Senza Dylan gente come Cohen non avrebbe mai preso sul serio la chitarra e avrebbe continuato a scrivere noiosi romanzi: quindi vedi quanto se lo merita, Dylan, quel Nobel? Non solo per i libri che non ha scritto, ma per quelli che non ha fatto scrivere agli altri.
9. “Il maestro dice che è Mozart, ma suona come bubblegum” (Waiting for The Miracle).
8. Well I live here with a woman and a child, the situation makes me kind of nervous. Yes, I rise up from her arms, she says “I guess you call this love”; I call it service. (Funziona benissimo anche se chiudi le virgolette dopo “service”). (There is a War).
7. Il bizzarro complotto tra lui, Jeff Buckley e i realizzatori di Shrekper far sì che al termine di milioni di matrimoni si intonasse una canzone sull’orgasmo, esatto, Hallelujah parla di quello, Cohen ci ha messo anni a scriverla e non l’ha nemmeno incisa così bene. Però il mio verso preferito resta “Well it goes like this, the fourth, the fifth, the minor fall, and the major lift“, il grado zero del genere “testo musicale”.
(La penultima volta che ho suonato a un matrimonio abbiamo fatto Hallelujah, e a un certo punto ti capita proprio di dire, vedi, c’è un do, un fa, un sol, poi in minore, e così via).
6. Quando guardi un uomo di mezza età un po’ sbattuto allo specchio e sei indeciso se farti la barba o tagliarti la gola.
5. La psicologia di un terrorista si capisce meglio leggendo il Corano o ascoltando First We Take Manhattan?
4. La psicologia di un partigiano si capisce meglio leggendo Fenoglio, però chi non ha tempo può ascoltare The Partisan (non l’ha scritta lui, e tuttavia). Eravate tre stamattina, n’è rimasto uno stasera. Chi ti ha nascosto nel fienile è morto senza dire una parola.
3. Nella vostra Bibbia, tra i Profeti e i libri sapienziali, potrebbe benissimo esserci un Libro di Cohen. Non dev’essere per forza molto lungo – certi profeti minori hanno solo due o tre paginette. Potrebbe anche solo contenere Story of Isaac.
2. Quando ti diranno, figliolo, che non esiste la destra e la sinistra; il neoliberismo e il populismo, ricorda sempre che “C’è una guerra tra quelli che dicono che c’è una guerra e quelli che dicono che non c’è”. (There is a War).
1. Cohen è l’uomo abbastanza uomo da accettare che probabilmente non è l’uomo migliore per te. Da qualche parte c’è qualcuno che ti ha fatto stare meglio e non importa quante promesse abbia spezzato e se si è davvero disintossicato. Un giorno tornerà a prenderti, quel giorno Cohen sarà abbastanza uomo da restare a letto a dormire.
Possiamo voler bene a Fo anche se negli ultimi anni era grillino? Gli possiamo perdonare questa patetica avventura senile, così come possiamo e dobbiamo perdonargli di essersi arruolato a 17 anni nei repubblichini per evitare l’internamento? A me piacerebbe tanto rispondere di sì, che possiamo. Gli anziani spesso perdono i punti di riferimento, ma non per questo smettono di meritare il rispetto che si sono conquistati con una vita di lavoro. Dario Fo ha lavorato tanto per noi: ci ha reso tutti migliori, anche se non ci fermiamo troppo spesso a rifletterci (certe cose che faccio oggi, e mi divertono immensamente, come la rubrica dei santi del Post: non sono affatto sicuro che avrei mai potuto pensarla o farla senza Dario Fo), e quindi se alla fine è stato raggirato da una banda di cialtroni, pazienza. Potremmo chiuderla così. Invece – indovinate – la questione è più complessa.
Mettiamola così: io non ci sto a invocare qualche forma di infermità senile per l’anziano Dario Fo. Quando decise di seguire Grillo e i suoi, per me era ancora perfettamente in grado di capire e comprendere: era ancora lo stesso Dario Fo di Mistero Buffo. Non vedo contraddizioni, anzi vedo una profonda coerenza di fondo. Fo era grillino molto prima che arrivasse Grillo; possiamo dire che lo era dal medioevo. Per dimostrarlo prendo un libro a caso.
A fine anni ’90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all’improvviso un Venerato Maestro.
APERTA PARENTESI
Contrariamente a quanto molti pensano, lo strumento che si vede nella foto non serviva a suonare musica, ma a scrivere parole su un foglio.
Con tutto il bene che voglio a Bob Dylan, e a tutti i brutti dischi che mi ha fatto ascoltare (nessuno ha mai fatto tanti dischi brutti come Dylan), con tutto il sollievo che provo perché per una volta hanno premiato uno che un po’ conosco, devo dire che per me il Nobel alla letteratura più pazzo di tutti, quello che mi ha dato più soddisfazioni, continua a sembrarmi quello a Fo.
Dylan farà brontolare ancora un po’ i benpensanti di ogni età, quelli con l’estetica a compartimenti stagni (“letteratura”, “musica”) che non si capisce neanche esattamente dove se la siano formata: cioè non puoi neanche dare la colpa al liceo gentiliano, o a un Benedetto Croce; nemmeno loro la mettevano giù tanto scema. Più probabilmente hanno in testa i reparti di una libreria, di un multistore: i testi di Dylan non sarebbero “letteratura” perché non stanno in quello scaffale, più che autonomia/eteronomia dell’arte dev’essere una questione merceologica, di inventario.
Con Fo è diverso. Faceva teatro – che è una branca della letteratura più o meno da Eschilo – e non si può neanche dire che non si affidasse alla parola scritta: cioè è vero che improvvisava, ma i testi teatrali suoi e della Rame sono tutt’altro che canovacci: sono dialoghi assolutamente scritti, di buona qualità – e nessuno aveva protestato per George Bernard Shaw o tanti altri. No, il problema con Fo era un po’ più sottile. C’è qualcosa in lui che non riusciamo a ridurre a “letteratura”, in un senso della parola “letteratura” che non è chiaro nemmeno a noi: e non sono le boccacce o il grammelot. Credo che sia un po’ lo stesso problema di Brecht. Fo è un autore a suo modo brechtiano, e quello che fa Brecht non è più, in senso stretto, “letteratura”. Forse ancora negli anni Cinquanta, ma in seguito il reparto si è ristretto. Abbiamo deciso, per esempio, che la politica non c’entra, sta in altri scaffali. Ma Brecht la politica la voleva fare. Galileo e Madre Coraggio sono testi che non si limitano a descrivere il mondo: lo vogliono cambiare. Non stanno al loro posto, non si accontentano di gareggiare in un’ipotetica serie A del consumo letterario che peraltro è stata formalizzata qualche decennio dopo da una branca commerciale di qualche casa editrice.
Con Fo succede la stessa cosa. Marino libero, Marino è innocente! è un bel monologo? Non lo so. Quel che mi è ben chiaro, dopo averlo visto, non è la qualità letteraria del testo, ma il fatto che Marino sia, perlappunto, innocente. Si può apprezzare un testo del genere se invece sei sicuro che Marino sia colpevole? Un fascista può apprezzare Brecht? Secondo me no. Al limite ci sarà un equivoco, ma Brecht non è un autore che si lasci così liberamente interpretare. Ha lasciato note di scena ben precise, non puoi interpretare il Galileo come una difesa di Galileo o addirittura della Chiesa cattolica: non funziona.
Con altri scrittori non succede questo – non è previsto che succeda. Non devo condividere l’ideologia di Hemingway – ammesso che ne abbia una – per amare Hemingway. Non devo coindividere le idee politiche di Montale, non devo condividere le convinzioni di Rushdie, e nemmeno quelle di Bob Dylan. Ma non potevo uscire da uno spettacolo di Fo dicendo “mi è piaciuto ma non mi ha convinto”. Se non ti ha convinto, non ti è piaciuto. Non è letteratura nel senso che gli abbiamo dato negli ultimi anni: forse è propaganda. In ogni caso la faceva benissimo. Ma a questo punto, di nuovo, si pone il problema: gli possiamo perdonare di essere diventato grillino? Perché non è stato un equivoco, lui nel grillismo ha visto qualcosa che aveva inseguito per tutta la vita. Come stavo perlappunto per mostrare prima di aprire questa parentesi che adesso chiudo.
CHIUSA PARENTESI
A fine anni ’90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all’improvviso un Venerato Maestro. Potrebbe ritirarsi o ripetere i vecchi numeri approfittando del rilassamento della censura, e invece si butta in altri progetti. Lavora molto. Si interessa soprattutto a uno dei periodi meno conosciuti della nostra Storia, la tarda antichità. Il progetto multimediale La vera storia di Ravenna(1999) prelude ad analoghi spettacoli dedicati al duomo di Modena, ad Ambrogio e ad altre cose che sicuramente mi sono sfuggite; però già nel ’99 in quel libro Fo non si limita a raccontare la città che lo ospita: sono due secoli di Storia che riscrive, approfittando del fatto che non li conosce nessuno.
Il libro è completamente disponibile on line: è una lettura facile e godibile (era uno spettacolo per le scuole, questo fanno gli scrittori brechtiani: mentre voi vi affannate a leggere Roth o ascoltare Dylan, occupano le scuole e vi rovinano i fanciulli), ed è assolutamente in linea con quello che Fo aveva fatto prima, ma anche con quello che ahinoi appoggerà dopo. C’è l’amore per il popolo, unico vero motore della Storia: c’è tutta la curiosità del lettore operaio di Brecht, che vuole sapere se Giulio Cesare avesse un cuoco. E poi c’è questa cosa folle che vi vado a mostrare: la scoperta di un eroe proletario nell’Italia disastrata del sesto secolo. Nientemeno che Totila, re dei Goti. Approfittando di due o tre accenni a una riforma fondiaria che Totila aveva avvallato per rifondare il suo esercito, Dario Fo descrive una scena che col senno del poi assume una valenza ben più inquietante di quella che aveva a fine anni ’90 (ai quei tempi al massimo ci si diceva vabbe’, Cristo e morto, Marx è morto, e Fo si mette a cercare un Che Guevara nella Storia dei Goti).
La riforma fondiaria di Totila non ebbe un grosso seguito: vuoi per la peste che colpì di lì a poco la penisola, decimandone gli abitanti (e rendendo una riorganizzazione del territorio in qualche modo necessaria); vuoi perché dopo tante brillanti vittorie che Fo racconta con l’entusiasmo del militante, Totila viene sconfitto e i suoi seguaci crocefissi. Però per Fo l’importante è che ci sia stata: che abbia preso l’esempio da una rivolta avvenuta poco prima in Palestina, e che abbia passato il testimone ad altre rivendicazioni, altre lotte avvenute poco dopo nei territori Bizantini. Totila non è morto, Totila lotta insieme a noi – Fo non lo scrive, ma vuole che uscendo di teatro noi un po’ lo pensiamo. In seguito vedrà nel Duomo di Modena l’opera di un popolo che non vuole essere eterodiretto da papi o imperatori, e dipingerà Sant’Ambrogio come l’eroe del popolo di Milano, un non battezzato che diventa vescovo per acclamazione. Si tratta di operazioni propagandistiche molto più spinte di quelle che i Wu Ming stanno facendo nello stesso periodo. Fo riscrive la Storia dal basso – gli storici ovviamente storcono il naso ma non è a loro che evidentemente Fo guarda. Fo sta cercando e proponendo dei modelli, un po’ perché quelli del Novecento ormai sono inutilizzabili, un po’ perché è quel che ha sempre fatto, dai tempi di Lisistrata e Mistero Buffo.
Un passo oltre: in quel re barbaro che convoca i servi della gleba, gli propone di abolire il feudalesimo della Casta e confessa “abbiamo poca esperienza”, non vi sembra di riconoscere qualcuno? Un Fo che era disposto a farsi andar bene personaggi come Totila o lo stesso Ambrogio, perché non avrebbe dovuto salutare con gioia l’avvento di Grillo e dei suoi uomini inespertissimi? Il movimento del Vaffanculo, Fo lo stava aspettando da una vita. Era stata la voce che lo chiamava dal deserto del Novecento. E a questo punto la palla torna a noi. Ci piaceva Fo, ovvero: ci piaceva una persona che il grillismo lo ha immaginato, lo ha cercato qua e là nei secoli più bui della nostra Storia, lo ha finalmente visto in Grillo e nei suoi. Possiamo anche raccontarci che la situazione sia molto più complessa, ma non è così. Possiamo stabilire che che Fo ci piaceva in quanto geniale propagandista di una cosa che in realtà non funziona, ma è un’operazione un po’ fredda. Se davvero ci piace Fo, dobbiamo accettare che c’è qualcosa del grillismo che tutto sommato non ci dispiace: e decidere, di conseguenza, se vogliamo rimuoverla o mantenerla dentro di noi. Almeno per me è così
Ho scoperto che non ci posso fare niente: io sono i film che guardo, o meglio che ho guardato. Per esempio, se mi chiedi cos’è l’eroismo, ebbene, l’eroismo è pilotare un aeroplanino sul Rio delle Amazzoni, in una notte di tempesta, insultando la torre di controllo e rassicurando il passeggero ferito: tranquillo, quando sono sbronzo io sono immortale.
Se invece mi chiedi cos’è la vittoria, ecco, ho già provato a spiegarlo (non che abbia molto senso, comunque): “non m’importa quante palle mi mettete dentro: l’importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento”.
Bud Spencer era un atleta e un clown, eppure ho scoperto che quel che mi prendeva di più dei suoi film non erano le coreografie a base di schiaffoni (ancora imbattibili). Ma il modo in cui ogni tanto gli scappava di fare l’eroe, e gli veniva naturale, come dovrebbe venire a ogni padre per quanto sudato e corpulento. La prossima volta che un ferito grave ci implorerà con lo sguardo di portarlo a Manaus, Bud Spencer non potrà più coprirci. Toccherà a noi, che non siamo immortali, in effetti nessuno lo è. Bisognerà farsene una ragione.
All’onorevole Buonanno, leghista, è capitata la sorte che non augurerei al peggior nemico, che in effetti potrebbe essere lui. Sparato ad alta velocità, cuore fragile di una pallottola di lamiera, Buonanno è morto tamponando un compagno di strada sulla corsia di sicurezza, come potrebbe capitare al miglior guidatore in un momento di stanchezza o distrazione. Perché è così che vanno le cose: a diciott’anni superi un test, ritiri una patente e da quel momento puoi girare armato, anzi sei tu stesso l’arma. Non con quelle cose ridicole che tengono gli americani nel cassetto, e i politici sventolano in tv per speculare sull’ansia di chi è stato svaligiato. Parliamo di ordigni enormi, quintali di ferro o alluminio che possono passare da zero a 150 km/h con la lieve pressione di un piede. Possono ucciderti in ancora meno tempo e non è lo scenario peggiore. Possono fare di te un assassino. Succede tutti i giorni.
L’onorevole Buonanno, leghista, si mostrava preoccupato per la criminalità e non aveva nemmeno tutti i torti – probabilmente sta aumentando, com’è logico in tempo di recessione. I furti in casa soprattutto, e non c’è bisogno di sottolineare come questa categoria di reati influisca più d’altre sulla percezione della sicurezza del ceto medio proprietario. D’altro canto, gli omicidi consumati a scopo di furto o rapina, nel 2014, sono stati 27. Nello stesso anno le vittime di incidenti stradali sono state 3381. Nel Duemila erano ancora più del doppio. Una cosa giusta e di sinistra che ha fatto Berlusconi: mettere il tutor in autostrada (o se l’ha fatta Prodi, almeno Berlusconi non l’ha tolto). Una cosa scema e di destra che ha fatto Matteo Renzi: il reato di omicidio stradale.
Non si muore più in strada come una volta, ma si muore ancora tanto e lo sappiamo. È l’unica vera guerra della mia generazione: abbiamo tutti uno o due amici al camposanto a cui non portiamo più i fiori. Buonanno non era un mio amico, ma era come minimo un compagno di autostrada, due o tre volte statisticamente potremmo esserci sorpassati. Sono vicino al dolore dei suoi cari: non mi costa fatica, è lo stesso dolore che mi accompagna tutti i giorni. Là fuori ci si ammazza, ed è successo anche a gente a cui volevo bene, un po’ più spesso di quanto pensavo di poter tollerare. È un problema molto più grosso di tanti altri problemi che ci fanno discutere, che ci spingono a prendercela contro una minoranza o contro un ceto politico e votare un onorevole piuttosto di un altro.
Se per caso vi stavate chiedendo: è possibile scrivere un brutto pezzo su Muhammad Ali? Un combattente incredibile, un attore nato, uno che sembra non aver mai lasciato un microfono senza aver detto qualcosa di buffo o interessante? Uno che ha perso un titolo mondiale a tavolino per una questione di principio, uno che il suo pezzo di secolo se l’è vissuto da protagonista? Se per caso vi stavate chiedendo: può un giornalista italiano sbagliare persino un coccodrillo su Muhammad Ali?, ebbene, sono ovviamente domande retoriche. Ecco il buon Gianni Riotta.
Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»). Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita. Ora: secondo voi Riotta lo sa che gli obiettori di coscienza e i riformati sono due categorie diverse? Che se davvero fosse stato “esentato per aver fallito i test”, Muhammad Ali non avrebbe avuto bisogno di obiettare, farsi arrestare, farsi condannare, perdere la licenza di pugile, perdere il titolo mondiale, appellarsi alla Corte Suprema? E non c’è nessuno alla Stampa che lo sappia, che possa avvertirlo, correggerlo, e magari già che c’è spostare quelle due o tre virgole, cambiare quei due o tre verbi che non si comportano in italiano come Riotta pretenderebbe (punire qualcuno di qualcosa?)
Di tutti gli aneddoti citati da Riotta, quello dei test falliti e dell’IQ basso è di gran lunga il meno noto: in un pezzo di mille parole, cinquanta servono a ricordare che Ali non era una cima. In effetti no, non ci teneva nemmeno troppo a sembrarlo (tra le sue frasi celebri: “Ho detto che sono il migliore, non che sono il più intelligente”. In sociologia il fenomeno per cui le persone tendono a definirsi “migliori” ma non “più intelligenti” è chiamato Muhammad Ali Effect). Però cercare di desumere la sua intelligenza dal test della visita di leva è abbastanza ingeneroso – forse Riotta ignora quante risposte sballate davano i suoi coetanei al test dei Tre Giorni. Ali, di cui tanti hanno lodato l’intelligenza tattica sul ring e fuori, potrebbe anche aver tentato nel 1964 di falsare i test di scrittura e spelling per non andare in guerra e continuare a pugilare. Perché magari davvero non era una cima: ma nemmeno così scemo da preferire il Vietnam al titolo mondiale dei pesi massimi.
Quello che Riotta non dice, o forse non ha capito (o è stato tagliato in fase di pubblicazione), è che nel 1965 l’esercito abbassò gli standard minimi, e Muhammed Ali ridivenne arruolabile: a quel punto si rifiutò pubblicamente di obbedire agli ordini e diventò quello che tuttora chiamiamo obiettore di coscienza – il più famoso del mondo. Un esempio straordinario non solo per gli afroamericani, non solo per gli statunitensi. Se un uomo che si guadagnava da vivere pestando a sangue Sonny Liston si rifiutava di andare in guerra, l’obiezione non era più un atto di viltà. Diventava l’esatto opposto: una prova di coraggio. Va bene. Invece secondo Riotta non c’è andato perché ha fallito i test, scriveva a stento, firmava libri che non sapeva leggere e si arrangiava imparando un po’ di versetti a memoria. Le cose non stanno esattamente così, ma si capisce quanto fascino deve avere questo Ali dislessico e disgrafico per Gianni Riotta: o non è vero che nei monumenti dei grandi uomini ognuno cerca di intravedere il proprio riflesso? Non sarà una coincidenza che tra le mille cose che poteva dire di Ali, gli sia venuto in mente che aveva difficoltà di scrittura, e firmava libri lo stesso?
“Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore“. Sì, prof Riotta, appunto: crescere, maturare, sbagliare, ma anche correggersi. Correggersi. O al limite farsi correggere da qualcuno; ci sarà bene qualcuno nei pressi che può dare una mano. Continuo a trovare incredibile che non ci sia.
Nel gennaio del 2014 Pierluigi Bersani fu ricoverato – emorragia cerebrale. Tutto sommato gli andò bene, e un mese dopo era già in grado di votare la fiducia al governo Renzi. In aprile fu Gianroberto Casaleggio ad accusare dolori al capo. Anche lui prontamente operato per un edema, anche lui sembrò rimettersi. Bersani è del ’51, Casaleggio del ’54. Entrambi venivano da un anno molto complicato: la campagna elettorale, la crisi al buio, la sofferta rielezione di Napolitano, la tremolante parabola del governo Letta. In mezzo a tutto questo, la trasformazione del M5S da movimento di opinione a principale forza d’opposizione parlamentare, con le inevitabili defezioni ed estromissioni.
Per la Z era forse previsto un secondo volume (zuzzurellone! zimbello! zozzo!)
A distanza di qualche anno forse cominciamo a dimenticarci di quanto fu pesante il 2013. Lo fu per me, che avevo un posto fisso e scribacchiavo – lo fu senz’altro molto di più per personaggi pubblici e leader che si trovarono, contemporaneamente, alla berlina sui media, e soli davanti alle decisioni più importanti. Non è così assurdo ipotizzare che lo stress pre- e post-elettorale sia stato una delle cause del malore di Bersani: e Casaleggio forse negli stessi mesi era sottoposto a una tensione ancora maggiore. In più, doveva far fronte alla curiosità faziosa dei media: un’esposizione a cui Bersani era abituato per formazione, mentre per un consulente-imprenditore come lui si trattava di una relativa, e sgradita, novità.
Certo, Beppe Grillo la taglia un po’ troppo semplice quando dice: l’avete ammazzato voi giornalisti. Ed è abbastanza indicativo che di fronte all’intrusione dei media, il cosiddetto guru delle nuove tecnologie abbia reagito alla vecchia maniera, accumulando querele. Diciamo che trasformare un’idea un po’ vaga di democrazia dal basso in quella macchina da guerra che è diventato il M5S richiedeva uno sforzo di energia che qualcuno ha pagato. A un certo punto anche Grillo si sentiva “stanchino“: Casaleggio era già stato operato almeno una volta. La politica è sangue, sudore, riflessi nervosi, materia cerebrale. I giornalisti certo non usano i guanti, ma in generale è il pubblico che non ha pietà. Io perlomeno nel mio piccolo non ne ha avuta, e lo sfogo di Grillo un po’ lo capisco.
Lo so che è troppo significativo per essere vero, ma ricordo precisamente quando fui messo al corrente dell’esistenza dell’entità musicale chiamata Prince: fu nell’aula musicale della mia scuola media, perché alla parete c’era un cartellone di quelli di terza. Uno di quelli che sono il risultato del compromesso al ribasso tra un prof di educazione musicale e una classe vivace, composti completamente di titoli e foto di riviste musicali, da Ciao 2001 a Sorrisi e Canzoni; in particolare ricordo benissimo un titolo: È “PRINCE” IL NUOVO RE DEL VINILE. Me lo ricordo perché già in prima media mi sembrava curioso che un tizio chiamato Prince fosse acclamato re, e soprattutto perché io non avevo ancora un’idea precisissima di cosa fosse il vinile. Ancora per qualche anno continuai a pensare che poteva trattarsi di un genere musicale, come il twist o il rap.
Le foto, se ricordo bene, erano repertorio del periodo di Purple Rain, moto e chitarroni. E basta, probabilmente in giro avevo già sentito qualche pezzo di Prince ma non potevo saperlo. Però quell’estate su videomusic ruotò ossessivamente Paisley Park, un pezzo di cui non mi sono più liberato, con un video che faceva venire il mal di testa. Devo aver pensato che era quella, la musica vinile, e che andava contro molte delle mie abitudini, ma tutto sommato non mi dispiaceva. Non pensiate che oggi i ragazzini imparino le cose più facilmente. A monte di tutti i vostri ricordi, di tutte le nozioni che vi fanno sentire individui con una storia personale, c’è un magico momento che avete dimenticato, la soglia tra il Non conoscere e il Venire a conoscenza, tra il Non-averne-mai-sentito-parlare e l’Ah-ecco-cos’era. È quell’onda molto particolare che cavalchi nella scuola media. Se dici: prima guerra mondiale, per qualcuno che risponde già: uff, lo sappiamo, Sarajevo e il Piave, ce ne sono due che chiedono: quante guerre mondiali ci sono state? Tu glielo dici, e loro se lo scordano. Oppure gli resta in mente, ecco: quello è un momento magico. Sono importanti i cartelloni, anche quelli fatti male che non riescono a inquadrare un concetto (peraltro Prince chi mai lo è riuscito a inquadrare). Sono importanti i fraintendimenti, le cose assurde di cui ci convinciamo e che si scioglieranno al sole dell’esperienza – e poi chissà se a metà degli anni Ottanta qualche critico musicale ubriaco non l’avesse pure codificato, il genere vinile. Una musica di plastica, appiccicosa, bianca come il Vinavil, o nera come un 33giri, con riflessi oleosi, iridescenti, in effetti Prince non poteva che essere il re del vinile. Poi quando andavo in terza uscì Parade e venne giù il mondo. Non devi essere bella per farmi andare su di giri. Nessuno lo aveva mai scritto, ma in terza media era una grandissima verità.
Ci voleva poco per ritrovarsi dalla parte di Prince – bastava odiare Michael Jackson, ai tempi ci si divideva in squadre per qualsiasi cazzata, e poi ci si picchiava davvero, nessun compromesso, nessun sincretismo. Questo non significava naturalmente capirci qualcosa, tanto più Prince, che sembrava cambiare genere musicale a ogni pezzo nuovo. Una cosa che credevo di aver capito è che dei due duellanti, Prince era quello Brutto: il santo protettore di noi brutti. Per dire che enormi fette di prosciutto avevo davanti, cioè, ora che lo rivedo in foto la cosa non mi torna assolutamente, cioè Prince non era affatto Brutto – ai tempi era prestante addirittura.
Si potrebbe dire che oltre a un deficit culturale (per cui non riuscivo a capire che in pezzi pur diversissimi come Kiss o When Doves Cry, erano pur sempre evoluzioni di un universo musicale a me sconosciuto) soffrivo di un deficit estetico. Ma non era un problema solo mio. Ancora sul crepuscolo degli anni ’80, in un albo di Dylan Dog, Groucho per allontanare un mostro dalla casa appende alla porta un ritratto di Prince, l’entità pop più disgustosa che poteva venire in mente a uno sceneggiatore di fumetti italiano che, bisogna dirlo, non era Tiziano Sclavi. Per dire quanta strada avesse fatto, l’idea che Prince fosse un mostro. Se era l’89, in effetti, che album c’era nelle vetrine dei negozi? Lovesexy?
Potrebbe persino essere il mio disco di Prince preferito, ma non sarei mai riuscito a comprarlo, nel modo fisico e sociale in cui si compravano allora le cose. Sì che non ero un’educanda, e nello stesso periodo ricordo di non essermi fatto scrupolo a sfoggiare in stazione autocorriere album assai più morbosi, ad esempio un giorno un ragazzo che conoscevo mi chiese conto del fatto che avevo in mano The Madcap Laughs, con una ragazza nuda che potrebbe benissimo essere minorenne. Ma Lovesexy? Avrei potuto entrare al Discoclub, sollevare una copia di Lovesexy, mostrarla all’esercente, pagarla, uscire dal negozio e rientrare nella società con quella cosa? Non credo, no, la copertina di Lovesexy era troppo in là per me. L’androginia di Prince era molto più impegnativa di tutte le androginie che avevo recepito fino a quel momento (cioè, credo, David Bowie e poco più). Era un’androginia passiva. Bowie sembrava un viveur a cui non dispiaceva anche andare con gli uomini, ok, fin lì potevo arrivarci. Ma Prince dalla vetrina del Disco Club mi diceva: tu, anche tu potresti desiderarmi. E la reazione mia di adolescente credo sia stata: no, sei brutto. Sei un uomo. Peloso. E nero, quasi dimenticavo: nero. Ma era nero davvero? Era un uomo? Era brutto?
(Quando alzo la voce con qualcuno, mi chiedo se è il rumore dei cigni che piangono. Quando incontro una persona e le cose non vanno bene, penso: meet me in another world, space and joy. Se qualcuno mi chiedesse qual è il senso del nostro essere nel tempo, gli direi: sbrigatevi prima che sia tardi. Innamoratevi, sposatevi, fate un bambino, chiamatelo Nate (se è un maschio). Quando è lunedì mattina – c’è bisogno di ricordare che canzone uno ha in mente il lunedì mattina?)
Prince era sempre un po’ più in là. Era nero, ma anche bianco; chitarrista, ma anche ballerino; era maschio, ma incideva canzoni da femmina accelerando la voce. Il falsetto a metà anni Ottanta era un relitto polveroso, i Bee Gees si erano nascosti in una crepaccio, Jimmy Sommerville era precipitato da brava meteora, anche Sting era sceso di un’ottava per cautelarsi. Nel bel mezzo di questa fase di latenza, Prince canta Kiss, e sul finale sembra volersi strappare i caratteri sessuali coi denti. E quella canzone l’ho sentita cantare negli spogliatoi da personaggi che conoscevano solo le parole di Kiss e Bella Bionda Beato Chi Ti Sfonda. Prince prendeva la nostra provinciale omofobia di adolescenti italiani, le dava un passaggio su una Corvette rossa e la faceva sparire in un parcheggio sotterraneo.
Poi per carità, non voglio far finta di aver capito Prince, non è vero. Non ho neanche fatto i compiti, certi dischi non ho avuto il coraggio di comprarli quand’era il momento, e adesso su internet è difficile. Certe cose col tempo le ho capite, ad es. le giacche con le spalline militari ho scoperto che se le mettevano tutti, sembra banale ma per me Prince – oltre al re del vinile – era quello che si vestiva come il commodoro di staminchia e non ne capivo il motivo. Ho scoperto, nell’ordine: i Beatles, Jimi Hendrix, Sly Stone, Joni Mitchell, quel tizio che cantava Superfreak, e buon ultimo ho scoperto anche Michael Jackson, un grandissimo musicista e performer che infatti adorava Prince e credo anche viceversa. Tanti pezzi li ho messi assieme e anche Paisley Park non mi fa venire più quel mal di testa dei bei tempi in cui non capivo niente. Però onestamente non posso dire di aver capito Prince. Interi dischi continuano a suonarmi misteriosi, e dopo Lovesexy c’è il buio. Tante cose che al tempo non capivo, e non me ne preoccupavo, mi dicevo che sarebbe venuto il momento – no, il momento non è venuto mai. La pioggia di porpora, per esempio, che cos’è. Cosa vuol dire che mi vuoi soltanto vedere nella pioggia di porpora. Ecco, credevo che a un certo punto mi sarebbe venuto naturale. Magari quando comincerò a far sesso, pensavo – perché un giorno comincerò, capirò. E invece no.
Tanto che a volte mi domando se ho mai cominciato davvero.
Non solo in Italia nessuno muore stronzo, ma alcuni hanno anche la dubbia fortuna di morire geniali e visionari. E sì che la traiettoria di Gianroberto Casaleggio – imprenditore, consulente, fondatore di un partito che dal nulla è arrivato quasi al 30% – non avrebbe bisogno di abbellimenti, ma si vede che non basta mai. Bisogna immaginarlo come un burattinaio di Grillo o del Movimento tutto, un leader distante, esoterico – non scherzo, qualcuno ha veramente usato la parola. Qualche anno fa, probabilmente mentre cercava di impacchettare un po’ di fuffa a qualche azienda, la Casaleggio produsse quel video famoso in cui si prevedeva la Terza Guerra Mondiale e la Gaia prossima ventura nel 2054. Il video non era niente di straordinario (la qualità non essendo mai stata una priorità delle produzioni Casaleggio), ma a un certo punto diventò virale.
In mancanza d’altro – il tizio parlava poco e anche i suoi libri alla fine non è che chiarissero un granché – gli osservatori esterni del Movimento decisero che il video su Gaia rappresentava la vera ideologia segreta del suo fondatore, come se ci riflettete è giusto che sia: se hai un piano segreto e non vuoi renderla nota fuori dal tuo cerchio magico, tu subito corri a pubblicarla su Youtube. Ogni volta che ha potuto, Casaleggio stesso ha ribadito che quel video non era cosa da prendere sul serio – non più sul serio di qualsiasi presentazione che un consulente confeziona alle aziende – ma eravamo tutti troppo furbi per cascarci. Anche ieri ne hanno riparlato in tanti, su giornali radio e tv, e Casaleggio è diventato il visionario teorizzatore di Gaia. Questa è la cosa che da sempre mi spaventa: non la morte, ma il modo in cui dopo la morte di noi non sopravvive un senso complessivo di quello che siamo, di quello che abbiamo cercato di fare – ma più spesso la prima cazzata che c’è venuta in mente in un giorno qualsiasi per impressionare una tavolata di persone.
Così com’è difficile capire un Bossi o un Grillo (persino un Renzi) senza dare un’occhiata al territorio, a quei bar in cui la sanno tutti lunga e te la spiegano in due parole, ex chitarristi sbandati, padroncini o figli di, può essere abbastanza complicato comprendere Casaleggio se non hai mai assistito allo spettacolo d’arte varia dei consulenti per le aziende. Quando parliamo di C. come di un grande innovatore digitale, in sostanza stiamo provando a rivendere il pacco che è riuscito a rifilarci. Alla fine della fiera faceva dei siti – neanche molto belli, considerato che erano già gli anni in cui i blog si cominciavano a dichiarare morti. Nessuno che io sappia ha mai trovato particolarmente innovativo il blog di Antonio Di Pietro: certo, faceva notizia che ne avesse uno. Quello di Grillo sembrò sin dall’inizio un pasticcio piuttosto pesante: però era Beppe Grillo. Bastava il suo nome a portare on line milioni di utenti mai visti prima, la blogosfera italiana diventò un piccolo villaggio alla periferia del centro commerciale beppegrillo.it. Nel frattempo gli early adopters passavano ai social network, e Casaleggio nemmeno ci faceva caso. Come innovatore digitale era straordinariamente lento di riflessi, spesso ancorato a software o piattaforme già vecchie nel momento in cui le adottava (Movable Type, i MeetUp). Come nota Mantellini, la stessa concezione casaleggiana della Rete sembrava uscita dai cibernetici anni Novanta: “uno strano riciclo di miti, sogni luccicanti e intuizioni sull’universo digitale presi pari pari dall’interpretazione libertaria americana del nuovo contesto digitale di un decennio prima. Temi che nel frattempo, oltreoceano e nei circoli culturali europei, erano già stati opportunamente accantonati e considerati impraticabili praticamente da chiunque, il più spettacolare dei quali, quello del governo diretto dei cittadini attraverso gli strumenti digitali, è ancora oggi, nonostante le molte smentite pratiche, il punto centrale dell’ideologia del M5S”.
Una volta buttai lì che i grillini erano i nuovi futuristi; poi non ho avuto più tempo o voglia di spiegare. (Bisogna anche dire che io ho studiato più il futurismo che qualsiasi altra cosa, e quindi lo trovo anche nella struttura delle latifoglie). Ciò che il timido consulente e Marinetti avevano in comune, non è solo la sensazione di trovarsi sul promontorio dei secoli, ma anche la segreta consapevolezza di non aver la minima idea di quel che sta succedendo. Marinetti non ha gli sponsor e la fama di un D’Annunzio, ci avrebbe messo un po’ prima di salire davvero su un aeroplano… però intanto sente tutti parlare di aeroplani, aeroplani, aeroplani, e lui si mette a scriverci un poema sopra. Non ne sa un granché, in sostanza lo tratta come un grande uccellaccio cavalcabile, ma qualcosa l’azzecca. Poi prevede una guerra, che funziona sempre. Non ha una cultura scientifica, ritaglia e incolla qualsiasi scemenza pseudoscientifica trovi sui giornali: si convince facilmente che la radioattività rinnovi il vigore sessuale perché ne parlano “gli scienziati” in una breve sul Corriere.
Casaleggio si ritrova a fare consulting in quel favoloso decennio in cui tutti parlano di internet e non ci naviga ancora nessuno. Lui ci prova. Non inventa niente, il più delle volte arriva tardi: il suo colpo migliore è stato conquistare Beppe Grillo e la sua massa critica di seguaci. Quanto alla politica: a un certo punto ci siamo tutti convinti che Casaleggio fosse la Mente, perché dei due intestatari del partito era quello che parlava poco. Senz’altro la sua idea di rifiutare qualsiasi alleanza o compromissione ha pagato. Ma non era poi un’idea così raffinata, soprattutto se si aveva la possibilità di osservare da un punto di vista privilegiato il livello di impreparazione degli eletti m5s nel 2013. Quando poi si passa alla parte pratica, con le epurazioni e i direttori C ha dimostrato ampiamente di voler gestire il movimento come un’azienda – non dissimilmente da quello che faceva Berlusconi (e lo stesso Renzi ha un concetto simile e nasce in un simile brodo culturale, anche se si è fatto le ossa nell’amministrazione locale). Il che ci riporta a quel bar non necessariamente padano in cui tutti hanno un’idea geniale per mettere a posto le cose. C’era il chitarrista sbandato, il figlio del bancario che non si sapeva esattamente dove avesse preso i soldi, e ogni tanto magari si fermava a prendere il cappuccino il consulente in impermeabile. Chiacchiere simili, timbri diversi, ma se fai caso alla nota dominante, vedi che non varia di molto. Ce l’hanno tutti con chi non ha voglia di lavorare, con gli stranieri che ci levano il lavoro, la burocrazia, i sindacati. Scattano tutti in modo automatico ogni volta che un partito anche solo vagamente di sinistra sembra poter vincere le elezioni.
Mussolini diventò un personaggio scrivendo e dirigendo un giornale, e poi tentò di dirigerla come un giornale (“un’idea al giorno, dei concorsi, delle sensazioni, un abile e insistente orientamento del lettore verso alcuni aspetti della vita sociale, smisuratamente ingranditi, una deformazione sistematica della comprensione del lettore”). Berlusconi era un piazzista televisivo: vinse le elezioni vendendo il suo personaggio televisivo di miliardario che-risolve-i-problemi, e poi tentò di gestire l’Italia come un palinsesto. Casaleggio e Grillo inventarono un blog – niente che non esistesse già: un’idea al giorno, delle sensazioni, un orientamento del lettore neanche tanto abile, clickbaiting senza pudore. Se avessero vinto le elezioni, avrebbero gestito l’Italia come un blog. Un po’ mi dispiace non averli visti di fronte al cimento, ma non è detta l’ultima parola, anzi.
L’uomo che non sapeva tutto (anzi) – So quanto possa essere fastidioso passare sui social network ed essere investiti dall’espressione collettiva di un cordoglio troppo automatico per sembrare sincero – e però, oltre a rassegnarci (le persone famose continueranno a morire e noi continueremo a parlarne su facebook) magari potremmo anche riflettere su quanto sia affascinante, questa cosa dell’elaborazione mediatica del lutto. Non merita di essere studiata?
Famiglia Cristiana
Eco senz’altro ci direbbe di sì: tutto merita di essere studiato. Anche se forse ce lo direbbe con quel mezzo sorriso d’ordinanza, come dire: andate pure avanti voi. Perché il fatto che tutto fosse degno d’interesse non significa che Eco si interessasse proprio di tutto (come è stato notato, era abbastanza indifferente alle discipline scientifiche). Per questo è abbastanza ingiusto il fatto che stia prendendo piede il mito di Umberto Eco come “l’uomo che sapeva tutto”, ratificato anche da Fazio in tv. È un epitaffio che dice molto più sulla nostra superficialità, sul nostro disperato bisogno di eroi, vecchi saggi e uomini-enciclopedia, che non su Umberto Eco: il quale di certo non sapeva tutto, e non è che facesse poi molto per suggerire questa impressione. A parte farsi fotografare sullo sfondo di scaffali affollatissimi di volumi – ma anche in quel caso, la sua famosa risposta-tipo alla domanda stupida: “li ha letti tutti?” è molto significativa: “no, sono quelli che debbo leggere entro il mese prossimo”. La biblioteca ideale è quella dei libri che devi ancora leggere (la risposta originale era molto più cruda: “Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?“)
Se vi è capitato di frequentare un tipico erudito, e di notare come passi il tempo a (1) parlare delle cose che sa; (2) spiegare come le cose che non sa non siano importanti, e senz’altro indegne del suo prezioso tempo, ecco, ci terrei a ricordare che Umberto Eco era l’esatto contrario. Era curioso: non di tutto, ma di tantissime cose; ed era sempre disposto a impararne di nuove, persino dal primo studente che incontrava sul suo cammino. Troverete nei suoi scritti e discorsi confessioni disarmanti: per esempio ieri sera mi sono imbattuto nella sbobinatura di una conferenza sull’Esperanto in cui spiegava di averne studiato la grammatica soltanto pochi mesi prima, mentre lavorava alla Ricerca di una lingua perfetta nella cultura europea. È solo un dettaglio, ma pensateci un attimo: erano i primi anni ’90. Eco era ai vertici della sua popolarità come scrittore e del suo prestigio intellettuale. Avrebbe potuto ricucinare le stesse cose che scriveva dieci o vent’anni prima, e invece si metteva a studiare la grammatica di una lingua nuova, come un ginnasiale – e pochi mesi dopo ci faceva un corso monografico e ci pubblicava un libro. Potremmo scambiarlo per dilettantismo d’altri tempi, quando è semplicemente quel tipo di spericolata apertura che ti chiede il mestiere di semiologo: se il mondo è una crittografia, ci saranno pure cose che sono più interessanti di altre – così ad esempio Rita Pavone a occhio non vale Gérard de Nerval – ma non puoi saperlo prima di averle decifrate (continua sul Post).
Umberto Eco ha probabilmente fatto cose più importanti, ma prendiamo anche solo i primi tre romanzi. Eco è il romanziere più snobbato del Novecento: forse aveva venduto troppo per essere preso sul serio dai coetanei, mentre i più giovani avevano pudore di farsi vedere in compagnia di un professore. Resta il fatto che Il nome della rosa è uno dei più penetranti libri sugli anni di piombo, ed è una detective story ambientata in un monastero trecentesco. Il pendolo di Foucault è un libro di fine anni Ottanta che spiega il fenomeno del Codice Da Vinci vent’anni prima che Dan Brown si metta a scriverlo – basterebbe questo. Ma Il pendolo è molto di più: è anche il romanzo definitivo su quel fenomeno che crediamo nato con Internet, il complottismo cosmico. Eco lo aveva scoperto molto prima, bazzicando librerie equivoche ed editori senza scrupoli, e aveva anche capito che non si trattava di un episodio di secondaria importanza: no, i complottisti erano legione, avrebbero forse ereditato il mondo – col consenso magari divertito degli intellettuali.
Poi c’è l’Isola del giorno prima che, letto d’un fiato ancora fresco di stampa, ovviamente mi deluse, e riaperto qualche anno dopo mi convinse di trovarmi davanti al migliore romanzo di Eco e alla migliore istantanea di com’era vivere in Italia a fine Novecento, sulla linea esatta tra un ieri ormai incomprensibile, inereditabile e un domani che non arrivava: salvo che non era ambientato in Italia, ma dall’altra parte del mondo, e non a fine Novecento, ma nel secolo più letterariamente antipatico di tutti, quello della peste e dei lanzichenecchi. Umberto Eco ha fatto cose magari più importanti, ma quei tre libri sono un monumento di cui dobbiamo ancora apprezzare la vera grandezza. Credo.
D’altro canto, sono anche i romanzi con cui sono cresciuto. Il mio Montecristo, se avete presente cos’era Montecristo per Eco. Magari hanno difetti, anzi ne hanno tantissimi, ma quanto mi ci sono divertito. Adso e Guglielmo che mappano il labirinto dall’esterno, Causabon che cerca la password di Abulafia, i collages di citazioni di Belbo, e quel folgorante capitolo sull’Editoria A Proprie Spese che probabilmente mi ha salvato la vita e i risparmi. La lista della spesa dei templari, “ma gavte la nata”, l’assedio di Casale, la digressione sulla longitudine – sono quelle cose che quando sei un ragazzino, in quegli anni in cui hai il cervello che si secca e si imbeve come una spugna, possono fare la differenza. Credo di essere stato davvero fortunato a crescere nel preciso momento in cui i ragazzini in edicola trovavano il tascabile del Nome della Rosa prima del Signore degli Anelli. Insomma per me sono libri bellissimi, formativi e indispensabili, e non ho intenzione di riaprirli per verificarlo. Non li tengo neanche in casa, per sicurezza.
Umberto Eco è stato molto di più di un romanziere divertente, però che romanziere che è stato. Mi è ancora più difficile del solito parlare di lui senza ritrovarmi a parlare di me: di come mi capiti di aprire Apocalittici e Integrati in media una volta ogni due mesi (ormai è un plico di pagine scollate), di perché penso a lui ogni volta che un deficiente su un giornale infila una tautologia crociana o un signora mia dove andremo a finire; di quanto sono debitore del suo stile schietto e affabile e vittima delle sue arguzie d’erudito che altri, comprensibilmente, non sopportavano. Come se davvero potessi fornire me stesso come dimostrazione di quanto bene Eco ha reso al mondo, quando è il contrario: Eco meritava discepoli molto migliori. E li ha avuti.
Ettore Scola era l’ultimo. La commedia all’italiana, nella versione ripulita dagli errori di percorso che ci ha tramandato la tv serale e pomeridiana, in quel segmento aureo che grosso modo va dal 1955 al 1975, sembra il risultato del lavoro di un gruppo singolarmente ristretto di talenti. Cinque attori indispensabili, tutti nati nei primi anni Venti, cinque volti immediatamente riconoscibili dal pubblico, ma anche in qualche modo intercambiabili (in Riusciranno i nostri eroi era previsto che Manfredi desse la caccia a Sordi, ma il primo aveva più impegni e così si scambiarono i ruoli). Pochi autori e bravissimi, tra cui gli onnipresenti Age e Scarpelli (classe ’19) e lo stesso Scola che comincia a scrivere a vent’anni e mette le mani in tantissimi film. Anche i registi sono una manciata: tra questi, Scola è l’unico nato dopo il 1930. Quando gira la Terrazza, i suoi eroi ingrigiti e terrorizzati dalla vecchiaia e dalla morte stanno intravedendo la boa dei sessant’anni; lui non ne aveva ancora compiuti cinquanta. Era destinato a essere l’epigono: se immaginiamo Risi e Monicelli come i due autori della tarda classicità, potremmo vedere in Scola il manierista – l’allievo precoce che ha saltato qualche classe e si ritrova circondato da compagni più grandi.
Dei tre è il più borghese, quello che meno si vergogna di esserlo: è difficile immaginare Risi e Monicelli alle prese con il manifesto antipauperista di Brutti, sporchi e cattivi (Pasolini invece pare che volesse girarne il prologo, magari una versione in pellicola dell’Abiura). È anche quello che ha più ambizioni autoriali: nel 1970 fora la quarta parete in Dramma della gelosia, ma forse il vero choc del film è che il sex symbol Mastroianni è un marito becco e ingrigito con un destino da straccione; l’anno dopo coinvolge Sordi nella rischiosa trasposizione cinematografica della Panne di Dürrenmatt, La migliore serata della mia vita. Non è che tutto fili liscio, ma si capisce che all’alba degli anni Settanta la commedia gli sta stretta. Ci lavorava da vent’anni; era parte integrante di un sistema che funzionava, che riempiva le sale (restava da conquistare la critica, ma quella ci mette sempre un po’ più tempo). Avrebbe potuto riprodurre le stesse formule ancora per parecchio. Ma tutti i suoi uomini stanno invecchiando, e lui è il primo a rendersene conto. Lui e Germi, che muore nel ’74 passando a Monicelli la pratica di Amici Miei. Nello stesso anno esce C’eravamo tanto amati. Le maschere della commedia all’italiana si scoprono le rughe; si staccano dalla ribalta del presente e cominciavano a guardarsi intorno: chi eravamo? Cosa siamo diventati? E ora cosa ci succederà?
Dovendo scegliere un film solo di tutto un periodo e di un genere, a malincuore sceglierei C’eravamo tanto amati, che pure non è così tanto rappresentativo. È davvero un film manierista, se non barocco. Dentro c’è tutto: il romanzo generazionale, il conflitto sociale, il gioco delle citazioni non solo cinematografiche ma anche teatrali e televisive, la quarta parete fatta a pezzi. È anche il primo vero film forrestgumpista, in straordinario anticipo rispetto agli epigoni italiani, indegni di comparire al suo cospetto (La meglio gioventù? Per favore, dai). Ogni volta che lo vedo ci trovo qualcosa di nuovo – o che probabilmente mi ero dimenticato, e di nuovo rabbrividisco al pensiero che una volta gli italiani sapevano fare film così. In realtà di film davvero così ce n’è uno solo, e forse si poteva realizzare soltanto in un periodo in cui gli italiani il biglietto l’avrebbero staccato comunque. Bastava che in cartellone ci fossero Gassman e Manfredi – e la Sandrelli, certo.
La commedia all’italiana mi piace tutta, dai Soliti ignoti fino alla Terrazza. È un amore nato davanti alla televisione; maturato con la serale complicità di Retequattro; integrato con qualche videocassetta. Ci ho messo parecchio a capire cosa mi piacesse davvero tanto in quei film, cosa invidiavo ai miei genitori che avevano vissuto in un mondo di mostri di bravura, anche se al cinema loro non ci andavano spesso. Non un attore in particolare, per quanto i loro volti ricorrenti mi rassicurassero; nemmeno un regista. Alla fine mi sono reso conto che sono i dialoghi di Age e Scarpelli, e un po’ anche di Scola. Credo che la differenza con quello che è venuto dopo sia tutta qui. Non ho paura ad affermare che oggi in Italia ci sono molto più che cinque attori bravi, per tacere delle attrici (c’erano anche allora, ma lo star system era una cosa molto angusta). Anche i registi: ne abbiamo senz’altro all’altezza dei grandi degli anni Sessanta, se non altro perché sono seduti sulle loro spalle. Il problema è che questi bravi attori, ripresi da ottimi registi, molto spesso non hanno niente d’interessante da dire. Non c’è più Age, non c’è più Scarpelli, adesso non c’è più Scola. Dispiace? Sì, mica da oggi. È da 35 anni che non lavoravano più assieme. Nel frattempo altre due generazioni hanno provato a raccontarsi; il confronto è impietoso.
Una volta questa internet era molto più semplice. Ogni tanto ci lasciava una persona famosa, e a tutti veniva voglia di scrivere due pensierini su quanto fosse stato importante per la propria vita. Molto spesso parlavamo più di noi che di lui, credo sia inevitabile. Non è cambiato particolarmente nulla, salvo che è tutto moltiplicato per mille, e questo rende i lutti on line ridondanti, fastidiosi. Me ne rendo conto. Ma sono un tizio all’antica e non me ne andrò da qui prima di aver scritto due pensierini su quanto è stato importante per me David Bowie. Mi scuso per il disturbo, ma nessuno vi trattiene.
Un’altra cosa inevitabile, è che anche stavolta la musica passerà in secondo piano. Lo chiameranno icona di stile e camaleonte, glorificheranno la sua capacità di aggiornare la sua immagine – tutto assolutamente vero, ma una volta ogni tanto si potrebbe anche segnalare che prima di ogni cosa Bowie è stato un musicista straordinario, un interprete originalissimo e un compositore dallo stile assolutamente peculiare – uno dei motivi per cui poteva permettersi di cambiare maschere e costumi era proprio il fatto di avere una personalità forte e immediatamente riconoscibile, qualsiasi cosa decidesse di fare.
All’inizio dei ’70 stava rischiando di diventare semplicemente un cantante rock. The Man Who Sold the World era un disco robusto, giocava nello stesso campionato di Cream e Led Zeppelin, credo che si tratti del disco di Bowie preferito da Kurt Cobain. Toni Visconti in più occasioni ha dato l’impressione di volersi attribuire la paternità dei pezzi, che a suo dire uscivano soprattutto dalle jam session con Mick Ronson, mentre Bowie sembrava sprofondato nell’apatia e faticava a staccarsi dalla moglie appena sposata e a alzarsi dal divano per cantare qualcosa – non sembra già una scena dell’Uomo che cadde sulla terra? Bowie però ha sempre rivendicato la paternità delle canzoni del disco. Guardate i cambi di accordi, diceva. Solo io li scrivo così. Ecco, ogni tanto mi piacerebbe leggere – oltre al solito storytelling sul periodo glam, il periodo berlinese, la deriva degli anni ’80, ecc. ecc. – un bel pezzo tecnico su Bowie musicista, perché su questa cosa degli accordi credo che avesse ragione. Solo lui scriveva canzoni pop o rock con certi passaggi, e questo ha continuato a farlo per tutta la sua carriera, indifferentemente dal genere che aveva deciso di mutuare o inventare.
Certo, se ti accosti a Bowie perché t’interessa il trasformista – e non c’è niente di male in questo, sia chiaro – probabilmente fai più caso ai continui cambi di registro: dalle ballate al glam al r’n’b alla disco (il lato B di Diamond Dogs!) al krautrock eccetera. Ma se hai orecchio per gli accordi ti rendi conto che c’è qualcosa di costante in tutta la sua carriera. Sotto la maschera spesso disorientante degli arrangiamenti c’è una dimensione armonica che rende Absolute Beginners o Heroes o Starman molto più simili di quanto vorrebbero sembrare. Non so più dove ho letto che a un certo punto Bowie era incerto se diventare l’Iggy Pop inglese o il nuovo Jacques Brel. Anche il lascito di Kurt Weill va ben oltre il ripescaggio di Moon of Alabama. Bowie era l’unica rockstar degli anni Settanta ad avere queste radici continentali. Te ne accorgi dall’enfasi di certi ritornelli fuori dal tempo, che incastonati in pezzi rock suonano caricaturali – prova a immaginare Sinatra che canta il refrain di Starman. Forse quello che suonava alieno, sotto il cerone argentato o iridescente, non erano che le progressioni armoniche di un passato neanche tanto lontano, ma ormai oltre l’orizzonte dei baby-boomers.
Io però sono cresciuto negli ’80 – non è colpa mia. David Bowie faceva parte del paesaggio, molto più di tutti gli altri dinosauri rock pre-77: per esempio, in edicola c’era sempre la sua faccia. Rockstar lo metteva almeno su una copertina all’anno, che uscisse con un disco o no. Era un mondo musicale molto diverso: esisteva soltanto il presente. I video avevano ucciso le star della radio e alzato un argine invalicabile tra il mondo del passato e il nostro. Il nostro era un mondo a colori: canzoni e videoclip erano la stessa cosa, e Videomusic non trasmetteva pezzi anteriori al 1982. Credo che il video più antico fosse proprio China Girl (la versione censurata, ovvio). A metà anni Ottanta non avevo mai ascoltato gli Zeppelin e più di una canzone dei Pink Floyd; avevo una nozione vaghissima di Beatles e di Rolling Stones; Bowie era l’unico eroe del passato che riconoscevo al primo colpo. Soprattutto sapevo che dietro di lui c’era una storia lunga e complicata, che prima o poi qualcuno mi avrebbe raccontato. Nel frattempo però capivo che il passato era una terra straniera – e probabilmente più intrigante del presente: quel poco di Bowie che passava in tv (Heroes, Ashes to Ashes, Let’s Dance, Look Back in Anger) era completamente diverso da tutto il resto. Suonava strano, o come si diceva allora, “poco commerciale”.
Questa opinione di preadolescente scemo, Bowie ovviamente non la condivideva, come ho scoperto più tardi. Non è colpa mia, ma sembra proprio che io abbia conosciuto B. nel suo periodo peggiore. Lui nelle interviste parla malissimo del sé stesso anni ’80 e dei brutti dischi che faceva. È un giudizio che riguarda senz’altro Never Let Me Down, ma non ho mai capito se lo estendesse anche alle colonne sonore di Absolute Beginners o Labyrinth o Tonight – per me quella roba era in effetti incredibile, distante mille miglia dai suoni di allora che mi sembravano falsi come la plastica. Quello che mi sorprendeva sempre di Bowie era il modo che aveva di incastrare strofe e ritornelli che sembravano non avere nulla in comune. Prendi Let’s Dance. La strofa è puro Nile Rodgers, avrebbe potuto stare in un disco degli Chic di tre anni prima. Il ritornello se ne va dalle parti di Brel, con tutto l’annesso melodramma: because my love for you could break my heart in two. Poi si materializza dal nulla un coretto alla Twist and Shout, e quando stai per intonare Shake it up baby, ritornano gli Chic. Nel video intanto esplodeva una bomba atomica. Anche nel mio cervello. Ci sono altri pezzi di quegli anni che nessuno vi citerà tra i migliori di Bowie – Loving the Aliens, Underground, in cui succede qualcosa del genere. Avventure musicali di quattro minuti. Erano cose da classifica, ma mi sembravano esperimenti di un pazzo. Mi piacevano. David Bowie era la mia risposta preferita al paradosso dei viaggi nel tempo: se sono possibili, perché nessuno viene a visitarci dal futuro? E un viaggiatore del futuro catapultato negli anni ’60, che altro avrebbe potuto desiderare di diventare se non una rockstar decadente?
In seguito, come avevo previsto, qualcuno mi raccontò la storia per esteso. Conobbi i personaggi, Major Tom, Ziggy Stardust, il Duca Bianco e tutto il resto. Oggi la mia idea di Bowie si sovrappone con quella del quarantenne medio europeo che esprime il suo cordoglio su facebook. Ho naturalmente le mie idiosincrasie – preferisco il lato B di Diamond Dogs a quello di “Heroes” – ma non è che siano così interessanti. Il Bowie che vorrei salvare è l’alieno che precipitò nella mia infanzia, coi suoi accordi stranamente familiari ma diversi da quelli di chiunque altro. È stato davvero lui a insegnarmi a fare quel che mi pare, con la chitarra e sulla pagina, mescolando alto e basso, George Orwell e la disco? Non lo so. Di sicuro lui in quegli anni c’era. Tanti altri erano già scomparsi, o poco accessibili. Lui c’era, e non se n’è mai davvero andato – sempre diverso da tutti, uguale a sé stesso. L’idea che stavolta ci abbia lasciato davvero mi turba più di quanto non dovrebbe.
Omar Sharif – che era nato Michel Demitri, pensate, Demitri Chalhoub, nel 1932 ad Alessandria d’Egitto in una famiglia melchita (cattolica di rito bizantino), ma poi si convertì all’islam e divenne Omar Sharif per amore dell’attrice Faten Hamama, ma poi si innamorò di Barbara Streisland sul set di Funny Lady proprio all’indomani della Guerra dei Sei Giorni creando una crisi diplomatica, Omar Sharif, dicevo, era una di quelle facce che non sembravano americane, e quindi a quei tempi si potevano usare indifferentemente per qualsiasi altra nazionalità. Come Ernest Borgnine, o soprattutto Anthony Quinn, plausibile sia da greco che da eschimese che da emiro, Sharif approdò a Hollywood per fare uno sceicco e due anni dopo era un prete spagnolo durante la guerra civile. Nel ’68 fu arciduca d’Austria, l’anno dopo Che Guevara. Nel ’65 era stato Gengis Khan e il dottor Zivago, il personaggio che lo rese una star e che avrebbe dovuto essere interpretato da O’Toole. Lo stesso Sharif non ambiva a tanto: amava il romanzo e si era proposto per la parte di Pasha Antipov (un Gengis Khan in locomotiva).
Il casting del dottor Zivago è una cosa che fa girar la testa. Il laido Komarovski avrebbe potuto essere Marlon Brando (ma sarebbe stato meglio di Rod Steiger? Non ne sono così sicuro). Lara avrebbe potuto essere Sofia Loren – che era poi il motivo per cui Ponti si era preso i diritti del film, ma Lean temeva che non sarebbe stata credibile nei panni iniziali di giovane educanda, un anno dopo essere stata la madre dei tre figli di Filomena Marturano, Audrey Hepburn avrebbe potuto essere Tonya invece che Geraldine Chaplin. Paul Newman avrebbe potuto essere il dottore. Anche Michael Caine fece un provino – o forse aiutò soltanto l’amica Julie Andrews a fare il suo, poi vide quello di Sharif e disse a Lean di scritturarlo. Un grande attore egiziano, nei panni di un medico e poeta russo. Oggi nessun regista oserebbe fare qualcosa del genere in una grande produzione, ed è un peccato. O’Toole sarebbe stato più credibile, ma non so quanto avrei tremato per lui che si specchia assiderato nella dacia. Sharif regalò Zivago a tutto il mondo, è banale dirlo ma è così. Della manciata di Sharif che ho incontrato a scuola, almeno uno so che deve il nome proprio a lui.
Zivago è un film che guardo più o meno una volta all’anno – di solito a scuola. Il comunismo reale è uno degli argomenti più difficili da spiegare a gente che è nata più di dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino. La difficoltà principale sta nell’immaginare un regime economico diverso, una cosa che oggi non esiste da nessuna parte nel mondo a parte isole o penisole esotiche. Dopo alcuni tentativi ho scoperto che i film che funzionano meglio sono Goodbye Lenin e Zivago (sì che Reds mi piaceva tantissimo, ma non regge). C’è nelle tre ore di Zivago almeno una trentina di minuti che sono una lezione di storia di terza media, pura e semplice: la scena dei disertori che diventano rivoluzionari, ovviamente, e quella altrettanto celebre in cui il dottore torna a casa e scopre che è stata collettivizzata (è anche notevole quel che riesce a fare Klaus Kinski con tre minuti a disposizione). Lì, e altrove, ho la sensazione che più di Pasternak sia merito di Robert Bolt, che riesce a dare allo spettatore anche digiuno di Storia tutti i riassunti necessari.
Ma nel film c’è tantissimo altro. Lara è una vittima di molestie, anche psicologiche (il laido Komarovski le fa credere di essere stata consenziente). Magari sugli stessi argomenti ci sono film più recenti e aggiornati, ma a volte mi domando se il melò non colpisca più in profondo, in territori preconsci. È pieno di Komarovski là fuori ed è tempo che le ragazze lo sappiano. I nomi poi sono difficili per cui invece di Komarovski lo chiamiamo Il Vecchio Porco. Ci sono frasi bellissime, che in realtà non so a memoria per cui magari le sbaglio: “non abbiate fretta”, “canteranno meglio dopo la rivoluzione”, “chi è felice non parte volontario”, “è notato, il tuo atteggiamento è notato”, “e comunque avevo ucciso uomini migliori di me”, e ovviamente, “ci sono due tipi di donne” e “ci sono due tipi di uomo”. Ora che ci penso, Sharif non ne pronuncia nessuna – e dovrebbe essere il poeta. È un’anima bella sballottolata dalla Storia in un paesaggio enorme. È un buon medico ma questo passa in secondo piano rispetto all’ingenuità con cui affronta tutto quello che gli succede. Mi capita di solito di calarmi nei panni di tutti i personaggi maschili tranne il suo. Siamo stati tutti idealisti come Antipov (per fortuna nessuna rivoluzione ci ha dato un’armata a disposizione), burocrati rassegnati come il fratello di Zivago, e invecchiando metteremo su la pancia e il cinismo del porco Komarovski (per poi rimbecillire come il papà di Tonya); siamo quell’altro tipo di uomo, quello che l’umanità finge di disprezzare ma in realtà produce in serie. Siamo fatti tutti di quella creta. Questo non ci impedisce di voler bene a Zivago, mentre porta a casa tre assi schiodate a uno steccato, e non è nemmeno in grado di mentire. Forse avremmo voluto ugualmente bene a O’Toole, ma… no. Doveva essere Omar Sharif.
Dev’essere stato più o meno dieci anni fa. Giorgio Faletti era appena diventato lo scrittore italiano più venduto, immagino, nel mondo: e alle Iene lo intervistarono in coppia con Lucarelli – le interviste parallele, avete presente. Ricordo solo una domanda, che rientrava perfettamente nella linea editoriale delle Iene, ovvero: meglio scrivere o scopare? E ricordo che senza esitazione, nel giro di pochi secondi, sia Faletti che Lucarelli risposero: scrivere, scrivere.
Ora io vi dico: con molta serenità, senza aver mai invidiato il successo di un Faletti o di un Lucarelli, senza aver mai covato animosità nei confronti loro o di chiunque; senza essermi mai disperato perché malgrado tanto lavoro le cose non si smuovevano e io restavo un po’ in questo limbo confortevole ma, diciamolo, salmastro; se c’è una cosa di cui non ho mai dubitato per tutti questi anni, è di essere uno scrittore. Magari non avrei mai scritto un solo libro decente o necessario, ma dentro di me ho sempre saputo di essere uno scrittore. Tranne in quel preciso momento.
Perché per me, insomma, scopare era ancora molto importante, decisamente prioritario – Oddio, mi dissi, allora sono un impostore.
Devono essere passati come minimo dieci anni, un po’ di più di quelli che servono a un corpo umano per rigenerarsi completamente – perfino le mie ossa sono composte di cellule diverse. Anche il tesoro più prezioso che credo di essermi portato con me, i ricordi, sono un’illusione: un backup che il mio cervello riscrive mentre dormo su cellule fresche. Da fuori si nota soprattutto che sto ingrassando. Però adesso – è ridicolo solo il pensarlo – se in coda a quella di Faletti e Lucarelli potessi aggiungere la mia risposta, ecco, coinciderebbe. Questo non fa comunque di me uno scrittore; ma adesso almeno non fingo più, godo sul serio.
Di solito quando si scrive un coccodrillo si cerca di mettere a fuoco un rimpianto: nel caso di Faletti mi sembra impossibile. Ok, certo, poteva vivere un po’ di più; però se devo pensare a una persona che è riuscita a togliersi delle soddisfazioni, quello è lui. Più che i soldi o la fama, questo mi piace invidiargli: il godimento. Faletti ha scritto quello che gli piaceva scrivere, ha cantato quello che gli piaceva cantare, ha fatto ridere tanta gente ma soprattutto si è divertito lui. Probabilmente la sua vita ti capita in premio se in quella precedente hai fatto qualcosa di dolorosissimo ed eroico. Il senato romano salutava l’imperatore fresco di nomina augurandogli d’essere più fortunato d’Augusto e più grande di Traiano. E possiate divertirvi più di Faletti, aggiungo.
Qualche anno fa al mio paese ci fu una retrospettiva su di lui. L’Estate di Davide è uno dei film meno conosciuti: comincia a Torino, finisce presto in Polesine, e ha un ultimo, rapido atto nella Bari vecchia. Che io ricordi è l’unico scorcio di meridione mai filmato da Mazzacurati, e quando si riaccesero le luci fu il regista in carne e ossa a spiegarci forse il perché: raccontò di com’era stato interessante girare in luoghi diversi, spesso di prima mattina per non disturbare e soprattutto non essere disturbati. Questo gli aveva permesso di lavorare in una pace assoluta, in Veneto: a Bari invece si era ritrovato una piccola folla variegata e mattiniera molto interessata alla messa in scena, e generosa di consigli competenti; in particolare una vecchietta aveva manifestato insoddisfazione per l’ultimo ciak; secondo lei non era riuscito perfetto e aveva suggerito a Mazzacurati di farne ancora un altro. E lui per non offendere nessuno aveva obbedito – quest’ultima cosa potrei anche essermela inventata, è passato qualche anno e il cattivo istinto del narratore comincia a prendermi la mano (l’istinto del cattivo narratore). Siamo nella fase delicata in cui nascono le storie, gli aneddoti famosi, le piccole leggende. Siamo nella fase ancora difficile in cui Carlo Mazzacurati ci manca.
Comincia più o meno quando finiscono le cerimonie. C’è un piccolo crocchio di amici che si ritrova appena fuori dal cimitero e si mette a scherzare, ché ormai le lacrime chi poteva piangerle le ha piante. Ognuno istintivamente cerca di trovare qualche storia buffa in cui il defunto compaia, se non come protagonista, almeno come comparsa. Qualche ora prima era ancora molto importante ricordare quanto fosse buono, e seppellire tutte le cose cattive che avevamo pensato di lui. Adesso pretendiamo anche che fosse un tipo divertente; vorremmo vederlo scomparire col sorriso. Che cosa penserei di La sedia della felicità se fosse uscito in qualsiasi altro momento? Probabilmente oscillerei tra la delusione e la solidarietà per una mossa così sfacciata: un tentativo di infilarsi in quella zona mediana – e commercialmente decisiva – tra la commedia d’autore e il cinepanettone. Certe scene sono realmente cinepanettonesche, specialmente verso il finale: tutte le resistenze ormai hanno ceduto e vediamo in scena un orso che balla e Battiston che abbatte i nemici con una pressione del dito. Cose che ci lascerebbero perplessi anche sullo sfondo di un prodotto di Checco Zalone, ma stasera abbiamo voglia di ridere e di ricordare che Mazzacurati era anche questo: divertente. Siamo tra amici, in fin dei conti cos’è Valerio Mastandrea se non un amicone che ti fa ridere qualsiasi cosa dica o faccia. E Battiston che fa il prete truffaldino. E Isabella Ragonese: che altro chiederle se non di stare ancora un po’ tra noi a ridere e a raccontare. E chi altro c’è? Fai prima a dire chi non c’è; ci sono tutti, come facevano a mancare. Bentivoglio, Orlando, la Ricciarelli, la Vukotic, e poi Marzocca, Albanese, Balasso, il mago Oronzo – il rischio di passare per uno spinoff di Mai dire Goal è concreto ma chi se ne frega, che risate ci siam fatti negli anni Novanta (continua su +eventi!)
Temo che sarà inevitabile, a questo punto: qualche giornalista in cerca di carne da coccodrillo sfoglierà l’archivio fino a trovare un’intervista vecchia o nuova in cui Freak Antoni si proponeva nel triste numero del rancoroso di talento. Scopriremo per l’ennesima volta cosa pensava dei colleghi ed ex amici che avevano fatto molti più soldi di lui: di Vasco che non faceva più niente di buono dall’ottanta-e-qualcosa, di Elio mestierante senza nulla da dire, Ferretti ipocrita criptofascista… Sto andando a braccio, non ho voglia di controllare. Purtroppo le cose funzionavano così: giornalista andava a trovare Freak Antoni, giornalista non sapeva cosa domandare a Freak Antoni, e magari dopo qualche deprimente scambio sullo stato di salute, si rassegnava ad alzare un pallonetto, sicuro che Freak Antoni l’avrebbe schiacciato quel che basta per farci un titolo: l’ex cantante svuota il sacco su Vasco, su Elio, su Lindo, le solite miserie.
Un po’ era anche colpa sua, la franchezza può essere salutare come un balsamo, ma alla lunga stanca come qualsiasi altro balsamo. E non basta aver ragione: non c’è alcun dubbio che Vasco non canti più nulla di interessante dal 1986; che Elio sia soprattutto un mestierante (e avercene), Ferretti un guru opportunista, eccetera. Tutte opinioni sostanzialmente ragionevoli, ma avremmo preferito non sentirle da un collega che semplicemente non ce l’aveva fatta. Al netto di tutto il romanticismo dei poeti maledetti, questa posa che ti prendi a sedici anni e poi quando cerchi di staccartela di dosso ti accorgi che fa male, che ti si è radicata sottopelle… al netto di tutte queste menate la carriera musicale è simile a tante altre carriere in cui sopravvivi soltanto se trasformi le tue vaghe intuizioni iniziali (che passano sotto il tronfio nome di talento) in una prassi professionale. L’accostamento a Vasco (di due anni più vecchio) è il più brutale ed eloquente: l’arrivismo del provinciale contro il nichilismo del cittadino; il realismo urbano contro l’avanguardia; la provocazione come espediente per conquistare la scena contro la provocazione per il gusto di distruggere qualsiasi scena; gli anni Ottanta contro il ’77; più tardi, il rock da birreria contro il punk da teatro. Sin dall’inizio non era possibile avere dubbi su chi avrebbe conquistato la critica e chi avrebbe fatto i soldi veri: e allora perché prendersela? D’altro canto aver visto questo sfattone scendere dalla montagna e finire nel giro di pochi mesi a Discoring può essere stato uno choc difficile da mandar giù: ma se sei l’avanguardia queste cose le devi mettere in conto. Purtroppo non siamo tutti molto bravi a mettere in conto le cose; gli artisti soprattutto, e Freak Antoni un artista è rimasto, più di quanto forse lui non volesse.
Gli altri no, sono riusciti a diventare qualcosa di meno interessante e più redditizio. Vasco almeno ce l’ha fatta alla grande; Elio e compagnia diciamo che l’hanno sfangata, Ferretti ci ha provato ma attualmente alleva cavalli. Antoni? Non ha mai dato la sensazione di volerci nemmeno provare. Possiamo chiamare questo atteggiamento integrità, ma a quel punto è inutile lamentarsi del pubblico di merda. Avreste preferito un Freak Antoni di successo, un Freak Antoni invitato come disturbatore a Sanremo? L’avanguardia alternativa non fa sconti comitiva. Gli Skiantos sono quel classico esperimento che funziona soltanto in laboratorio: Mi piacciono le sbarbine avrebbe potuto diventare anche una hit; le potenzialità c’erano, ma a quel punto saremmo stati i primi a dissociarci disgustati.
In realtà in tanti momenti della sua vita un po’ complicata dalle sostanze, a Freak Antoni un po’ di sano successo commerciale avrebbe fatto comodo. Faceva sempre un po’ strano ascoltare prediche sull’integrità artistica dall’autore e interprete di Ti spalmo la crema. Qualche singolo in radio, qualche ritornello un po’ più paraculo, provò a piazzarli anche lui. Salvo che non funzionarono mai, chissà perché – sfiga, incostanza, cattivo management, va’ a sapere. A me dispiace: lo avrei preferito meno integro e ancora vivo. Sono sicuro che tra tanti pezzi inutili, qualche gioiellino come Sono ribelle mamma ce lo avrebbe infilato: e tanto ci sarebbe bastato.
Se questo pezzo vi dà fastidio avete assolutamente ragione: FA si meritava parole più commosse. Accanto a qualche stronzata ha fatto cose importanti e necessarie, senza di lui la musica italiana sarebbe persino più triste eccetera. Non so cosa mi stia capitando ultimamente: la crisi, i quarant’anni, la triste scoperta che davvero i medici non ti curano finché non li paghi davvero, il film dei Coen che scioglie ogni residuo zuccheroso di bohème e ti fa sentire la morte con il ghiaccio nei piedi. Se si trattava di imparare a fallire, direi che ho imparato. Adesso bisogna imparare a invecchiare, e devo ringraziare Freak Antoni anche per quelle tristi interviste in cui incauto sparava merda a bersagli troppo vicini e troppo in alto. Se non le avessi lette, forse non avrei mai fatto il voto solenne di non stroncare mai, per nessun motivo, un collega coetaneo di successo. Piuttosto farò finta di non averlo mai letto. Sarà molto facile fare questo tipo di finta.
A 46 anni Philip Seymour Hoffman – basterebbe questo, aveva 46 anni – aveva già coperto una gamma di personaggi che alla sua età ben pochi attori si sono mai potuti permettere. Lester Bangs, Truman Capote, lo pseudo-Hubbard di The Master, e altri personaggi a portata di memorie più brave e svelte della mia. Spesso erano un po’ più anziani di quanto non fosse l’attore che dava loro vita. La sensazione che PSH stesse bruciando un po’ più forte e più veloce di tutti potevamo anche provarla, ma in fin dei conti erano fatti suoi eccetera.
Affezionarsi a un attore – non al personaggio pubblico, solo all’attore – è una cosa strana: ne impari decine di espressioni facciali e continui a non sapere chi sia. Quando se ne va esprimi cordoglio, ma è anche la forma codificata con cui abbiamo deciso di mascherare la rabbia egoistica di spettatori derubati: aveva 46 anni, quanti altri personaggi avrebbero potuto prendere vita grazie a lui; quanto cinema ci siamo persi. Ci si butta sulla filmografia, si comincia a ricordare questa o quella parte – non serve a niente.
Finché non torna in mente la scena che ci ha tormentato per prima.
C’è un appartamento enorme, asettico, sulle nuvole di Manhattan. Il paesaggio è meraviglioso e disumano. È un posto dove puoi farti di eroina se hai prenotato, se hai i soldi; il pusher è professionale, magari un po’ spiccio; ti sta ad ascoltare mentre ti allaccia l’emostatico e ti fa l’endovena. Poi ti rilassi su un letto a due piazze.
In quel film il personaggio di PSH ha dei problemi di liquidità; pensa di risolverli con un colpo ma gli va male; prima di farsi ammazzare, prende la pistola, sale a bussare al suo pusher e gli spara. Poi si mette a cercare dove teneva i soldi. Ci sono senz’altro molti contanti in quell’appartamento. Mentre si sposta da una stanza all’altra, PSH trova qualcosa a cui non aveva pensato. C’è un cliente, steso sul letto; dorme. È un panzone in giacca e cravatta come lui. Quali vicende lo avranno portato lassù, quali preoccupazioni, non lo sapremo mai. PSH lo guarda. Deve ovviamente ammazzarlo. Ma prima lo guarda. Guarda sé stesso da fuori. Guarda ognuno di noi, eroi del nostro film personale – ma da fuori, dal punto di vista della morte, siamo soltanto panzoni di mezza età stesi in un letto; qualsiasi cosa può portarci via in qualsiasi momento.
Stavo pensando a cose che odio fare… sesso coi genitori. Cose che mi fai o che ti faccio io, baby, tipo sesso coi genitori.
– Più grassi e brutti di Rush-Rambo, più schifosi di Robert Dole, qualcosa di rosa che salta fuori da un buco ed ecco qua: sesso coi genitori.
Ero così schifato di questa merda della destra repubblicana, questi vecchiacci laidi spaventati da cazzi e tette giovani, Così ho cercato di pensare a qualcosa che mi schifasse davvero, ed eccola qui: il sesso coi genitori.
Ora questi vecchi di merda possono rubarci tutto quello che vogliono, possono far passare una legge che dice che non puoi dire quel che vuoi, e non puoi guardare a questo e non puoi guardare a quello, non puoi fumare questo e non puoi sniffare quello. Ma io baby ho le statistiche, ci ho i numeri: quella è gente che è andata a letto coi genitori.
Lo so che adesso sei scioccato, ma fermati un attimo, beviti qualcosa. Se ci rifletti per un minuto lo sai che è andata così. Sentono vergogna e repulsione e non sanno cosa farci: hanno fatto sesso coi loro genitori.
Quando guardano negli occhi del loro amore loro vedono la mamma. “Nel nome dei valori della famiglia…” dobbiamo chiederci: la famiglia di chi? “Nel nome dei valori della famiglia…” dobbiamo chiedergli: Senatore,
ci dicono che lei abbia avuto rapporti illegali con sua madre: sesso coi genitori. Senatore, lo sa come si chiamano i rapporti illegali? Sesso coi genitori.
Senatori, state pestando una grossa merda. Qui nella grande città abbiamo una parola per quelli che si infilerebbero nel letto dei loro padri venerati e farsi gioco delle nostre libertà. Senza neanche usare un condom, senza neanche dire un “no”, per Dio abbiamo un nome per gente così, ed è:
motherfucker.
(Quando ho letto Formigoni ho cercato di pensare alla canzone di Lou Reed che mi schifasse di più, ed ehi, era una bella gara, ma alla fine ho trovato Sex with parents II – motherfucker, da Set the twilight reeling, 1996).
Andy era cattolico, con l’etica nella spina dorsale. Viveva da solo con sua madre collezionando maldicenze e giocattoli. Ogni domenica, quando andava in chiesa s’inginocchiava e diceva:
È lavoro. Importa solo il lavoro.
Andy era tantissime cose; quella che ricordo di più, è quando diceva “Devo portare a casa la pagnotta”, “qualcuno deve portare a casa il salame”. Arrivava alla Factory per primo, se glielo chiedevi te lo diceva in faccia:
È lavoro La cosa più importante è il lavoro.
Non importava cosa facessi, non sembrava mai abbastanza; diceva che ero pigro, io dicevo che ero giovane. Mi chiedeva “quante canzoni hai scritto?” Ne avevo scritte zero, mentivo e gli dicevo “dieci”.
“Non sarai giovane per sempre, avresti dovuto scriverne quindici:
È lavoro Quello che importa è il lavoro”.
Mi ordinava di fare cose grandi: alla gente piacciono così. E le canzoni con le parolacce: si assicurava che le registrassi così. Andy adorava creare polemiche, pensava che fosse divertente.
“È lavoro (diceva) importa solo il lavoro”.
Andy mi fece un discorso un giorno, “Decidi cosa vuoi fare. Vuoi espandere i tuoi parametri o giocare al museo come un dilettante?” Lo licenziai su due piedi, si fece rosso e mi diede del sorcio. Era la parola peggiore a cui riusciva a pensare, non l’avevo mai visto così.
Ma era solo lavoro. Pensavo che avrebbe detto “è lavoro”.
Andy diceva tante cose, le custodisco tutte nella mia testa. A volte, quando non riesco a decidere che fare, mi chiedo: cosa mi avrebbe detto Andy? Probabilmente mi direbbe: “Tu pensi troppo, si vede che c’è del lavoro che non vuoi metterti a fare.
Ma è lavoro. La cosa più importante, il lavoro”. Il lavoro. Quello che importa è il lavoro.
Non è mai sembrato un giovane, l’amavo anche per ciò.
Dell’infanzia ho ricordi confusi, come tutti. L’intro di Light My Fire potrei averla ascoltata per la prima volta sul divano, infilata a forza in un jingle pubblicitario di un Best of the Doors, magari il primo dei quindicimila Best of the Doors che uscirono in seguito. Vorrei poter dire che mi sbalordì subito – non avevo mai ascoltato una serie di note così, con un timbro così stridulo e marziale insieme – ma ero piccolo, ogni cosa mi sbalordiva, e poi scomparve e per molti anni non ci pensai più. “Doors” tornò a essere un adesivo sui serbatoi dei motorini, di cui apprezzare la grafica essenziale.
La prima volta che ascoltai Light My Fireero a letto. Sentii l’intro e mi alzai in piedi sul letto. Quando Dylan racconta che gli Animals lo fecero saltare dalla sedia io ci credo; mi successe qualcosa del genere, se fossi stato su una sedia mi sarei potuto far male. Forse rivivevo già un ricordo di me bambino sul divano: forse la musica è tutto un sovrapporsi di ricordi e oblii futili che diventano importanti, perché? boh, in mancanza di meglio. Avevo quattordici anni e avevo appena comprato la cassettina del primo album dei Doors. Già al primo ascolto i pezzi mi sembravano tutti vividi e diversi l’uno dall’altro – questo è sempre stato per me un parametro importante, se i pezzi sono diversi l’uno dall’altro secondo me il disco è buono – ma uniti dalla voce di quell’organo unico, che Manzarek poi accantonò perché i tasti di plastica si rompevano troppo facilmente, maledetta plastica. Dopo quattro canzoni avrei dovuto comunque essermi assuefatto, e invece l’intro di Light My Fire mi colpì forte dietro la schiena, un ricordo ancestrale e insieme una promessa di delizie future; non lo sapevo ma le Porte si erano appena appena socchiuse per farmi vedere Coltrane e Bach, sovrapposti, per un attimo. Un tonfo alla grancassa, come lo sfregamento di un cerino, e poi quelle note come una fiamma che divampa all’improvviso.
Light My Fire fu la prima canzone che feci suonare a un juke box, nella Sala Giochi del Bronx – il Bronx era l’Istituto Professionale, erano ovviamente gli studenti a ribattezzarlo così – una fiumana di giacche di jeans che si riversava all’una verso l’Autostazione, con qualche chiodo di pelle che galleggiava nell’azzurro del denim – un giorno entrai nella loro Sala Giochi, andai al juke box e misi Light My Fire, la versione di sette minuti. Mi sembrò un gesto coraggioso, dadaista e punk. Il paesaggio musicale non era indulgente ed eterogeneo come adesso, potevi vivere una vita intera ascoltando soltanto glam da classifica, Sanremo e gli Iron Maiden per chi era assordato dai dubbi sulla propria virilità. Per quelle orecchie offese dagli anni Ottanta, i veri Ottanta di chi ci è vissuto, si è sorbito tanta merda e ci si è strizzato tanti brufoli, Light My Fire suonava di un altro pianeta. O mettevi a fuoco Light My Fire o mettevi a fuoco i Bon Jovi, non riuscivi a fare stare le due cose insieme nel cervello. Beccatevi la vera musica, stronzi. Accendetevi.
Ci misi ancora qualche anno a capire veramente che note stesse facendo. Alla fine la incisi rallentata, con i rudimentali strumenti a mia disposizione, e la riascoltai a ripetizione finché non mi parve di riuscirla a suonare. Non ne vado fiero, non l’avevo mai fatto; mi facevo punto di onore di non aver mai studiato un solo pezzo di musica – ero molto stupido. Ma quando seppi suonare l’intro di Light My Fire ne fui felice come un pappagallino, e di lì per alcuni anni a nessun organo lasciato incustodito in nessuna chiesa del circondario fu risparmiato il sacrilegio di intonare l’inno di Manzarek. Così Bach tornava a casa, dalla porta della sacrestia.
Poi sono diventato più serio e per anni non ho più ascoltato i Doors, che sembrano tagliati su misura per essere ascoltati da ragazzini e quindi liquidati. Pretenziosi e pop, teatrali, con quel sex simbol da birreria e tutta quella scadentissima poesia da ginnasio – i nostri Baudelaire, nessun adulto si rilegge Baudelaire, se non l’hai fatto prima dei 18 lascia perdere. Ogni tanto un sussulto, il film di Oliver Stone o una campagna promozionale per l’ennesimo disco sempre con gli stessi pezzi dentro. E ogni volta un’osservazione: ma come suonano ancora freschi, i Doors. Contro ogni aspettativa. Con quel cantante improbabile e ingestibile, e tutti quegli incidenti di percorso – azzeccavano un disco ogni tre – centinaia di canzoni inutili, eppure quanto restano ascoltabili i Doors. Nel frattempo ti sei fatto una cultura a tutto tondo, sai che in quella zona c’era un sacco di roba magari più ispirata e più seria, senza guitti e baracconate. Ma i pezzi dei Jefferson Airplane o degli Spirit o dei Love non hai veramente voglia di riascoltarli quanto quelli dei Doors. E l’intro di Light My Fire rimane lì, la promessa di una musica nuova intricata e meravigliosa che Manzarek non seppe mantenere – alle radio volevano pezzi più brevi, e Jim durante gli assoli lunghi si annoiava e diventava pericoloso. Finirono a suonare blues lenti, il cimitero della creatività – ma sempre meglio del Père-Lachaise
Come ha osservato ieri Giancarlo Frigieri, la carriera di un musicista pop è qualcosa di davvero avvilente, se non muori a 27 anni. È un’arte talmente fortuita che chiunque la pratica non ha a disposizione che quattro o cinque anni per sparare tutte le cartucce: il resto è mestiere. Alcuni sanno reinventarsi, ma anche lì servono tragedie o botte di culo incredibili. Tutti gli altri di solito passano la vita a suonare e risuonare dal vivo le canzoni che hanno scritto in fretta e per sbaglio quando avevano vent’anni. Quelli che si evolvono, che continuano a far dischi e sperimentare cose, sono i più sfortunati: quel che il pubblico continuerà a voler da loro saranno i pezzi che hanno scritto da giovani e stupidi, quando le note uscivano per caso. Anche Manzarek ci mise un poco ad abituarsi all’idea, poi si rassegnò all’onesta carriera di coverista di sé stesso. Ci speculò anche, con operazioni discutibili come An American Prayer. Come musicista probabilmente continuò a evolversi. Può anche darsi che da qualche parte nei cento dischi che incise ci sia un pezzo che mantiene la promessa di Light My Fire: per ora è ben nascosto. Le Porte restano per lo più chiuse, solo ogni tanto trapela uno spiraglio che ci illude di aver sentito qualcosa, chissà cosa: e il resto del tempo passa nel tentativo di ricordare, di ritornare su quel divano o su quel letto e sentire di nuovo quel brivido. Nel frattempo studiamo, acceleriamo, rallentiamo, impariamo; ma la porta non si apre, non è detto che si apra mai più.
Festeggiare la morte di un nemico è sempre di cattivo gusto; se il nemico poi muore molto anziano, nel suo letto (lo si è visto di recente con Mrs Thatcher) è soltanto un po’ stupido. C’è stato un periodo in cui Andreotti era il personaggio più simile a un nemico che riuscivamo a trovare nel panorama politico. Erano tempi più tranquilli, di riflusso; ci si arrangiava un po’ con quel che c’era ed è finita che ci siamo inventati un Andreotti ben più interessante di quello che probabilmente è morto ieri. Un grande vecchio, burattinaio e tessitore di trame occulte ma chiacchierate un po’ ovunque, disponibile al dialogo con qualsiasi potenza demoniaca, inclusa la mafia e il terrorismo, purché non si trattasse di salvare un rivale politico. Ce lo siamo immaginati così, per mancanza di meglio e per presunzione di meritarci un nemico alla nostra altezza, che supponevamo rilevante.
Il tempo ci ha dato torto da un pezzo: Giulio Andreotti probabilmente è stato un nemico molto mediocre. Mediocre la sua azione di governo, che si può sintetizzare in un mesto tirare a campare all’ombra incerta di questo o quella maggioranza; mediocre la sua diplomazia, e il solo fatto che a volte ci si scopra a rimpiangerla dice tutto sul baratro nel quale siamo caduti; mediocre soprattutto il suo personaggio pubblico, in tutti i suoi tentativi pre-berlusconiani di apparire simpatico sui media: le sue battute modeste, le sue comparsate televisive indigeste, il suo cameo in uno di quei pesantissimi film ’80 di Sordi che chissà poi se ci meritavamo sul serio. Mediocre la sua prosa, le sue noiosissime rubrichine sull’Europeo e TV Sorrisi e Canzoni (per Beniamino Placido era il peggior scrittore italiano vivente), mediocri i ghost writer che si sceglieva e a cui commissionava brutti libri uno dei quali, Onorevole stia zitto, anticipò la moda degli stupidari: era il blob di tutte le scemenze trascritte in parlamento da Giovanni Giolitti in poi. Sulla carta un’idea geniale, ma davvero troppo in anticipo sui tempi: nessuno aveva ancora pensato di portare in parlamento cappi o mortadelle. E ora vi racconterò una cosa che su wikipedia non c’è: ve lo ricordate Nick Kamen? (Continua sull’Unita.it, H1t#178)
Non c’è da vantarsene, insomma era un modello che in uno spot della Levi’s si era spogliato in mutande ed era diventato un divo musicale per mezza stagione, più in Italia che altrove. Due o tre anni dopo fu premiato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a Domenica In. Qualcuno alla presidenza si inventò un premio e glielo fece consegnare, questo me lo ricordo solo io che imperdonabilmente quel giorno ero a casa davanti al televisore. Cosa per cui non so darmi pace, tanto che tuttora ogni volta che penso ad Andreotti non mi viene subito in mente Totò Riina, come a tanti, ma Nick Kamen; la sola idea che un premio a Nick Kamen in fase declinante potesse avvicinare qualche tipo di elettorato a Giulio Andreotti basta e avanza per liquidare una stagione di assoluta mediocrità – ma se preferite immaginarlo al centro di oscure trame atlantiche e trattative Stato-Mafia, se la cosa vi fa sentire più importanti, liberi di farlo. Non sapremo mai come siano andate le cose: a questo punto dipende unicamente da noi scegliere se raccontare la storia di un genio del male travestito da mediocre o viceversa. Per me viceversa.
Possiamo anche cambiare argomento, come si fa ai funerali di gente che non visitavamo da parecchio. Sono passate due settimane, ormai, e ancora non si è capito chi fossero i cento grandi elettori PD che bocciarono Prodi e fecero dimettere Bersani. Forse a questo punto non lo sapremo mai; probabilmente si sommarono tendenze diverse, di gente che magari non aveva capito esattamente la posta in gioco, o puntava su Rodotà, magari in buona fede. E magari davvero c’è ancora qualcuno in parlamento che gioca ancora a dalemiani vs veltroniani, sono vizi difficili da perdere. Nel frattempo però è nato in alcuni un sospetto, cresciuto man mano che il caos iniziale lasciava intravedere una forma sempre più definita: reincarico a Napolitano e grandi intese con Enrico Letta; vuoi vedere che quei cento lo sapessero sin dall’inizio? Vuoi vedere che non si trattasse di un progetto già definito, da menti finissime e tessitori invisibili a qualsiasi retroscenista? Insomma, sta’ a vedere che Enrico Letta è il nuovo Belzebù. Per immaginare una cosa del genere non servono prove, né indizi: basta la voglia di crederci, di immaginare che dietro tutto il casino ci sia un Grande Disegno; qualcosa insomma all’altezza delle nostre pretese, che restano ancora piuttosto in quota. L’alternativa è accettare l’idea di un Paese mediocre, al termine di una fase di espansione effimera, senza guide più che mediocri, e prospettive più profonde di un tirare a campare. Meglio di no, meglio immaginarsi vittima di qualche oscura trama. Ce la meritiamo. Ci meritavamo Andreotti, ci meritiamo Enrico Letta. RIP. http://leonardo.blogspot.com
Enzo Jannacci, che a tutti ricorda com’è giusto Milano, per me è curiosamente legato alla piazza Grande di Modena, a un pomeriggio che i miei mi dissero: andiamo a un concerto, e non l’avevano mai fatto. Era la prima volta. Non lo fecero mai più, fu quindi anche l’ultima. Ma non credo che sia colpa mia, per quel che mi ricordo mi comportai bene.
Non conoscevo Jannacci – a parte Vengo anch’io No tu no che poi chissà dove avevo sentito. Ma non avevo nemmeno mai visto piazza Grande, forse era la prima volta che ci andavo. Ovviamente mi sembrò immensa, enorme il Duomo e altissima la Ghirlandina, che forse imparai per l’occasione che si chiamava così a causa di ghirlande che devo ancora capire dove siano, e mia madre disse che papà era andato fino in cima. Lo ammirai molto, e non ci sarei salito per i successivi 25 anni.
Non saprei dire se fossi seduto. In piedi per un’ora e più mi sembra improbabile. Però ricordo che Jannacci lo vedevo e non lo vedevo, dietro a braccia e teste. Rammento una manciata di canzoni, che poi sono quelle che conosco meglio di lui, per cui il ricordo potrebbe anche essere stato fabbricato a posteriori: Vengo anch’io sparata quasi subito, Faceva il palo, Quelli che, che per me poi era “oh yeah” e in un qualche modo avevo già sentita anch’essa, chissà come. E Giovanni Telegrafista: quella proprio la ricordo bene; non l’avrei più riascoltata per decenni, però quell’ultimo verso “Alba, è urgente” lo rammento proprio come lo cantò Jannacci in Piazza Grande. Molti anni dopo decisi che era la canzone più bella di EJ, una spanna su tutte le altre: ieri sera ho scoperto che il testo è la versione italiana di una poesia brasiliana, un po’ m’è dispiaciuto. Un dispiacere insensato, la canzone non è meno bella se non è del tutto sua.
Quello di Enzo Jannacci fu il mio primo concerto. Qualche tempo dopo lo riconobbi vestito tutto di nero con un suo amico che ancora non conoscevo: citavano i Blues Brothers ma non potevo sapere nemmeno di loro. Ero piccolo, di tutto il grande puzzle culturale intorno a me possedevo solo una o due tessere, e Jannacci era una. Ne sono abbastanza fiero, mi sembra d’avere almeno cominciato con i pezzi giusti, e sono molto riconoscente ai miei genitori che non andavano mai da nessuna parte, ma quando venne Jannacci in Piazza Grande mi ci portarono. E al mio capo scout che almeno una volta all’anno, davanti al fuoco, ci cantava Prete Liprando e il giudizio di Dio, la sapeva a memoria e la cantava benissimo (che pieèèèèdi lunghi!) Fino a qualche tempo fa non si trovava nemmeno su Emule, Prete Liprando.
Così ieri sera mi sembrava di aver perso una persona un po’ più importante di altre. Mi sono messo a chiedere in giro su internet se qualcuno sapeva quando Enzo Jannacci avesse fatto un concerto in piazza Grande a Modena: perché non ne avevo la minima idea. E mi hanno risposto in due: 30 agosto 1981. Quindi avevo otto anni. Devo essere stato un bambino paziente. Devono essere stati pazienti anche i miei genitori. Li ringrazio ancora una volta.
Chiedo scusa per non riuscire a pensare o a scrivere qualcosa su Pietro Mennea che non suoni retorico già alle mie orecchie, figurarsi a quelle di chi passa di qui. Posso benissimo starmene zitto che quasi sempre è la cosa migliore. Solo una cosa: finché sul tetto del mondo c’è stato lui (e c’è stato per tantissimo), a quelli un po’ più giovani sembrava che dicesse: non c’è nulla che non possiamo fare. Dove il soggetto sottointeso era: noi italiani. Possiamo fare di tutto – certo, magari in determinati settori faremo più fatica, dovremo allenarci molto, e sacrifici su sacrifici, però alla fine che si fotta la genetica, che si fottano due millenni di piagnistei: possiamo essere tutto quello che vogliamo essere, almeno per un po’. Per 17 anni Pietro Mennea è stato il duecentometrista più veloce del mondo.
Crescendo abbiamo smesso di crederci, dove il soggetto sottointeso è sempre: noi italiani. Della mia generazione, almeno. Magari qualcuno ha provato la stessa cosa quando vinceva la Pellegrini, non lo so. Nel frattempo ci siamo inventati spiegazioni per qualsiasi mediocrità e anche per quegli occasionali lampi di eccellenza; forse battere un record a Città del Messico era più facile che altrove, forse, chissà. E oggi anche solo a parlarne mi vergogno. Ma c’è stato un momento in cui pensavo che avrei, che avremmo potuto fare, qualunque cosa.
Muore Mariangela Melato (la meravigliosa, magnifica, Mariangela Melato) e sulla home di Repubblica compare, accanto ai coccodrilli del caso, il link tutto in maiuscolo: VIDEO: LA SCENA CULT . Siccome hai un debole per i culti, specie quelli che sembra che tutti condividano tranne te, clicchi, e ti trovi di fronte a una clip brevebreve in cui Giancarlo Giannini, dall’alto di una rupe (e di una trucida superiorità antropologico-culturale) le grida, testuale: M’HAIRROTTO LAMMINCHIA! IO FACCIO QUELLO CHE STRATACAZZOMMI PARE! TROIA! MA CHI TI CREDI DI ESSERE! MAVAFFANCULO, VA’!
Che per carità, forse può essere davvero un modo divertente, intelligente, e soprattutto non snob (bisogna stare sempre attenti a non sembrare snob) di ricordare una grandissima attrice. Mariangela Melato fu Medea, lavorò con Ronconi e Visconti, però se ce la ricordiamo tutti per i film della Wertmüller un motivo ci sarà.
A questo punto viene in mente che quando compì ottant’anni l’altra grandissima, bravissima protagonista del cinema italiano di quegli anni, Monica Vitti, una delle prime cose che si vide in tv fu un montaggio di tutte le botte che aveva preso nelle commedie all’italiana. Botte tremende, con rumori che oggi userebbe soltanto Neri Parenti, ammesso che Parenti faccia ancora dei film, non so, magari ha smesso. Qualche ceffone con lo schiocco se lo prese anche la Melato, d’altronde la commedia all’italiana funzionava così: mostrava l’Italia per quel che era, un posto dove le donne finivano all’ospedale. Ci finiscono ancora adesso che i registi preferiscono mostrare altre cose, quindi forse le cose non sono così migliorate. Anche se, forse.
Forse il punto non è tanto che in Amore mio aiutami Alberto Sordi si vanti delle costole che è riuscito a incrinare alla moglie (anche se non è vero che mandò la controfigura Fiorella Mannoia in ospedale). O che Giannini in Travolti da un insolito destino violenti la sua datrice di lavoro. Il fatto è che entrambi i film sono congegnati in modo da stimolare la complicità dello spettatore – almeno dello spettatore maschio. Quando a metà del film Sordi chiude il pugno e decide di passare alle maniere forti, è come se quel pugno glielo piegasse telepaticamente lo spettatore, che ha visto la Vitti rendersi sempre più insopportabile e non la regge più, Quella lì ha scassato la minchia. Quando Giannini urla il suo proclama, siamo tutti con lui, finalmente qualcuno ha il coraggio di dire a voce alta cosa pensa delle insopportabili borghesi di Milano: troie. E scatta il cult. È lo stesso fenomeno che ha fatto sì che la frase più famosa degli ultimi trent’anni di cinema italiano (almeno in Italia) sia diventata La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca. Non è vero (d’altro canto chi l’ha mai vista, la corazzata in questione, da Fantozzi in poi nessuno ha sentito la necessità di verificare), ma dirlo era tantissimo liberatorio, e il sospetto è che i nostri padri andassero al cinema soprattutto a fare questo: a liberarsi. Un’esigenza tra il fisico e il morale che oggi si sfoga attraverso altre valvole, se siamo incazzati con Berlusconi o Monti o le donne fedifraghe e arroganti che non sanno stare al loro posto gliene diciamo quattro su twitter o facebook e poi stiamo subito meglio. Forse i cinema, quando erano pieni, erano pieni di gente che non avrebbe mai menato la moglie, ma che a vedere una donna menata, giustamente menata, si metteva di buon umore. Con l’alibi della commedia, del paradosso, della critica sociale eccetera.
È morta Mariangela Melato, e la scena a cui tutti pensano, la scena “cult”, è quella in cui si sente dare della troia. Un ruolo come un altro in fin dei conti; e poi che senso ha prendersela, gli attori interpretano quello che la gente vuole. Si sarebbe probabilmente meritata film migliori, qualche ruolo meno macchiettistico, e un pubblico meno finto-progressista, meno intimamente devoto al culto del ceffone. Ma è un rimpianto senza senso, ognuno vive la vita che può, recita al meglio i copioni che la vita gli offre. Meglio di Mariangela Melato, qui da noi negli ultimi trenta o quarant’anni, poche. Forse nessuna.
Per chi ha cominciato a impratichirsi di cinema guardandolo con un occhio solo nei beati dopocena dell’infanzia, armeggiando nel frattempo coi lego sul tappeto, Ernest Borgnine c’era sempre stato. Come certi rassicuranti Immortali che non vivono nell’olimpo, ma più spesso nel tuo paesino, e a parte l’immortalità sono proprio persone normali che non hanno nessun desiderio di emergere in qualche modo dal paesaggio umano circostante: spesso fanno i bidelli, i fornai, i postini; sei convinto di conoscerli perché li saluti da quando hai imparato a salutare. Ma l’unica cosa che veramente sai di loro è che ci saranno sempre, e la loro faccia non smetterai mai di riconoscerla. Ora che l’ho scritto mi ci vuole poco a immaginare Ernest Borgnine bidello, fornaio, postino. Ma quando dico “Borgnine bidello”, dico proprio che riesco a immaginarmelo mentre mi becca nel ripostiglio della palestra mentre armeggio intorno a pericolosissimi strumenti di sollevamento pesi, e mi solleva, lui, manovrando il lobo del mio orecchio destro. No, in realtà non aveva la faccia di Borgnine. Ma appicicare la faccia di Borgnine alle comparse dei propri ricordi d’infanzia è facilissimo. Provate. Visto? Quella faccia era incredibile.
Date un’occhiata per esempio alla galleria pubblicata ieri dal Post, in cui compaiono tra l’altro quasi tutte le sue buffe mogli, e altri uomini celebri, e donne anche belle; ma non c’è niente da fare. Se nella foto c’è lui, la foto è sua. Il punctum se lo mangia, Ernest Borgnine, probabilmente gli rimane incastrato tra i denti. Se dovete spiegare a qualcuno cosa sia la fotogenia, mostrategli Ernest Borgnine. Un attore molto bello (o un po’ brutto) può senz’altro ipnotizzarci per un po’, ma Borgnine era uno dei pochi che poteva convincerci in qualsiasi momento di essere nostro zio, di esserlo sempre stato, ehi zio! Scusa che non ti ho fatto gli auguri a Natale. Al punto che viene il dubbio che non fosse nemmeno un grande attore, così come un camaleonte non è un esperto pittore: forse la sua espressività irradiata dalle rughe sottociliari era un caso particolarissimo di pareidolia; forse Borgnine non ha mai fatto altro che mostrare la sua faccia, e tutte le emozioni ce le mettevamo noi. Però, accidenti, funzionava. Borgnine ti metteva a tuo agio, anche quando ti trovavi a 24 ore dall’Apocalisse in una Manhattan popolata esclusivamente da mostri e criminali… ma quando hai visto lui hai tirato fiato: va bene, ci saranno i mostri e i criminali, ma c’è anche lo zio che guida il taxi, non può finire troppo male. Non c’era nemmeno bisogno di fargli imparare troppe battute, bastava metterlo in un angolino e la scena, qualsiasi scena, acquistava più realismo e naturalezza: per forza, c’è lo zio. Bisogna anche dire che una delle rare volte che ha fatto il protagonista, ha portato a casa un Oscar, quindi il professionismo c’era. Ma soprattutto c’era quella faccia.
La faccia dei nostri zii, dei nostri nonni. Dentature sgraziate, ma bianchissime di speranza. Una generazione che non è mai stata veramente giovane, tranne forse qualche mese durante la guerra, il tempo per posare in bianco e nero con l’uniforme e la brillantina. Fino agli anni Sessanta di giovani, anche nei film d’azione, non ce ne sono mica tanti. Anche nei film di guerra hanno pance, rughe, passati da rimproverarsi. Alla bruttezza classica del suo tempo, Borgnine aggiungeva un pizzico di esotismo che però (come nell’altro caso eclatante di Charles Bronson) non tradiva nessuna provenienza geografica specifica: Borgnine non era proprio l’americano medio, ma poteva essere qualsiasi esponente di qualsiasi minoranza in qualsiasi momento: dal capo indiano al capoclan di camorra; e i cheyenne e i borsaneristi di Poggioreale avrebbero invariabilmente esclamato: ehi, zio! Per dire, venerdì pomeriggio mentre la creatura giocava col tappeto la tv mostrava un film degli anni Settanta ambientato in Israele: e rieccoli entrambi, Bronson nell’IDF e Borgnine burocrate in un qualche ministero, coi baffoni e la camicia spiegazzata, zio! Ma sei pure ebreo e non mi avevi detto niente?(chiedo scusa, in quel film in realtà non c’è, boh).
Borgnine in realtà era di Hamden, Connecticut; però la mamma era nata a Carpi. Non so quanto questo c’entri col fatto che di tutti i caratteristi del cinema americano ’50-’60-’70 è l’unico di cui ho sempre saputo il nome, sempre, fin dai lontani tempi del lego sul tappeto. È pur vero che mi sembra una faccia familiare, ma credo che mi sembrerebbe così anche se fossi vissuto nel Delta del Mississippi; anzi, se socchiudo gli occhi e ci penso tre secondi, riesco a immaginarmi anche Borgnine afroamericano, sputato! Che suona la tromba in qualche vecchio film in B/N, giusto una comparsata mentre Satchmo si terge la fronte.
Non so se il cinema di oggi sia migliore, davvero non lo so, tra l’altro non vado al cinema da così tanto tempo che potrebbe anche essere risorto e rimorto, il cinema. Di sicuro mancano facce come la sua. Certo, se ci voleva un conflitto mondiale a produrle, se ne può anche fare a meno. Però la tranquillità di poter trovare il mio bidello, il mio macellaio in una sequenza – anche in un ruolo di psicopatico, va bene – quella tranquillità che ti trattiene dal cambiare il canale, nei pigri pomeriggi o a tarda notte, quella non mi torna più. Gli attori della mia età non mi mettono a mio agio, molti di loro hanno deciso di non invecchiare e la cosa comincia a inquietarmi. Magari i bambini che giocano sul tappeto al giorno d’oggi li troveranno amabili zii ugualmente. Ci spero; nel frattempo uno come Borgnine mi manca.
SE VINCIAMO NOI (Non è Sa vinzém néun, di Tonino Guerra, 1920-2012)
Se vinciamo, se vinciamo noi, io se vinciamo noi, ti vengo a prendere in casa: ti faccio venire in mente quel che mi hai fatto e poi ti ammazzo a morsi nella testa e dappertutto se vinciamo noi, se noi vinciamo se.
Anche se poi se vinciamo noi lo so già come va a finire: che avrò tanto da fare per averti pure tra le palle che pigoli pietà per i figlioli se vinciamo noi se noi vinciamo e se
per caso mi vedrai dietro la casa sta calmo lì da sotto la finestra che se vinciamo noi, veniamo solo a prender le misure della strada.
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Ai miei nonni, bianchi, era capitato di avere casa e podere nel bel mezzo di un triangolo rosso. Succede. Una volta stavano bruciando, credo, delle sterpaglie, era il 18 aprile 1948. Per strada passava gente che andava in frazione a votare. Si conoscevano tutti. Qualcuno passando “bruciate bruciate” disse, “che quando torniamo bruciamo poi voi“. Erano tempi così. Tonino Guerra aveva appena iniziato a pubblicare.
Io ho una certa difficoltà con la poesia in dialetto, mi pare sempre che mi dica: Leggimi se sei capace. Non ne sono capace e spesso nemmeno mi sembra che ne valga la pena, ma questa poesia mi è sempre sembrata un’eccezione. Per la rabbia che concentra nella prima strofa, una rabbia storica e assoluta, per quell’Ugolino moderno che ti promette di morderti la faccia, se vincon loro. E per come la rabbia sbollisce, un verso alla volta, senza mai smarrire la direzione, finché non è più rabbia ma è una strada, e bisogna prendere le misure; per Guerra il futuro era così. Niente Libertà con la maiuscola, niente Democrazia o Uguaglianza o altre maiuscole (neanche Ottimismo, per il momento): strade, invece, minuscole, storte, da rifare, un sacco di lavoro, se vinciamo noi.
Se.
Chissà se abbiamo mai vinto, noi. A me a volte è sembrato – quasi sempre il medio termine mi ha dato torto – ma ogni volta mi sono sentito un po’ smarrito e vagamente contento di viverla così, come il personaggio di questa poesia, uno che parte per bruciarti con le sterpaglie, e al ritorno sta già pensando a com’è brutta la strada, a quante buche e quante gobbe, e neanche ti saluta da tanto che è in pensiero per questa strada di merda. Sono relativamente contento anche di come è andata a finire con Berlusconi – ok, non è ancora finita, ma per capirci, c’è gente che credeva che avremmo abbeverato i cavalli in San Pietro eccetera. Che avremmo lapidato gli ex ministri, e poi stupri di olgettine, Sodoma, Gomorra, macché, neanche le monetine abbiamo sprecato. E già c’era qualcosa di meglio da fare, qualcosa di più importante a cui pensare. Poi vabbe’, signori, è andata com’è andata, mi pare proprio che ci abbiano fregato anche stavolta. E va bene, un altro errore da cui imparare, tiriamo avanti, l’ottimismo è il sale della vita.
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A me dispiace che Guerra sia noto ai più per uno spot pubblicitario, per il personaggio del vecchietto sprint che sembra precipitare da Amarcord. In generale mi dispiace che Amarcord gli sia rimasto cucito addosso, a lui e un po’ anche a Fellini, non perché sia un brutto film, ma perché ha ridato fiato a un bozzettismo strapaesano che ha spalancato le porte a due generazioni di scrittori cispadani tutti un po’ matti, tutti un po’ simpatici, tutti un po’ minimali, tutti un po’ boccaloni, tutti un po’ una lieve rottura di coglioni, coi nostri accenti assortiti da pubblicità di generi alimentari. Ecco, almeno Guerra reclamizzava gli elettrodomestici, il Futuro, no i tortellini. È sempre stato molto più cosmopolita di noi, ha scritto Deserto Rosso e Blow Up e Zabriskie Point – è l’unico grado di separazione tra Ciccio Ingrassia e i Pink Floyd. ha preso un De Filippo e ci da scritto Matrimonio all’Italiana; ha preso uno Sheckley e ha scritto, ehm, la Decima vittima (forse l’esperimento più folle, un film di fantascienza sociologica con Ursula Andress e Mastroianni biondo canarino, ambientata in un futuro ipertecnologico dove ci sono comunque ancora i caroselli coi balletti e la riforma pensioni prevede l’eliminazione fisica degli anziani, salvo che i giovani italiani sono piezz’e’core e quindi li nascondono negli scantinati iperaccessoriati; e però non c’è ancora il divorzio, perché il divorzio nel 1965 in Italia non era nemmeno fantascienza). In seguito ha lavorato con Tarkovskij e Angelopoulos, sì, in film che di solito non avevamo voglia di vedere, però capiamoci: Tarkovskij e Angelopoulos, mica ciccioli e salama da sugo. Insomma di strada ne ha fatta tanta, Guerra, si vede che la sapeva fare. Noialtri non so.
Sa vinzém néun (da E lunèri, 1954)
Sa vinzém néun a t véng a truvé ad chésa: a t faz avnéi in a mént quel ta me fat e a t dag ad mòrs tla tèsta e d’impartót.
E pu sa vinzém néun l’andrà a finéi ch’avrò un dafè che mai, mo te nu vén datònda a ròmp e’ cazz, a déi ch’a t lasa stè pri tu burdèll; e se par chès t am vaid dri la tu chèsa nu sta a trémè da spèsa a la finèstra, ch’a vném a to al miséuri ma la strèda.
Dunque io, che ho cominciato a leggere quasi prima di cominciare a pensare, sui cartelli stradali, i titoli dei giornali, io che ho imparato a leggere in officina sulle latte di OLIO FIAT con le lettere bene in evidenza, a un certo punto ho trovato i fumetti e per molto tempo non ho cercato di meglio. In seguito ho letto anche altre cose, il Codice della Strada e Svetonio in originale, ma probabilmente la cosa che riesco a leggere meglio, che mi viene più naturale leggere, sono i fumetti: una vignetta dopo l’altra, la nuvoletta in alto prima della nuvoletta in basso, certe linee sottendono il movimento e la didascalia è una voce fuori campo. Migliaia di Topolini e poi Giornalini, e Dylandog e tutto il resto, ma so che non è stato così per tutti. C’è gente che i fumetti non li legge.
Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d’inquadratura tra una vignetta e l’altra. Queste persone sono l’equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch’io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell’inciso).
Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c’è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.
C’erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l’editoriale Del Corno comincia a stampare l’Uomo Ragno e tu passi da Topolino all’Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc’, e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d’estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).
Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c’erano Xbox, non c’era youtube né facebook, non c’erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall’eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell’Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l’Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l’esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev’essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.
E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermeticodi Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d’inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. “Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!”; “Ciò che amo del garage ermetico è l’infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli”; “Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe”. E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.
In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle “storie a forma d’elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino”. Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell’ambiente. Prima di lui l’immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall’altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell’astronave di Alien si chiamano “sfinteri” e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un’industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più ‘artista’, nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni ’80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall’altra, uno bianco e l’altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.
Oggi i giornaletti non si vendono quasi più, e chi vuole sopravvivere nell’ambiente lo sa, che margini non ce ne sono: la poca gente che ancora legge vuole storie, storie consequenziali, intricate ma non troppo, vignette ortogonali e magari anche qualche didascalia. Additare Moebius ai giovani aspiranti fumettisti sarebbe da criminali. Altro che storie in forma di fiore. Non c’è mercato per questa roba. Ripensandoci, non c’è mai stato, nemmeno in Francia, Métal Hurlant è durato quel che è durato. E allora?
E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c’era da capire.
Su Lucio Dalla in questi giorni è stato detto tutto di tutto, vero? No, sbagliato. Ci sono cose che persino nel coccodrillo più accurato non avete letto, per il semplice motivo che nessuno le sa – o chi le sa ha la consegna di tacere. Ve ne allungo qualcuna, senza la pretesa di far luce su nessun mistero: mi limito a far notare che di misteri ce n’è: ed è abbastanza intrigante, se si pensa all’uomo. Se si eccettua qualche strofa di Com’è profondo il mare, Dalla non ha mai coltivato l’ermetismo chic di molti suoi colleghi (vien subito in mente De Gregori, che con gli anni comunque si è molto aperto): era uno che potevi incontrare davanti alla vetrina di un negozio di strumenti musicali o in piscina e nei limiti del possibile se lo salutavi ti salutava; dava l’impressione di sentirsi a suo agio in mezzo alla gente, e la coda che vedete in Piazza Maggiore lo testimonia. In questi giorni si sono rilette diverse interviste e sembra proprio che Dalla avesse sempre da offrire all’interlocutore qualcosa di nuovo, qualcosa di suo: non era il tizio che ribadisce sempre i tre concetti e i due aneddoti e fa il muro su tutto il resto. E però a un certo punto un muro evidentemente c’è, perché noi tante cose di Dalla non le sappiamo e forse non le sapremo mai, per esempio:
1. Come ha fatto a diventare il più grande cantautore italiano nel giro di pochi mesi? I termini della vicenda sono noti. Fino ai tardi anni Settanta Lucio Dalla ha scritto diverse musiche e almeno il testo, molto curioso, di una canzone (La capra Elisabetta), sepolta in un vecchio LP che non si è comprato nessuno (Terra di Gaibola). Ai più è noto come musicista e interprete; un ruolo simile a quello del diversissimo Lucio Battisti, salvo che quest’ultimo ha un sodalizio ormai stabile con il demenziale Mogol, mentre Dalla le sta provando tutte per rendere cantabili le strofe del poeta Roberto Roversi, in tre dischi che sono forse l’ultimo posto in cui la Musica italiana e la Poesia italiana sono state viste assieme. A un certo punto il sodalizio con Roversi si interrompe e Dalla si improvvisa cantautore, una cosa che praticamente non aveva mai fatto. Il problema, che credo abbia turbato molti suoi colleghi e persino me, è che il modo in cui si improvvisa cantautore è Com’è profondo il mare, cioè l’eccellenza assoluta nella categoria, sin dalla prima strofa che descrive l’insonnia e tante altre cose ma è anche come se dicesse: cari amici cantautori, fin qui abbiamo scherzato, ma se volete venire a prender lezioni io ne ho qui per tutti quanti, prendi questa Francesco, prendi questa Fabrizio, porta a casa Antonello eccetera.
Siamo noi Siamo in tanti Ci nascondiamo di notte Per paura degli automobilisti Dei linotipisti Siamo i gatti neri Siamo i pessimisti Siamo i cattivi pensieri E non abbiamo da mangiare Com’è profondo il mare Com’è profondo il mare
Non so se avete presente quella scena nei film americani in cui una ragazzina che fino a quel momento non aveva mai provato i pattini / la ginnastica acrobatica / la danza moderna / il softball fa un tentativo e bum! diventa campionessa assoluta del mondo mondiale, queste cose capitano appunto soltanto nei film americani per teenager e nella vita di Lucio Dalla, che ha cominciato a scrivere testi, immaginate, a 35 anni, e ha cominciato direttamente dai capolavori (tutto quel disco sembra scritto da un signore che abbia la lingua italiana a sua immediata e completa disposizione). Non lo so, avete delle ipotesi? Vuoi dire che se le scrivesse già da prima intestandole a dei prestanome perché era timido? O che sono davvero tutti buoni a fare i parolieri, che ci vuole? Non lo sapremo mai. Qualcuno di voi ha 35 anni e non ha mai scritto una canzone in vita sua? Controlli se per caso non è il più grande paroliere degli anni Dieci, magari ci fa un favore a tutti.
2. Chi amava Lucio Dalla? La risposta più sensata alla domanda rimane ovviamente Cazzi Suoi. Però un minimo di curiosità per uno che ci ha dispensato tante canzoni d’amore potete concedercela, o no? E insomma, quando muore un cantante giovane tutti sul palcoscenico vanno a dire “Sono stato io suo padre”, purché lo spettacolo non finisca; qualcuno che in questi giorni salisse a dire: ci sono stato assieme, poi eventualmente ci siamo lasciati, non credo che creerebbe problemi a nessuno. Fino a quel momento tutti hanno, sulla sessualità di Lucio Dalla, divertenti teorie basate su sentiti dire, supposizioni ed esegesi di canzonette. Non c’è nulla di male, in fondo è un personaggio pubblico, aveva diritto alla sua privacy e noi avevamo diritto a ricamarci su. Io magari eviterei di saltare violentemente a certe conclusioni, come fa per esempio Aldo Busi, scagliandosi contro una specie di traditore della causa LGBT, uno che
mai nulla ha espresso contro l’omofobia di matrice clericale che impesta il suo Paese, che mai una volta ha preso posizione aperta per i diritti calpestati dei cittadini suoi simili di sventura politica e civile e razziale, un tipo così che, per esempio, scrive e canta il suo amore per una donna viene prima (per mediocrità di carattere, ipocrisia deliberata, amore del quieto vivere a discapito di chi lotta per i suoi stessi diritti da lui per primo negati) della bellezza o bruttezza della sua dedica impropriamente musicata. Non vedi l’omaggio alla donna, vedi la ridicola falsità e la necessità estetica per conto terzi che vi soggiace.
Magari semplicemente era bisessuale e se gli andava di scrivere una canzone d’amore a una donna lo faceva. Anche perché prima di qualsiasi preferenza sessuale era un professionista, Lucio Dalla, e le canzoni le scriveva pensando al suo pubblico, non necessariamente a sé. Capisco che per uno scrittore gay sia normale considerare sé stesso in quanto gay e attingere soltanto al comunque cospicuo bacino di lettori gay: ma Dalla era un cantante, e un elemento comune a tutta la sua sinusoidale carriera è stato il tentativo di portare musica e contenuti di qualità al pubblico più vasto possibile, entrare negli stadi e suonarci il jazz. Una cosa difficile da coniugare con la militanza gay, specie negli anni Settanta. Probabilmente Busi lo avrebbe preferito ostracizzato ed emarginato come Bindi: come se poi le difficoltà di Bindi avessero in qualche modo reso anche un minuscolo servizio alla causa LGBT; a me sembra di no. Io poi sto cominciando a pensare che i veri danni alla causa in questione, non li fanno tanto i gay che tacciono, ma Aldo Busi ogni volta che parla.
3. Perché a un certo punto ha smesso di interessarci? Indubbiamente questo è successo. Ma quando, e perché? Domandate a qualsiasi vedovo Dalla che in questi giorni vi strazia canticchiando Te voijo bene assai se conosce il suo ultimo album di inediti, se ha intenzione di procurarselo: per i più curiosi rimando al buon Madeddu:
l’ultimo disco di Lucio Dalla Angoli nel cielo è stato un flop quasi spiazzante. Entrò in classifica all’inizio del novembre 2009 al n.18. Nemmeno in top ten. Sapete quante copie servono per entrare in top ten a inizio novembre? No, meglio che non lo sappiate. La settimana successiva scese al n. 27 nonostante un singolo grazioso (Puoi sentirmi?) Poche settimane dopo fu annunciato che Dalla e Francesco De Gregori sarebbero tornati insieme.
Una specie di pregiudizio non ostile, ma piuttosto annoiato, si era deposato anche davanti alle lenti dei critici. Il mese scorso Rolling Stone Italia pubblicò la classifica dei cento dischi che, secondo una giuria selezionata, avevano fatto il rock italiano. Al primo posto c’era Bollicine, un disco degli anni Ottanta con sonorità e concetti che devono tantissimo a Dalla e al suo entourage del periodo. Ma Dalla Dalla dov’è? Al numero quaranta, tra Frankie Hi-NRG e gli Afterhours. Sette posti sotto agli Allegri Ragazzi Morti, diciassette posti sotto agli Offlaga Disco Pax, che, con tutta la buona volontà di questo mondo… ma cos’è successo all’eredità di Dalla da renderla più indigesta dei contemporanei Battiato o Battisti, che sono ai primissimi posti? Chi ha ancora qualche vago ricordo vissuto dei primi Ottanta (e la giuria in questione doveva averceli, o non avrebbe votato compatta per i Diaframma in top ten) sa bene come Dalla in quel periodo non fosse assolutamente discutibile: era l’avanguardia ed era il pop, era il jazz ed era il rock, stava per essere anche il funk e il rap, riempiva gli stadi e scriveva i testi più belli in circolazione. Poi cosa diavolo è successo, e quando? La parabola discendente è stata lunga e lenta: parte da alcuni dischi non brutti ma senza niente di nuovo, e contiene un paio di incidenti di percorso che Battiato per esempio non ha commesso: Caruso, appunto, e Attenti al Lupo. Con quei due pezzi Dalla ha forato definitivamente dal pop al nazionalpop, e le giurie scelte si vede che non gliel’hanno perdonato. Lui poi secondo me se ne fregava, continuava a scrivere quel che gli pareva e a vivere il meglio che poteva. Anche se i due pezzi in questione era probabilmente giunto a detestarli anche lui, che c’entra, la gente li voleva e lui li cantava: si chiama professionismo.
4. Di chi parla Cara? Per quel poco di statistica che posso estrapolare dalla mia vita, Dalla piaceva più alle ragazze; e la canzone di Dalla che piace più alle ragazze (e che fa prevedibilmente incazzare Aldo Busi) porta il banalissimo titolo Cara: parla di una ragazza che mangia il gelato mentre noi moriamo d’amore fuori tempo massimo. In questo live veramente Dalla spiega che all’inizio portava l’invendibile titolo Dialettica dell’immaginario, poi “un uomo rozzo” ha cambiato il titolo. Chi era l’uomo rozzo? E la ragazza del gelato? Io a dire il vero una storia la so, però me l’ha raccontata mio cuggino, quindi non posso metterla qui. Peccato perché è una bella storia. E secondo me non offende nessuno. Insomma, chi sa parli.
5. Ma Sanremo, ma Carone, ma cosa diavolo. Non lo so. Non lo sapremo mai. A me piacerebbe che le cose stessero come le scrisse a caldo Gilioli:
Lucio Dalla, tra pochi giorni, entrerà nel settantesimo anno d’età. Nella sua vita ha cantato, vinto e venduto tutto quello che poteva cantare, vincere e vendere. Ieri sera era così: a fare da corista, spalla e maestro di un ragazzo di 23 anni.
Tutto giusto, tutto bello, tranne ahinoi il pezzo, che non era un granché. Io poi se mi sforzo riesco a leggere una specie di continuità: Dalla si tenne sempre lontano dalla politica politicata, ma quando andò a Sanremo cercò di portarci i lembi della società meno presentabile: ladri puttane e barboni. De Andrè, per dire, si teneva a rispettosa distanza, e le radio non lo trasmettevano: Dalla invece ci andava, cambiava il titolo di Gesubambino per evitare le censure, era disponibile al compromesso con la Rai-di-Bernabei, però voleva mostrare quell’Italia lì e in un qualche modo rappresentarla: Gesubambino era nato lo stesso giorno del suo compleanno. Carone, quarant’anni più tardi, ha portato all’Ariston gli stessi argomenti. Non sono più censurati, non polarizzano neanche più la polemica come invece riusciva a fare Povia parlando di gay o eutanasia, però forse a Dalla non interessava lo scandalo, bensì l’argomento. E Carone che canta l’amore per una stradale magari non è uno choc per noi trentaquarantenni, ma lo è per i messaggiatori degli Amici di Maria. Senz’altro a Dalla non dava nessuna noia collaborare con qualcuno proveniente da quello o da un altro carrozzone televisivo: anche lui aveva avuto una storia complicata, anche lui era diventato un personaggio tv ben riconoscibile molto prima di cominciare a vendere dischi come il pane. L’unica vera tristezza, alla fine, è che l’ultima canzone di Dalla non fosse un granché. Questo non è nemmeno un mistero, non più del solito: anche i più bravi in assoluto a un certo punto non lo sono più. Le cose vanno così e non dico mica che sia giusto, anzi.
Di certi si dice: o lo ami o lo odi. Altri sono talmente grandi da toglierti la necessità della scelta, sono parte del paesaggio e il più delle volte li dai per scontati. Alla fine è raro che ti fermi ad ascoltare, sai che comunque sono lì e che ci resteranno. Lucio Dalla è lì, e ci resta. Come tutti i monumenti, ci si passa davanti tutti i giorni ed è già tanto se non ci danno fastidio, coi loro Attenti al Lupo e i loro Caruso. Poi un giorno ti fermi e scopri un dettaglio incredibile, una cosa che è lì da anni e nessuno sembra notare più, Terra di Gaibola o Automobili, un musicarello o una sinfonia.
Alcuni, se sono fortunati, riescono a morire prima di passare di moda. Con Dalla non si poneva il problema. Gran parte di quello che aveva fatto nei suoi primi 35 anni suonava già desueto e misterioso nel 1983. Tra qualche settimana, quando nell’etere radiotelevisivo si saranno depositati i Balla ballerino e i Disperato erotico stomp di circostanza, rivedremo alla finestra quell’enorme paesaggio da scoprire. Canzoni che ci siamo dimenticati o, nella migliore delle ipotesi, non abbiamo mai ascoltato. Magari sarà la volta buona.