cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, poesia

Il poeta e il suo poliziotto

Neruda (Pablo Larraín, 2016).

Posso scrivere i versi più tristi questa notte. Posso scrivere: io l’amai, e a volte ella mi amò. Si chiamava Rivoluzione, Classe Operaia o Comunismo; lei mi amava, ma a volte io ero al bordello. La notte è stellata e lei non è con me: questo è tutto. Ma la poesia dura altre venti righe. Lontano, qualcuno canta, lontano la mia anima non si dà pace di averla perduta. E blà e blà e blà, posso andare avanti tutta la notte, questa notte.

Ma di giorno si suda (cit.)

La storia si può raccontare in tanti modi, stavolta Larraín la spia da una finestra. Dall’altra parte c’è il mostro sacro della cultura cilena, il poeta intoccabile, c’è Pablo Neruda travestito da beduino che intona i suoi versi vacui per i suoi ospiti borghesi progressisti. Larraín disprezzerebbe la loro ipocrisia, se non sapesse che stanno per essere spazzati via da un regime non molto meno ipocrita.
La storia sta per bussare alla porta, Neruda sta per scoprire quanto costa militare in un partito comunista clandestino. Larraín guarda dalla finestra. Nessuno lo ha invitato. Dal nulla prende forma un personaggio da giallo Mondadori: è Gael García Bernal con un cappello da detective. Figlio del bordello e del primo poliziotto di Santiago.

Prima di andarsene a Hollywood, Pablo Larraín ha voluto mostrarci una volta ancora una pagina di storia del suo Cile. Prima di andare a girare un film su Jacqueline Kennedy, Larraín ha voluto ricordarci quanto può essere inaffidabile un narratore (continua su +eventi!)

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Dialogo tra Leopardi e uno spettatore

Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014).

“Signor Conte, come va?”
“Male, illustrissimo, e voi?”
“Non c’è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito”.
“Sì, al mio solito”.
“Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa”.
“Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana…”
“Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d’oggi magari un chirurgo… perdonatemi l’impertinenza…”
“Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni”.
“Beh, magari potrebbe aiutarla con quella… quella gobba, insomma”.
“Gobba?”
“Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama”.
“Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui”.
“Per forza, l’avete sulla destra… o non era la sinistra?”
“Vi sentite bene, illustrissimo?”
“Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia”.
“Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero…”
“Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell’equilibrio nel discernimento…”
“…e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie”.
“Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?”
“Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo”.
“Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo”.
“Ah no?”
“No”.
“E di cosa stiamo parlando allora?”
“Di un film”.
“Ovvero?”
“Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna… hanno fatto un film su di voi, signor conte”.
“Sulle mie opere?”
“Su di voi”.
“Ahi”.

“Capite insomma il problema”.
“Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?”
“Eh, tante cose… per esempio, quando voi componete l’Infinito”.
“Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell’idea del vago, dell’indefinito, che io stavo cercando di…”
“Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l’Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l’infinito”.
“E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?”
“Più o meno è così – salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona”.
“Ah. E lui… com’è?”
“Bravo, bravo, un po’ sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po’, ehm…”
“A me?”
“A Foscolo”.
“Eh, beh, naturale. E sulle spalle…”
“Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film”.
“Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo… come si chiamava?”
“Niccolò Tommaseo”.
“…si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?”
“Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l’inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto”.
“E Petrarca?”
“Petrarca è out”.
“Aut?”
“Out, fuori, finito, trionfo dell’oblio”.
“Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI”.

Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? (Se ne discute su +eventi).

italianistica, Leonardo sells out, poesia

Ritornava una rondine al tetto. Cosa le è successo? CLICCA QUI!!!

Giovanni Pascoli (in basso a destra)
col papà e i due fratelli.

10 agosto 1867 – Ruggero Pascoli, amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, viene assassinato mentre ritorna da Cesena in calesse a San Mauro. Suo figlio Giovanni non se ne darà mai pace. A tutt’oggi il caso è insoluto. 

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Quando si legge Pascoli, quando lo si legge davvero – no, aspetta, mettiamo i punti interrogativi: quando si legge Pascoli? Quando lo si legge davvero? Senza incombenze connesse, senza doverlo imparare a memoria per un’interrogazione o per una tesi; quand’è che uno si mette lì a leggere, poniamo, i Poemetti o i Canti di Castelvecchio invece di qualsiasi altro libro? Vi siete mai portati Pascoli in treno? In spiaggia? Pascoli non si legge mai davvero. È uno di quei poeti famosi che tutti conoscono e a cui nessuno vuole più veramente bene. Come le statue in mezzo alle piazze, non danno nemmeno fastidio, stanno lì come un punto di riferimento, un segnale stradale. (“Scusi, sto cercando il Novecento”. “Prosegua dritto finché trova la statua di Giovanni Pascoli”).

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…

Ma quando leggi Pascoli, quando per qualche motivo lo leggi davvero, ti viene il dubbio che se ne rendesse conto lui per primo; che questa fosse l’immortalità che si aspettava. I critici lo deridevano per i suoi bamboleggiamenti, ma lui se ne fregava. Aveva colto molto prima degli altri le implicazioni culturali della legge Casati: milioni di piccoli italiani sarebbero entrati per la prima volta in una scuola elementare, e cosa vi avrebbero trovato? Le pose auliche di Foscolo? Peraltro, non proprio un esempio da imitare per la gioventù. Gli inni sacri che lo stesso Manzoni si annoiava a comporre? Eh no, serviva qualcosa di più laico. La disperazione leopardiana? Nah, al massimo si poteva ritagliare qualche idillio qua e là, ma è comunque roba poco cantabile. Neanche Carducci: troppa politica, troppa – No, agli studenti elementari d’Italia servivano filastrocche. Ma scritte con mirabile perizia prosodica. Con tanta natura e poca politica – parliamo del tempo piuttosto, i temporali, le nubi, i tramonti, questo tipo di cose. Ai fanciulli serviva un fanciullino, e lascia che gli adulti ridano. Tanto gli adulti ormai di poesia non ne compreranno più. Ma i libri di lettura, quelli andranno sempre. E una strofetta di Pascoli su una nube, o su un tramonto, o su un assiolo, non mancherà mai. Al limite andranno bene anche le strofette sul babbo morto.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

Ecco, quando leggi Pascoli per davvero, questa cosa che hai sempre saputo ti si ripropone con violenza: ma sul serio ha potuto rivendersi così il babbo morto, sul serio ha potuto scrivere il X agosto? Cioè, certo che lo ha fatto, lo sai benissimo, però accidenti, riflettici: sparano a suo padre. Una cosa orribile – se lo vedono arrivare in casa con una pallottola in corpo – uno choc che cambierà l’esistenza sua e di tutta la famiglia. Un caso intricato, un’inchiesta infinita, con Pascoli arcisicuro di sapere chi è stato ma incapace di trovare la pistola fumante, eccetera. E su questa cosa, il poeta laureato Giovanni Pascoli, professore cattedratico, personaggio pubblico, scrive una filastrocca (dalla prosodia complicatissima e rivoluzionaria, con l’alternanza oltraggiosa di versi pari e dispari) con la rondine in croce che piigola piiigola sempre più piano, e l’insetto nel becco, e le bambole additate al cielo, e il cielo che piange! Nel 1896. Stavamo cominciando ad avvistare i satelliti di Nettuno, e Pascoli si prende una pagina del libro di lettura per raccontare ai bambini che il 10 agosto il cielo piange perché hanno ucciso suo papà. Una regressione allo stato infantile dell’umanità.

Uno alle elementari non ci riflette, è un bambino. Anche Pascoli finge di essere un bambino, lo sappiamo tutti, abbiamo tutti sostenuto almeno un’interrogazione sul Fanciullino ecc. ecc. E allo stesso tempo se ci rifletti – se rifletti all’idea di tornare alla tua scuola elementare e immaginarti al tuo fianco un professore cattedratico col grembiulino, che finge d’essere un bambino come te – ti rendi conto che Pascoli è il più osceno di tutti.

poesia, Svuotando i solai

Documento recuperato

199?



Principio d’ogni cosa,

sirena capricciosa
‘¥æ‡¤þ, siccome il vento mi riavvita,
– galletto banderuola –
di’ solo una parola
e svolgimi o riavvolgimi la vita.

Boschetto in riva al mare
– proibito campeggiare –
‘¥æ‡¤þ, il tuo Sebastiano Puntaspilli,
percorso in modi vari,
dà suoni straordinari:
intona quindi, e intendi quanti strilli.

‘¥æ‡¤þ chi dice ciao ti dice: schiavo.

‘¥æ‡¤þ prima ti sogno e poi mi lavo.

poesia, Svuotando i solai

Lo spleen di Sorbara di Bomporto


1993

I mille fogli sparsi in cui il destino
mio ricercavo in un segno, una traccia
stan nel cestino
della cartaccia.

Le corde e i tasti che in giorni volati
tanto sondai, cercandone l’incanto
giaccion scordati
lì, in un canto.

Dei cieli troppo azzurri sono stanco
dei tuoi occhi verdi non ne posso più:
mi sa che lascio questo foglio in bianco
e imparo a manovrare le autogrù.

autoreferenziali, poesia, Svuotando i solai

Era solo un’extrasistole


(1997)

Il cuore batte asincrono
e un pendolo tagliente
spezza la notte in schegge per l’insonnia più insolente
zanzare i miei pensieri che
s’appressano all’orecchio
ed il cuscino è un sasso freddo e frigido ed invecchio

E tu che se telefono
mi dici di star zitto
non posso lamentarmi
non ne ho proprio il diritto
ho un posto ho un nome ho un numero
due esami ogni sessione
è solo un esercizio questa mia disperazione

La vita ha le sue tattiche per farti stare in pari
affolla le rubriche gremisce i calendari
appuntamenti ed assemblee e colloqui di lavoro
tu cedi solo un attimo e sei già in fila col coro

La vita ha le sue strategie per farti stare al gioco
anche se il polso è debole e il cuore scarta un poco
impulsi elettrostatici ti guidano al magnete (*)
tu cedi appena un minimo e sei già in fondo alla rete

E tu se poi telefono
mi dici di tacere
so solo lamentarmi
ormai è il mio mestiere
il mondo intero oscilla sui
miei sbalzi di pressione
è un gioco stanco e logoro la mia disperazione

E tu che se telefono
stai zitta e non ascolti
con l’aria di chi come me
ne ha compatiti molti
si spegne e non ricarichi
non hai più compassione
è solo un’extrasistole la mia disperazione



(*) No, temo proprio che non abbia senso.

autoreferenziali, poesia, Svuotando i solai

Che ora hai detto ch’era?



IMPARA QUAND’È ORA DI SMETTERE (1998)


Impara quand’è ora di smettere

di chiuderti in buste da lettere
di fingere di esser sincero
di offrirti per niente anche intero
                                               – per gente
che poi non ti sa dove mettere
impara quand’è ora di chiudere
di scegliere eleggere escludere
di verificare gli impegni
intascare gli assegni
e mostrarsi ai convegni quando utile
non vedi di quanto ridicolo
ti sei reso contro te stesso colpevole?
hai morso il cuscino e il telefono
a un graffio sul cofano
non sai mai quand’è ora di smettere
impara che è l’ora di stringere
di esser sincero nel fingere
di avere i tuoi soldi da parte i tuoi amori da parte
i tuoi sogni da parte
si parte
          da un investimento iniziale
                       da un coinvolgimento parziale
                                   l’interessamento è graduale
                                           il guadagno finale 
si avrà con lo sforzo costante
non vedi da quale distanza con quanta impazienza
hai preteso di armarti e combattere?
mosche ne hai prese abbastanza
ora lascia la stanza
che suonano l’ora di smettere
autoreferenziali, poesia, Svuotando i solai

Manca sempre qualcosa


1998

Un biglietto del treno timbrato,

un fischietto che mi hanno prestato,
quattro libri che ho fotocopiato,
una spilla (la stella col Che?)

Cinque dadi rubati al destino,
un coriandolo di un volantino,
una gomma ed un vecchio scontrino
(un panino, una pasta, un caffè);

quattro mesi di appunti a quadretti,
una sveglia scassata. Picchetti
da tenda, due penne, tre plettri,
un rosario di plastica, blu;

un’arancia che ormai è andata a male
il santino del tuo funerale
una bozza di un redazionale
e il mio cuore. Anzi, no, non c’è più.
animali, poesia, Svuotando i solai

Lo zoo di Cinzia

Lo zoo di Cinzia (1999)

Cosa c’è che non va con Pitone?

È affettuoso, ed è un simpaticone.
Ma al commiato notturno, lo so,
se ti stringe anche un po’
sembra voglia ridurti a un boccone.
E di Granchio che cosa mi dici?
eravate, voi due, buoni amici;
ma anche Granchio le amiche le
stringe, ma ha solo le chele
e oramai ha anche solo nemici.
Non ti resta che uscire col Gallo:
se non altro sa tenerti in ballo.
Certo ha modi da professionista,
da collezionista,
ed al collo un cornetto in corallo.
A proposito, ha chiamato il Rospo,
perché ha già prenotato in quel posto.
Basta un bacio ed è convinto che
gli apriranno il privé
(ma tu non sei in città, gli ho risposto).
poesia, Svuotando i solai

Io tifo Marsia

(1997)

MA IO TIFO MARSIA – e non è facile a farsi;
c’è sempre chi ti scuoia, e le ragioni sue le ha.

Giorni persi, e tu a leggermi i tuoi versi,
che bel gioco a vedersi la nostra utilità.

Prega, tu pollo: applaudi pure Apollo:
metti lo scacco in stallo, così non perdi mai.

Io ho sempre perso, e oggi non sarà diverso.
Chi ha avuto voti scarsi dietro Marsia marcerà.

Io tifo Marsia, che se vendemmia è scarsa
mi piscia dentro un vuoto e me lo vende per champagne.

Pelle d’Apollo, io pesce qui in ammollo,
se a volte vengo a galla, dalle acque troppo stagne

non è per i tuoi versi! Dammi fatti diversi!
Chi non ha arie da darsi dietro Marsia marcerà.

…e non leggermi più versi – solo fatti diversi!

poesia, Svuotando i solai, traduzioni

Colloque séntimental


Plagio (1995)

Nel vecchio parco, tra i viali innevati
due antichi amici si sono incontrati.

Tra i freddi marmi e fra le grigie aiuole
ne echeggiano, leggere, le parole.

Nel vecchio parco, buio e raggelato
due spiriti rievocano il passato:

Rammenta, deh, la nostra estasi antica?
“No, francamente non ricordo mica”.

Le vengo ancora giorno e notte in mente?
E quando sogna, sogna me?
 “Per niente.”

Ah quei bei giorni in cui era dolce amarsi,
tra verdi siepi, noi due… 
“Può anche darsi”.

E azzurro il cielo, e grandi le speranze!
“Venne poi Autunno a chiudere le danze”.

Nel vecchio parco, dai viali innevati,
due spiriti si sono congedati.

Tra i freddi marmi e tra le grigie aiuole
si perdono, leggere, le parole.

auto, papà, poesia, Svuotando i solai

Le autostrade

(2000)

Vede ora il mondo con gli occhi di suo padre
Un grande esploratore di autostrade

Quella che porta al mare ha quattro strisce
Lisca di pesce in fondo alla pianura
Chi entra al casello a volte ha un po’ paura
Chi entra al casello a volte non ne esce

Danza la bambolina allo specchietto
ha un occhio ancora aperto
il collo è rotto

Vede ora il mondo come l’ha visto il padre
Ma come sono grandi le autostrade

poesia, Svuotando i solai

Il successo dell’estate



il successo dell'estate (1996)

pallida estate incombe sul rione
nel viale mormora un motore fischia
un merlo in una gabbia su un balcone

le case hanno le palpebre abbassate
sonnecchiano ma ancora un giradischi
gracchia il vecchio successo dell'estate

amore torna indietro non resisto
- mi soffoca un'attonita armonia -
da quando sei andata non esisto
da quando te ne sei volata via

autoreferenziali, poesia, Svuotando i solai

Why do you torture me with leaves




volantini (1997)

mi portavi volantini
io ne avevo i libri pieni
bandi a premi e conferenze no pietà

mi prendevi tanti appunti
mi chiosavi i tuoi riassunti
ma quanto eri scrupolosa alla tua età

se ora lascio stare i corsi
i dibattiti e i concorsi
i rimpianti ed i rimorsi
dimmi cosa resta già

mi trovavi agende e diari
e rubriche e calendari
per gestire meglio orari che non ho

le rassegne ed i programmi
mostre film e melodrammi
ti pregavo dammi pace almeno un po'

e ora ho mille fogli bianchi
per spiegarmi che mi manchi
che degli uomini ti stanchi
ma di te io ancora no

mi mostravi i tuoi progetti
i tuoi assegni nei cassetti
mi chiedevi cosa aspetti intanto ed io

ti dicevo un anno ancora
non c'è fretta non è ora
siamo giovani e studenti graziaddio

chissà adesso che combini
e a chi porti volantini
io ne ho tutti i libri pieni
e non posso aprirli più
[Il problema di chi conserva la gioventù in solaio è che d'inverno non c'è mai tempo per mettere in ordine, e d'estate fa troppo caldo anche solo per salire. Chi ha la cantina ha un alibi in meno. Qualcosa comunque quest'anno riesco a portarla giù. Non mi metto neanche a ripulirle, non vale la pena, le porto in discarica così come sono. Sarà un agosto molto polveroso].
poesia, santi

I miei amici sono anemici

27 gennaio – Sant’Angela Merici, (1474-1540), mistica, fondatrice delle orsoline.

“I miei amici sono anemici”, mi dici,
si sono messi ai margini
di foto con cornici.
Non pranzano con gli astici,
si arrangian con le alici;
la mensa sa di ospizio di Sant’Angela Merìci.

I tuoi amici sono cinici, ci dici,
hanno scialato rendite, non certo in dentifrici.
Non serve essere aruspici per trarne infausti auspici:
staresti molto meglio chez Sant’Angela Merìci.

I miei amici son quei tipici infelici
che han fatto studi classici e ne han tratto i benefici:
non san quadrare i circoli, né estrarne le radici,
proteggerli è un lavoro per Sant’Angela Merìci.

Ex amici, han messo via i berretti frigi,
i riccioli li rasano per non mostrarli grigi.
Li trovi in ferie a Lerici più spesso che a Parigi,
ma è molto meglio perderli, da’ retta alla Merìci.

Amici un dì magnifici, ma han chiuso i maglifici,
e senza più bonifici da etruschi o da fenici
han perso accesso agli attici, non flertan con le attrici
non sanno a chi votarsi più (non certo alla Merìci).

***

I tuoi amici, inurbati un cupi uffici,
arcigni e artati artefici di artritici artifici,
stanno twittando striduli a troiette traditrici;
ti prego, trasferisciti in Sant’Angela Merìci.

Che accolga tra le accolite, le sue benefattrici
la bimba a cui, proselita, con mani protettrici,
la scala verso l’indaco indicava da pendici
che sono competenza di Sant’Angela Merìci.

cinema, coccodrilli, poesia

Le misure della strada

SE VINCIAMO NOI
(Non è Sa vinzém néun, di Tonino Guerra, 1920-2012)

Se vinciamo,
se vinciamo noi,
io
se vinciamo noi,
ti vengo a prendere in casa:
ti faccio venire in mente quel che mi hai fatto
e poi ti ammazzo
a morsi
nella testa
e dappertutto
se vinciamo noi,
se noi
vinciamo
se.

Anche se poi
se vinciamo noi
lo so già
come va a finire:
che avrò tanto da fare
per averti pure tra le palle
che pigoli pietà per i figlioli
se vinciamo noi
se noi vinciamo
e se

per caso mi vedrai dietro la casa
sta calmo lì da sotto la finestra
che se vinciamo noi, veniamo solo
a prender le misure della strada.

***
Ai miei nonni, bianchi, era capitato di avere casa e podere nel bel mezzo di un triangolo rosso. Succede. Una volta stavano bruciando, credo, delle sterpaglie, era il 18 aprile 1948. Per strada passava gente che andava in frazione a votare. Si conoscevano tutti. Qualcuno passando “bruciate bruciate” disse, “che quando torniamo bruciamo poi voi“. Erano tempi così. Tonino Guerra aveva appena iniziato a pubblicare.

Io ho una certa difficoltà con la poesia in dialetto, mi pare sempre che mi dica: Leggimi se sei capace. Non ne sono capace e spesso nemmeno mi sembra che ne valga la pena, ma questa poesia mi è sempre sembrata un’eccezione. Per la rabbia che concentra nella prima strofa, una rabbia storica e assoluta, per quell’Ugolino moderno che ti promette di morderti la faccia, se vincon loro. E per come la rabbia sbollisce, un verso alla volta, senza mai smarrire la direzione, finché non è più rabbia ma è una strada, e bisogna prendere le misure; per Guerra il futuro era così. Niente Libertà con la maiuscola, niente Democrazia o Uguaglianza o altre maiuscole (neanche Ottimismo, per il momento): strade, invece, minuscole, storte, da rifare, un sacco di lavoro, se vinciamo noi.

Se.
Chissà se abbiamo mai vinto, noi. A me a volte è sembrato – quasi sempre il medio termine mi ha dato torto – ma ogni volta mi sono sentito un po’ smarrito e vagamente contento di viverla così, come il personaggio di questa poesia, uno che parte per bruciarti con le sterpaglie, e al ritorno sta già pensando a com’è brutta la strada, a quante buche e quante gobbe, e neanche ti saluta da tanto che è in pensiero per questa strada di merda. Sono relativamente contento anche di come è andata a finire con Berlusconi – ok, non è ancora finita, ma per capirci, c’è gente che credeva che avremmo abbeverato i cavalli in San Pietro eccetera. Che avremmo lapidato gli ex ministri, e poi stupri di olgettine, Sodoma, Gomorra, macché, neanche le monetine abbiamo sprecato. E già c’era qualcosa di meglio da fare, qualcosa di più importante a cui pensare. Poi vabbe’, signori, è andata com’è andata, mi pare proprio che ci abbiano fregato anche stavolta. E va bene, un altro errore da cui imparare, tiriamo avanti, l’ottimismo è il sale della vita.
***


A me dispiace che Guerra sia noto ai più per uno spot pubblicitario, per il personaggio del vecchietto sprint che sembra precipitare da Amarcord. In generale mi dispiace che Amarcord gli sia rimasto cucito addosso, a lui e un po’ anche a Fellini, non perché sia un brutto film, ma perché ha ridato fiato a un bozzettismo strapaesano che ha spalancato le porte a due generazioni di scrittori cispadani tutti un po’ matti, tutti un po’ simpatici, tutti un po’ minimali, tutti un po’ boccaloni, tutti un po’ una lieve rottura di coglioni, coi nostri accenti assortiti da pubblicità di generi alimentari. Ecco, almeno Guerra reclamizzava gli elettrodomestici, il Futuro, no i tortellini. È sempre stato molto più cosmopolita di noi, ha scritto Deserto Rosso e Blow Up e Zabriskie Point – è l’unico grado di separazione tra Ciccio Ingrassia e i Pink Floyd. ha preso un De Filippo e ci da scritto Matrimonio all’Italiana; ha preso uno Sheckley e ha scritto, ehm, la Decima vittima (forse l’esperimento più folle, un film di fantascienza sociologica con Ursula Andress e Mastroianni biondo canarino, ambientata in un futuro ipertecnologico dove ci sono comunque ancora i caroselli coi balletti e la riforma pensioni prevede l’eliminazione fisica degli anziani, salvo che i giovani italiani sono piezz’e’core e quindi li nascondono negli scantinati iperaccessoriati; e però non c’è ancora il divorzio, perché il divorzio nel 1965 in Italia non era nemmeno fantascienza). In seguito ha lavorato con Tarkovskij e Angelopoulos, sì, in film che di solito non avevamo voglia di vedere, però capiamoci: Tarkovskij e Angelopoulos, mica ciccioli e salama da sugo. Insomma di strada ne ha fatta tanta, Guerra, si vede che la sapeva fare. Noialtri non so.


Sa vinzém néun
(da E lunèri, 1954)

Sa vinzém néun a t véng a truvé ad chésa:
a t faz avnéi in a mént quel ta me fat
e a t dag ad mòrs tla tèsta e d’impartót.

E pu sa vinzém néun l’andrà a finéi
ch’avrò un dafè che mai,
mo te nu vén datònda a ròmp e’ cazz,
a déi ch’a t lasa stè pri tu burdèll;
e se par chès t am vaid dri la tu chèsa
nu sta a trémè da spèsa a la finèstra,
ch’a vném a to al miséuri ma la strèda.

Tonino Guerra

autoreferenziali, Berlusconi, poesia

Lettera a Bruxelles

La gronda

Ma te lo immagini, che questa cosa che sembrava sul punto di cascare anni fa, questa cosa che come posso descrivertela; pensa a una grondaia di una vecchia casa, pensa alla ruggine e al catrame, e pensa che avrebbe potuto cadere in qualsiasi momento, dal duemila in poi, e pensa che invece è ancora qui.

E non voglio dirti che è tutta la realtà che ci resta, perché non voglio metterla in tragedia; io per quel che posso me la sono fatta una mia realtà, casa lavoro famiglia, me la sono ben scavata una mia buchetta e onestamente non mi posso lamentare – e lo sai che quando c’era da lamentarsi non mi tiravo indietro – non ti dirò che questa grondaia è tutta la realtà, ma lasciami dire che ne è comunque un grosso pezzo, questa grondaia che guardo tutti i giorni e non vuol cascare. Fosse l’impero bizantino, che decadeva decadeva ed è durato mille anni.

E sapessi la nausea di sapere che questa cosa banale, triviale, che poteva benissimo non esserci e invece c’è; questa cosa che per me e per molti è berlusconi, ma non fosse berlusconi sarebbe stato qualche altra cosa; tu sapessi la nausea di sapere che comunque cadrà, un giorno crollerà, un giorno non potrà far altro, e sarà quel giorno solo a finire sui libri, e la gente penserà ai tipi come me come a quelli che quel giorno han fatto festa; non penserà a tutti i giorni che abbiamo aspettato, tutti i giorni che non siamo riusciti a far di meglio che a guardare la gronda marcia non cascare. Alla nausea di assistere a tutto questo giorno per giorno, allo stillicidio di tutti questi capitoli inutili, perché tanto s’è capito da un pezzo dove va a finire il libro, o no?

E come si spiega che non è finito ancora. Qual è il senso di restare lì, a quali fili di ragno è appesa una gronda che doveva cascare anni fa – Lo sai dove stan facendo la rivoluzione adesso? Ora tu dimmi, se dobbiamo prendere lezioni dalla Tunisia. Cosa abbiamo solo noi, che nemmeno i tunisini hanno più, cosa c’impedisce di guardare alle cose come stanno. Tu lo sai che sono fissato, per me è solo una questione di televisione. Punto. Tutto il consenso sta lì, e un po’ sui giornali, ma neanche tanto. Abbiamo voluto lasciargli le tv, e a lui non è servito altro, per raccontarci la realtà come gli piace. Salvo che lui non ha mai avuto niente da raccontarci, una volta non lo sapevamo, adesso sì. È un debole come noi, succube dei suoi stessi programmi, è il pubblico del suo stesso drive in. Non c’è dietro nessun disegno occulto, ci ha modellato a sua immagine e somiglianza, e lui è brutto e senza fantasia. L’obiettivo della sua vita era sedersi nel privé a guardare le tipe che fanno il trenino; ce l’ha fatta e ora dovremmo invidiarlo. La nausea di avere avuto per avversario un tizio così.

E pensare che abbiamo avuto perfino paura di lui; che io, almeno, dietro ai suoi primi manifesti azzurri che sembravano la pubblicità dei fustini temevo ci fosse davvero la rivoluzione liberale, il miracolo italiano, la Thatcher italiana. Averlo saputo subito, che lui la Thatcher manco si ricorda chi è, per via che non era una “bella gnocca”. (“Nyokka”, scrisse l’Indpendent). L’avessimo capito subito, che il nemico era tutto lì, una vescica d’aria, un peto, una gronda che casca a pezzi.

E dov’erano quelli che dovevano capirlo subito? perché noialtri in fondo chi eravamo, studenti, precari, maestrini che in fondo della vita non sanno un cazzo, tirano a indovinare e sperano di non prenderci; ma dov’erano i grandi che operano nel retroscena, e i famosi Poteri Forti, ma che razza di Potere Forte lascia che un Paese vada a pezzi per un personaggio così; ma non eravate abbastanza forti da schiacciarlo, almeno all’inizio? Ci voleva così tanto a capire, se l’avevamo capito persino io o te? Eravamo profeti o facevamo soltanto uno più uno uguale a due?

E che anni sono stati, a cercar di buttar giù in qualsiasi modo un marciume, un catorcio che comunque cadrà, quand’è il momento; certo prima dell’impero bizantino.

E insomma su questa gronda, che è marcia e non cade, penso con qualche gioia che un giorno basterà che una rondine si posi un attimo, perché tutto nel vuoto precipiti irreparabilmente, quella volando via. E sul serio non m’importa se non ci sarò più io. Neanche tu ci sei, per questo.

coccodrilli, italianistica, poesia

Alla maniera del vecchio ES

questo è il decreto intercettazioni, questa è la tregua di Madrid
fra Moratti e Mourinho, è la Red Bull di Webber, è il pesco
fiorito, è ‘o puorpo gigante: ma se volti il foglio, Leonardo
ci vedi il denaro:
                          questi sono i pianeti extrasolari, questa è la New Town
dell’Aquila
, è la lavagna interattiva, è il primo volume dei Poetae
Novissimi, sono le scarpe, sono le bugie, è il CdR del Sole24Ore, è Noemi,
è una mail che mi è arrivata oggi dalla Thailandia, è il botox,
è la gravidanza assistita: ma se volti il foglio, Leonardo, ci vedi
il denaro:
               questa invece è la buonuscita di Santoro, è il Presidente
che prende google per un cappotto, è il petrolio nel Golfo del Messico,
è il federalismo, l’otto per mille, il cinque in condotta,
i boia delle Diaz: ma se volti il foglio, Leonardo, ci vedi
il denaro:
               e questo è il denaro,

e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:

ma se volti il foglio, Leonardo, non ci vedi niente:

(L’originale , assai diversa, era Purgatorio de L’Inferno 10)

Postilla: qualche giorno fa a Filippo Facci e Antonio Socci è scappato di scrivere che “Regalare alla sinistra Roberto Saviano sarebbe una delle sciocchezze più tragicomiche che il centrodestra potrebbe fare”, e che “Saviano, oltretutto, ha una formazione culturale fin troppo di destra”. Anche se mi scappa da ridere, non ho nessuna intenzione di disputare Saviano a cotanti avversari, manco fosse il pupazzetto appeso a un canto del calcinculo: se a destra c’è gente che prova ad acchiapparlo, tanto meglio per loro (e forse anche per lui, coi tempi che corrono). Vorrei solo spiegare perché, malgrado l’autorevole opinione di Facci e Socci, continuo a considerare Roberto Saviano dalla mia parte.

Si tratta di una cosa banalissima: per me Saviano è di sinistra perché dietro a ogni pagina si ostina a vedere il denaro. Le sue indagini non sono sempre rigorose, il quadro è spesso incerto, e in agguato c’è sempre la tentazione di buttarla in epica: però Saviano è uno dei pochi in questi anni che volta il foglio, o almeno ci prova. Romanzo, non romanzo, è un dibattito che non m’ha mai appassionato. Io sto con Saviano perché dove gli altri vedevano sangue e piombo, lui vede economia. L’Istituto Bruno Leoni non approva, è un buon segno. Io credo che Saviano abbia trovato la chiave giusta, così come credo a cose un po’ scipite e fuori del tempo come la lotta di classe (e mentre lo dico immagino Facci che mi dà del matto e Socci che si tappa le orecchie e invoca la Madonna). Se pensate che sia roba vecchia, anacronistica, che la sinistra debba trovare altre posizioni, non c’è problema. Andate, fate, e prendetevi pure la parola “sinistra”, non ci sono affezionato. Non ci tengo particolarmente a passare per uno “di sinistra”. Come te (come tanti, spero) io spero di essere “lo stupido antifascista”, non altro: un insegnante, uno scribacchino, un vetero-:

coccodrilli, italianistica, poesia

Postkarten 49

(Il blogger è morto):

per preparare un post, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente
fresco di giornata): c’è una ricetta simile in Stendhal, lo so, ma infine
ha un suo sapore assai diverso: (e dovrei perderci un’ora almeno, adesso,
qui, a cercare le opportune citazioni: e francamente non ne ho voglia); conviene curare
spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito, sono gli ingredienti
più desiderabili, nel caso: (item per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe:
da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili): ho fatto il nome
di Stendhal: ma, per lo stile, niente codice civile, oggi (e niente Napoleone, dunque,
naturalmente): (si può pensare, piuttosto, al Gramsci dei Quaderni, delle Lettere, ma
condito in una salsa un po’ piccante: di quelle che si trovano, volendo, là in cucina,
presso il giovane Marx): e avremo una pietanza gustosamente commestibile, una specialità
verificabile: (verificabile, dico, nel senso che la parola può avere in Brecht, mi pare,
in certi appunti dell’Arbeitsjournal): (e quanto all’effetto V, che ci vuole, lo si ottiene
con mezzi modestissimi): (come qui, appunto, con un pizzico di Artusi e Carnacina): e
concludo che il blog consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole come
in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute
e brevi: (che si stampano in testa, cosi, con un qualche contorno di adeguati segnali
socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore):
(che vengono a significare, poi, nell’insieme: attento, o tu che leggi, e manda a mente):

economie, poesia

Saldi

Tesoro

Dici: “Sei troppo complicato”:
tesoro, e ancora non m’hai visto il 740.

Dici: “Libertà, quanti crimini in tuo nome”:
molti più in nome di un Mutuo, fidati.

Dici: “Il nostro mondo non è in vendita”;
ma aspetta un attimo, no? Sentiamo che prezzo fanno.

Dici: “Sei uno stronzo!” Ma è una mimetica, Tesoro:
qui in mezzo non mi troveranno mai.

Montale, poesia, scuola

La figura salvifica

Che senso ha un altro tema di maturità su Montale, dopo quattro anni? (Forse nessuno. Coincidenze. Ma interpretarle è una tale tentazione).

La sensazione è che questo Montale (soprattutto il Montale anteguerra che esce sempre alla maturità) si stia pian piano trasformando nel Carducci del XXI secolo: un monumento alieno e ingombrante a cui nessuno si accosterebbe mai, se non lo costringessero appunto a scuola. Oppure il nostro Manzoni: in fondo un tema sul “ruolo consolatorio e salvifico della figura femminile” tiene il posto che negli anni Sessanta avrebbe avuto un tema sulla “religiosità nei Promessi Sposi”. Va da sé che Montale non se lo merita (se per questo nemmeno Manzoni, e perfino Carducci): ma come il temino sui Promessi Sposi era il paravento dietro il quale allignava il conformismo dei bigotti, oggi ti basta un po’ grattare perché dagli arazzi adorni di figure femminili “salvifiche” s’intraveda una società pagana che nelle gonnelle fruscianti dell’ultima starletta trova l’unico punto di riferimento. Insomma, io oggi in un tema su Montale ci caccerei il matrimonio dei Briatore: per fortuna che sono maturato già da lunga pezza.

Invece accludo il temino che ho scritto 4 anni fa. Tempi di repliche, sì, ormai siamo in estate.

Che tu t’intenda di tornio o di computer; di pianoforte o di niente, semplicemente; che tu sia bianco o nero, giallo o marron; non importa. Se sei italiano, ti tocca fare il tema d’italiano. Come il battesimo e i tre giorni, quei quattro fogli protocollo ogni mesemmezzo di scuola non te li leva nessuno. Che poi, a cosa serve il tema d’italiano? A diventare più bravi. Bravi a fare cosa? A fare il tema d’italiano. C’entrerà col fatto che l’Italia è ricca di editorialisti e corsivisti, tutta gente che al liceo prendeva ottopiù. I più sfigati, invece, aprono i blog, dove possono continuare a scrivere temini d’italiano tutta la vita (e qualcuno che ti dia un ottopiù lo trovi sempre). Ma di chi è la colpa? I titoli di quest’anno ci suggeriscono una pista. Impervia, scabrosa, ma affascinante. La pista ligure.

È tutta colpa di… Eugenio Montale
Oddio, tutta colpa sua, no: ma le sue brave responsabilità le ha.
Per esempio, è il principale responsabile di un fenomeno frequente nei mesi finali del quinto anno, e cioè lo stilnovismo di ritorno. La donna angelicata, inavvicinabile, che salva il povero poeta con uno sguardo o viceversa, lo danna negandogli un saluto… insomma tutto l’apparato iper-romantico che nella migliore ipotesi era stato introiettato e metabolizzato nel terzo anno, con Tanto gentile e tanto onesta pare etc.. (Per fortuna che dopo Dante e Petrarca c’è Boccaccio, a incoraggiare la socializzazione tra studenti di sessi opposti). Chi poteva immaginarsi che lo stilnovismo sarebbe rientrato dalla finestra, proprio a metà del Novecento? Quando poi i diplomandi cominciano a chinare la schiena nel corridoio, e tremano e non riescono a salutare la biondina del quarto anno che pare splendere di luce propria, di chi è la colpa? Di Marylin Manson, magari. Ma una volta su cento, sarà pure colpa di Eugenio Montale.

Si veda la poesia proposta alla maturità, la Casa sul Mare. È degli anni Venti, ma avrebbe potuto essere dei Quaranta. Sempre la solita storia, la vita è male, il viaggio è finito, forse tu ti puoi ancora salvare, lo spero tanto, addio. E a quel punto ti immagini il giovane Eugenio morente tra le braccia, non so, di Greta Garbo, e un crescendo di violini della Paramount:

Greta: “Eugenio, sono io!”
Eugenio: “Tu… ma ormai è troppo tardi. Addio”.
Greta: “No! Eugenio! Non dire così! Possiamo farcela”.

Eugenio: “Tu. Tu puoi ancora farcela. Salvati finché sei in tempo”.
Greta: “Oh, Eug…”
Eugenio: “Vorrei prima di cedere segnarti codesta via di fuga labile come nei sommossi campi…” Greta: “Eugenio! Ma perché non si capisce mai quello che dici…”

Perché usava parole strane (atte a farsi apprezzare dai prof di lettere), sembra un poeta più serio d’altri, quel giovane Montale: ci vuole un certo sforzo esegetico per rendersi conto che, tutto sommato, è solo il classico poeta un po’ disperato e un po’ timido con le ragazze. Per capire la sua poetica, gli studenti sottolineano l’espressione “Correlato Oggettivo”, qualcosa che Montale pretendeva di aver inventato in anticipo su T. S. Eliot: in sostanza, una pratica di bigiotteria interiore, per cui qualsiasi ninnolo, un orecchino, una forbice, una carrucola, una biella, diventava rappresentazione del male di vivere (o della donna-angelo, a scelta). E a quel punto la poesia diventava una cornucopia di soprammobili, tabacchiere, foto ingiallite, cocci di bottiglia, cassettini, scantinati, se siete un po’ allergici agli acari e alle muffe non vi consiglio la poesia di Montale.

Qui bisogna aggiungere una cosa: nel suo eterno rovistare cantine e solai, nel suo riverniciare in stile Novecento carabattole stilnoviste e arie di melodrammi, Montale è stato il migliore. Se il poeta è un artigiano di parole, in Italia non ce n’è stato uno più bravo di lui. Ma – questo è il punto – il poeta nel Novecento voleva essere un’altra cosa. Un progettista. Il secolo era iniziato a furia di manifesti, decaloghi, diktat: “le poesie si fanno così e così”. Poesie automatiche, facili da comporre, bastava seguire le istruzioni. Varie volte nel secolo si è riproposta quest’ansia progettatrice, che magari non creava belle poesie, ma formava generazioni di aspiranti poeti. Tra una generazione e l’altra, rispuntava Eugenio Montale, puntuale come la risacca. Montale non spiegò mai agli altri come dovevano scrivere: lui stesso non era del tutto in grado di spiegare quel che faceva. Un vecchio falegname, che nell’era del truciolato si ostina a montare i suoi pezzi a mano. Una cosa molto veteroborghese, proprio anni Trenta, ma sulla distanza il truciolato lo sbatti via, e ai muri ci metti lui.

Così, anche chi con lo stilnovismo ha definitivamente chiuso, non può fare a meno di sobbalzare ai primi tre versi: Il viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido… forse non dice un granché di nuovo, ma si poteva dire meglio di così? (Continua)

fratelli d'I., poesia, repliche

– calpesti & derisi


Siam pronti alla vita

Fratelli d’Italia,
l’Italia è un po’ stanca.
è al verde, va in bianco,
e il rosso l’ha in banca.
Dov’è la Vittoria,
diciamolo, dove?
Siam qui dalle nove
e Vittoria non c’è.



Fratelli d’Italia,
l’Italia è per terra,
in crisi, in declino,
e pure un po’ in guerra.
Dove sei, Vittoria,
la volta che servi?
Che rabbia, che nervi,
l’Italia imprecò.

Fratelli d’Italia, l’Italia è un po’ a pezzi,
per quanto la osservi non ti raccapezzi:
ché dopo quattr’anni di aiuti a Tremonti,
né mari né monti ne possono più.

Fratelli d’Italia, l’Italia è precaria:
stivale spaiato che scalcia nell’aria.
Dov’è la Vittoria? Ma quanto fattura?
Di monte in pianura l’Italia franò.


Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è una pena:
ogni uomo per Silvio
ha dolori alla schiena.
Del sangue d’Italia
non sei già satollo?
Vuoi spezzarci l’ossa?
vuoi pure il midollo?


Fratelli d’Italia,
l’Italia sta fresca.
Di quanti cantieri
si cinse la testa…
Dov’è la Variante?
Perché è così tardi?
Chiedete a Lunardi,
l’Italia non sa.
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è rotta:
nessuno al timone
che tenga una rotta.
Dov’è la Vittoria
(o almeno un Pareggio?)
Qui dal male al peggio
in picchiata si va.


Fratelli d’Italia,
rompete le righe.
Chi mai v’ha promesso
cinque anni di sfighe?
E chi v’ha arruolato
alla guerra infinita,
pensando a una gita,
l’Italia tradì.
(Si stringono a corte,
– ma con un’ “o” sola! –
Son pronti alla morte,
finché è una parola.
Si stringono a corte,
a leccare il più forte,
se ha le gambe corte
in ginocchio si stan).


Noi siam da cinque anni
calpesti e derisi,
perché siam coglioni,
perché siam divisi.
Vogliamo un po’ bene
a ‘sto suolo natìo?
Uniti, perdio,
chi vincer ci può?
Fratelli d’Italia,
sorelle, cognate,
non datevi vinti,
non vi rassegnate.
L’Italia è in ginocchio,
ma non è finita.
Siam pronti alla vita,
l’Italia chiamò.


Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò
Berlusconi, campagna elettorale (permanente), cattiva politica, elezioni politiche 2006, poesia

– post coitum


Non-fingere

Salve, proprio io, non te l’aspettavi, eh?
Nel bel mezzo del tuo lavoro squallido.
E sì che sono io, insomma non ti fidi?
Mi hai preso per un comico? Macché
Nessuno sa imitarmi come me.

E dunque eccitami, su, è il tuo mestiere, o no?
Dimmi che vuoi votare solo me.
Non devi fare finta, con me non puoi far finta,
Io me ne accorgo, e poi ti pago bene,
dimmi che vuoi votare solo me.

Non è come tu pensi, io non mi sento solo:
stasera ero a un comizio, la gente mi invocava,
la cena, e poi gli autografi, non riuscivo ad andar via.
(La gente non lo vuole, tu questo lo capisci,
la gente mi ama troppo, la gente non vorrebbe
vedermi mai andar via).
Così si è fatto tardi, il sonno mi è passato,
in tv film di merda, nessun sondaggio fresco
(tu puoi capirlo – essendo nel settore:
c’è un’ora della notte, un’ora sola, e lunga,
in cui anche l’uomo più amato del Paese
non riesce a farsi dire un solo sì).
Ma tu me lo puoi dire – soltanto, non-far-finta.
Non sono uno di quelli, con me non puoi far finta.
Inoltre pago bene, per cui avanti, dillo,
che vuoi votare solamente me.

E no che non mi annoio, io non mi annoio mai.
Lavoro sedici ore al giorno, non lo sai?
E tu?
Lo vedi, solo dieci, lo vedi come va:
per questo io faccio il leader, tu la centralinista.
E in più io sono figlio di un professionista
Mentre tuo padre era operaio, vero?
– ma devi dirla giusta, con me non puoi far finta,
io me ne accorgo subito, e inoltre pago bene,
per questo sai che voterai per me.

Ci pensi a quante cose in comune, tra me e te:
noi arrapiamo il popolo, questo è il nostro mestiere.
E quante cose io potrei insegnarti
sull’essere gentile, disposta e mai sincera,
soprattutto mai sincera – sennò ti vien da ridere,
e non si deve ridere! S’ammoscia se tu ridi.
Sorridere bisogna, a denti stretti, sempre
sorridere e sudare, è questo il mio mestiere
(e il tuo, natuaralmente).
Ma stanotte è diverso.
Stanotte non puoi fingere, ti parlo da collega,
se fingi lo capisco, se fingi non ci riesco.
Ti prego, sii te stessa
E dimmi che vuoi votare solo me.

Ma sì, mi rendo conto
Che il tempo è denaro per entrambi.
Tu sai la tua tariffa al minuto, ma la mia?
Lo sai quanto vi costo al minuto, signorina?
Non puoi saperlo, è un conto che ho fatto solo io
Non lo sa neanche Giulio (del resto lui è una frana
Con la calcolatrice).
Ma quasi quasi, sai? A te io lo direi
mi sembri un tipo ammodo, lo sai che me ne intendo
E inoltre pago bene, perciò mi devi dire
che vuoi votare sempre e solo me.

È solo un mio capriccio, sondaggi io ne ho,
e guardacaso dicono quello che voglio io
(del resto è matematico, più paghi più hai ragione
non devi dirlo a me).
Io sono nel settore da trent’anni, si può dire
che i trucchi del mestiere te li ho inventati io
È un gioco troppo facile: più paghi più hai ragione.
Io forse pago troppo, ma questo non vuol dire
che tu ora possa fingere, io me ne accorgo subito,
perciò ora sii sincera, prova a essere sincera
nel dirmi che tu voterai per me.

Non ridere, non ridere,
non c’è niente da ridere:
è quell’ora della notte,
e io ti pago, sai.

Cerca di rilassarti, sii te stessa,
parlami un po’ di te, ce l’hai un ragazzo?
Cosa? Hai una bimba? Fantastico! E si chiama?
Silvia! Ma pensa! Che bel nome! Silvia!
E il padre? Ma perché non vi sposate, voi ragazzi?
Io me lo chiedo sempre, perché non vi sposate?
La famiglia è importante, il mettere su casa,
e io posso anche aiutarvi.
L’assegno famigliare, vi toglierò le tasse,
vi laverò la macchina – se tu sarai sincera
devi essere sincera,
e dire che tu voterai per me.

Non può essere altrimenti,
non sei una cogliona.
Sei una che lavora,
non stai coi comunisti.
Mi sembri un tipo ammodo
Senz’altro intelligente
Bella presenza, immagino
– e io non sbaglio mai.
Perché non vieni su
a Cologno, un giorno o l’altro?
Un talento come te
è sprecato per le hotline.
Tu hai tutto quel che serve per sfondare.
Ti basta essere te stessa
– avanti, sii te stessa –
quando dici che mi vuoi
votare, che tu vuoi
votare solo me.

Adesso
Vuoi votare solo me
Dimmelo
Dimmelo
Non Fini, non Casini
Con Prodi non ci godi
Tu vuoi votare solamente me
Dimmelo
Dimmelo
Ma devi essere sincera
Se non sei sincera non ci riesco
Se non sei te stessa io non posso
E se scoppi a ridere io non…

Clic

Ma cribbio, cos’hanno tutte stanotte? Fanno le preziose, fanno.
Con quel che costano.
Proviamone un’altra, va.

lotta quotidiana, poesia

– giorno difficile

Traducendo Brecht

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Franco Fortini

leggere, Montale, poesia, scuola

Che tu t’intenda di tornio o di computer; di pianoforte o di niente, semplicemente; che tu sia bianco o nero, giallo o marron; non importa. Se sei italiano, ti tocca fare il tema d’italiano. Come il battesimo e i tre giorni, quei quattro fogli protocollo ogni mesemmezzo di scuola non te li leva nessuno.

Che poi, a cosa serve il tema d’italiano? A diventare più bravi. Bravi a fare cosa? A fare il tema d’italiano. C’entrerà col fatto che l’Italia è ricca di editorialisti e corsivisti, tutta gente che al liceo prendeva ottopiù. I più sfigati, invece, aprono i blog, dove possono continuare a scrivere temini d’italiano tutta la vita (e qualcuno che ti dia un ottopiù lo trovi sempre). Ma di chi è la colpa? I titoli di quest’anno ci suggeriscono una pista. Impervia, scabrosa, ma affascinante. La pista ligure.

È tutta colpa di… Eugenio Montale

Oddio, tutta colpa sua, no: ma le sue brave responsabilità le ha.

Per esempio, è il principale responsabile di un fenomeno frequente nei mesi finali del quinto anno, e cioè lo stilnovismo di ritorno. La donna angelicata, inavvicinabile, che salva il povero poeta con uno sguardo o viceversa, lo danna negandogli un saluto… insomma tutto l’apparato iper-romantico che nella migliore ipotesi era stato introiettato e metabolizzato nel terzo anno, con Tanto gentile e tanto onesta pare etc.. (Per fortuna che dopo Dante e Petrarca c’è Boccaccio, a incoraggiare la socializzazione tra studenti di sessi opposti). Chi poteva immaginarsi che lo stilnovismo sarebbe rientrato dalla finestra, proprio a metà del Novecento? Quando poi i diplomandi cominciano a chinare la schiena nel corridoio, e tremano e non riescono a salutare la biondina del quarto anno che pare splendere di luce propria, di chi è la colpa? Di Marylin Manson, magari. Ma una volta su cento, sarà pure colpa di Eugenio Montale.

Si veda la poesia proposta alla maturità, la Casa sul Mare. È degli anni Venti, ma avrebbe potuto essere dei Quaranta. Sempre la solita storia, la vita è male, il viaggio è finito, forse tu ti puoi ancora salvare, lo spero tanto, addio. E a quel punto ti immagini il giovane Eugenio morente tra le braccia, non so, di Greta Garbo, e un crescendo di violini della Paramount:

Greta: “Eugenio, sono io!”
Eugenio: “Tu… ma ormai è troppo tardi. Addio”.
Greta: “No! Eugenio! Non dire così! Possiamo farcela”.
Eugenio: “Tu. Tu puoi ancora farcela. Salvati finché sei in tempo”.
Greta: “Oh, Eug…”
Eugenio: “Vorrei prima di cedere segnarti codesta via di fuga labile come nei sommossi campi…”
Greta: “Eugenio! Ma perché non si capisce mai quello che dici…”

Perché usava parole strane (atte a farsi apprezzare dai prof di lettere), sembra un poeta più serio d’altri, quel giovane Montale: ci vuole un certo sforzo esegetico per rendersi conto che, tutto sommato, è solo il classico poeta un po’ disperato e un po’ timido con le ragazze. Per capire la sua poetica, gli studenti sottolineano l’espressione “Correlato Oggettivo”, qualcosa che Montale pretendeva di aver inventato in anticipo su T. S. Eliot: in sostanza, una pratica di bigiotteria interiore, per cui qualsiasi ninnolo, un orecchino, una forbice, una carrucola, una biella, diventava rappresentazione del male di vivere (o della donna-angelo, a scelta). E a quel punto la poesia diventava una cornucopia di soprammobili, tabacchiere, foto ingiallite, cocci di bottiglia, cassettini, scantinati, se siete un po’ allergici agli acari e alle muffe non vi consiglio la poesia di Montale.

Qui bisogna aggiungere una cosa: nel suo eterno rovistare cantine e solai, nel suo riverniciare in stile Novecento carabattole stilnoviste e arie di melodrammi, Montale è stato il migliore. Se il poeta è un artigiano di parole, in Italia non ce n’è stato uno più bravo di lui. Ma – questo è il punto – il poeta nel Novecento voleva essere un’altra cosa. Un progettista. Il secolo era iniziato a furia di manifesti, decaloghi, diktat: “le poesie si fanno così e così”. Poesie automatiche, facili da comporre, bastava seguire le istruzioni. Varie volte nel secolo si è riproposta quest’ansia progettatrice, che magari non creava belle poesie, ma formava generazioni di aspiranti poeti. Tra una generazione e l’altra, rispuntava Eugenio Montale, puntuale come la risacca. Montale non spiegò mai agli altri come dovevano scrivere: lui stesso non era del tutto in grado di spiegare quel che faceva. Un vecchio falegname, che nell’era del truciolato si ostina a montare i suoi pezzi a mano. Una cosa molto veteroborghese, proprio anni Trenta, ma sulla distanza il truciolato lo sbatti via, e ai muri ci metti lui. Così, anche chi con lo stilnovismo ha definitivamente chiuso, non può fare a meno di sobbalzare ai primi tre versi: Il viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido… forse non dice un granché di nuovo, ma si poteva dire meglio di così?

(Continua)

nostalgia, poesia

(Il pezzo di ieri in realtà era questo).

PLAGIO DA VERLAINE

Nel vecchio parco, sui viali innevati
due antichi amici si sono incontrati

Tra i freddi marmi e tra le grigie aiuole
ne echeggiano leggere le parole

Nel vecchio parco, buio e congelato
due spiriti rievocano il passato.

Rammenta, deh, la nostra estasi antica?
“No, francamente non ricordo mica”.

Mi tiene ancora giorno e notte in mente?
E quando sogna, sogna me?
“Per niente.”

Ah quei bei giorni in cui era dolce amarsi,
tra verdi siepi, io e lei…
“Può darsi”.

E azzurro il cielo, e grandi le speranze!
“Venne poi Autunno a chiudere le danze”.

Nel vecchio parco, dai viali innevati,
due spiriti si sono congedati.

Tra i freddi marmi e tra le grigie aiuole
si perdono, leggere, le parole.

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Maestri di vita (7) – Quinto Orazio Flacco

Di solito non mi pesa troppo il mio lavoro, tranne la notte del giovedì.
Venerdì mattina ho cinque ore di seguito, e per me sono molte, cinque ore d’italiano ai sordi. Ma se voi ne fate di più (com’è probabile) adesso mi state già invidiando: faccio un lavoro stimolante, poche ore al giorno, e mi lamento. Di cosa mi lamento?
È intutile spiegare. Orazio ha già scritto una nota satira al riguardo.

Come mai, Mecenate,
nessuno, nessuno vive contento
della sorte che sceglie
o che il caso gli getta innanzi
e loda chi segue strade diverse?

Giovedì sera ho una riunione con amici, che spesso va avanti fino a tardi. Quando alla fine arrivo nel piazzale, parcheggio sempre davanti a un signore che dorme sotto il portico. Nella bella stagione lo trovo ancora alzato: leggiucchia la Gazzetta dello Sport prima d’imbottirne il sacco a pelo. Ma adesso è inverno, e il termometro della mia auto a volte segna meno cinque.
Così mi capita, giovedì dopo giovedì (per l’orologio è già venerdì mattina) di passare davanti a questo signore, e invidiarlo. Perché domani lui si sveglia quando vuole, e non deve fare le cinque ore che faccio io.

Penso a questa cosa, nel piazzale: e siccome c’è un gran silenzio a quell’ora, mi capita di ascoltare il mio stesso pensiero: e ascoltandolo, me ne vergogno.
Poi giro l’angolo, e già sto pensando a domani, a quello che devo fare per passare cinque ore dignitose… e quel signore già l’ho dimenticato. Fino al giovedì seguente.

“Beati i mercanti”,
esclama il vecchio soldato,
le ossa rotte da tanta carriera;
“Meglio la vita militare”,
ribatte il mercante sulla nave in burrasca,
“Vuoi mettere? si va all’attacco
e in breve o muori o vai in trionfo”.

Quando finirà? In giugno, forse, e poi troverò un lavoro più soddisfacente. Anche quello che faccio adesso, non è così male: ma non è normale trovarsi a invidiare un senzatetto, anche solo per un minuto alla settimana.
Ho la sensazione, però, che non finirà in giugno, né in settembre, né più tardi: che continuerò a invidiare i senzatetto e i benzinai, gli assistenti universitari e gli autisti dei furgoni, e continuerò ad agitarmi inquieto nel mondo del lavoro, come il malato nella branda, fino all’età della pensione (quale pensione?) e anche oltre.

E come faccio a saperla così lunga? Facile. Ho letto Orazio, io.

A farla breve, senti
dove voglio arrivare:
se un dio dicesse: “Eccomi qui,
pronto a fare ciò che volete:
tu, da soldato, sarai mercante,
e tu, giurista, un contadino:
scambiatevi le parti
e via, uno di qua, l’altro di là.
Che fate lí impalati?”

Rifiuterebbero,
eppure avrebbero potuto essere felici.
Non ha forse ragione Giove
a sbuffare irritandosi con loro
e a sancire che d’ora in poi
non sarà piú tanto arrendevole
da porgere orecchio a preghiere simili?

Quinto Orazio Flacco, Sermones I, 1.

È commovente (e un po’ triste) accorgersi che duemila anni, il motore a scoppio, la penicillina, i pomodori e la cibernetica non ci hanno cambiato più di tanto.

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Fate colpo in società con il…
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Se lavorate dalle sei alle otto ore al giorno (e non dite di più, cazzeggiatori dissimulati che non siete altro), se passate un’ora nel traffico urbano e un’altra oretta e mezza nel traffico telematico, a evadere posta elettronica e leggere blog sempre interessantissimi, come questo; se appartenete a quella bolsa schiera di persone che non riescono a fare a meno di dormire almeno sei ore su 24; se mangiate, bevete, evacuate con la medesima banale regolarità; se avete una famiglia che gradirebbe in qualche modo interagire con voi nelle restanti ore del giorno (tacendo degli amici, della tv, dei concerti e di quando forse vale la pena di restare fermi a fissare il soffitto), la domanda sorge spontanea: che tempo vi resta per farvi una cultura?
Una cultura seria, dico, mica i fumetti.

“Adesso che ci penso hai proprio ragione, è da tanto che non leggo un libro, e l’ultimo era una scemenza pompata dal tale ufficio stampa, ma quando in società si parla di Dostoevskij mi faccio piccolo piccolo”.

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Come si usa? Facile. Tu impari a memoria la frase e non devi più leggere nulla dello specifico autore. Lo so che sembra assurdo, ma ti garantisco che funziona! Io lo sperimento da anni, e la gente mi porta rispetto. Provalo! È gratis!

Calvino, Italo: scrittore del Novecento. Ha scritto da qualche parte che bisogna essere leggeri, sempre molto leggeri. Ogni volta che qualcuno tira fuori la parola “leggerezza”, voi rubategli le parole di bocca ribadendo immediatamente: “Eh, sì, la leggerezza di Calvino”. La discussione si avvierà rapidamente alla conclusione.
(Calvino è uno degli scrittori italiani più complessi e pesanti, ma questo non occorre saperlo).

Pasolini, Pierpaolo: gay del Novecento. Quando i poliziotti menavano i sessantottini, lui stava coi poliziotti, perché erano veri proletari. Citarlo il giorno prima e il giorno dopo di qualsiasi scontro di piazza.
(Poi un giorno qualcuno, probabilmente più vicino a un poliziotto che a un sessantottino, gli passò e ripassò sopra con una macchina, ma questo non occore saperlo).

Brecht Bertolt: chi dice un comunista, chi un rapinatore, comunque del Novecento. Di lui bisogna saper recitare: “il vero ladro non è chi rompe una banca, ma chi la fonda”. È una frase che ti dà un tono, specie se ti trovano con una spranga davanti a un bancomat. Ha detto anche che, se tutti i posti sono occupati, bisogna sedersi dalla parte del torto. Cosa volesse dire non lo so, ma intanto accomodiamoci.

Manzoni, Alessandro: scrittore che si studia a scuola, quindi l’avete studiato anche voi, fa nulla se non vi ricordate il finale, tanto si sapeva fin dall’inizio che quei due si sposano. Cattolico, noioso, superato. La Divina Provvidenza, figurati. Una volta, al dipartimento d’Italianistica, una tipa mi disse che forse era gay.

Leopardi, Giacomo: poeta che si studia a scuola, di solito in quinta superiore a novembre (e le statistiche sui suicidi degli adolescenti levitano). Gobbo che viveva a Recanati e odiava tutti, tranne le donzellette già morte. Ha scritto poesie immortali sull’infelicità, però, diciamocelo, in quanto gobbo gli venivano facili.

Baudelaire, Charles: poeta dell’Ottocento. Eh, chissà che roba che si fumava. Ha scritto… ha scritto… ha scritto delle poesie indimenticabili, come per esempio… per esempio… il Battello Ebbro, non era suo? Ah, era di Rimbaud? Vabbè, tanto più o meno si fumavano la stessa roba.

Schopenhauer, Arthur: filosofo dell’Ottocento. Insegnava nelle stesse ore di Hegel per fargli dispetto. Diceva che tutto è vanità. Ai banchetti si abbuffava e tesseva le lodi del suicidio. Buttò una vecchietta giù dalle scale.

Wittgenstein, Ludwig: filosofo del Novecento. Ha scritto: “di quello che non si può parlare bisogna tacere”: è una frase che può venire molto utile, specie dopo le due del mattino. Picchiava i bambini.

Dostoevskij, Fëdor: scrittore dell’Ottocento. Nei suoi romanzi ci si interroga sul cos’è il Bene, così il Male, e se esista Dio: problemi che potevano venire in mente solo a un vecchio russo pazzo come lui. Forse ha s t u p r a t o dei bambini, ma non è sicuro.

Heidegger, Martin: filosofo del Novecento, uno dei più importanti. Ecco, io, se devo essere onesto, non ho mai capito assolutamente di cosa parlasse, e nelle conversazioni mi sono più di una volta rifugiato nel luogo comune: “Heidegger, ah, sì, quel nazista di merda”. Ma sotto sotto mi vergognavo. Poi, finalmente, domenica scorsa ho trovato sulla Repubblica un pezzo di Gianni Vattimo (pag. 35), e mi ci sono buttato con impegno:

La filosofia di Heidegger è una filosofia dell’emancipazione attraverso la riduzione del peso dell’essente a favore dell’essere. La frase di Sein und Zeit: “Essere, non ente, si dà nella misura in cui c’è verità; e verità c’è solo in quanto c’è l’esserci”, va letta, alla luce di tutta l’opera heideggeriana e anche dell’ermeneutica che si è sviluppata da lui, come un “imperativo” più che un indicativo. Dal resto non si può pensare che Heidegger voglia mai comunque “descrivere” o enunciare una qualche verità su come l’essere, le cose, l’esserci, è: giacché non ha mai creduto alla corrispondenza e dunque alla filosofia come descrizione dell’essere o del reale…

Heidegger dunque, beh…
Che nazista di merda
.

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poesia

IL CUORE BATTE ASINCRONO,
e un pendolo tagliente
spezza la notte in schegge per l’insonnia più insolente;
zanzare i miei pensieri che
s’appressano all’orecchio,
ed il cuscino è un sasso freddo e frigido, ed invecchio.

E tu, che se telefono
mi dici di star zitto,
non posso lamentarmi,
non ne ho neanche il diritto
ho un posto un nome un numero
due esami ogni sessione:
è solo un esercizio questa mia disperazione

La vita ha le sue tattiche
per farti stare in pari:
affolla le rubriche,
gremisce i calendari
appuntamenti ed assemblee e colloqui di lavoro:
tu cedi solo un attimo e sei già in fila col coro.

La vita ha le sue strategie
per farti stare al gioco,
anche se il polso è debole,
e il cuore scarta un poco:
impulsi elettrostatici
ti guidano al magnete:
tu cedi appena un minimo e sei già in fondo alla rete.

E tu, se poi telefono,
mi dici di tacere:
so solo lamentarmi,
ormai è il mio mestiere
il mondo intero oscilla sui
miei sbalzi di pressione:
è un gioco stanco e logoro la mia disperazione.

Il cuore batte asincrono,
e un pendolo tagliente
spezza la notte in schegge per l’insonnia più…

(’97, credo. Oggi mi è tornata in mente).