento in cui pure io sto buttando giù 5000 battute sull’argomento. Da una parte c’è la loro esigenza di trasformarsi in vittime, dall’altra il nostro bisogno di sentirci più intelligenti, più liberi, ma anche più tosti – avrete fatto caso a come una certa goliardica arroganza sia il vestito di ordinanza in ogni comunità che prenda forma su un forum o un network. Ma insomma questi arrivano coi loro libriccini e le loro idee sceme, in sostanza ti supplicano di detestarli – e noi siamo troppo furbi, troppo splendidi per non cascarci a piedi pari. 
manifestaiolismi

La sicurezza, la disciplina, al limite Renzi

Semplificando

Vedo che c’è chi si preoccupa – no, tranquilli, ce la faccio a capire che i Forconi sono un movimento di destra, identitario, confusamente nazionalista (magari in Puglia è diverso, ma qui nella Padania del sud vedere il tricolore sbandierato fa ancora un certo effetto), sostanzialmente reazionario. Così come ce l’hanno fatta i gruppi di sinistra extraparlamentare che, rare eccezioni a parte, non hanno ceduto alla tentazione di scendere nelle stesse piazze. Cioè ce la faccio ancora a distinguere la sinistra e la destra estreme, non sono così rincoglionito – ma grazie del pensiero – e tuttavia mi domando: loro ci riusciranno ancora per molto? Le sinistre e le destre, intendo.

Quando si parla di piazze, bisogna rassegnarsi a gettare le ortiche la nostra abilità analitica raffinata negli anni e farci domande semplici, basiche, perché anche i sanculotti dell’89 non è che fossero molto più eleganti dei forconi, e più che al suffragio universale e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo pensavano al pane. Dunque, semplificando: con chi ce l’ha tutta questa gente? Coi politici, con l’Europa. E i No Tav con chi ce l’hanno? Magari la risposta è lievemente diversa, ma quasi del tutto sovrapponibile: i politici, l’Europa. Grillo con chi ce l’ha? Berlusconi con chi ha intenzione di avercela?

La grande notizia del biennio 2012-2013 è che gli italiani sono diventati un popolo antieuropeo – non lo erano, e adesso sono convinti di esserlo stati sempre. Non hanno più memoria del tempo in cui erano i più europeisti di tutti: si domandano come sia possibile essere entrati nell’Euro senza consultare i cittadini, e in buona fede non rammentano che vent’anni fa una consultazione del genere sarebbe stata del tutto pleonastica: volevamo tutti entrare nell’Euro, bisognava essere scemi per voler restarne fuori. Siamo molto cambiati, e non è solo colpa nostra. Diciamo che è un concorso di colpa con Berlino e con Bruxelles.

Ma insomma semplificando questo è il Rodano: l’insurrezione, se ci sarà, sarà antieuropea. L’extrasinistra può guardare gli antieuropei di destra prendersi le piazze, oppure può rivendicare il suo angolino. Io mi ritrovo alla finestra a sperare nella maggioranza silenziosa, quella che prende paura per una ventina di facce scure a un casello e corre a votare la sicurezza, la disciplina, o al limite Renzi. Questo è quello che mi capita di essere diventato a fine 2013; poi per carità, finché c’è la salute.

Berlusconi, manifestaiolismi

La foto col poliziotto

Geniale (anche dopo aver visto che le mani non sono
quelle del poliziotto, continui a crederci).

Visti dal mio qualunquissimo punto di vista, dal mio casello autostradale, stamattina i Forconi mi sembrano già ridotti a un drappello inoffensivo, più o meno delle dimensioni di un Social Forum di provincia; una cosa che può impaurirti solo se della paura hai disperatamente bisogno.
E però bisogna ammettere che in giro tra tv e radio e web tira un’aria da marcetta mica da ridere: quindi voglio lasciare agli atti che i Forconi tutta questa attenzione se la meritano. Fotografarsi coi poliziotti, simpatizzanti o non, è probabilmente la migliore mossa mediatica fatta negli ultimi anni da chiunque. E a loro è uscita così, spontanea. Normale che a questo punto Silvio Berlusconi voglia riceverli: finalmente qualcuno che ha idee nuove, fresche, se ne sente l’esigenza in palinsesto.

(Lui d’altro canto l’allarme ce l’aveva pur dato, mesi e anni fa: guardate che la gente non ce la fa più. E noi sciocchi a ripetergli che non era vero, che i ristoranti erano pieni, ecc. ecc.)

attivismo, italianistica, manifestaiolismi

Dal G8 a Grillo

Questo anniversario di Genova casca più del solito a sproposito, e mi trova filo-governativo mio malgrado, senza essermi mai iscritto né all’albo né, ahimè, al libro paga. L’altro giorno un tizio è venuto qui sotto nei commenti a postare un intervento di Wu Ming, chiamandomi “servo organico”. Ecco, per esempio, i Wu Ming: loro sono ancora intellettuali non asserviti come dodici anni fa, loro sono ovviamente contro il PD, contro Grillo e tutto il resto: e quindi? Cosa pensano che dovrebbe succedere a questo punto? Voi lo avete capito?

Più in generale lo vorrei chiedere a chi passa di qui e inveisce contro il vergognoso governo di compromesso, e contro il compromesso stesso, chiamandosi fuori: come se ci fosse ancora un fuori. Con tutto il garbo che riesco a simulare: ma insomma, voi cosa proponete esattamente? Elezioni in settembre? Con la stessa legge elettorale? E pensate che ne uscirebbe una situazione molto diversa? Siete sicuri che sarebbe una situazione migliore? Vale la pena di rischiare? Ma insomma che governo vorreste, visto che questo vi fa schifo (e fa schifo anche a me: ma voi ci tenete a comunicare che vi fa schifo di più, vi fa schifo in un modo che non riuscite a tollerare, e questa vostra insofferenza è un valore, mentre la mia sopportazione è evidentemente una colpa). Posso capire i renziani: loro probabilmente credono di poter risolvere la situazione a vantaggio loro e di tutti. Ma non sono tutti renziani, anzi. E quindi: se pensate che il PD si sia definitivamente compromesso, con o senza Renzi, cosa vi aspettate esattamente dalla prossima crisi di governo? L’apocalisse grillina? L’insurrezione delle masse? Volevo chiedervelo perché onestamente non lo so.

E in mezzo a tutto questo casca l’anniversario di Genova, e la sirena suona più lugubre del solito. Ho forse tradito la mia gioventù? Gli ideali per cui bla bla bla? Cambio argomento.

Ai tempi di Genova andavano molto di moda i cosiddetti noir italiani. Anche in ambienti tradizionalmente poco sensibili alla letteratura di genere i polizieschi venivano considerati un modo nuovo e originale di descrivere la realtà italiana. Così fu abbastanza naturale che il G8 di Genova finisse in diversi libri del genere, per lo più nello sfondo: persino Camilleri stava per far dimettere il commissario Montalbano dalla vergogna, eccetera. Ma la scena che più mi è rimasto in mente è in Gorilla blues di Sandrone Dazieri, ambientata durante la manifestazione genovese avvenuta un anno esatto dopo – cioè undici anni fa – e che per me e per molti è un ricordo altrettanto vivido del G8 del 2001.

In quelle pagine, se ricordo bene, il protagonista a un certo punto passa per una stanza dove è riunita una cosa fighissima che si chiama “comitato per l’autodifesa”. Questo comitato è fatto di giovani, probabilmente ancora in braghe a vita bassa e canottiera, e sicuramente qualcuno porta i dreadlocks. Ma sono fighissimi. Sì, è difficile spiegare, ma nel 2002 si poteva ancora portare i dreadlocks ed essere fighissimi protagonisti della controcultura. Sono hacker, sono videoreporter, sono persino blogger, sono il futuro della sinistra e dell’Italia. Purtroppo sono soltanto un’invenzione letteraria dell’autore, che li descrive in due paginette e poi porta il Gorilla in un altro posto. Nella nota finale Dazieri stesso vorrà precisare che “non esiste nessun comitato di autodifesa come quello che ho descritto”. Però, quando uscì Gorilla blues, i lettori di Dazieri in quel comitato ancora ci credevano. Sapevano che da qualche parte nel movimento di Genova c’era gente veramente in gamba (stavo per scrivere “coi controcoglioni”, ma ho un’età), che sapeva maneggiare le nuove tecnologie e capiva molto più in fretta degli altri dove stava andando il mondo. Ci speravano. Ci abbiamo sperato. Proprio come il Gorilla, ogni tanto tra un forum e un corteo transitavamo per ambienti dove c’era gente davanti al monitor o con la videocamera in mano e sembravano veramente cazzuti competenti. E alcuni forse lo erano. Ma se ne sono andati presto. Quel che è rimasto era molto, molto inferiore alle attese. Salvo i Wu Ming.

Loro sono rimasti. Erano bravi, e lo sono ancora. Ma probabilmente non bastavano. Adesso è il 2013 e diventa molto difficile spiegare alla gente che tu per qualche anno hai pensato che Indymedia fosse un progetto interessante, o sei andato dietro a personaggi come Casarini. E in effetti non è così, se ti ricordi bene, se vai a leggere il blog, tu non hai mai espresso sentimenti di cieca fiducia in Casarini: non lo hai mai considerato nel modo in cui i grillini considerano il Beneamato Beppe. A me, e a tanti come me, è capitato di trovarci in coda a un corteo di Casarini perché ritenevamo che in quel corteo ci fosse gente aggiornata, lungimirante, con le informazioni giuste e con le chiavi di lettura giuste. Come i Wu Ming, per dire. Ma forse a parte i Wu Ming non c’era molto, e gli stessi Wu Ming non hanno sempre azzeccato le chiavi di lettura.

Adesso – se ho capito bene – accusano Grillo di avere occupato lo spazio dei “movimenti radicali” (sempre al plurale, come ai vecchi tempi), impadronendosi di alcune parole d’ordine e virando tutto a destra. Hanno l’onestà di riconoscere che non è stato Grillo a uccidere i movimenti (un lento suicidio di massa era già in atto da tempo), ma adesso che c’è lui non si riesce più a trovare lo spazio per ricominciare da capo, che è quello che probabilmente interessa a loro. Ricominciare da capo con altri movimenti radicali. Come negli altri Paesi dove Grillo non c’è, e infatti ci sono i movimenti radicali, e infatti…

…non sta succedendo niente.

Niente o quasi. Magari mi sbaglio, magari mi sembra la bonaccia definitiva e invece è l’occhio del ciclone. Però un paio di anni fa c’erano gli Indignados in Spagna: risultati? Occupy Wall Street: conseguenze? La rivolta turca come va? In Egitto, Piazza Tahrir ha buttato giù il regime, non si può dir di no. Oppure si potrebbe dire che l’esercito ha mollato Mubarak e ha affittato piazza Tahrir. Vedremo. Cosa resta? In Libia e in Siria più che movimenti sembrano bande armate. Forse in Tunisia. Non è un bilancio entusiasmante. Tornando da questa parte del mediterraneo, si fa fatica a immaginare che oggi possa sorgere un movimento di protesta di base non antieuropeo: è un’altra simpatica conseguenza del rigorismo imposto dalla Germania. Ma a un movimento antieuropeo la sinistra starà sempre stretta: è sempre più difficile non lasciar filtrare istanze di destra, tradizionaliste e identitarie. Insomma, è triste dirlo, ma in questa fase i “movimenti” avrebbero virato verso destra anche se non ci fosse stato Grillo. Grillo poi ci ha messo l’organizzazione – quella che i “movimenti” non hanno mai voluto avere, e infatti sono tutti implosi: il M5S ancora no. I Wu Ming “tifano rivolta” nella base del M5S, esprimono l’auspicio che “le contraddizioni si acuiscano ed esplodano”, un sintagma così deliziosamente anni ’70 che mi ricorda l’ultima volta che ebbi a che fare con dei tizi di Indymedia (mi augurarono che il mio blog esplodesse in virtù delle sue contraddizioni). Forse ritengono che “destra” e “sinistra” nel M5S si possano ancora separare, come l’acqua dall’olio, perché sono due cose diverse che Grillo ha messo assieme per accidente: ma è destino che non vadano assieme. E quindi prima o poi si separeranno, le contraddizioni scoppieranno, e a sinistra sorgerà di nuovo un movimento, anzi tanti movimenti, radicali.

Io non la penso così.
Per quel che conta.

Ma probabilmente mi sono sempre aspettato molto meno dai movimenti. Per esempio: mai pensato che si potesse fare la rivoluzione, armata o no. La tentazione palingenetica, direbbe Bersani, ecco: mai avuta. Per me i movimenti avrebbero dovuto attirare tanta gente, spostare il baricentro dell’opinione pubblica verso sinistra, e soprattutto portare alla ribalta una nuova classe dirigente. Quelle famose persone fighissime, ancora giovani, ma aggiornate, in grado di padroneggiare le nuove tecnologie e di capire prima degli altri dove stavamo andando. Per me i movimenti erano anche e soprattutto un’occasione per trovare queste persone, che una scuola di partito non avrebbe selezionato mai. E un grosso problema del PD è senz’altro la scarsa selezione nelle vecchie scuole di partito. Ma se nel 2001 mi capitava di pensare al futuro, non m’immaginavo un eden bucolico coi piadinari al posto dei MacDonald’s. Speravo che nel 2013 in Italia ci sarebbe stato un solido partito di sinistra guidato e sorretto da gente capace e competente che si era fatta le ossa nel Movimento dei Movimenti. Non è andata così.

E in coscienza non credo che sia stata colpa delle vecchie nomenklature dei partiti di sinistra; non credo che sia stato un complotto di D’Alema o Bertinotti per tenere alla larga le menti migliori della mia generazione. Purtroppo temo di non averle mai viste, le menti migliori della mia generazione. Anche quando i partiti imploravano facce nuove, e D’Alema e Bertinotti si stavano pensionando, non si è presentato nessuno. Nel frattempo i movimenti si erano ridotti al lumicino e candidavano alle primarie PD il Candidato Senza Volto. Una pagliacciata che tutto sommato riassume tutta l’inadeguatezza di una generazione, la mia, che non può neanche dire di aver perso come quella di Gaber, perché per perdere bisogna almeno partecipare, metterci la faccia, e noi no.

Abbiamo cominciato a contestare l’idea di leader, non era giusto esprimere un leader (e quindi nessuno sentiva la necessità di sbattersi per conquistarsi una qualche leadership); bastavano i portavoce. Poi anche i portavoce hanno iniziato a mettersi il passamontagna, sia mai che ti scappasse per sbaglio a qualcuno di diventare una faccia nota, magari (brrrr) televisiva. Abbiamo reclamato la disorganizzazione e l’anonimato, e coerentemente siamo scomparsi nel caos. Poi è arrivato Beppe Grillo, e ha rilevato tutto per due lire. Da quel che ho capito i Wu Ming ritengono sia una specie di errore di percorso, nulla che non si possa correggere con molto ottimismo della volontà. Per me no, per me è l’esito naturale di tutto il movimentismo italiano degli anni Zero. I fermenti di destra c’erano già al G8, magari nascosti nell’insalata del banchetto Bio. Matti con i volantini sul signoraggio e le schie chimiche circolavano già La superficialità, la demagogia, la disorganizzazione, erano già presenti e al tempo ci sembravano inevitabili, qualcosa di cui ci saremmo liberati crescendo. Ma non siamo cresciuti, è la nostra tragedia. Io non credo che oggi ci possa essere in Italia un altro movimentismo fuori da quello di Grillo, che riunisce così bene tante cose disparate che erano saltate fuori nel decennio prima. E non è colpa del solo Grillo se il risultato è catastrofico e oggettivamente prolunga la carriera di Berlusconi (e di D’Alema). Il movimentismo era miope e votato all’autolesionismo prima di incontrare Grillo, che non ha fatto che interpretarne le istanze più riconoscibili: morte al compromesso, qualsiasi compromesso. Viva la verità alternativa, qualsiasi sia la fonte, ogni cazzata ha diritto al suo quarto d’ora. Abbasso i complotti, la trilaterale e Bilderberg: quanto se ne parlava su Indymedia ai tempi. Abbasso l’organizzazione, decide tutto un pool di uomini illuminati e fighissimi blogger e videoreporter nel camper di Grillo: e si vota su internet, la prima volta che sentii proporre di votare su internet ero esattamente a Genova, 12 anni fa. Mi dispiace scriverlo, più che a voi dispiaccia leggerlo, ma io da Genova a Grillo vedo una lunga linea abbastanza rettilinea. Poi vabbe’, Casarini mi stava più simpatico di Grillo. Ma non molto di più. Indymedia sembrava più interessante di Beppegrillo.it. Ma non molto di più.

E non vedo perché dovrei tifare rivolta, stavolta. Potete anche darmi del servo del potere: siete ottimisti, se pensate che questo straccio di Potere possa ancora pagarsi la servitù. Non penso di dover difendere il governo Letta; penso sia un accrocchio vergognoso; non capisco quale alternativa abbia in mente chi implora la crisi al più presto. Ho una famiglia, un mutuo, queste triviali cose che m’impediscono di unirmi allo spensierato coro del Tanto Peggio Tanto Meglio, di quelli che non vedono l’ora che scoppino le contraddizioni. Per mia esperienza, in Italia le contraddizioni tendono a non scoppiare: trovano un equilibrio e ti prendono per stanchezza. Ovviamente spero di sbagliarmi.

guerra, invettive, Israele-Palestina, manifestaiolismi, medio oriente, scuola

Striscia, il futuro

La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l’esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L’importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c’era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po’ il mordente.

Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all’inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall’altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall’altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.

Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c’è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d’istituto non capirebbe. Quindi che si fa.

Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant’anni avevi risolto un po’ di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l’essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po’ scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant’anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell’alimentazione e nell’igiene. Soltanto un po’, come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.

Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto… ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia – ma in Europa in generale – è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c’entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.

E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente – quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell’Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po’, ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?

manifestaiolismi, Pd, Renzi

Renzi non è Blair (magari è meglio)

Cinque motivi per cui non possiamo proprio dirci blairiani, (grazie, stavolta no).

Che poi magari chissà, il blairismo di Renzi potrebbe essere anche un concetto interessante, se

  • non venisse quindici anni in ritardo (facciamo dieci, dai, cinque anni di scarto con l’ora di Londra è fisiologico).
  • in questi quindici anni non ci fossero stati cucinati numerosi blairismi all’amatriciana, che Renzi forse non ricorda: il più clamoroso, col senno del poi, era il blairismo dalemiano a cavallo del 2000. C’era tutta una corrente di dalemiani-più-dalemiani di D’Alema, quelli che facevano capo al Riformista, che usavano i fondi per l’editoria per spiegare a me precario di Stato che avrei dovuto essere più intraprendente. Il loro capo era talmente british che fumava la pipa. Ecco, forse è una questione di imprinting all’incontrario: per voi Blair sarà stato tante cose belle, cool Britannia e le Spice Girls, ma a me ogni volta che qualcuno blaitera viene in mente la pipa di Polito e questo è il motivo per cui non posso dirmi blairiano.

    Poi a un certo punto ci fu quello strano fenomeno di inversione, per cui i dalemiani smisero di essere la destra del partito e i veltroniani dal correntone schizzarono a destra, per cui a rimettersi a blaiterare già fuori tempo massimo fu il leader del PD. Questo blairismo fu poi eclissato dall’obamismo (era il 2008!) ma ancora nel 2009 Veltroni riuscì a mettere la prima firma su un manifesto che chiedeva la nomina di Blair alla presidenza del consiglio europeo, un’idea così traboccante sensatezza e sensibilità che poteva solo venire al Foglio. (No ma pensateci ogni tanto, che abbiamo avuto un leader del PD che aderiva alle petizioni di Giuliano Ferrara. Dai, il peggio è comunque passato).

  • In questi quindici anni, se c’è stato un momento in cui la base del centrosinistra italiano (non il vertice, la base), si è mostrata compatta, è stato forse il momento dell’opposizione alla guerra in Iraq. Una guerra che Blair si impegnò a scatenare, spergiurando sull’esistenza di armi di distruzione di massa che nessuno ha mai trovato. Queste forse sono solo vecchie storie, che interessano ai vecchi.

    E forse no. C’è una generazione di militanti e simpatizzanti di centrosinistra che può avere oscillato tra Bertinotti e Bersani, tra Veltroni e Vendola, e magari anche tra Marino e Renzi, ma sulla guerra in Iraq ha sempre avuto una sola opinione, che poi si è rivelata quella giusta: Blair era disposto a mentire ai suoi elettori e ai suoi alleati pur di ottenere quello che la sua elevata coscienza riteneva giusto: un’altra guerra in medio oriente. Per queste persone, e sono una fetta non trascurabile dell’elettorato del centrosinistra, Tony non è il giovane avvocato che strappa la candidatura a Gordon Brown e caccia il thatcherismo da Downing Street nel ’97: per noi Blair è il bugiardo guerrafondaio del 2003, un periodo in cui andava molto forte dividere il mondo in cattivi bombardabili e buoni bombardieri. Blair bombardò molto e se ne vanta ancora: che ora Renzi lo possa ritirare fuori così, come una bella giacca anni Novanta quasi mai messa, quasi nuova, quasi vintage, sbalordisce un po’. Va bene rompere col passato, ma a me le grandi manifestazioni del 2003 sembrano l’altro ieri.

  • Se per “Blair” si intende semplicemente “unico caso in cui un leader europeo di un partito di sinistra vince conquistando voti a destra”, beh, è un caso che va molto ridimensionato, tenendo anche conto dell’astensione, che negli anni di Blair aumentò molto.
  • Ma in realtà di che stiamo parlando? Cioè non ha senso, il 2012 non è il 1997, l’Italia non è la Gran Bretagna, e soprattutto, davvero, Renzi non è Blair (io spero sia meglio). Se uno vuole i dettagli c’è questo lungo pezzo di Andrea Romano che si concentra sulla fase cruciale dell’invenzione del New Labour. Ne isolo soltanto uno: in quel processo di costruzione di un leader, Blair prese in prestito tante cose da molte persone, recepì consigli e istanze, com’è giusto che sia, ma ci mise anche qualcosa di profondamente suo: un “impasto di certezze laiche e convinzioni non negoziabili”, lo chiama Romano, che gli permetteva di non farsi “alcuna remora a toccare i tasti del «bene» e del «male»”.

    Ora sbaglierò, ma questa tensione etica, questa serena convinzione di essere un emissario del Bene chiamato da qualche autorità superiore a non negoziare col Male, forse non fu l’elemento che gli permise di vincere le elezioni, ma gli consentì una volta insediato di dichiarare più guerre di tutti i primi ministri della storia britannica (e la storia britannica è molto lunga). Di poche persone è lecito diffidare come degli avvocati del Bene. La buona notizia è che Renzi non è così: almeno, non mi pare proprio che sia così: nei suoi discorsi e nei suoi interventi leggo tante ricette per rottamare, semplificare, tagliare, ringiovanire, tanto sfoggio di cosiddetto senso pratico che ho già sentito sia nelle piazze grilline che nei bar leghisti (ma anche un po’ alle feste dell’unità); non percepisco però nessuna radicalità etica, nessun Bene con la B, e per quanto mi riguarda è molto meglio così. Forse è la differenza tra un tranquillo cattolico italiano e un criptocattolico nella patria di Maria la Sanguinaria.

    In ogni caso non ce lo vedo proprio Matteo Renzi a inventarsi scuse per dichiarare una guerra a uno Stato-canaglia: il paragone con Blair, non provenisse da Renzi stesso, lo respingerei come un’offesa: ditegliene di ogni, dite che è inesperto e gigione, che a furia di cercare voti fuori li sta perdendo dentro, ma non paragonatelo a un fanatico inventore di guerre. Non se lo merita.

ambiente, ferrovie, ho una teoria, manifestaiolismi

Vedetta valsusina

In questi giorni ho letto un po’ dappertutto che, d’accordo, la TAV può essere un’idea discutibile, i NO-TAV possono avere la loro parte di ragione: però salire sui tralicci è sbagliato, salire sui tralicci è semplicemente stupido. Io non so bene cosa pensare, ci metto un po’ a formare i miei giudizi. Sto ancora riflettendo su un episodio di 152 anni fa.

Siamo a Montebello, nell’Oltrepò pavese, a duecento chilometri di distanza dal fronte della Val di Susa. Anche a quel tempo c’era un conflitto in corso, che forse nessuno aveva ancora osato chiamare Seconda Guerra d’Indipendenza. In sostanza Napoleone III mira a cacciare gli austriaci dalla pianura padana, e a formarvi uno Stato satellite dell’Impero francese, da affidare alla dinastia dei Savoia e alle cure del conte di Cavour. È il venti maggio e nella zona cominciano a prendere posizione truppe francesi e piemontesi; ma si è capito che anche gli austriaci sono in zona. Un ragazzino del luogo, Giovanni Minoli (nessun grado di parentela col giornalista), sale su un frassino per dare un’occhiata. Un cecchino austriaco lo colpisce di striscio. Minoli viene prontamente soccorso dai soldati francesi e piemontesi, che lo ricoverano a Voghera, ma la medicina del tempo è quel che è, e insomma Minoli muore per un’infezione polmonare, dopo sette mesi di agonia.

Probabilmente i Sallusti dell’epoca, perché in tutte le epoche ce ne sono (anche se forse a noi è toccato il peggiore) lo avranno definito un “cretinetti”: cosa c’è in effetti di più cretino che salire su un albero in un campo di battaglia? Se ti prendi una palla a un polmone te la sei meritata tutta. E poi cos’è questa frenesia di voler aiutare i soldati: non poteva salirci uno di loro, sull’albero, ché la guerra sarebbe il loro mestiere? Ne avranno fatti, di discorsi del genere, ai tavolini dei caffè.

Ma presto c’è stato altro di cui parlare. (Continua sull’Unita.it, H1t#115)

Ma presto c’è stato altro di cui parlare. Altre battaglie terribili, come Solferino; e poi l’armistizio di Villafranca che fa infuriare e dimettere Cavour; l’anno dopo l’impresa dei Mille e, in breve, l’Unità d’Italia. In mezzo a tante vittorie e tanto eroismo, la memoria di Minoli si perde completamente; tanto più che era orfano, e nessuno ne aveva reclamato il corpo, sicché ancora oggi ignoriamo dove sia sepolto. Il silenzio è tale che quando Edmondo De Amicis, un quarto di secolo più tardi, infila in Cuore la storia della “Piccola vedetta lombarda” (sostituendo alla lunga agonia una più spiccia morte in battaglia), i lettori la scambiano per la solita leggenda edificante e patriottica: la classica figurina da additare agli studenti dell’epoca umbertina come esempio di coraggio, eroismo, dedizione alla causa eccetera eccetera.
Però, prima di diventare una figurina, Giovanni Minoli è esistito davvero: perlomeno a questa conclusione sono giunti, qualche anno fa, i ricercatori Fabrizio Bernini e Daniele Salerno. E ora che non è più un personaggio di carta ci possiamo porre il problema: eroe o cretinetti? Cretinetti senz’altro, dal punto di vista degli austriaci, legittimi difensori dell’autonomia del regno Lombardo-veneto dalle mire espansionistiche di Napoleone III e dei suoi lacché piemontesi. Se avessero vinto loro, di Italia unita per un altro po’ non si sarebbe più parlato. Nessuno scrittore avrebbe mai additato agli studenti del Granducato di Toscana o dello Stato della Chiesa il modello di un un ragazzaccio che sale su un albero per fare una spiata. Ma i piemontesi la guerra l’hanno vinta (con qualche complicazione): l’Italia è unita e Minoli è uno dei suoi eroi.
La guerra del TAV non è ancora finita, e non saranno nemmeno i confronti tra la popolazione e le forze dell’ordine a risolverla. Quella in Val di Susa è soprattutto una guerra di idee: le due fazioni in campo hanno in mente due modelli di sviluppo diversi, hanno fatto calcoli diversi, e da molto tempo non si capiscono più. Se dovessi scommetterci sopra, probabilmente direi che il TAV si farà, mi basta vedere da che parte stanno i manganelli. Ma se il TAV sarà veramente un successo lo sapremo solo nei prossimi venti, trenta, cinquant’anni.
E allora forse potremo rispondere serenamente alla domanda di questi giorni: salire su un traliccio dell’alta tensione come ha fatto Luca Abbà; mettere a repentaglio la propria vita per salvare un territorio da un modello di sviluppo che in coscienza si reputa sbagliato, è un atto di eroismo o di stupidità? Se tra vent’anni la TAV funzionerà a regime, se avrà ridotto il traffico su gomma e ripianato le enormi spese che sosterremo, il problema nemmeno si pone. Se invece si sarà dimostrato un monumento inutile, se altre evoluzioni l’avranno già reso superato, i Sallusti del futuro la vedranno in un modo diverso. E Abbà si ritroverà anche lui in una figurina, come quello studente cinese davanti al carro armato in piazza Tienammen.
In fondo è facile riconoscere gli eroi: basta aspettare qualche tempo, e ogni cosa diventa ovvia e necessaria come la trovi scritta sui libri. Ma gli eroi non ce l’hanno tutto quel tempo: quando arriva un nemico si fa la prima cosa che ti viene in mente, sali su un albero oppure su un traliccio, e poi la Storia va come deve andare. Io spero che Abbà ci metta ancora un bel po’ a passare alla Storia; che si rimetta e abbia ancora tante battaglie, da vincere o perdere, ma tante. http://leonardo.blogspot.com
essere donna oggi, manifestaiolismi

Sporco maschio guardami

Io queste attiviste ucraine che si spogliano per protesta è da un po’ che le vedo in giro – su internet e riviste, intendo, non pensiate che io abbia una vita altrove ormai – e devo dire che non mi convincono.

Non è che mi scandalizzi, però sono diffidente. È la mia educazione: diffido di chiunque mi si spogli davanti, sono convinto che abbia qualcosa da nascondermi (vedi com’è tortuosa l’educazione). Da una parte, posso capire, manifestare significa attirare l’attenzione, e da questo punto di vista spogliarsi funziona – basta andare su Repubblica.it in questo momento, ma quest’estate tennero l’homepage anche sull’Unità, insomma, l’attivista nuda tira. Non è soltanto una pratica funzionale, è anche una delle meno violente che si possano immaginare: invece di tirare estintori o bruciare SUV, mostrarci per quello che siamo. Salvo che non siamo quasi mai così belli come le attiviste ucraine che si vedono spesso in foto sulle riviste o su internet (le foto di oggi non rendono loro giustizia).

Non so esattamente quanto il loro attivismo abbia a che fare col movimento internazionale degli SlutWalk, i cortei in cui le femministe si vestono da “sluts” (traduciamo “sgualdrine”, via) per protestare contro la violenza maschile. Gli SlutWalk sono cominciati a Toronto la scorsa primavera e stanno andando piuttosto bene, tanto che anche in Italia c’è chi comincia a pensarci. Visti in foto sembrano un po’ la versione femminista dei gay pride (un’affermazione che immagino mi farà amare tantissimo da femministe, gay e femministe gay), una gara a conciarsi peggio non indenne da una certa dose di esibizionismo che però, diciamolo, quando vai in piazza c’è sempre. In piazza ci vai per attirare l’attenzione, e il tuo ego di solito non lo lasci a casa. Io perlomeno non lo facevo, e se non mostravo il corpo era semplicemente perché non avevo tutto questo gran corpo da mostrare (altrimenti chissà).

Comunque: dietro agli SlutWalk c’è una filosofia controversa. Quando un ufficiale della polizia di Toronto dichiarò che ci sarebbero state meno molestie se le donne avessero evitato “di vestire come sluts”, le femministe canadesi sfilarono mostrando il loro diritto costituzionale a vestirsi come volevano, e quindi anche come sluts. Non fa una grinza. Salvo che poi sui giornali non ci va la foto dell’impiegata cinquantenne con la panzetta, alla quale conciarsi da slut costa magari qualche sacrificio. Ci vanno sempre tipe in forma come le attiviste ucraine, per la gioia di noi guardoni di internet (mi ci metto anch’io ma devo dire che ormai guardo pochissimo). Il messaggio che ne ricaviamo è un po’ diverso da quello che forse prevedevano le femministe: non è più “sono una donna e non mi devo vergognare di avere un corpo”, ma più qualcosa del tipo “guardami, te lo sogni di spogliare un corpo così”. Insomma, un corpo nudo brandito contro di me, maschio guardone. Non è contundente come un estintore, ma si suppone comunque che debba ferirmi, frustrarmi nei miei desideri, nelle mie pulsioni. E ammettiamo pure per un istante che in quanto maschio io debba vergognarmi per i crimini di tutti i maschilisti del mondo – ma quello che finisco per provare è un po’ la sensazione che qualcuno mi voglia farmi vergognare del fatto che guardo una donna nuda. Come ai bei tempi dell’oratorio, insomma. Ma almeno all’oratorio non me le squadernavano in faccia, le donne nude. Invece qui ci sono donne nude che mi gridano: vergognati maschilista delle tue pulsioni. Tutto quello che mi viene da rispondere è: no, non mi vergogno. E a quel punto mi sale pure in punta di lingua una parola che in generale non amo usare, la traduzione letterale di slut, diciamo. Qualcosa di becero, di maschilista davvero, ecco: l’effetto pratico dell’attivista-nudista è farmi sentire un po’ più maschilista di prima. Dura solo pochi istanti, ma non credo che sia l’effetto voluto. O no?

La prima volta che sentii parlare di questo gruppo di attiviste ucraine che si spogliavano era su una rivista, non mi ricordo più se D o Vanity Fair, però le foto erano notevoli. Donne nude aggredite da poliziotti. Protestavano contro lo stupro mettendolo in scena, praticamente. Ho cercato di guardare quelle foto da una prospettiva non guardona, ma temo di non averla trovata. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno scenderà a stuprare una ragazza perché ha visto una scena di stupro attizzante su D o Vanity Fair.

Ma la cosa che mi lasciò più interdetto è che nello stesso servizio spiegavano che queste donne bionde e molto belle (magari non sono tutte belle, ma in foto ci vanno quelle più belle) in quell’occasione stavano protestando contro il turismo sessuale degli italiani in Ucraina. E così, grazie al loro attivismo, il risultato è che io lettore italiano stavo guardando bellissime ucraine nude su una rivista. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno correrà a prenotare un fine settimana a Kiev perché ha visto delle attizzanti ucraine nude su D o Vanity Fair o… o no?

internet, Islam, manifestaiolismi

Tre pezzi facili (+1)

#1. Sono un ribelle mamma. In questi giorni non so più dove ho letto che il motivo per cui in tutto il resto del mondo si presidia una piazza giorno e notte, mentre in Italia si fa il grande corteo al sabato pomeriggio, è che parecchi rivoluzionari insurrezionisti tra i venti e i trent’anni probabilmente sono ancora domiciliati presso i genitori. Non saprei. Comunque temo che la vera specificità italiana non siano i cappucci neri, o i grandi cortei. La triste, autentica specificità del movimento italiano sono i genitori fuori dalla questura che aspettano i figli sotto interrogatorio. E i figli sono tutti ventenni e più. Grandi abbastanza da fare la rivoluzione, ma non per tornare a casa coi mezzi.

#2. Hai mai pensato a un tatuaggetto? Il Pelliccia, che lancia un estintore nel decennale di Carlo Giuliani ma nessuno reputa necessario ammazzarlo, e il giorno è già reprobo in questura, è davvero la Storia che si ripete in farsa. A dire il vero, coi suoi tatuaggetti il Pelliccia celebra inconsapevolmente anche un altro anniversario, quello dell’arresto del geniale Bogdanovic, ultrà serbo idolo di una notte di mezzo ottobre dell’anno scorso. Anche quello era l’autunno più caldo del secolo e anche in quel caso Bogdanovic, che pure era stato così previdente da coprirsi il volto con un passamontagna si ritrovò a mezze maniche coi tatuaggi scoperti. Soltanto che era a cavalcioni di una transenna in eurovisione, insomma, un genio.

Possiamo dire tante cose dei tatuaggi dei ribelli. #2a: sono il dettaglio rivelatore del narcisismo dei ribelli sotto i cappucci che tutto dovrebbero coprire e uniformare; lo zampetto del lupo sotto la farina. #2b: Bisogna insegnare ai ragazzini che un tatuaggio è una mutilazione; che ogni segno permanente che tracciamo sul nostro corpo è un’ipoteca su un futuro che non possiamo ancora immaginare: non è detto che quella farfallina, che quella rosellina, che quella frasetta carina ti piaceranno per sempre (o che tu debba passare il resto della vita ad autoconvincertene), ma soprattutto ti potrebbe capitare dopodomani di dover fare la rivoluzione, e non puoi perché hai un ideogramma proprio sul dorso della mano che dovresti usare per impugnare la spranga, ti tocca stare a casa e poi cosa racconti ai nipotini? Che l’ideogramma vuol dire “Mai domo”? Non lo hai capito che ogni ideogramma, una volta tatuato su un’epidermide italiana, ha un solo significato, ed è “forever pirla”?
#2c: bisogna spiegare ai ragazzini che anche internet è una seconda pelle, la bacheca di facebook in particolare: qualsiasi cazzata che hai scritto negli ultimi cinque anni potrà essere usata contro di te dai giornalisti che devono riempire due colonne mentre sei in questura: e adesso tutta l’Italia sa che il Pelliccia cercava relazioni passionali, s’ispirava a Siffredi e gli piaceva Paura e Delirio alla Svegas, ecco, io non so se vorrei essere adolescente in un’epoca in cui qualsiasi cazzata scrivi sull’equivalente digitale della tua smemoranda ti resta tatuato addosso così.
#2d (teoria del complotto alert): mentre noi cerchiamo di spiegare ai ragazzini che tatuarsi è stupido, da qualche parte probabilmente qualcuno sta pensando, ehi, ma quando saranno tutti tatuati, tutti originali, identificarli sarà un gioco da carabin… intendevo, un gioco da ragazzi.

#3. Madonnina dei dolori. Sì, va bene, è andata in frantumi una madonna di lourdes di un valore stimabile intorno ai cento euro. Capisco che qualche prete possa restarci male nello scoprire che qualcuno li considera nemici di classe e parte della casta: magari potrebbero considerare di pagare un po’ l’ICI, chissà, forse gli passa. A me però è venuta in mente un’altra cosa. Che fine ha fatto il decreto Maroni… non quello che ha annunciato dopo le devastazioni, no, quello del 2009 che doveva impedire le manifestazioni davanti ai luoghi di culto, siccome che un gruppo di musulmani si era permesso di pregare in Piazza Maggiore? Perché in teoria doveva servire proprio a evitare queste incresciose profanazioni, no? No. Ho paura di no. Probabilmente doveva servire esclusivamente a impedire ai musulmani di fare manifestazioni in centro. E mi pare sia riuscita: vedete musulmani che protestano? La protesta è roba da italiani. I cappuccetti neri, per quanto discoli, hanno comunque le radici cristiane ok, loro possono anche passare davanti a una chiesa ed eventualmente vandalizzarla un po’, so’ ragazzi. Sarei curioso di sapere cosa sarebbe successo se una videocamera avesse sorpreso davanti alla stessa chiesa due o tre musulmani nel sacrilego e facinoroso atto di inginocchiarsi… Vabbe’, fermo ed espulsione immediata.

#4. Io che ho sempre detto che era un gioco. M.fisk, hai ragione, scrivo pipponi inutili, ma finché mi diverto… il problema è meno mio di chi perde tempo a leggerli, quando basterebbe un rapido alt+f4. Ripeto anche a te che non ho mai preteso di sostituire i giornalisti, di essere una fonte primaria, tranne forse l’unica volta in cui mi è capitato di essere davvero in mezzo alla notizia. Hai ragione: sono uno come tanti che legge le stesse notizie che leggono gli altri, ma ogni volta che mi metto a scrivere ho in mente qualche ragionamento che non ho letto da nessuna parte; magari se avessi letto di più lo avrei trovato, ma forse a questo punto mi diverto più a scrivere che a leggere. Del resto giudica tu: i tre pensierini qua sopra non sono niente di speciale; ma li hai letti da qualche altra parte?

1977, Br, manifestaiolismi, memoria del 900, terrorismo

Perché non fanno le BR?

Alla guerra globale con le fionde

L’insurrezionalismo dei cappuccetti neri non è un fenomeno così nuovo e originale come Maroni & co. vorrebbero. È comunque qualcosa che cronisti e commentatori, non necessariamente superficiali, stanno ancora cercando di mettere a fuoco. Si procede per aggiustamenti: abbiamo accettato che non sono tutti infiltrati (ma sono infiltrabili), non sono tutti fascisti (ma fascisti ce n’è) e che i black bloc internazionali, quelli che sconfinavano ai tempi dei grandi vertici, ormai hanno meglio da fare. Ogni tanto però partono ancora riferimenti storici alla c* di cane, ad esempio c’è chi parla di BR. È un passato che riemerge più per mancanza di fantasia che per altro: non penso che nemmeno i leghisti ci credano, a questa cosa delle nuove BR. È una specie di termine per assurdo, come quando si dice “uscire dall’euro” o “secessione”: se scenari del genere si concretizzassero, sarebbero i primi a sbalordirsi. In cuor loro sanno, come lo sappiamo un po’ tutti, che i cappucci neri non rifonderanno le BR, che non ne sarebbero capaci e comunque manco ci tengono: tanto è stridente il contrasto tra il loro movimento e i brigatisti di 40 anni prima (quaranta!) Ne siamo tutti così sicuri che forse vale la pena ridiscuterla, questa sicurezza: capire su quali fondamenti si posa.

Perché i cappuccetti non rifaranno le BR? In fondo brigatisti e cappucci condividono una premessa simile: l’insurrezionalismo. Le azioni di guerriglia urbana, siano sequestri o rapine o vandalismi, sono sempre concepiti come la premessa di una rivoluzione che è possibile: basta solo mostrare alla massa che si può, che la cosa è fattibile.

La differenza sta nel metodo. I cappucci sono vandali, devastatori, e lo rivendicano con orgoglio. Ogni manifestazione è una dimostrazione che la rivoluzione si può fare, anche se probabilmente l’unica idea di rivoluzione rimasta è una piazza ancora più grossa che brucia, con più camionette, più spranghe, più poliziotti da menare di più, in pratica il livello successivo del videogioco.

I brigatisti i videogiochi non li avevano. Erano sicari. I loro metodi consistevano per esempio nell’intimidazione a mezzo ciclostile, nel sequestro, nella gambizzazione, nell’omicidio politico. In ogni caso, si tratta sempre di fissare il mirino su un individuo, un solo esemplare del nemico: non la casta dei padroni, ma quel padrone, quel caposquadra o giornalista servo del padrone, quel sindacalista venduto, quell’uno da colpire per educarne cento. Col tempo l’orizzonte si estende, le Brigate Rosse alzano i mirini dalle officine al parlamento allo Stato maggiore NATO; teorizzano persino lo Stato Imperialista delle Multinazionali… però continuano a darsi obiettivi incarnati in individui: quel politico, quel segretario di partito, quel generale. Basterebbe questo a farci capire che siamo in un secolo diverso. Gli insurrezionalisti del duemila non sequestrano nessuno, non minacciano nessun Nome e Cognome, al massimo si danno come obiettivo la sede di un’istituzione nazionale o internazionale; ma se non riescono ad arrivarci va bene anche una Qualsiasi Banca. L’omicidio politico o il sequestro sono opzioni mai prese nemmeno lontanamente in considerazione, neppure dal più boccalone dei commentatori di indymedia. Varrebbe la pena di chiedersi il perché.

Un’ipotesi (un po’ subdola): fare i brigatisti è troppo sbattimento. La vita del sicario, spesso ridotto in clandestinità, richiede una disciplina, una professionalità, una capacità organizzativa che il cappuccetto nero non è in grado di reggere. D’altro canto i brigatisti venivano dalle fabbriche, erano abituati alla sveglia alle sei del mattino e a proiettare la fatica quotidiana in un orizzonte progettuale. I cappuccetti neri sono disoccupati  o precari cronici, la sveglia probabilmente la vivono come una costrizione borghese. Sto senz’altro stereotipando, in realtà non credo che i cappuccetti neri siano (tutti) degli allegri cialtroni: di sicuro hanno capito come si sta in piazza e hanno buone competenze tattiche, maturate nei fantomatici campi d’addestramento greci o più probabilmente in Val di Susa. Però alla fine sono vandali organizzati, tutto qui: non è che debbano gestire sequestri o reti di covi e arsenali in tutta la penisola. Gestire sequestri, soprattutto, richiede un’organizzazione infinitamente più complessa e professionale: e poi servono fondi. È noto il modo in cui i brigatisti si autofinanziavano: rapine.

Ecco, chiediamoci questa cosa: perché i cappuccetti neri non fanno rapine? Una certa contiguità con la criminalità comune dovrebbero averla, almeno quelli che vengono dalla curve. In ogni caso ormai sanno tutto su come violare la vetrina blindata di una banca: non gli è mai venuta la curiosità di dare un occhiata non dico al caveau, ma ai cassetti degli sportelli? Non è che debbano trasformare l’insurrezione in una forma estrema di shopping, come è successo durante gli ultimi riots di Londra: però il saccheggio è pur sempre parte integrante di una rivoluzione, che non è, mi par di ricordare, un pranzo di gala. Vandalizzare una banca senza rapinarla mi sembra come fumare senza aspirare, un voler peccare per forza senza riuscirne a godere. Oltre al fatto che anche i cappuccetti avranno le loro spese: fionde, bulloni, spranghe, corsi di aggiornamento in Grecia in tariffa economica, d’accordo, ma è pur sempre un traghetto andata e ritorno. Cari cronisti, magari la prossima volta che trovate un ragazzo così chiacchierino, fategli la domanda: ma chi finanzia? Perché all’esercito di pancabbestia figli di papà io non ci credo; ce ne saranno senz’altro, ma non possono essere la maggioranza. E quindi? I centri sociali producono davvero tutto questo plusvalore?

Insomma paragonare BR e insurrezionalisti contemporanei è quasi un esercizio di stile. Un discorso diverso meritano le analogie con Autonomia Operaia, sempre dagli anni di piombo, ma quelli dopo il ’77. Perché lo spartiacque è quello: chi tira fuori le BR si classifica immediatamente come un barbogio che parla a casaccio e probabilmente tiene ancora in casa 33 giri di prog italiano, la Premiata Forneria Marconi eccetera. Chi parla di Autonomia Operaia ha in mente il punk, e di punk ai cortei insurrezionalisti se ne ascolta ancora. Come dire che gli anni Settanta hanno due lati, il primo è suonato da musicisti professionali e molto tecnici e nessuno osa più passarlo per radio; dall’altra c’è già lo stesso rumore sguaiato che ascoltiamo tutti i giorni. In ogni caso no anche qui è opportuno rimarcare le differenze, non teoriche ma tecniche: nel ’77 negli spezzoni di AutOp si vedevano le P38. Gli insurrezionalisti prevedono una rivoluzione globale non molto pacifica, ma per ora l’idea di sporcarsi le mani con armi non anticonvenzionali non li sfiora. Eppure noi non viviamo in un mondo meno armato di quello del ’77. La criminalità organizzata controlla interi distretti della penisola: un gruppo insurrezionalista determinato non dovrebbe avere difficoltà ad equipaggiare gruppi di fuoco, in luogo delle falangi con le fionde che saranno anche efficaci a intrappolare le camionette, ma fanno comunque Ragazzi della via Pal. Se non stanno alzando il livello dello scontro alla fase sparatoria, se per lo meno non danno impressione di volerlo fare, neanche a livello di minaccia deterrente, vale anche qui la pena di chiedersi il perché. Va bene essere l’avanguardia della rivoluzione: ma pensate di farla tutta a spranghe e a estintori? In un certo senso sì, perché alle capacità devastatrici (modeste) di spranga ed estintore si aggiunge la potenza della vera arma del cappuccetto nero: il video. La rivolta è più un happening, una liturgia che un effettiva battaglia; tenere una piazza italiana per mezza giornata può considerarsi una vittoria solo se nel frattempo filmi tutto e lo condividi con gli amici. Le pistole in tutto questo non avrebbero senso: molto più fotogenico è l’estintore strappato al nemico, la fionda con tutto il sottointeso biblico (hai un bel da frantumare madonne, alla fine la Bibbia ti prende alle spalle). Sono armi che ti lasciano innocenti: quando si impugneranno i calci delle pistole l’innocenza sarà finita per sempre, ma chissà se succederà mai.

Chissà se ci credono davvero, è la domanda che mi resta in mente. Già qualche dubbio doveva serpeggiare sotto i passamontagna dell’Autonomia, che negli anni Ottanta approdarono ai centri sociali delle grandi città come a un rifugio sicuro. Lì dentro, per vent’anni, l’utopia rivoluzionaria ha ceduto il passo a una proiezione molto più ristretta, quella delle Zone Temporaneamente Autonome, la riserva indiana dell’utopia. Verso la fine degli anni Novanta i centri sociali che non erano diventati semplici discoteche o circoli ricreativi erano incartati in discorsi talmente autoreferenziali da riuscire incomprensibili anche a chi veniva dentro a ballare o a cercare sostanze (solidarietà ai compagni imprigionati durante manifestazioni di solidarietà ad altri compagni imprigionati durante gli sgomberi di centri sociali occupati in seguito agli sgomberi di altri centri sociali). Il movimento antiglobalista internazionale fu una boccata d’aria salutare, di cui alcuni seppero profittare, altri no. Dopo il forum di Firenze la spirale autoreferenziale ha ripreso il sopravvento. Forse l’episodio che ha scompaginato le carte stavolta è stato molto più locale: la guerriglia in Val di Susa. Lì i militanti dei centri sociali non hanno soltanto trovato nuove tattiche. Può darsi che abbiano trovato quello che più di tutto serve a un combattente: un motivo concreto per combattere. Non l’insurrezione globale, ma la difesa di quella valle, quel ruscello, quella gente (che non ha fatto mancare la solidarietà). Forse questo ha reso i cappucci molto più determinati. A Roma hanno portato un’organizzazione più efficace del solito. Ma a Roma c’è anche chi ha tutto l’interesse a usarli da utili idioti, e questo forse se l’erano dimenticato. Su in montagna probabilmente era tutto più chiaro: una linea da tenere, un nemico da punzecchiare, tanti amici pronti a nasconderti… Ehi, un attimo. Anch’io ho poca fantasia: sto ricascando negli anni Quaranta. Meglio finirla qui.

attivismo, ho una teoria, manifestaiolismi

La guerriglia prevedibile

(Fermo così, sei perfetto).

D’altro canto chi poteva aspettarsi che una manifestazione al di sopra delle parti e dei partiti rigorosamente spontanea senza leader e senza servizio d’ordine potesse andare a finire con della gente vestita di nero e organizzata non si capisce da chi e da cosa che brucia le macchine e scrive sui muri e la polizia invece di fermarli carica la povera gente che non se lo poteva aspettare? Chi se lo poteva aspettare?
Mah, per esempio, tutti. La non imprevedibile vittoria dei Caschi Neri (H1t#95) è sull’Unità, e si commenta là. Venite senza casco.

Anche a me è capitato, come a tanti, di restare sbalordito di fronte alle immagini che sabato arrivavano da Roma. E però dopo un po’ che guardavo caschi neri e camionette in fiamme mi sono chiesto: ma di cosa oso stupirmi, ancora? Non avrei dovuto aspettarmi tutto questo? Non è lo stesso copione delle marce in Val di Susa, non sono successe cose simili il 14 dicembre, per tacere del g8 di Genova, dopo il quale davvero non dovrei più essere autorizzato a stupirmi di niente? Non è in fondo il solito compitino sulla traccia impartita da Francesco Cossiga (“lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città…”)? No, io non credo di avere il diritto di stupirmi, e non credo che ce l’abbiano i manifestanti del movimento. Che rinasce ormai più volte all’anno con nomi e rivendicazioni diverse, dall’onda viola agli indignados, e ogni volta fa marcare la sua distanza da quello che c’era prima, e dai partiti e dai sindacati, e insomma rivendica il suo diritto a rinascere mondo di ogni peccato e inconsapevole di ogni dinamica di piazza – salvo poi inorridire davanti a disordini e situazioni che chiunque ha frequentato la piazza negli ultimi anni purtroppo non può fingere di non conoscere. E mentre rinasce vergine ogni sei mesi, i parassiti devastatori in casco nero si presentano a ogni appuntamento più organizzati e professionali. Alla fine non dovrebbe davvero sorprenderci se sono loro a prendersi le prime pagine. In fondo se le meritano, sono gli unici che hanno memoria e sanno imparare dai loro errori.

Tra sei mesi, quando soltanto qualche automobilista danneggiato si ricorderà più dei fatti di Roma, e le condanne o le assoluzioni per devastazione e saccheggio finiranno a pagina venti, è facile immaginare che sorgerà un nuovo movimento su facebook o altrove, che difenderà giustissime istanze e sacrosantissime recriminazioni colpevolmente fino a quel momento ignorate eccetera. I leader saranno ovviamente facce nuove, che rifiutano la vecchia politica dei partiti e la vecchia gestione della piazza dei sindacati. Resta da vedere se anche loro commetteranno l’errore di accogliere, nella propria piazza, dietro ai propri slogan, chiunque vorrà venire, pur di far numero. Perché l’errore sta tutto lì. Gli indignados avrebbero potuto mantenere un’identità forte, una piattaforma precisa, e puntare più sull’ostinazione che sul numero: come i loro ispiratori di Wall Street, o gli egiziani di piazza Tahrir che prima di essere migliaia furono centinaia. Ma in Italia non si fa così. In Italia prima si rimarca la distanza tra partiti e associazioni; e poi si fa entrare allegramente chiunque, pazienza se hanno il casco. I dieci anni da Genova avrebbero potuto insegnarci qualcosa, ma noi ci ostiniamo a rinascere tutti gli anni dimentichi degli errori dei padri, o dei fratelli maggiori, o di noi stessi quando invece di essere indignados eravamo noglobal o qualcos’altro.
Nel frattempo Libero e il Giornale festeggiano con la stessa, identica prima pagina. Ieri, come un anno fa, le immagini di Roma in fiamme soccorrono Berlusconi proprio quando ha bisogno di mostrare che l’unica alternativa a sé stesso è il caos. Ora, tagliamo corta la dietrologia. Il metodo Cossiga è pur sempre un metodo, che per essere applicato necessita di risorse e intelligenze, ed è lecito a questo punto domandarsi se al Viminale queste risorse, queste intelligenze ci siano. Ed è pure vero che i tagli hanno colpito anche le forze dell’ordine.

Però non potete venirci a raccontare che gli stessi organi di polizia che riescono ad arrestare boss di mafia e camorra non siano in grado di capire chi siano i caschi neri né quando e dove colpiranno. Va bene, non sono tutti ragazzini; non sono tutti di estrema destra; non sono tutti ultras; non sono tutti dei centri sociali. Ma sono tutti lì. Comunicano con sms e forum, mica pizzini. Non dovrebbero essere così difficili da intercettare o infiltrare. Allora i casi sono due: o li avete intercettati, e magari infiltrati, dando loro una mano a devastare il devastabile; o avete deciso di non intercettarli e infiltrarli, permettendo loro di devastare il devastabile.

Non so quale delle due prospettive mi piaccia meno, ma entrambe portano alla stessa conseguenza: questa è la devastazione che serviva al governo per tenersi in sella e dissodare l’imminente campagna elettorale, questa è la devastazione che i caschi neri prontamente gli hanno servito, questa è la devastazione che le forze dell’ordine si sono ben guardate dal reprimere, contentandosi come sempre di sparare fumogeni e manganellare un po’ a casaccio. Tutto stupefacente, se non fosse già successo fin troppe volte. E può darsi perfino che succeda ancora, ma per favore, che nessuno si senta più sbalordito da qui in poi.http://leonardo.blogspot.com

anniversari, attivismo, manifestaiolismi

Ok, disperdiamoci

Dieci anni sono un intervallo interessante. Di solito, se è ancora troppo presto per il “com’eravamo stupidi”, è quasi sempre il momento in cui si smette di dire “sembra ieri”. Questo è curioso perché in effetti qualche somiglianza con ieri (le manifestazioni anti-tav, o quelle studentesche dell’autunno scorso) persiste. Eppure non c’è nessuno in giro che osi dire sembra ieri. Genova è già un termine di paragone storico: i suoi protagonisti (Agnoletto, Caruso, Casarini, i vertici della polizia italiana, Scajola, George W. Bush) sono lontani dai riflettori; l’espressione “Movimento di movimenti” nessuno la sente più da anni; il social forum nessuno si ricorda bene cosa fosse; indymedia Italia fa gli accessi di un blog di provincia. A quanto pare l’unico termine che è sopravvissuto nella memoria collettiva è “black bloc”, salvo che ormai vuol dire tutto e niente.

Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l’unico aspetto ancora assolutamente attuale dell’esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l’altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L’ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un’opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.

Io ovviamente non sono d’accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.

Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c’era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all’attivismo anni ’90 e all’idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l’altro fu uno di quei casi in cui l’insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c’erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c’era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c’era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos’è successo? Tante cose.

Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all’elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell’ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L’undici settembre, e l’immediata invasione dell’Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c’era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori ‘soft’ come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l’invasione dell’Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all’indomani dell’assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un’enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all’indomani dell’assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l’esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c’era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell’Italia dall’Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos’è successo dal 2004 in poi?

In un certo senso, niente. A invasione dell’Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l’estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c’era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l’esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po’ meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi… ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po’ autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all’ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni’80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c’è gente che manifesta da vent’anni per lo stesse cose, anche se – comprensibilmente – ogni tanto cambia berretto).

Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c’è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un’altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell’Arte dell’informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.

manifestaiolismi

Tutti matti per B.B.

La definizione di Black Bloc
“E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato” (un pirla, 10 anni fa).

Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell’ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un’altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno ‘violenti’ in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l’impatto mediatico. L’idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.

Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l’infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto ‘sta confusione di adesso.

In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all’inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un’altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po’ incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.

In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c’è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un’altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po’ come confondere PCI e Brigate Rosse; d’altro canto molta gente ormai lo fa.

Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull’argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.

Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c’entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l’indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va’ a sapere.

Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l’unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c’è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c’è gente che su google si guarda bene dall’andarci.

attivismo, Gheddafi, ho una teoria, manifestaiolismi, Veltroni

Se non ora, dopo.

Dunque, come forse già sapete ieri Walter Veltroni – un rappresentante del PD che questo blog segue con un certo interesse – si è domandato su facebook perché nessuno va a riempire le piazze per manifestare contro il cattivo Gheddafi. L’episodio credo che farà storia, anche soltanto per le modalità con cui Veltroni ha deciso di intervenire in un argomento delicato che sta tormentando molte coscienze pacifiste e non: cosa dovremmo fare per i libici? Ecco, mentre noi stavamo a tormentarci le coscienze, Veltroni ci ha scritto che dovremmo darci da fare, che una volta eravamo più attenti, che siamo rifluiti al “nostro giardino”, e lo ha fatto su Facebook, così, senza filtri. A questo punto è cominciato il tiro al piccione, che su Facebook viene benissimo.

Mentre Veltroni veniva ingiuriato in vari modi, io ho scritto la mia teoria del lunedì (qui la copia cache), nella quale in sostanza gli spiegavo che Gheddafi non è quel tipo di persona che se riempi una piazza a Roma se ne va; che è un po’ semplicista affrontare i problemi in questo modo; che un leader politico si vede anche dalla capacità di offrire a un movimento di piazza delle proposte concrete, invece di lagnarsi perché la gente in piazza non ci va e la domenica preferisce stare a casa a innaffiarsi il giardino. Il pezzo sull’Unità.it stava andando abbastanza bene, ma adesso c’è un problema tecnico e i blog dell’unità risultano (spero momentaneamente) inesistenti. Così per ora lo ricopio qua sotto (update: è tornato, andate a leggerlo di là).

Caro Veltroni, ecco perché non scendo in piazza contro Gheddafi è on line (spero) sull’Unita.it. Si commenta su facebook oppure qui.

Caro onorevole Veltroni, chi le scrive è uno dei tantissimi che manifestarono, tra il 2002 e il 2004, contro l’invasione dell’Afganistan e soprattutto dell’Iraq. Le scrivo perché mi sento tirato in ballo da quello che ha scritto ieri sul suo profilo Facebook. “Perché nessuno scende in piazza al fianco dei patrioti libici?”, si è chiesto. Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?

Dunque, non so gli altri, ma io non provo a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi principalmente perché non sono uno stupido; non credo che una o cento piazze piene in Italia possano avere qualche effetto sulle scelte del dittatore Gheddafi, proprio perché è un dittatore e se ne frega persino delle piazze dei libici (che hanno dovuto sparare per cominciare a farsi sentire), si figuri di quelle degli italiani. Non è neanche esatto che io abbia manifestato “contro Bush e gli americani”. Io manifestavo per dimostrare la contrarietà mia, e di moltissimi italiani, a due guerre alle quali l’Italia avrebbe partecipato. Sì, ero contro la guerra di Bush, ma era davanti a Berlusconi che sventolavo la bandiera arcobaleno, e non me ne pento. Si è pentito invece Berlusconi, che anche a causa di quelle guerre perse sonoramente le elezioni regionali del 2005 e, di misura, le legislative del 2006. Al suo posto arrivò Prodi, e una delle poche promesse che fece in tempo a mantenere fu il ritiro del contingente italiano dall’Iraq. Siamo rimasti in Afganistan, è vero, ma lo stesso Berlusconi non si ricorda più il perché.
Ora una breve digressione, che spero mi perdonerà. il mio pacifismo militante è cominciato con la prima guerra del Golfo, ero al quarto anno di liceo e lo occupai. Mi piace pensare che non fossi stupido nemmeno allora. Avevo molti brufoli e una cotta imbarazzante per una compagna, ma non ero stupido, quindi votai una mozione che dichiarava la contrarietà del mio liceo all’intervento militare dell’Italia. Era una minuscola cosa, certo, ma molti miei compagni non erano d’accordo nemmeno su quella, e preferivano sostenere una mozione vaga, che era contraria alla Guerra con la G maiuscola, la guerra in generale, non a quella guerra specifica e non all’intervento italiano. Ecco, per me occupare il liceo così, contro la guerra in generale, mi sembrava solo una perdita di tempo. Non ho cambiato idea: le manifestazioni, le occupazioni, gli scioperi, secondo me si fanno per ottenere obiettivi minimamente concreti: non si manifesta contro un dittatore, ma per chiedere al proprio governo di troncare i rapporti con quel dittatore. Faccio questo esempio perché su facebook c’è adesso chi le chiede con insistenza dov’era quando in Parlamento si votava il Trattato Italia-Libia, il perno dell’asse Berlusconi-Gheddafi. In quell’occasione i voti contrari, anche tra le file dell’opposizione, furono davvero pochi.
Caro Veltroni, quello che io ho imparato occupando per qualche giorno un liceo nel gennaio del ’91, è che le persone che manifestano contro la guerra si possono dividere in due gruppi. Ci sono quelli che vorrebbero cambiare le cose, anche di poco: quelli scenderanno in piazza solo se credono di poterci riuscire, e ci resteranno solo finché ci credono, non un solo momento di più. Di solito avranno obiettivi precisi: convincere l’opinione pubblica che la tal guerra è sbagliata, spingere un partito a votare contro un intervento, mostrare al governo che questo eventuale intervento andrebbe contro la volontà popolare, eccetera. Sono queste le persone che hanno fatto grande il movimento pacifista che riempiva le piazze otto anni fa. Sono questi che possono andare fieri del nostro ritiro in Iraq: lo hanno chiesto, hanno spostato un po’ di opinione pubblica dalla loro parte, e alla fine lo hanno ottenuto.
Poi c’è un altro gruppo di persone: quelli che manifestano per il gusto di farlo: perché in un corteo c’è sempre qualcuno che sta davanti, e può diventare uno importante. Costoro di solito non hanno obiettivi precisi, anzi, hanno la necessità di restare sul vago, perché l’obiettivo preciso si può raggiungere o si può fallire, ma una Manifestazione contro la Guerra in Generale si può convocare sempre (guerre ce ne sono sempre) e farà sempre sentire tanto buoni tutti quelli che vi partecipano. Ecco, nel 1991 ho imparato a non fidarmi di quelle persone. Sono passati vent’anni e continuano a tormentarmi su facebook, hanno sempre qualche oscuro senso di colpa su cui far leva, qualche oscuro dittatore contro il quale non ho manifestato e di cui quindi dovrei sentirmi complice. Qualche anno fa volevano che sfoggiassi uno straccetto verde per l’Iran, o uno rosso per la Birmania, o era il Tibet, non ricordo. Ma io non ho mai pensato che uno straccetto indossato a mille miglia di distanza possa influire sul karma di un dittatore: mi sbaglio?
Magari mi sbaglio, caro Veltroni, ma quando mi chiede di scendere in piazza contro Gheddafi, mi pare che lei si guardi bene dal mostrarmi un obiettivo concreto. A parte un sostegno generico a chi si batte contro un dittatore, cosa dovremmo chiedere, e a chi? Dobbiamo mostrare vicinanza a chi si batte, dice. Va bene, ma quelli più che della nostra vicinanza hanno bisogno di armi e munizioni: apriamo una sottoscrizione? “Ci vuole un grande impegno politico e umanitario”, ha detto ai microfoni del tg3. Ovvero? Caro Veltroni, ribadisco: non siamo stupidi, e sappiamo che nessun impegno umanitario è possibile, in un teatro di guerra, senza una copertura militare. Quindi, concretamente, vogliamo chiedere all’Unione Europea (o alla Nato, o all’Onu) una “missione di pace”, di quelle che di solito si fanno con le forze armate? Se ritiene che sia una buona idea lo faccia, caro Veltroni: se ne prenda la responsabilità, e poi proponga a chi è d’accordo di riempire una piazza con lei. Forse a quel punto accetterei il suo invito.

Ma lei in questo momento non sta facendo questo. Si sta lamentando perché non manifestiamo contro la Guerra in Generale, contro il Dittatore in quanto tale, e si permette pure di darci degli egoisti, di parlare di riflusso (“Anche le coscienze di tutti noi sono rifluite dal mondo al ” nostro giardino” ?”) come se fosse l’egoismo a toglierci la voglia di scendere in piazza per obiettivi vaghi che nessuno centrerà mai. “Ho la sensazione che nessuno si mobiliti per la Libia perché tutti aspettano chi vince”, dice. In realtà siamo confusi: non dovremmo esserlo? La situazione non è chiara, e non siamo tutti esperti di geopolitica. In casi come questi un leader politico dovrebbe fornirci un’interpretazione convincente di quello che sta succedendo, e proposte concrete per cui lottare. Lei invece si lamenta perché non abbiamo le idee chiare, e ci accusa più o meno di disertare le piazze per egoismo.

Vede, caro Veltroni, è vero che noi pacifisti abbiamo famiglie, lavori, impegni, quel famoso “giardino” che in sostanza è la nostra vita, nella quale possiamo pure trovare qualche fine settimana per manifestare, ma per obiettivi concreti. Non per il gusto di farlo, non per dimostrare semplicemente di essere in tanti, e di sicuro non per portarla sugli scudi, caro Veltroni, senza che lei si prenda neppure la briga di proporci una direzione precisa. A proposito: ha letto quanti commentatori su facebook le chiedono piuttosto di manifestare contro Berlusconi? Non li snobbi: rifletta bene se è più concreto chi chiede a Roma di manifestare contro Tripoli. 

autoreferenziali, blog, manifestaiolismi

Non disperdiamoci


L’imboscato
– Una volta questo blog era, non lo dico per vanteria (anzi un po’ me ne vergogno) il più manifestaiolo di tutti; poi è successo qualcosa, in modo anche abbastanza brusco: non so se ci avete fatto caso, ma ai cortei non ci vado più. A volte ci invito gli altri, ma poi non ci vado lo stesso. A volte faccio il tifo. A volte faccio finta di niente.

A questo punto però ci tengo a mettere agli atti che se non scendo più in piazza non è per disillusione, non è per divergenze sulla piattaforma programmatica, non è perché mi si nota di più. No, vorrei che fosse chiaro che le cose sono molto più semplici: ho messo pancia, ho messo famiglia, ho una pila di roba da correggere alta così, insomma banalmente invecchio.

Queste scuse non richieste non interessano probabilmente nessuno, e nemmeno le avrei scritte, se non avessi letto in questi giorni su diversi blog affini a questo una certa insofferenza per le adunate di piazza. Per esempio Bordone che fa i distinguo con le femministe (poi però in piazza ci va e si diverte), Costa che fa ironia, Adinolfi che fa due calcoli e scrive: andare in piazza è una stronzata. Ecco, per me no. Andare in piazza non è quasi mai una stronzata. Sono contento che qualcuno abbia più energia di me e ci vada. Lo ritengo tutto sommato necessario. In particolare, sono contento che la manifestazione delle donne sia venuta così bene. Io mi sono tenuto a distanza, ultimamente ho qualche difficoltà a capire e a farmi capire da diverse donne, però credo che abbiano ragioni da vendere, pardon, da regalare (insomma le ragioni sono vostre, gestitevele voi); essere donne in Italia è difficile, oggettivamente.

C’è da dire che abbiamo un tempismo fantastico, noi blogger italiani d’opinione: mentre in medio oriente le piazze fanno tremare i tiranni, noi ci domandiamo se la piazza sia opportuna, se la piazza non abbia controindicazioni, se la piazza non sia moralista, presbiteriana, eccetera. Per me l’unico vero difetto delle piazze italiane è che non si riempiono abbastanza: probabilmente tante volte non siamo riusciti a concludere qualcosa non perché andavamo troppo in piazza, ma perché ci siamo rimasti troppo poco. E comunque è opinabile anche questo. Io in dieci anni tutte queste manifestazioni inutili, per nobili cause senza speranze, non me le ricordo. Ho manifestato per chiedere luce sui fatti di Genova, e un po’ di luce c’è stata. Ho manifestato contro l’abolizione dell’articolo 18, e l’articolo è rimasto (ok, la cosa era un po’ più complessa). Ho manifestato contro la guerra in Iraq; Romano Prodi ha vinto le elezioni e il contingente italiano ha lasciato l’Iraq. Potevamo ottenere qualcosa di più? Senz’altro, ma tutte le volte che siamo stati davvero tanti, che abbiamo forato in tv e sui giornali, qualcosa a casa lo abbiamo portato. Magari è solo una coincidenza, ma all’indomani della manifestazione delle donne i sondaggi hanno dato Berlusconi in calo verticale (alla salute di tutti quelli che pensavano che il caso bunga-bunga non lo avrebbe danneggiato, quelli che conoscono gli italiani e hanno il polso del Paese). Certo, non è una cosa automatica. Non è che se manifesti un paio di giorni la Gelmini ritira la riforma universitaria o Berlusconi si dimette. Però lo abbiamo fiaccato, Berlusconi… pardon, lo avete fiaccato, io stavo a casa e scrivevo sul blog.

Ecco, ho anche questa cosa da dire a mia discolpa. Ho un blog. Una serie di fortunate circostanze lo ha reso più letto di altri. In piazza non sono che un minchione tra tanti (un decimo di minchione per la questura), ma qui posso spiegarmi, posso far partire dei messaggi, insomma a un certo punto mi sono raccontato che il mio contributo alla causa potevo darlo da qui. Tanto più che non sono più quel bel giovane zazzeruto che nelle foto in mezzo agli striscioni veniva così bene. E allora come si spiega questo rimorso sottile.

Probabilmente è la consapevolezza che i nipotini non se la berranno. Nonno, insomma, mentre Berlusconi mandava tutto in vacca tu cosa facevi? Eri passato in clandestinità, almeno? No, non proprio, all’inizio andavo in piazza, ma poi le cose si fecero lunghe, misi pancia, misi famiglia… però continuavo a esprimermi su un sito che funzionava col protocollo http… sì, vabbe’ nonno, ciao.

PS: se Berlusconi proprio non si vuole dimettere, io uno sciopero generale lo faccio volentieri. Un giorno, una settimana, quel che serve. Mi ha già rubato così tanti anni.

attivismo, Forum Mondiali, ho una teoria, manifestaiolismi

Che fare?

Va bene, insomma, è andata così. Ma adesso cosa farete?

Cosa fare dopo la spranga è sull’Unita.it, e si commenta qui, (ma anche qui, e magari in altri posti che non so). In bocca al lupo a chi ne ha un gran bisogno.

Cosa fare dopo la spranga

Se c’è qualcosa che ho trovato discutibile, nelle parole di Saviano sugli scontri di Roma, è l’evocazione degli anni anni di piombo, “la trappola degli anni ’70, di cui si sente già il puzzo”: l’idea, insomma, che gli incappucciati di lunedì diventino, man mano che si alza la tensione, i brigatisti di domani. È una teoria suggestiva, che si è sentita tante volte, e che a mio parere non funziona. La spranga non conduce alla p38, così come la canna non porta infallibilmente all’eroina.

Proviamo per una volta ad accantonarli, quei puzzolenti anni ’70, e a dare un’occhiata al passato più recente. Dieci anni fa, per esempio, in Italia c’era un movimento composito e più o meno organizzato che aveva per obiettivi i vertici internazionali. Tute bianche a nord, Rete No Global a sud, e una spolverata di anarcoinsurrezionalisti qua e là, oltre ai fantomatici Black bloc dal nord Europa. Anche a quei tempi di spranghe e di caschi se ne videro parecchi, anche allora la repressione fu pesante. Bene, dove sono i ‘violenti’ di dieci anni fa? Hanno formato gruppi terroristici? No, non è successo. Nessuno è entrato nelle vecchie organizzazioni, come le Br, ridotte a una setta di reduci; nessuno ne ha fondate di nuove. A meno di non voler contare i bombaroli dei cassonetti, quegli anarchici informali che sono pure l’organizzazione terroristica autoctona oggi più temuta dal ministero degli Interni (il che equivale a dire che oggi non esiste una organizzazione terroristica italiana degna di nota).
Persino nei momenti più difficili, quando a Genova i manifestanti furono caricati e torturati con una brutalità sistematica che non aveva precedenti, nemmeno il più esagitato attivista prese mai seriamente in considerazione l’opzione del terrorismo. La stagione della p38 è finita, in Italia e in generale in Europa: semmai sono stati gli anni Settanta un’eccezione, nata e alimentata all’ombra della cortina di ferro, in una situazione geopolitica che non esiste più. Tirarli fuori è un riflesso condizionato dei reduci – che a questo punto vanno verso la sessantina. Chi è più giovane dovrebbe preoccuparsi d’altro.
Per esempio: se dopo la spranga non c’è la P38, cosa c’è? Ecco, il problema è un po’ questo. Per Berlusconi c’è la campagna elettorale, che paradossalmente è cominciata proprio col voto di fiducia del 14 dicembre; e dal suo punto di vista non poteva iniziare meglio. L’immagine di Piazza del Popolo a ferro e a fuoco era esattamente quello che gli serviva per dimostrare ai suoi tele-elettori di età medio-avanzata che l’unica alternativa a lui è il Caos. Il favore reso dai vandali a Berlusconi è tanto evidente che siamo stati in molti, a caldo, a pensare agli infiltrati. È un sospetto che rimane legittimo, anche dopo che è stato identificato il ragazzo del famoso “cappotto marron”; se non altro perché certi metodi in Italia sono stati usati più volte, Cossiga insegna; ma visto che mi ero ripromesso di non parlare più dei ’70, mi basta ricordare che di infiltrati ce ne furono a Genova, che si misero perfino a fabbricare molotov; e se nel frattempo i quadri della polizia non sono troppo cambiati, gli uomini al governo sono più o meno gli stessi. Certo, per trasformare un corteo in una battaglia non basta una manciata di agenti provocatori; eppure alcuni dettagli restano inquietanti: quel camion di cantiere pieno di badili e pale, lasciato in bella mostra a pochi passi dal Senato; il modo in cui la camionetta dei finanzieri è stata lasciata in prima fila, quasi a fare da esca, che ricorda in modo sinistro la dinamica di Piazza Alimonda.

Detto questo, diversi studenti hanno probabilmente scelto la spranga convinti che quella fosse l’unica opzione praticabile in quel momento. Sono stati messi in condizione di farlo da un governo che finora ha irriso le loro richieste, e al momento giusto li ha messi all’angolo, col vecchio trucco della ‘zona rossa’. È andata così: ma adesso? Cosa succede dopo la spranga?

Potrebbe anche non succedere più niente: la spranga sarebbe semplicemente l’inizio della fine. A volte è successo. La risposta di molti giovani (e meno giovani) a Saviano è stata: non c’eri, non puoi capire, è da un anno che manifestiamo pacificamente e non succede nulla, adesso siamo stanchi. La spranga come segno di disperazione, di stanchezza. Ci può stare. Il problema è che di solito dopo la stanchezza e la disperazione non viene nulla di buono: la rassegnazione, il più delle volte. Qualcuno si radicalizzerà, raccogliendo le provocazioni del governo che blatera di “daspo” e “arresti preventivi”. Qualcun altro non raccoglierà; ci saranno distinguo e secessioni; qualcuno, semplicemente se ne andrà, come il quindicenne che era in piazza a tirare verdura alla polizia, aggredito da un cappuccio nero, che si è svegliato all’ospedale e ha già fatto sapere che nei cortei non verrà più: uno in meno. Altri emigreranno all’estero, altri resteranno e si rassegneranno a un futuro difficile, magari aspettando la prossima riforma sbagliata, la prossima ondata di protesta, la prossima repressione.
Io però voglio essere ottimista: la spranga potrebbe anche essere un errore da cui si impara. Gli studenti che in questi giorni sono entrati in sciopero della fame sono già entrati con molta serietà in una fase diversa, ugualmente rischiosa, ma lontana dalle trappole mediatiche. Certo, non si tratta semplicemente di dire “no” al tafferuglio, ma di inventarsi qualcosa di nuovo. Anche in questo caso ci sono precedenti: chi ricorda Genova nel 2001 non dovrebbe dimenticarsi che l’anno dopo ci fu il Forum Mondiale di Firenze, tre meravigliosi giorni di incontri e non di scontri, per la stizza di Oriana Fallaci che era venuta apposta a fiutare il sangue e i fumogeni, e trovò una festa di gente che discuteva di tagli alle emissioni e Tobin Tax (le cose di cui oggi, troppo tardi, si parla ai vertici veri).
Il guaio è che a distanza di così pochi anni di quel Forum non si ricorda quasi più nessuno. Delle mazzate di Genova, sì, ci ricordiamo. Persino delle p38 degli anni Settanta, che sono roba dei nostri genitori, a volte dei nonni. Ma dei grandi cortei pacifici contro la guerra in Iraq no, si è quasi persa la memoria. È come se il tempo spazzasse via tutto, gli errori e le cose buone che abbiamo fatto, e ci lasciasse soltanto il ricordo delle mazzate che abbiamo preso o dato. E questo, purtroppo, resta il più grande argomento a favore della spranga.http://leonardo.blogspot.com
Berlusconi, campagna elettorale (permanente), manifestaiolismi

Uno cento mille Cossiga

Update: questo pezzo è stato originariamente pubblicato con le immagini prese da questo post di Mazzetta che mostravano un manifestante curiosamente equipaggiato con armi e strumenti in dotazione alla polizia. Le immagini successivamente sono state diffuse un po’ dappertutto, e il tizio è stato identificato come uno studente, per esempio sul Post e su Indymedia (Indymedia Lombardia in questo caso, Indy Roma ha altre priorità). Credo che il senso del mio pezzo non cambi di molto se le tolgo.

Comunque coraggio

Sono stanco, è stata una giornata dura. Immagino che molti abbiano riflettuto molto più di me, e fatto notare il paradosso di un voto di fiducia che ci avvicina alle elezioni. È ovvio che con una maggioranza così risicata Berlusconi non sarà in grado di governare: è altrettanto naturale che non sia nelle sue intenzioni (è discutibile che governasse prima). L’importante è restare al centro della scena e dimostrare che nessuna maggioranza è possibile: quindi nessuna riforma della legge elettorale è possibile. Così, a occhio, il vero vincitore è Bossi, che voleva le elezioni a primavera e le avrà. E le vincerà, probabilmente. Più appannata appare, per ora, la stella del suo alleato. Però da qui a primavera c’è tutto il tempo per organizzarsi e riportare a casa il risultato. Chi è scettico, pensi a quanto sembrava spacciato Berlusconi qualche settimana fa, sommerso dagli schizzi del bunga bunga. Gli si è lasciato un mese di tempo, ecco il risultato. La sua fine, quando sarà, verrà alle spalle e improvvisa: non c’è alternativa, se gli lasci un po’ di tempo lui si riorganizza e ti sistema. Qualcuno da comprare lo troverà sempre.

Sono stanco, e invidio chi a sinistra già sta facendo partire il training autogeno: dai che a primavera possiamo farcela. Mi spiace molto, ma secondo me no: non abbiamo i numeri, soffriamo una legge elettorale che ci penalizza, mentre il nostro avversario controlla i media che orientano il giudizio del grosso dell’elettorato – che non si orienta ancora su facebook, e nemmeno nelle riserve indiane di Annozero o Ballarò. L’offensiva mediatica che stiamo per subire sarà la più violenta; in effetti la mia unica speranza è che fallisca per esagerazione. In fondo i registi, i Fede e i Vespa sono anziani, conoscono perfettamente il loro pubblico anziano ma potrebbero anche rimbecillirsi un po’, calcare troppo la mano. Finora non è mai successo, ma chissà.

Nel frattempo Roma brucia, e per loro non c’è uno scoop migliore. Che gli utenti di Minzolini e Mimun abbiano chiaro che oltre Berlusconi c’è il caos, l’anarchia, il black block con la kappa che da anni non ha più niente a che vedere con il gruppo storico: non si tratta semplicemente di pigrizia dei cronisti, ormai dobbiamo accettare il neologismo: quando in mezzo a un corteo spuntano caschi neri e radio della polizia, ivi è il black block, e il gioioso spontaneismo di qualsiasi onda verde o arcobaleno è finito.

Non sarò il solo stanotte o domattina a citare Cossiga; fa lo stesso, non m’interessa essere originale: citiamo tutti Cossiga, all’infinito, alla noia, diventi l’ultimo Cossiga the new Pasolini; metti che qualche studente non lo abbia mai sentito e in queste stesse ore si stia convincendo che lanciar sassi a un celerino è cosa fighissima. Dunque, studenti, mentre vi esprimo la massima stima, vi scongiuro di non ascoltare i consigli di quelli della mia generazione o successive, chiunque vi rompa le palle con le masturbazioni sul sessantotto o il settantasette o il gìotto di Genova e di meditare unicamente queste frasi dell’ex Ministro degli Interni Franceso Cossiga, boia:

Infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città…
Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì”.
“l’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita”
“Io aspetterei ancora un po’, e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di ‘Bella ciao’, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti“..

Voi avete tutto quello che vi serve per essere più furbi di quanto lo siamo stati noi: un ampio dossier di errori da cui imparare. Permettete il riassunto: ogni vetrina rotta sono cinquanta voti in più all’animale. Se una videocamera riprende, i voti diventano mille. Chi tira al poliziotto, è un poliziotto. Se non lo è lo diventa in quel momento. Lasciate che si spacchino la testa tra loro, li pagano per questo. Voi non vi paga nessuno: state in gruppo, urlate, non cedete alle provocazioni. Le cose non cambieranno domani e nemmeno dopodomani. Nessuno vi ha mai detto che sarebbe stato facile. O ve l’hanno detto? Mentivano. Comunque coraggio.

manifestaiolismi, telefonate

La Marescialla

Uno a zero per te

Ho pensato spesso alla Marescialla in questi ultimi anni; molto più di quanto lei si meritasse.

Quando cominciai a mettere da parte le Dieci Intercettazioni Che Ci Hanno Fatto Sognare, la immaginavo sul podio, forse al primo posto: forse tutta la commedia della classifica era soltanto una morbosa strategia elaborata dalla mia mente per rimetterla sotto i riflettori, lei che c’era stata per così poco.

Poi il buon senso ha preso il sopravvento: in un qualche modo devo essermi reso conto che la Marescialla è un’ossessione soltanto mia; a un certo punto ho voluto accorgermi che in senso tecnico la sua telefonata non è un’intercettazione. Durante i fatti del g8 la questura di Genova stava registrando le comunicazioni tra agenti e centrale operativa. Immagino sia la prassi. Il fatto è che in quei giorni le forze dell’ordine distruggevano le documentazioni fotografiche e filmate; addirittura irruppero nella scuola Pertini e si portarono via i server del Genoa Social Forum. La volontà di riscrivere la storia di quei giorni sembrava evidente. E allora perché non hanno cancellato i nastri della centrale operativa? Perché hanno lasciato che gli avvocati delle vittime acquisissero le comunicazioni dove si attestavano le violenze della polizia, e soprattutto il caos in cui stava operando? Un sussulto di trasparenza, o un altro caso di disorganizzazione? O ancora il risultato di una lotta tra bande, per cui si erano lasciate filtrare soltanto certe comunicazioni, e altre no… non lo sapremo mai, accontentiamoci di quel che abbiamo. La Marescialla, intrappolata nella sua registrazione come un insetto nell’ambra. Un insetto che ride, scherza, esulta per la morte di un ragazzo (ma anche l’esultanza in fondo è parte dello scherzo).

Di lei non sappiamo nient’altro. A Genova ci abitava, il che le impediva di godersi appieno l’esperienza. Temeva (non a torto) che le sfasciassero la macchina. Non era una violenta, non sentiva l’odore della sfida che in quei giorni impregnava le strade. Era contentissima di trovare riparo dietro le “montagne enormi” del Reparto Mobile di Napoli, gente che per calpestare le zecche era venuta da lontano, magari aveva fatto domanda. Lei invece se le era semplicemente trovate sottocasa e sperava che morissero tutte: vasto programma, ma all’alba di sabato poteva trovare promettente il fatto che ne avessero ammazzata già una. Uno a zero per noi, yeh!

Uno a zero per noi, yeh.

Quand’è che l’ascolto di una conversazione più o meno privata, divulgata via internet o tv, si trasforma in compulsione morbosa? Nel mio caso ha a che fare col lettore mp3, con l’idea di infilare una telefonata in un lettore, e poi, a distanza di mesi e di anni, mentre si è in tutt’altre faccende affaccendati, in coda a un semaforo o in palestra, ritrovarsi a tu per tu con la Marescialla che ripete: Uno a zero per noi, yeh. Amica, amica. Speriamo che muoiano tutti. Maledette zecche del cazzo. È l’odio che mi ha lasciato un promemoria, perché mi conosce, sa che sono pigro in tutte le passioni, compreso il rancore: incapace di odiare tanto a lungo, e invece dovrei. A Genova avrei potuto perdere un occhio, o un dente, o un naso: ad altri è successo, che non erano molto più incoscienti di me. Poteva succedermi, e la Marescialla ne avrebbe riso.

Ciao Marescialla. Mi chiedo a volte dove sei in questo momento. Non che abbia la minima importanza. In questi nove anni sarai cresciuta anche tu, come tutti noi (meno uno). Avrai avuto le tue gioie e i tuoi dolori, facile che abbia messo su famiglia, magari proprio con Nicoula. Nel 2007, riascoltando la tua voce su internet, avrai probabilmente avuto pena di te stessa. Non ti sarai voluta riconoscere in quell’allegria, quel sorriso congelato nell’ambra, una smorfia che non ti rappresenta. Tu non sei più così, ormai è come se non lo fossi mai stata. Siamo tutti migliori di come ci intercettano. Ti sarai sentita presa di mira, esposta alla rabbia di milioni di zecche, non più coperta dall’ala protettiva del Repartomobbile, tu che in fondo stavi soltanto dicendo belinate a un collega, come se ne dicono in tutti gli ambienti di lavoro.

Ciao Marescialla, da una zecca del tempo che fu. Uno che non avrebbe mai sfasciato la macchina a nessuno – prima di averti ascoltato: dopo, due bottarelle al tuo cofano le avrebbe assestate volentieri. C’è stato un periodo in cui ti ascoltavo apposta, mi davi la carica. Quando mi sentivo troppo buono, caricavo il tuo nastro e poi ero pronto a dar calci contro il muro. Ma è passata anche quella fase. Alla fine, sai cos’è successo? Che mi sono affezionato. Lo so che c’è gente come te nelle centrali operative di tutti gli abusi di potere del mondo, che si fa quattro risate mentre passa le comunicazioni tra assassini. Però alla fine non ha senso prendersela con te. E poi mi sono accorto che t’invidio.

Non t’invidio l’allegria, né senz’altro il mestiere. T’invidio Genova, che è una città di cui mi sono preso in un modo difficile da spiegare. Forse perché nessun’altra mai mi aveva tenuto fuori, con tanto di transenne e un muro di container: e allora sai come sono i maschi, certe volte s’incapricciano. Ogni tanto mi capita di rivederla alla tv, e mi sembra mia, non so perché. È come certe storie che durano una notte o due, poi ognuno per la sua strada: c’è chi non se ne ricorda più, c’è chi se le tiene dentro per tutta la vita. Genova non si ricorda più di me, lo so, la capisco. Io invece continuo ad ascoltarti perché mi fai pensare a lei. Buona vita Marescialla, e scusa se mi sono preso la tua città per un paio di notti. Ti giuro che mi piaceva, mi piaceva sul serio.

CPT, manifestaiolismi, Modena

Il Centro di Modena ha un problema

Portici affumicati e strade strette
storte, piene di buche e di letame,
un’aria sempre torbida ed infame,
un continuo votar di canalette…

(Anonimo ex modenese)

Cari commercianti del Centro di Modena,
vi scrive un ex modenese, un po’ preoccupato. Da quel che si leggeva in questi giorni sui vostri giornali, sembra che in città ci sia stato un vero e proprio assedio. Sei ore di combattimenti, anarchici dappertutto, cioè insomma, dappertutto, diciamo in via Emilia. Hanno rotto una videocamera a circuito chiuso. Hanno “preso di mira” le vetrine (scrivono tutti così: preso di mira. Neanche fosse un bersaglio mobile, una vetrina). Hanno lordato i muri con le bombolette spray. Hanno trasformato la città “in un teatro da guerriglia urbana”, ha detto l’onorevole Bertolini, che colgo l’occasione di salutare: buongiorno onorevole Bertolini, è da tanto che non sentivo più parlare di lei, cominciavo a preoccuparmi. Ma soprattutto, cari commercianti, tutti quegli anarchici vi hanno rovinato il sabato pomeriggio: quella mezza giornata che “le famiglie tradizionalmente dedicano allo shopping”. Un bel guaio, in tempo di crisi.

Cari commercianti, miei ex concittadini: credetemi se vi dico che mentre leggevo trepidante le testimonianze della battaglia, il mio cuore è tornato a dieci anni fa, quando anch’io passavo a Modena i miei sabati pomeriggio. Insomma la nostalgia si è impadronita di me, e ho ripensato ai miei sabati in via Emilia. Quanti ricordi, che folle, che calche… no, aspetta. Di solito nel ricordo tutto s’ingrandisce un po’. Nel mio caso questo non succede. Ovvero, io tutta questa gente al sabato pomeriggio non riesco a ricordarmela. Qualche crocchio sì, ma nulla di paragonabile a… a… qualsiasi altra città in cui io abbia passato un sabato pomeriggio. In Italia, in Europa, ovunque, ormai sono uno che ha viaggiato. Vivo da qualche anno in una città più piccola, non vi dirò quale perché non mi prendereste più sul serio, e rammento che i primi sabati che mi capitava di mettere il naso fuori mi chiedevo sempre cosa stesse succedendo: concerti gratis? Bancomat impazziti erogavano banconote? Orge in piazza? No, niente, era solo la normale folla del sabato pomeriggio. Normale? Non c’ero abituato. Eppure venivo da una città più grande, da Modena. Cari commercianti, da uomo che un po’ ha viaggiato io prima o poi vorrei dirvelo: Modena ha un problema. Il centro di Modena ha un grosso problema. E non sono gli anarchici.

Quelli sappiamo benissimo cosa fanno: arrivano, girano tre isolati, sporcano un po’, e poi levano le tende. Considerato che erano in seicento, il corteo non doveva superare i sessanta metri. Un corteo così avrebbe dovuto spaventare le famiglie? Rifletteteci bene. Una famiglia che sta prendendo il gelato al K2 non lo sente nemmeno, il corteo alla Ghirlandina. Magari s’incrociano al portico del Collegio, e se la famiglia si spaventa un po’ prende per via Farini (dove ci sono comunque tanti esercizi interessanti), fine del disagio. Ma il vero problema è che la famiglia quel sabato non ci va nemmeno in centro, e perché? Coraggio, ditemelo, perché? Chi è che ha detto alla Famiglia Modenese: State lontani dal centro, arrivano migliaia di anarchici cattivissimi? Sono stati i vostri giornali. Quelli che continuano a pomparsi e pomparvi con questa storia della guerriglia urbana. Ma voi avete presente cos’è una guerriglia urbana?

Ho letto un’intervista al questore. Ha difeso la scelta di fare il corteo in Via Emilia: dice che in questo modo si sono limitati i danni. Dice che non è stata infranta una sola vetrina. Ecco perché i giornali scrivono che le vetrine sono state ‘prese di mira’: non possono scrivere che sono state rotte… Insomma ‘sti anarchici devono avere una mira scadentissima: prendono di mira, prendono di mira, ma niente da fare. Oppure hanno capito, e non da oggi, che una vetrina rotta non serve a niente. Purtroppo continuano a usare bombolette e uova marce, ma anche qui, ha senso prendersela col Comune? Ha ripulito tutto in 24 ore, come al solito. Secondo voi avrebbero dovuto fare il corteo da un’altra parte. È il solito discorso. Perché la gente non manifesta a casa sua, magari con le tapparelle giù, e a basso volume? Ahimè no, il senso di una manifestazione è proprio l’azione di disturbo: la possibilità di fare arrivare il messaggio anche alla famosa famiglia che va a prendersi il gelato in centro. È una cosa che non si può impedire, neanche il questore ci prova. Cosa vorreste fare esattamente, transennare il centro storico? Far entrare soltanto quelli che hanno la faccia da shopping?

Ma non capite che il problema è l’opposto, e cioè che in centro a Modena non entra comunque nessuno? Praticamente nessuno. Una cittadina di cinquantamila abitanti ha dei sabati pomeriggio mediamente più interessanti dei vostri. E voi ve la prendete con gli anarchici. Dovreste festeggiarli, gli anarchici: sono gli unici che nel Centro di Modena ci credono ancora. Quando capiranno di quanto poco sia importante il Centro per gli stessi modenesi, non verranno più. Andranno a manifestare nel parcheggio del Grandemilia, o del nuovo multisala. E voi finalmente sarete liberi di esporre i vostri diamanti per i quattro turchi e i tre filippini che passano, perplessi. Il centro di Modena ha effettivamente un problema.

Può darsi che siano gli spazi. Strade troppo strette, e i portici non sono accoglienti come in altre città. Poi è vero che i centri storici sono luoghi schizofrenici. Negozi di lusso ed extracomunitari in subaffitto, non ha senso. Ma anche qui: è colpa del Comune?
Non sarà anche un po’ colpa vostra? Se fosse per voi, la Pomposa sarebbe ancora la piazza dei cinesi. Invece hanno fatto aprire un po’ di locali e adesso è piena di giovani. Non ce li avete mica portati voi, lì, diciamolo. Comunque adesso ci sono, e potreste profittarne per vender loro qualcosa. No, niente. È già tanto se non aderite a qualche raccolta di firme per far chiudere i locali. Sarà che ai giovani non si riesce a vender niente, hanno orari balordi, e poi non si sa cosa gli piace, sarà. Voi vorreste vendere alle famiglie. Ma le famiglie cosa dovrebbero venire a fare in centro, esattamente?

A proposito, voi dov’eravate quando hanno chiuso cinque cinema? Il Cavour. Il Metropol. Lo Splendor. L’Embassy. L’Olimpia, vabbè, diciamo che non era proprio in centro. E poi l’Arena che è diventato un porno. Tutto bene, secondo voi? D’altro canto, si sa, il cinema è un’invenzione senza futuro. Le famiglie non ci vanno più. Tranne per Avatar in 3d, eh, sì. Quante famiglie sono andate a vederlo, quest’inverno. Di sicuro non sono passate per il Centro.
A meno che non l’abbiano dato all’Astra. L’Astra resiste! È uno dei pochi motivi per cui mi capita ancora di trovarmi a Modena, di sabato, diciamo verso le diciannove. E magari mentre aspetto che cominci un film entro anche in un negozio. Ci trovo un’esercente scocciata che mi fa fretta perché non vede l’ora di chiudere. Il sabato alle diciannove. Io credo che Modena abbia un grosso problema.

Vogliamo raccontarci che siano gli anarchici? A proposito, ma con chi ce l’avevano? Con quel centro di Identificazione e di Espulsione che invece di identificare ed espellere gli immigrati li rinchiude per mesi e mesi. Quello gestito dalla Misericordia di Giovanardi, che prende soldi dallo Stato e non fa nemmeno funzionare le docce. Pensate che in un mondo appena appena un po’ passabile quella gente non marcirebbe là dentro. Sarebbero in giro a darsi da fare. Qualcuno magari anche a Modena. E magari al sabato pomeriggio gli avanzerebbe un po’ di tempo per farsi un gelato al K2. Ma poi lo fareste entrare nei vostri negozi?

No, eh?

Cari commercianti, io credo che il centro di Modena abbia un grossissimo problema.
Guardate, ve lo dico senza alcun pregiudizio, da vecchio appassionato di Centri storici. Anche adesso vivo in un Centro, oddio, diciamo in un Centrino. Sapete cosa c’è di fantastico? Che posso andare a lavorare in bicicletta. E compro il pane e la verdura sotto casa. E qualsiasi cosa. In effetti, sono sempre in bicicletta. A Modena la bicicletta mi è marcita in cantina. E dire che vivevo dietro il teatro. Perché non la usavo mai?

Forse perché in tutto il centro non c’era nemmeno un supermercato decente? Neanche uno. Pelliccerie, gioiellerie, e più scarpe che stelle nel cielo. Ma per fare una semplice spesa dovevo prender la macchina e andare all’iper. Avete capito qual è il problema?

Siete voi.
Perché non mollate l’osso? Vendete tutto e via. Coi soldi ricavati comprate un lotto di terreno, sloggiate l’anarchico che ci coltivava le patate bio e ci costruite un enorme centro commerciale pressurizzato. Lo fate a forma di Centro di Modena, però con l’aria condizionata e Pavarotti in filodiffusione. E soprattutto un immenso parcheggio davanti. Non verrà più pacchiano di un qualsiasi outlet, ma del resto ci siete mai stati in un outlet? Se avete visto il Fidenza Village, o Mantova Sud, dovete ammetterlo: quelli sì che sono centri storici come dio comanda. Si potrebbe fare anche un’autopista tutt’intorno, chiedete in giro, c’è richiesta per questo tipo di cose.

E il centro vero lasciatelo a chi lo abita. Ai giovinastri, agli extra, ai vecchietti, ai bambini, agli anarchici, a tutta questa gente inadeguata alle vostre vetrine. Vediamo come se lo gestiscono. Mal che vada diventerà un ghetto putrescente – quel che è stato per centinaia d’anni. Sopravvivrà.

Berlusconi, manifestaiolismi, scuola, tv

Non di solo Santoro

Certo, anch’io ritengo che un capo del governo, in uno Stato democratico, non telefona a dirigenti o controllori perché tolgano di mezzo programmi tv che non gli piacciono. E tuttavia. Il pezzo che segue è un enorme tuttavia (se non avete tempo da perdere, Falsoidillio è succinto ed efficace).

Foruncoli e cancrene

Tuttavia a volte mi pare che l’ossessione di Berlusconi per i talk show sia un po’ esagerata. Fossi uno dei suoi cicisbei proverei a dirglielo: ma di che ti preoccupi? Hai mai perso un’elezione per Floris o Santoro? No, fidati, nemmeno una. E sono il primo a pensare che la tv i voti li sposta. Ma non quella tv. Io penso alla tv che guardano tutti: al tg5, al tg1; credo pure che, in qualche modo contorto, anche Striscia e i reality di prima serata movimentino voti (Busi comunque è fuori dai giochi); e poi non bisogna sottovalutare quei programmini che di voti non ne spostano, ma se li tengono tutti bene stretti, senza perderne nemmeno uno, come ad esempio il telegiornalino di Emilio Fede… ecco, a proposito, come sta il ragazzo? io se fossi Berl. mi preoccuperei più per la salute di Fede che per l’orazione settimanale di Travaglio. Quelli che guardano Travaglio li darei per persi: non si può piacere a tutti, uno dei segreti di Berlusconi è che non ci ha mai provato. (Si è sempre contentato di sedurre il cinquantadue e irritare il 48 per cento).

Tuttavia quando Berlusconi afferma che “non c’è nessuna televisione europea dove ci sono questi pollai” [dove per “pollai” si intendono i vari talk show di centrosinistra] non ha tutti i torti. Anche Vespa e Santoro a suo modo sono anomalie. Un mese fa Santoro scrisse una bella lettera a Travaglio rivendicando addirittura un primato ‘strategico’ del talk su altre trasmissioni che si limitano a fare reportage, come Report. A mio modesto avviso anche ad Annozero erano i reportage a fare la differenza, non i battibecchi, ma evidentemente Santoro non è del mio parere e ci crede ancora (nel 2010…) al Battibecco come strumento di lotta politica, di informazione, di chennesò: a punto di rimbrottare Travaglio che di battibeccare con i soliti pupazzi era stanco. Nel resto del mondo non credo che vada così: nel resto del mondo il talk è una forma d’intrattenimento, non di giornalismo d’inchiesta. Nel resto del mondo civile i pollai esistono, ma fanno i pollai; mentre i rami del parlamento fanno i rami del parlamento. In Italia c’è confusione tra le due cose, e Santoro in questa confusione ci ha prosperato. Producendo a tratti ottima televisione, ma anche cose imbarazzanti (come l’ultima, demenziale puntata di Annozero sulla droga, per la quale rimando a Malvestite).

Tuttavia c’è qualcosa di più esagerato dell’ossessione di Berlusconi per Santoro (e Floris) ed è la nostra ossessione per l’ossessione di Berlusconi per Santoro (e Floris). O in generale per l’ultima malefatta di B. in ordine di tempo. Per esempio, quando abbiamo scoperto che Berlusconi andava ai compleanni delle minorenni siamo diventati tutti femministi. Tutti. Subito. La settimana scorsa ci accorgiamo che il vecchio porco ha problemi con timbri e firme e diventiamo degli appassionati di timbri e firme (il che è ancora meno credibile della frenesia femminista di un anno fa). E adesso tocca difendere Santoro. Di cosa stiamo parlando, in realtà? Di un sintomo. Uno fra tanti. Mettiamo che Berlusconi sia un’orribile malattia degenerativa che colpisce le democrazie immature. Fingiamo che questa malattia abbia numerosi sintomi: perdita della vista e dell’udito, schizofrenia e paranoia, gli arti vanno in cancrena, e sul naso qualche orribile foruncolo. Ecco, mi sembra che noi stiamo fissando un po’ troppo il foruncolo. Il foruncolo poi non è mai uno solo: ne spuntano diversi; grosso modo ce n’è sempre uno più grande degli altri che attira l’attenzione di noi medici antiberlusconiani. Per esempio, l’anno scorso di questi giorni scoppiò il foruncolo del gallismo: tutti a vedere Videocracy e Il corpo delle donne. Poi il foruncolo rientrò (in concomitanza col ritrovamento di foruncoli trans su governatori di centrosinistra), e sembrò scoppiare quello mafioso: Berlusconi era colluso con la mafia, quindi improvvisamente ci ricordammo di essere tutti grandi ammiratori di Falcone e Borsellino. Il che è vero, tra parentesi, ma… fermi tutti, Berlusconi ha fatto chiudere Santoro! E Floris! è un attacco al pluralismo. Va bene, mettiamoci pure a criticare l’attacco al pluralismo dell’informazione televisiva di uno che ha il monopolio della suddetta da vent’anni. Continuiamo a strizzare foruncoli a un malato terminale; a pretendere rispetto delle regole da uno che le regole se l’è mangiate digerite e cagate da tempo; a chiedere l’intervento di un arbitro (il presidente della Repubblica, o la magistratura) che sovverta un risultato che è stato comprato anni fa. Un antiberlusconismo così superficiale è perfettamente complementare al berlusconismo: è quel tipo di rancore che lo stesso Berlusconi nutre con un dosaggio sapiente di arroganza e faccia tosta. L’importante è che le prime cinque o sei pagine dei quotidiani parlino di lui: dei foruncoli e non della cancrena.

Sabato c’è stata la manifestazione antiberlusconiana per il rispetto delle regole. Anche se è probabilmente stata un successo, io trovo pochi motivi per festeggiare. Quel giorno era in programma un’altra mobilitazione che è passata del tutto in secondo piano. Una mobilitazione per la scuola pubblica.

La scuola non ha il pubblico dei talk show di Santoro (e Floris). È un’istituzione con cui ha a che fare la maggioranza degli italiani e – ciò che è più importante – la totalità degli italiani di domani. Poi, incidentalmente, è il settore dove lavoro io. A me in realtà dispiace venir qui a rovesciare frustrazioni che almeno dovrei cercare di rivestire di ironia o letteratura, ma devo dire che questo settore sta cadendo a pezzi, a vista d’occhio. Fino a un paio di anni fa era la solita scuola italiana con tanti problemi ma un cuore grande così. Poi ci sono stati i tagli delle cattedre. Prima se ne sono andati via i più giovani, quelli che erano appena approdati al ruolo. Poi sono caduti i colleghi stanchi, quelli coi problemi di salute. Quest’estate ci lascerà anche qualche senatore, quelli indistruttibili che però saranno pensionati con la forza. I buchi che lasciano non vengono riempiti. Le supplenze non vengono nominate. Le classi restano a volte in mezzo a un corridoio, ad aspettare qualcuno che nessuno ha chiamato (il preside ha altro da fare, postdatare assegni per forniture di cancelleria, cose così), anche solo un bidello che comunque è stato tagliato pure lui. A settembre gli insegnanti superstiti tentavano di metterci una pezza, ma era abbastanza chiaro che si trattava di regalare ore di lavoro gratis alla Gelmini. Adesso c’è molta stanchezza in giro: non si fanno più progetti, non si va in gita. Nel mezzo di tutta questa confusione ci sono meravigliose lavagne elettroniche interattive regalate dal ministero che nessuno sa usare (gli insegnanti più giovani non sono stati più assunti dal ministero). Nel frattempo la Gelmini è riuscita a strascicare la sua miracolosa Riforma della Scuola Superiore a un punto che gli studenti, che dovevano scegliere in gennaio, non sanno ancora che scuola frequenteranno in settembre. Tutto questo sta succedendo in tutte le vostre scuole, in tutte le vostre città. E mi chiedo: ma non si perdono le elezioni così? Non si perdono perché stai rovinando un anno scolastico a milioni di ragazzi in tutta Italia, e i genitori se ne accorgono? No? Si perdono perché sospendi un talk show?

Questo è lo smantellamento della scuola pubblica. Non è un foruncolo: questa è la cancrena. Questa è la perdita della vista, della capacità di guardare avanti, a quelli che verranno dopo di noi, anzi, ci sono già (ché noi il nostro tempo ormai l’avremmo anche già avuto). Ce ne preoccupiamo? Tanto per fare un esempio concreto: oggi Repubblica, organo dell’antiberlusconismo ponderato, cosa aveva in prima pagina? Il foruncolo (“Berlusconi all’attacco del Csm”, nientemeno. Ci dev’essere un cassetto a Repubblica dove tengono i titoli buoni per tutte le stagioni) A pagina due? Foruncolo. Tre, cinque, sei, sette: foruncolo (a pag. 4 pubblicità di abbigliamento). Sulla scuola neanche un trafiletto, neanche un corsivo nella pagina delle opinioni, e sì che ieri Intravaia aveva ben reso la situazione. Evidentemente non è una priorità. La priorità è Santoro (e Floris), quando tra quindici anni rischiamo di avere un pubblico medio che non riuscirà nemmeno a leggere i titoli delle trasmissione di Santoro (e Floris).

Il problema qui non è essere o no antiberlusconiani. Il punto è esserlo davvero, lasciando perdere le provocazioni e i foruncoli quotidiani che infastidiscono, sì, ma non possono distrarci. Su un quotidiano antiberlusconiano ci dovrebbero essere due pagine di scuola tutti i giorni. Le storie ci sono dappertutto, non ci vogliono segugi a trovarle: date un’occhiata ai blog, c’è un istituto a Genova dove i prof si pagano le fotocopie? Intervistarli subito, perché il vero berlusconismo è questo. Le scuole. La sanità. La protezione civile. I rifiuti. E poi sì, le telefonate intimidatorie e le pressioni al Csm. Ma non confondiamo foruncoli e cancrena.