Senza categoria

La Madonna che veniva dal letame

8 maggio: Madonna di Pompei, immagine miracolosa

Le Madonne in giro per il mondo potrebbero dividersi in due fondamentali insiemi: le apparizioni e le raffigurazioni. Può essere difficile distinguerle perché il culto tende a eliminare la differenza: dove appare una Madonna, presto o tardi viene prodotta un’immagine, la quale in certi casi si lega all’apparizione al punto che i fedeli danno la sensazione di attribuire i miracoli più all’immagine che all’apparizione. Però in certi casi l’apparizione proprio non c’è, o viene inventata a posteriori (probabilmente è il caso della Vergine della Guadalupe): quello che all’inizio stimola il culto è una raffigurazione alla quale vengono attribuite proprietà miracolose. Una caratteristica peculiare di quasi tutte queste raffigurazioni è che sono in un qualche modo rovinate: a volte si tratta di relitti rinvenuti dal mare (come la Madonna Candelaria delle Canarie, o la Vergine dell’isola di Barbana). Si tratta di manufatti che sorprendono chi li trova, scolpiti o dipinti in stili sconosciuti che alludono a luoghi lontani e inimmaginabili – una madonna nera in Polonia, una bianca in Giappone. Il loro stesso rinvenimento ha qualcosa di miracoloso, un segno di Maria dallo spazio profondo. Questo spiega anche perché nell’età moderne questa tipologia di Madonne sia diventata più rara (senza sparire del tutto): man mano che il mondo si faceva più piccolo e interconnesso, scoprire madonne diverse e sconosciute diventava più difficile, tant’è che a partire dall’Ottocento Maria comincia a sentire l’esigenza di apparire direttamente ai fedeli. E però ogni tanto qualche Raffigurazione miracolosa continua a spuntare qua e là, sempre grazie ad avvenimenti fortuiti che scatenano un corto circuito: ad esempio a Sant’Anastasia (NA) un’immagine non molto riuscita della vergine si impone al culto dopo essere stata ammaccata da un giocatore di pallamaglio: un caso che sembra suggerirci che l’imperizia di un artista non basti. Perché un’immagine s’imponga alla venerazione deve intervenire qualche forma di danneggiamento più o meno volontario. Ed eccoci al caso della Madonna di Pompei. 

Una delle più famose madonne dell’Italia (e quindi della cristianità), ma anche di quelle più documentate: proprio alle pendici del Vesuvio, che è il vulcano più studiato del mondo, troviamo questa raffigurazione miracolosa di cui sappiamo apparentemente tutto: quando arrivò in loco (13 novembre 1875) e chi ne fondò il culto: il possidente Bartolo Longo, benefattore dai trascorsi bizzarri. Da giovane, ci raccontano gli agiografi, avrebbe aderito a una vera e propria setta satanica (o almeno satanica gli era parsa dopo essersene allontanato), diventandone un sacerdote e rimediandone una depressione causata forse anche dalla dieta che gli adepti si autoimponevano – sì, di tutti i satanisti al mondo Longo era riuscito a trovare quelli che digiunavano invece di gozzovigliare: che senso ha, vi chiederete, e forse se l’era chiesto pure lui, prima di incontrare i domenicani che lo avevano rapidamente convertito. 

Dove scopriamo che il satanismo
faceva almeno dimagrire.

Anche le religioni si possono dividere in due fondamentali insiemi: quelle che ti apprezzano così come sei, e quelle che ti propongono un percorso di conversione. Ma cosa vuol dire convertirsi, chiede il fariseo Nicodemo a Gesù: devo forse rientrare nel grembo di mia madre e rinascere? (Giovanni 3,4). Gesù risponde tirando in ballo lo Spirito, per cui non è che sia molto chiaro, ma la parola “conversione” forse dice tutto: non si tratta di svegliarsi diversi, ma di cambiare direzione al getto di vita che portiamo con noi. Longo era stato un satanista spiritato (o uno spiritista assatanato), e nel Rosario forse trova la stessa fissità, la stessa ossessività: un mantra di 150 formule da ripetere sempre uguali. Mentre le reciti, la mente lascia il corpo e riflette sul suo destino. Cosa farà Longo ora che ha scoperto la Via, la Verità, la Vita, e inoltre ha ereditato una cospicua rendita? Si darà alla beneficienza: il napoletano è una terra feconda non solo di nobili esempi, ma anche di territori che di quegli esempi hanno ancora un disperato bisogno. Di lì a poco lo Spirito lo mette in contatto con una contessa appena rimasta vedova, Marianna Farnararo De Fusco, che condivide con lui la missione al punto che Longo la sposa: in questo modo evita di dare scandalo, ma si ritrova anche ad amministrare un latifondo ai bordi degli scavi pompeiani, di cui forse intuisce le potenzialità turistiche. Decide pertanto di costruirvi un santuario alla Madonna del Rosario, e l’intuizione è più che azzeccata:  il santuario diventa in breve una meta di pellegrini da tutt’Italia che possono avvalersi delle infrastrutture che stanno nascendo intorno al sito archeologico – o forse è il sito archeologico che aumenta il numero di visitatori grazie alle infrastrutture cresciute intorno al santuario? Insomma, nel 1901 a Pompei arriva una fermata della Circumvesuviana; non sono ancora così tanti i santuari religiosi raggiungibili in treno. Tutto qui, e forse è un po’ poco, perché la Madonna di Pompei nasce proprio nel periodo più innovativo del marianesimo, il mezzo secolo tra Lourdes e Fatima in cui la Vergine si dà un sacco da fare, con apparizioni sparse per i pascoli di tutta l’Europa cattolica. Ma a Pompei no: rispetto alle altre Madonne coeve, quella pompeiana è molto più fedele al pattern delle raffigurazioni miracolose. Longo non assiste ad apparizioni mariane, bensì si imbatte in un quadro che si rivela ben presto in grado di effettuare prodigi. Ma perché ciò avvenga, occorre che sia stato rovinato e poi restaurato: almeno questa è la storia che gli agiografi raccontano. 

A Longo nel 1875 non mancava certo la liquidità, e a Napoli avrebbe sicuramente potuto trovare pittori in grado di produrre madonne di ottima fattura; persino a Pompei, dove la fame di souvenir dei turisti cominciava a richiamare artisti da tutto il regno, specializzati nel riprodurre gli affreschi antichi. Invece il domenicano padre Radente spinge Longo a bussare al Conservatorio del Rosario di Portamedina, dove suor Maria Concetta De Litala custodisce un vecchio dipinto che si rivela una crosta impresentabile: tarme, strappi, e inoltre la santa a cui la Madonna porge il rosario non è la domenicana Caterina da Siena, ma Rosa da Lima. Longo vorrebbe lasciarla lì, ma suor Maria Concetta insiste e così finisce per caricarla sul carretto. Questo carretto, gli agiografi ci tengono a ricordarlo, di solito trasportava letame: probabilmente trasportava qualsiasi cosa ci fosse da trasportare, ma in un qualche modo è importante ai fini della leggenda ricordare che la Madonna è arrivata a Pompei su un carretto del letame, quella cosa da cui nascono i fiori, comprese le rose (mentre dai diamanti non nasce niente). Una volta giunta a destinazione, Longo la fa restaurare da più specialisti: se ne avesse fatta fare una nuova gli sarebbe sicuramente costata meno, ma a questo punto abbiamo capito che è fondamentale che la Madonna venga da lontano, e abbia trascorsi misteriosi. Rosa da Lima diventa Caterina, e in breve la corona della Madonna comincia ad adornarsi di gioielli veri, donati dai pellegrini per grazia ricevuta. Nel secondo dopoguerra sono stati rimossi, perché contribuivano a deteriorare un dipinto che ormai è un palinsesto. Ma insomma: dal letame le rose, dalle rose i diamanti.

Intorno al volto incoronato della vergine compare un’aureola di dodici stelle, ripresa dal celebre passo dell’Apocalisse (“una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”). Probabilmente l’autore dell’Apocalisse intendeva alludere alla Chiesa dei dodici apostoli o a Israele e alle sue dodici tribù; nel 1955 però una corona di dodici stelle viene proposta tra i bozzetti per il simbolo del Consiglio d’Europa: l’autore, Arsène Heitz, si dichiarerà in seguito fedele alla Madonna, ma probabilmente il richiamo alle dodici stelle era stato fortuito, se non pescato dall’inconscio. I membri del Consiglio d’Europa che approvarono il bozzetto ne ignoravano il riferimento mariano: e però per una coincidenza che delizia i commentatori cattolici, il bozzetto fu approvato proprio l’otto dicembre, festa dell’Immacolata Concezione. Invece domani è il 9 maggio, festa dell’Unione Europea, che dal Consiglio d’Europa riprese la bandiera.

via Blogger https://ift.tt/XAliKdF

Senza categoria

Le classi differenziali esistono già

Le classi differenziali, vedo che se ne riparla. Se ne riparla per nessun motivo, o perché un tizio qualsiasi (un generale in congedo, ma poteva essere un doganiere in pensione, una commessa di tezenis in pausa pranzo) doveva trovare qualcosa da dire in campagna elettorale. Non che nessuno abbia veramente intenzione di spenderci qualcosa, che è l’unica cosa che dovremmo chiedergli, sempre: ah, vuoi istituire classi differenziali? E quanto ci costerebbero? Un po’ brutale, mi rendo conto, ma è una domanda sufficiente a capire se chi chiacchiera ha intenzione di fare sul serio. Per cui in effetti è una domanda retorica: nessuno ha intenzione di fare sul serio. 

Le classi differenziali, uno di quegli argomenti che su questa pagina si ripropone sempre uguale – a riprova che nulla cambia, tranne me, e di sicuro non in meglio. Era uno dei punti su cui mi piaceva aprire fronti interni coi progressisti; poi siamo diventati così pochi che ho lasciato perdere, e tuttavia.

La gente ha sempre questo problema quando pensa alla scuola, che di solito pensa alla scuola che ha fatto lui. E in Italia siamo tutti vecchi, per cui pensiamo alla scuola che abbiamo fatto 40 anni fa. Era una scuola con tanti difetti, studiavamo “le guerre puniche tre volte“, ma era già molto inclusiva, una delle scuola più inclusive al mondo, le classi differenziali erano state abolite, i ragazzi con disabilità erano integrati nelle classi e sostenuti da opportune figure di sostegno, e tutti eravamo sostanzialmente d’accordo che non solo riuscivano a integrarsi ma portavano alle classi qualcosa di più. Non era un modello perfetto ma era un modello per tutti i versi preferibile alle scuole differenziali.

Poi sono successe cose e molti non ne sono accorti, o hanno fatto finta di.

La cosa più importante è che sono arrivati molti bambini da famiglie di origine straniera che in casa non parlavano italiano. È stato un processo graduale ma rapido, e non uniforme ma a macchie di leopardo: per cui in certe zone no e in altre sì, in certi quartieri no e in altri sì. La scuola pubblica come ha reagito al problema? La scuola pubblica si è messa a cercare dappertutto risorse per l’alfabetizzazione, e un po’ ne ha trovate, soprattutto presso gli enti locali che erano abbastanza vicini al problema da porselo anche loro. Al ministero invece no, non hanno proprio capito la cosa. L’importante era non creare classi differenziali perché le classi differenziali erano brutte, fine. Quando si faceva notare che una classe media col 50% di studenti ancora da alfabetizzare era, nei fatti, una classe differenziale, la risposta illuminata del ministero era: caliamo la quota, d’ora in poi non si possono fare più classi sopra il 20%, massimo 30%. Che è letteralmente proporre brioches a chi non ha il pane, una cosa che Maria Antonietta non ha mai fatto, ma Maria Stella Gelmini sì, e tutti i ministri successivi. Non ci hanno mai spiegato come restare in quota (fare più classi? Dove? Con chi? eliminare fisicamente gli alunni in eccesso? Produrne altri?): la mia scuola è in deroga da allora. 

Il risultato di tutto ciò è che il ragazzo disabile che oggi entra in una classe, a volte non entra in una classe che può trarre giovamento nel rapportarsi con la sua diversità, ma in un circo di fenomeni che sono già diversi per i fatti loro. Non irrelatamente, nel frattempo è esploso il fenomeno dei Disagio Scolastico Certificato: ovvero una serie di disagi che possono (non necessariamente) essere certificati da uno specialista e che per quando Galli della Loggia ne sia ormai convinto, non prevedono l’assistenza di un insegnante di sostegno (altrimenti ne avremmo ormai 4 per classe), ma un piano di studio personalizzato. 

Quindi ora un insegnante, non dappertutto, soltanto in certe realtà, più facilmente urbane e settentrionali, si trova in una classe con 5-6 studenti che necessitano di un piano di studio personalizzato, 1-2 studenti disabili con sostegno e altri 5-6 studenti che non è che capiscano sempre quando parli in italiano. Tutto questo solo nella scuola pubblica, perché appena vai in una privata il problema scompare: non sono tenuti a ricevere quote di stranieri o disabili o disagiati. Il che significa che nel quartiere con la scuola privata il disagio si concentrerà ulteriormente nelle scuole pubbliche limitrofe, e se lo fai presente al ministro lui dice ok, diminuiamo la quota disagio, l’avete diminuita? No? Va bene allora diciamo che siete in deroga.

In mezzo a tutto questo un generale, ma potrebbe anche essere un capitano dei pompieri, un incantatore di serpenti, una pornocasalinga, si sveglia che è primavera e dice: servirebbero classi differenziali. E tutti a dire boooooh, ma come ti permetti, la scuola dell’inclusione, cosa direbbe Don Milani. Don Milani, che non brillava per diplomazia, temo che vi avrebbe mandato a cagare non più tardi del 2010. Gli unici a non booooohare sono guarda un po’, i genitori, che la scuola la stanno vedendo un po’ più da vicino e senza le lenti rosa della nostalgia. Tra loro anche i genitori di origine straniera che ci terrebbero al fatto che i loro ragazzi l’italiano lo imparassero un po’, o al limite l’inglese, la matematica: ma in certe situazioni non è previsto, in certe situazioni è previsto che loro figlio fissi la parete per cinque ore senza nessun sostegno o nessuna risorsa per l’alfabetizzazione. Questa è la diversità che portano alla classe, questo è il prezzo che devono pagare per la vostra ipocrisia. 

Le classi differenziali esistono già: sono le classi dei quartieri difficili. Se qualcuno propone di istituirle, io gli chiederei semplicemente quali risorse ha intenzione di gettare sul piatto perché è l’unica cosa che mi interessa ormai, la vita mi ha reso cinico e venale: i soldi: intendi costruire scuole in più, aule in più, risorse per le classi differenziali? Docenti opportunamente formati, e come, e con che fondi? Dicci quanti soldi ci dai o stattene zitto finché non ti viene in mente una cifra, grazie.

via Blogger https://ift.tt/kfQphvr

Senza categoria

Il primo maggio è di Giuseppe

1° maggio: San Giuseppe Artigiano

Il primo maggio lo hanno inventato i lavoratori, non è chiaro quando ma più probabilmente nell’Ottocento e negli USA, durante le battaglie sindacali per le otto ore. Anche i lavoratori italiani cominciarono a festeggiarlo a fine secolo. La repubblica lo riconobbe come festa nazionale nel 1949, e a quel punto la Chiesa si pose il problema: cosa festeggiare? 
https://www.farebene.info/pio-xii-papa-acli/

Che non era affatto un problema futile od originale, anzi. Reinventare le feste è quello che la Chiesa ha fatto sin dall’inizio, prendendo una celebrazione ebraica (la Pasqua) e cambiandone il senso. Più tardi è successo con la festa del Sole Vincitore sulle tenebre, tre giorni dopo il solstizio d’inverno, divenuta il Natale di Gesù. Nel giro di qualche secolo quasi tutte le feste precristiane sono state trasformate in un qualche modo: si è salvato solo il Carnevale. Gli studiosi la chiamano inculturazione, ed è interessante notare che comporta sempre un compromesso con il rito pre-esistente: se nel tal giorno gli allevatori erano soliti sacrificare a un qualche dio gli agnelli che non aveva senso lasciar crescere, non valeva la pena di interrompere bruscamente l’abitudine: meglio insistere sul concetto che Gesù Cristo era l’agnello di Dio. Se i fedeli erano soliti inchinarsi al sole sorgente prima di entrare in Chiesa, inutile mettersi a litigare contro l’usanza pagana: meglio costruire le chiese orientate a oriente, così l’inchino l’avrebbero fatto davanti a Dio. Una fontana sacra poteva restare sacra: bastava consacrarla a Dio o a un santo che si degnava di apparire al pastore assetato. E così via. (Questo spiega anche l’aggressività della gerarchia cattolica nei confronti di Halloween, che in teoria sarebbe sempre Ognissanti: ma nel successo delle ritualità consumistiche che arrivano dal mondo anglosassone, i preti non possono non riconoscere un tentativo molto efficace di inculturazione. Hanno antenne lunghe per queste cose, che a noi laici sembrano sciocchezze ma che in effetti lasciano segni secolari e millenari).    
Come il Natale, come la Pasqua, anche il Primo Maggio doveva in un qualche modo venire assorbito dal cristianesimo: o meglio, la Chiesa doveva opporre alla liturgia socialista qualcosa di non troppo diverso, ma decisamente cattolico. Così San Giuseppe, che aveva già la sua giornata di rappresentanza il 19 marzo, fu convocato per la prima volta da Pio XII nel 1955, per un turno straordinario, in quanto San Giuseppe Artigiano. E pensare che non sappiamo neanche esattamente che lavoro facesse: il termine greco che compare nei Vangeli, tekton, poteva indicare un umile falegname ma anche un carpentiere o addirittura un impresario edile. La scelta di definirlo “artigiano”, in un discorso pronunciato davanti ai rappresentanti delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), indicava una precisa scelta di campo: più che alla classe operaia, Pio XII guardava ai professionisti, al tessuto di quella che oggi chiamiamo Piccola-Media-Impresa: un manto di orgogliosi imprenditori presso sé stessi, la maggior parte dei quali nel 1955 dovevano ancora estinguere il mutuo sulla casa e le rate sulla macchina, dopodiché sarebbero definitivamente divenuti refrattari a qualsiasi scossa rivoluzionaria.
Giuseppe non è l’unico né il primo santo del martirologio a essere ricordato come lavoratore. In Spagna per esempio ha un certo seguito Sant’Isidro, contadino: il quale però è famoso proprio perché, fermandosi ogni tanto a pregare, lavorava un po’ meno degli altri (senza che il datore di lavoro riscontrasse un calo di prestazioni). Si trattava comunque di figure di secondo piano: Giuseppe era l’unico personaggio universalmente noto, che potesse meritarsi una giornata di astensione dal lavoro. Ma proprio mentre scrivo questa cosa mi viene in mente San Paolo di Tarso, che oltre a predicare si considerava un gran lavoratore (aveva probabilmente ereditato un’attività di produzione di tende dai genitori, che forse erano fornitori dell’esercito romano). Paolo, quello che ai Tessalonicesi che aspettando il ritorno di Gesù da un momento all’altro avevano smesso ogni attività, scrisse seccamente: Chi non lavora non mangia. Anche lui sarebbe stato un buon patrono dei lavoratori, ma Pio XII scelse Giuseppe. Tra tanti santi, proprio quello noto per non aver mai detto una parola: almeno nei vangeli, dove il datore di lavoro gli impone un matrimonio e poi un trasferimento in Egitto, insomma dispone di lui come un vero padreterno, e del resto lo è.

via Blogger https://ift.tt/UJ7dvRk

Senza categoria

Caterina e l’anorexia mirabilis

29 aprile – Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d’Italia (1347-1380).

Tiepolo

[2012] Caterina Benincasa è la patrona d’Italia che gli italiani non conoscono. La schiaccia il confronto con la popolarità trasversale dell’altro patrono, Francesco d’Assisi, al punto che fuori da Siena molti la confondono con Chiara, l’amica e confidente di Francesco e fondatrice delle Clarisse. Caterina invece è tutta un’altra storia, un altro ordine (le domenicane mantellate), un altro secolo (il quattordicesimo), un altro mondo che non conosciamo altrettanto bene, forse non lo conosciamo poco. Per dire, la Rai non ci ha ancora fatto una fiction. Una fiction non si nega a nessuno, Filippo Neri ne ha avute già due. Caterina ancora niente, c’è solo un film del 1957 che nessuno ha più voglia di guardare, tant’è che su Youtube è gratis. Uno pensa: per forza, è una contemplativa, non c’è niente da raccontare. Non è proprio così. Caterina una sua storia ce l’ha. Persino appassionante, ma un po’ deprimente, ecco.

Tanto per cominciare, Caterina è figlia della peste nera, l’epidemia più orribile mai abbattutasi sul continente. Questo però spiega solo fino a un certo punto un dettaglio singolare della sua biografia, l’avere avuto cioè 24 tra fratelli e sorelle. Per molte famiglie la prolificità fu un modo di reagire a un morbo che svuotò interi villaggi e quartieri (a Firenze la popolazione si ridusse forse di più della metà, ma il giovane Boccaccio se la cavò e più tardi ci ambientò il Decameron). Ma quando arriva la peste Lapa Benincasa di figli ne aveva già messi al mondo 24: metà erano morti in giovane età, cosa perfettamente in linea con le statistiche (morì subito anche Giovanna, la sorella gemella di Caterina), ma per gli standard dell’epoca la famiglia era comunque numerosa.

Questo non significa che Caterina fosse destinata al chiostro per risparmiare i soldi della dote, come qualche malizioso lettore sta già immaginando. Va bene, lo abbiamo letto tutti Manzoni, ma molto spesso nelle vite delle sante si presenta l’esatto contrario: la famiglia vorrebbe destinare la figlia riottosa al matrimonio, e lei non vuole. Del resto giudicate voi, tra una vita di castità e meditazione e una spesa a rincorrere una decina di pargoli nella contrada dell’Oca, quale fosse la più attraente. Il caso della 16enne Caterina è reso più drammatico dal fatto che il promesso sposo fosse il vedovo della sorella più grande, Bonaventura. Caterina aveva cominciato a vedere Gesù a cinque anni, e aveva fatto voto di castità a sette, ma soprattutto aveva assistito all’agonia della sorella, morta di parto, e non doveva avere molta stima per il cognato. Memore dell’esempio di Bonaventura, che per punirlo delle sue scarse attenzioni si infliggeva lunghi digiuni, Caterina rifiutò di mangiare finché i genitori non cedettero e il matrimonio andò a monte.

Il disturbo alimentare di Caterina, quello che gli studiosi oggi chiamano anorexia mirabilis, nasce in questa situazione: Caterina non possiede nemmeno il suo corpo, ma sa come tenerlo in ostaggio, e detta le condizioni. Si taglia i capelli ed entra nelle domenicane, ma come terziaria, restando dunque nella casa dei genitori. Impara a leggere e a scrivere: le sue opere di misericordia e le sue prime lettere ai potenti del mondo attirano l’attenzione, chi è questa ragazzina che tratta i grandi uomini alla pari? I domenicani, che per farla entrare in un ordine di solito riservato alle pie vedove hanno chiuso un occhio, temono uno scandalo e la invitano al Capitolo Generale di Firenze per interrogarla. Là Caterina fa l’incontro che le cambia la vita: Raimondo da Capua, dottore in teologia, a cui la ragazza prodigio viene affidata una volta certificata la sua ortodossia. In principio diffidente, Raimondo imparerà ad apprezzare le doti di Caterina, soprattutto dopo essersi salvato dalla nuova ondata epidemica del 1374, racconta, grazie alle preghiere di lei. Raimondo sarà per tutta la sua vita il confessore di Caterina, il suo manager, e dopo la morte il suo biografo. Chissà se senza questo sodalizio con la santa avrebbe fatto tanta carriera.

Nel 1376, a 29 anni, Caterina è la protagonista di una missione diplomatica toscana ad Avignone: si tratta di convincere il Papa (a cui aveva già scritto tante lettere) a tornare a Roma, dopo 70 anni di cattività, e già che c’è a bandire una crociata. La crociata è un chiodo fisso di Caterina: l’unico mezzo per fare la pace nella cristianità, esportando la guerra al di là del mare. La missione è in parte politica, in parte propaganda: papa Gregorio XI sta già pianificando il suo arrivo in Italia, ma vorrebbe prima stroncare la Repubblica di Firenze, che guida la rivolta delle città pontificie anche dopo che il Papa ha scomunicato i suoi governanti e (cosa ben più grave) dichiarato decaduti i crediti dei suoi banchieri. Caterina e Raimondo vengono a offrire la pace, ma Gregorio non si fida del tutto e i fatti gli daranno ragione. D’altro canto, Caterina è già famosa in mezza Europa come mistica e taumaturga: può un Papa dirle di no? Ad Avignone Gregorio XI la riceve con mille onori, e intanto la fa pedinare: ma le sue spie non trovano nessuna ragione di scandalo.


Benvenuto di Giovanni: Il ritorno a Roma di Gregorio XI (scortato da Caterina, che in realtà prese una strada diversa).

Io sono un maschio del XXI secolo, non posso fare moltissimo per modificare questa mia impostazione, e così non posso impedirmi di pensare che con Caterina Gregorio parlasse di mistica e di crociate immaginarie, e con Raimondo di cose pratiche, del tipo: cosa offre Firenze? Cosa vuole in cambio? Forse è questo il problema con Caterina, che rende la sua storia più difficile da raccontare di quella di Francesco e di altri. È una donna di 29 anni, che tratta con gli uomini, nel XIV secolo. Posso anche accettare che sapesse scrivere meglio di tutti, (c’è chi continua a pensare di no, che dettasse soltanto), ma che facesse politica… non ce la faccio, chiedo perdono, non mi sembra plausibile: trovo più verosimile persino Giovanna d’Arco che vince le battaglie in testa a una cavalleria di uomini. Quando nel 1940 Pio XII la proclama patrona d’Italia, è facile che avesse in mente proprio una specie di Giovanna d’Arco italiana, meno inquietante perché non prende mai in mano la spada, al massimo digiuna: però la situazione è simile, una ragazza che salva la patria dalle manacce degli uomini (ovviamente per Pio XII salvare la patria consisteva nel riportare il Papa a Roma). Un motivo simile avrà portato Giovanni Paolo II a promuoverla patrona d’Europa, ma l’Europa di patroni ne ha tanti (Benedetto, Cirillo, Metodio, la Madonna del Rosario, e altri che non so) e probabilmente quando si incontrano litigano, stavolta ci incontriamo nel cielo sopra Bruxelles o nel cielo sopra Strasburgo? Cirillo probabilmente esige la traduzione simultanea di tutti i discorsi in paleoslavo, un casino. Tanto alla fine della fiera comandano i tedeschi, per lo più luterani: con loro, come dire, non ci sono santi. Ma stavamo parlando della missione mistico-diplomatica di Caterina.

Ha successo. Il più grande successo della sua vita. Quando finalmente scriveranno la fiction su Caterina, questo sarà il momento in cui suoneranno le campane, partirà la canzone, qualche bambino piangerà, e anche qualche omaccione, sì, a fare Raimondo chiameranno qualche attore molto bello e in questa scena gli spruzzeranno le lacrime finte. Sulla strada del ritorno Caterina guarisce i malati, stronca la peste di Varazze, ormai è una santa in terra. Nel mondo dei maschi, intanto, le cose vanno come sempre a rotoli. I fiorentini decidono che dopotutto la guerra continua. Da Roma, la Roma cadente in cui Gregorio si è appena reinstallato, il papato manda Raimondo in ambasciata, poi Caterina; i fiorentini reagiscono dando fuoco alle proprietà dell’ordine domenicano. Caterina reagisce alla sua maniera: smette di mangiare. Nel frattempo Gregorio muore: questo ritorno a Roma non gli aveva portato molta fortuna dopotutto.

La testa di Caterina è a Siena
(anche un suo dito).
Il corpo è a Roma, meno un piede
che è a Venezia e una costola,
 attualmente in Belgio.
Il conclave è un disastro. Quando capiscono che l’orientamento dei cardinali è quello di nominare un francese – un altro? I romani assalgono il collegio al grido “Romano lo volemo – o almanco italiano”. Terrorizzati, i porporati scelgono un napoletano, Urbano VI, persona competente ma non molto diplomatica, pentendosene quasi subito: qualche mese dopo la maggioranza di loro si ritrova a Fondi, tra le paludi pontine per nominare un ginevrino gradito al re di Francia, Clemente VII. Quando lo scopre, Urbano ovviamente scomunica tutti. È lo scisma d’Occidente, e si consuma davanti agli occhi di Caterina: proprio lei che per anni aveva messo in guardia il vecchio Papa dal pericolo di uno scisma, se si ostinava a restare ad Avignone. Lei prende il partito di Urbano, dichiara i cardinali di Fondi “diavoli incarnati”, e continua a digiunare, una Gandhi antilettera. Quando Raimondo parte per una missione a Parigi, lo saluta consapevole che non si vedranno più. Muore a 33 anni: le stimmate, che aveva ricevuto anni prima, diventano visibili soltanto dopo la sua morte (l’esatto contrario di quel che è successo a Padre Pio). Raimondo diventerà presto Maestro generale dell’Ordine domenicano; lo scisma proseguirà per 40 anni, dividendo l’Europa occidentale tra osservanza romana e avignonese, con papi antipapi e scomuniche incrociate. Su questo in una fiction credo che sorvolerei, ma per fortuna non scrivo le fiction (per fortuna di chi le guarda, intendo: massimo rispetto a chi scrive le fiction).

Caterina è anche una grande scrittrice, passionale e sanguigna, che pochi leggono: il suo genere, la mistica, non è esattamente per tutti. Duecento anni prima di Teresa d’Avila, in Caterina ci sono già le estasi e i viaggi interiori, tanto da far pensare che il barocco sia una questione di genere più che di secolo. Io resto un maschio del XXI secolo (cresciuto tra l’altro nel secolo precedente), e a leggere certe cose mi impressiono: quando scrive a Raimondo che desidera “vederlo affogato e annegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio”, non so cosa pensare; basta voltar pagina perché il sangue di Cristo diventi sangue vero, quello di un condannato a morte di cui Caterina si prende cura nelle sue ultime ore, dicendogli cose così: Confortati, mio dolce fratello, che presto andremo alle nozze: tu ti bagnerai del sangue dolce del Figliuolo di Dio, e io ti aspetterò nel luogo della giustizia. E va davvero ad aspettarlo là: per immedesimarsi mette il collo sul ceppo; nel frattempo “prega e costringe” Maria a ottenere giustizia per l’uomo. A quel punto sente una punta d’invidia: tra pochi minuti il galeotto salirà in cielo e gusterà il dolce sangue di Cristo, mentre lei resterà in terra a occuparsi di cose terrene, politica e diplomazia con risultati non sempre soddisfacenti. E quando lo decapitano, lei riceve la testa nelle mani, esclamando “Io voglio”. L’odore di sangue la inebria, non ha intenzione di lavarlo via.

Poi egli gionse, come uno agnello mansueto, e, vedendomi, cominciò a rìdare, e volse che io gli facesse el segno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: Giuso alle nozze, fratello mio dolce, ché testé sarai alla vita durabile! Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo, e chinàmi giù e ramentàli el sangue dell’agnello: la bocca sua non diceva, se non «Gesù» e «Caterina», e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà, dicendo: Io voglio!

[…] Risposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potei sostenere di levarmi el sangue, che m’era venuto adosso, di lui. Oimè, misera miserabile, non voglio dire più: rimasi nella terra con grandissima invidia.

via Blogger https://ift.tt/8vTlOwu

Senza categoria

Pierre Chanel e la danza del martirio

28 aprile: San Pierre Chanel (1803-1841), patrono dell’Oceania


C’è una danza che a Tonga si impara a scuola, una coreografia in cui uomini e donne si danno il ritmo picchiando i bastoni che impugnano. Si chiama Soke o Eka e proviene dall’isola di Futuna, da cui molti abitanti arrivarono a Tonga tra Otto e Novecento portando con sé, oltre alla danza ancestrale, il cattolicesimo a cui si erano convertiti nel 1842. Gran parte delle parole che si cantano sono incomprensibili da generazioni; tuttavia a un certo punto si accenna a due “gentiluomini” che sbarcano sull’isola con l’arcobaleno alle spalle. Gli antropologi non hanno ancora capito se si tratta di una danza di guerra (si fa coi bastoni) o di fertilità (i due gentiluomini potrebbero aver portato l’agricoltura a Futuna). I padri maristi, dal canto loro, la tagliano corta: la Soke sarebbe stata inventata dai futunesi per ricordare il martirio di Pierre Chanel, patrono dell’Oceania, nel 1841: sarebbe dunque una danza di memoria e di espiazione, perché Pierre Chanel l’ha ucciso un futunese, Musumusu. Prima di convertirsi. 
Benché sin dai tempi del seminario Pierre Chanel avesse sognato di fare il missionario in isole lontane, inizialmente la parrocchia più esotica che il vescovo di Belley potesse offrirgli era un sobborgo di Ginevra, comunque quasi a quaranta km dalla casa dei genitori. E quando i genitori stessi si presentarono dal vescovo a protestare, Pierre tranquillizzò il vescovo con un’affermazione che può lasciare perplessi: “Quanto più mi avvicinassi ai miei genitori, tanto più mi allontanerei dal buon Dio”. I genitori di Pierre erano buoni cristiani, ma per Pierre Dio era da cercarsi il più possibile lontano da casa, e alla fine la spuntò: proprio all’ordine a cui si era aggregato (i padri maristi), fu offerta l’opportunità di evangelizzare le isole più sperdute della Polinesia occidentale, prima che vi arrivassero i protestanti.
 
Pierre faceva parte della prima squadra che partì nel 1837 dalle Havre su un bastimento che per arrivare nel Pacifico doveva doppiare Capo Horn. Dopo uno sfortunato tentativo di insediarsi nell’arcipelago delle Tonga, Pierre sbarca nell’isola di Futuna, dove per un po’ la situazione sembra promettente: uno dei due re che si spartiscono l’isola, Niuliki, prende Pierre sotto la sua protezione e sembra incuriosito dall’atteggiamento mite del sacerdote. Probabilmente spera che tenendolo vicino a sé potrà ingraziarsi i francesi e in generale gli europei che ogni tanto fanno scala presso l’isola. Pierre da parte sua adotta un atteggiamento di estrema apertura, risparmiando agli indigeni lezioni di morale e mostrando la condotta cristiana soprattutto con l’esempio. È un approccio moderno che però all’inizio non sembra funzionare: mentre nella vicina isola di Wallis il collega sta già battezzando centinaia di fedeli, a Futuna il cristianesimo stenta ad attecchire. Pierre fa quello che può, cerca di essere gentile con tutti, e imparare qualche parola al giorno. Le annota su un taccuino che diventerà la sua pubblicazione più importante, un tesoro inestimabile per gli oceanisti; ma prima dovrà ovviamente morire. 

Col tempo Niuliki diventa diffidente; forse gli giunge notizia di altre isole dove il cristianesimo ha soppiantato le religioni tribali e messo in crisi i re autoctoni. Nel frattempo un suo figlio che frequenta troppo Pierre ha deciso di battezzarsi. Così nell’aprile del 1841 Niuliki cede all’insistenza del suo vicario Musumusu, che guida un commando alla missione di Pierre. Sorpresi al sorgere del sole, i catecumeni vengono malmenati; Pierre, ferito mortalmente a un braccio e alla testa, continua a ripetere “malie fai” (“bene per me”) finché Musumusu, indispettito, non gli fracassa la testa con una zappa. I suoi resti vengono sepolti in una fossa semplice, ma ora che è morto il prete sembra dare più fastidio che da vivo.

L’assassinio è avvenuto davanti a troppi testimoni, prima o poi i francesi ne verranno informati: come la prenderanno? Quando i francesi effettivamente arrivano (ma è già il 1842), scoprono che la maggior parte dei futunesi è già pronta a convertirsi: tra loro Musumusu, che chiede di essere sepolto davanti alla porta della chiesa, affinché i cristiani lo calpestino se vogliono entrare. Per i credenti, è l’ennesima dimostrazione di come la fede fiorisca dal martirio: per gli storici, un tentativo di ingraziarsi la potenza europea già intravista come egemone, acuito dall’eterna rivalità tra i due regni in stato di guerra perenne. In uno dei luoghi al mondo più lontani dalla casa dei genitori, Pierre Chanel è divenuto il primo martire cattolico della Polinesia (per ora anche l’unico) e il patrono di tutto il continente oceanico. Se di solito i martiri ispirano quadri e sculture, Pierre è probabilmente l’unico a poter vantare di aver ispirato una danza tribale. A dirla tutta aveva anche dato il nome a un vino neozelandese, finché i padri maristi che lo producevano non hanno perso una causa con l’omonima griffe francese, che aveva deciso anche lei di produrre bordeaux. 

via Blogger https://ift.tt/JC3Dhsp

Senza categoria

La stella a sei punte, e chi la fischia

Quel minimo non dico di saggezza, ma di astuzia che avrei dovuto metter da parte in tanti anni che scrivo in pubblico, mi suggerisce di aspettare che sia la sera di questo 25 per scrivere qualcosa; perché anche se tira un’aria tremenda, come non si sentiva da vent’anni, può persino darsi che non succeda niente. O se lungo un corteo succede qualcosa, e qualcuno in strada ci rimane, dipenderà molto da che bandiera portava. Qualcuno qui si ricorderà di Genova, e di quanto sarebbero state diverse le cose se invece di cadere il ragazzo fosse caduto il poliziotto. Dunque sarebbe meglio aspettare, che non c’è nessuna fretta alla fine. Sì.

2015

Scrivo comunque qualcosa. Che al 25 aprile molti vadano per litigare è cosa nota, più o meno dallo spaventoso diluvio del 1994 (prima una festa antifascista non dava così fastidio, o forse un certo fastidio sentiva da solo la necessità di contenersi). Col tempo è inevitabile che anche un certo tipo di provocazione diventi parte della celebrazione: ad esempio almeno a Milano i fischi alle bandiere della Brigata Ebraica sono ormai parte della liturgia. Mi sembra di avere già annoiato qualche lettore sull’argomento: la Brigata Ebraica non fu propriamente un gruppo partigiano, ma un’unità delle forze armate britanniche che combatté in Italia nel 1944/1945, composta da circa 5000 volontari dell’Organizzazione Sionista Mondiale, perlopiù provenienti dalla Palestina Mandataria. Non tantissimi, ma molte bande partigiane erano anche più piccole. Che senso ha fischiarli? In Italia in quegli anni combatterono indiani e brasiliani e non credo che nessuno fischierebbe una bandiera indiana o brasiliana; ma non credo nemmeno che nessuno senta la necessità di sventolarla. Chi porta in corteo quella bandiera (molto simile a quella di Israele, al punto che è inevitabile confonderla), vuole ribadire il concetto che il sionismo è una forza antifascista, e collaborò alla liberazione dal nazifascismo. Il che è legittimo. Chi fischia quelle bandiere sta obiettando al concetto: il che è sempre stato altrettanto legittimo, vista la situazione dei Territori Occupati; e lo è molto di più quest’anno, dopo la tragedia di Gaza. 

Tutto questo è ormai da anni un gioco delle parti: chi viene con la bandiera della Brigata (o con la bandiera di Israele) si aspetta di essere fischiato, e ci tiene che i fischi vengano il più possibile amplificati in tv, e forse è questo è un po’ più grave dei fischi: il modo in cui un’esperienza nobile come quella dei volontari sionisti contro il nazifascismo viene annualmente strumentalizzata da un po’ di gente che vuole semplicemente litigare il 25 aprile; questo perenne impugnare Israele e il sionismo come un pretesto per polemiche che con Israele c’entrano poco o niente, e che finirebbero per danneggiarne la reputazione, se Netanyahu gliene avesse lasciata una. Alcuni sono radicali e vabbe’, coi provocatori professionali è inutile discutere. Alcuni saranno ebrei e posso capire che la presenza sempre più massiccia di bandiere palestinesi li sgomenti. Ma questa è la situazione: ottant’anni fa il sionismo era un movimento che combatteva attivamente contro l’occupazione nazista, oggi è l’ideologia che ha trascinato Israele nella catastrofe morale di Gaza. 

In questi giorni chi non perde tempo a leggere i giornali italiani ha saputo che tutte ormai tutte le grandi nazioni europee (l’Italia no) hanno riaperto i finanziamenti all’UNRWA, visto che Israele non riesce in nessun modo a provare che si tratti di un’organizzazione terroristica; nel frattempo le stragi di civili proseguono, e l’IDF apre le fosse comuni alla ricerca dei cadaveri degli ostaggi che non ha mai dato l’impressione di rivolere vivi. Chi sventola una stella di David, oggi, volente o nolente, sta mettendo sotto il naso alla gente il simbolo di questo sionismo; non quello che diede il suo contributo contro la lotta nazifascista. I simboli non sono neutrali, una bandiera italiana nel 1848 non significava la stessa cosa che nel 1936 o nel 2024. Non è responsabilità di un comitato antisemita se oggi una bandiera israeliana, agli occhi di una discreta fetta della popolazione mondiale, rappresenta un governo e un esercito razzista e genocida. Una trappola è scattata, potremmo discutere a lungo su chi l’ha tesa a chi: ma è scattata, e oggi il sionismo è un’ideologia odiosa persino a diversi ebrei in tutto il mondo. E sarà così ancora per molto, per quanto tempo? Credo che dovremo attendere almeno una generazione: quella che oggi impugna le bandiere si è raccontata troppe bugie per poterle rinnegare. L’unica speranza è che non abbiano educato con troppa attenzione i loro figli.

via Blogger https://ift.tt/tW61Jkc

Senza categoria

Antiabortisti, è primavera

 

Anti abortisti, non siate così tristi, 
c’è tanta vita fuori, nei prati tanti fiori,
nei parchi tanti amori.
Ma che ci andate a fare,
nei consultori?
Scegliete la vita,
mangiatevi una pita, 
o un gelato, non è un peccato.
Ballate forte, sentite il ritmo, nella notte
Lasciate i dubbi, guardate in alto, toccate il cielo,
Ascoltate il cuore, splende il sorriso, è un nuovo giorno.
Muovete i passi, al suono dei tamburi, vibra l’amore.
Danze nel vento, girate in tondo, l’eco del tempo,
Celebrate la vita, tra note e risate, in ogni angolo.
Antiabortisti, non siate così tristi,
lasciate le polemiche, nessuno ama le prediche, 
là fuori il mondo è in fiore, provate a far l’amore,
se non ne siete esperti, beh
i consultori sono tutti aperti.
I consultori sono ancora aperti.

via Blogger https://ift.tt/YlCBeO4

Senza categoria

Dodici lettere, la prima è A

Stavo pensando di copiaincollare anch’io il monologo di Scurati; ma ho aspettato qualche ora e nel frattempo è rimbalzato in lungo e in largo. Anche se resta l’impressione che una volta in più il dibattito sia fuori fuoco, che si parli più del tentativo di censura (maldestro, come tutto quello che fa questo governo) che di quello che Scurati ci stava dicendo. 

Scurati ci sta dicendo che Matteotti fu ucciso dai fascisti, e sembra scontato; che Mussolini ne fu il mandante, e crediamo che sia un dato acquisito; che fu complice attivo di tutto l’orrore nazista, e che la cricca al governo queste cose fa proprio fatica ad ammetterle. Il che lo stesso Scurati ha potuto dimostrare proprio in questa occasione; forse è dai tempi di Galileo che a uno scrittore italiano non riusciva così rapidamente un esperimento.  

Scurati scrive: “Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via”. Questa cosa forse ormai è più curiosa che importante; ma resta parecchio curiosa. Pensate a quante cose aa Meloni ha dovuto rinnegare per montare sulla seggiola dov’è adesso. Parlava di uscire dall’Euro, e ora fa carte false per ottenere i fondi UE. Faceva l’occhiolino a Putin, e ora è sdraiata sulla linea della Nato. Poi, certo, su tante cose è coerente; ma il sospetto è che se i sondaggi le dicessero che gli italiani vogliono più forza lavoro dai Paesi in via di Sviluppo, lei andrebbe ad abbracciare i migranti sulle spiagge, è fatta così. Non dico che rinnegherebbe sua madre, o perlomeno non riesco a immaginare una situazione in cui rinnegare sua madre potrebbe darle un vantaggio. Di parole ne ha dette tante, tutti ne dicono tante, ma ce n’è una sola che non riesce a pronunciare anche se le converrebbe da tutti i punti di vista, e quella parola è A….

An…..

Antifa….

Niente, non ce la farà. Tizi apparentemente più scafati di lei ce la fecero; bisogna anche ammettere che sulla seggiola ci si è seduta lei, e non loro. 

via Blogger https://ift.tt/MGXUK3Z

Senza categoria

Dio è perfetto, quindi c’è

21 aprile – Sant’Anselmo d’Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).

[2012] C’è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?” 

E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l’ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l’ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. 

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra le due superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po’ scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?”

E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l’ho visto, Dio non c’è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo…”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l’ho visto non l’ho visto”.
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l’inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l’ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d’Aosta, che non è che c’entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull’esistenza di Dio. Peccheremmo di un’ingenuità non molto diversa da quella di Anselmo bambino, il quale, crescendo ad Aosta, aveva ipotizzato che Dio si trovasse sulla vetta di qualche montagna. Ma poi quelle montagne le aveva pure passate, era stato abate a Le Bec e arcivescovo a Canterbury; e noi abbiamo viaggiato ben più di lui. L’universo che abbiamo in mente, da cinquant’anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c’è, è un po’ più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? 

Un altro ricordo che ho delle elementari è un certo tipo di rissa verbale, abbastanza codificata, che si utilizzava molto nei primi anni, prima che prendesse il sopravvento la forma di comunicazione adulta, il turpiloquio. L’impossibilità di ricorrere a un patrimonio condiviso e comprensibile di parolacce stimolava la nostra creatività e ci costringeva a concepire combattimenti virtuali violentissimi, ancorché puramente verbali: per esempio se io dicevo “e io ti picchio con un bastone” tu mi rispondevi “e io allora ti picchio col martello”, il che mi dava l’aggancio per rispondere “e io ti picchio con due martelli”, ma a questo punto il dato numerico creava un’infinita possibilità di rilanci… senonché tu chiudevi la partita con la formula fissa “e io sempre uno più di te”. Molto prima che la maestra di matematica ci iniziasse al concetto di infinito, l’esigenza insopprimibile di insultarci ci aveva già portato a scoprire l’Infinito Più Uno, il sempre-uno-più-di-x. Non lo sapevamo, magari ci stavamo soltanto litigando per l’accesso a un pennarello, ma in quel momento avevamo evocato a giudice della nostra contesa il Dio del Proslogion di Anselmo, “Colui di cui non si può pensare il maggiore”.

Il ragionamento è abbastanza famoso: se penso a Dio come all’essere perfetto, esso non può esistere soltanto nel mio pensiero, perché non sarebbe più perfetto (sarebbe infatti più piccolo di me, contenuto nel mio cervellino). No: se è perfetto deve esistere al di fuori: quindi Dio c’è. Facile.

Un po’ troppo facile, effettivamente, e lo stesso Anselmo come pensatore si era dimostrato capace di ragionamenti ben più sottili. Ma qui si trattava di dover dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza osservazioni empiriche, proprio perché Dio viene prima di ogni altra cosa.

È questo, soprattutto, ad allontanarci da Anselmo. Almeno il cosmonauta della barzelletta aveva dovuto farsi sparare in orbita, guardarsi un po’ in giro, scansare la teiera di Russel. Per fare un razzo in grado di sottrarsi alla gravità ci sono voluti tre-quattro secoli di osservazioni, esperimenti, teorie, da Newton a Von Braun. Per capire come funziona il corpo umano abbiamo dovuto sezionarlo, osservarlo, inventare il microscopio, immaginare il dna a doppia elica, sperimentare muffe e altri farmaci, e tante cose ancora ci sfuggono. Anche solo per scoprire l’America abbiamo dovuto mandare centinaia di marinai, un sacco di navi, un sacco di soldi. E invece per scoprire l’esistenza di Dio bastava concentrarsi e ragionare – magari Anselmo non ha neanche buttato giù uno schema, uno schizzo, nel medioevo non credo che si facessero gli scarabocchi mentre ci si concentrava, con quel che veniva la pergamena all’oncia. Niente cannocchiali, niente microscopi, neanche un po’ di inchiostro, niente. Insomma, savio Anselmo, possibile che tu con il solo ausilio del tuo cervello abbia trovato dentro di te qualcosa che sta fuori? Non ti accorgi della contraddizione che non lo consente? Non hai letto Gaunilone?
Gaunilone era un monaco delle parti di Tours, famoso per aver attaccato Anselmo in un breve opuscolo dal nome bellissimo, Pro Insipiente (“Dalla parte dello scemo”). L’“insipiente”, lo scemo del titolo, è lo Stolto del Salmo 14, che dice in cuore suo: “Non c’è Dio”. Anselmo aveva cercato di confutarlo a posteriori e a priori; Gaunilone al contrario non riteneva necessarie confutazioni: in Dio bisogna crederci e basta: che senso avrebbe, un atto di fede, se non facesse che confermare quello che già ci dice la ragione? Di Gaunilone sappiamo veramente poco, ma – potenza dei nomi propri – io me lo sono sempre immaginato come un monaco gaudente, gaio, garrulo, gargantuesco, anche belloccio, perché no, un ganimede, sempre col calice in mano, mentre scuote la testa e dice ad Anselmo: ma che ci credi sul serio, che basta pensare a una cosa perché essa esista? Allora io adesso mi metto a pensare furiosamente a un’isola ricca di ogni ben di Dio, e questa isola – puf – si mette a esistere? Ma Anselmo non si smonta, anzi aveva già previsto questa obiezione. Gaunilone, un conto è un’isola, un conto è Dio. Un’isola può essere un luogo pieno di virtù, con palme, bambù, eccetera… ma non è un luogo perfettissimo. Solo Dio è perfettissimo. E siccome è perfettissimo, esiste: se non esistesse, sarebbe meno che perfettissimo, vedi? Più facile di così.

La querelle tra Gaunilone e Anselmo è andata avanti per alcuni secoli, più o meno fino a Kant (gauniloniano di ferro) e Hegel (anselmista convinto). Alla fine della fiera è la solita eterna lotta tra tolemaici e copernicani: se pensi che dentro di te ci sia un’idea di Dio, un barlume di Dio, alla fine l’universo è ancora una cosa che gira intorno a te (con Dio motore immobile al di fuori). Se tutto quello che è razionale è reale, immagina pure un’isola, da qualche parte ci sarà. Nel frattempo i gauniloni hanno di che brindare: la scienza continua a ingrandire l’universo e a rimpicciolirne i suoi abitanti. Anselmo, per dire, non conosceva i batteri (e anche Hegel ne aveva un’idea assai vaga). Noi sappiamo di essere molto meno che un batterio davanti a un eventuale Dio: chissà che idee si fa il batterio di noi, ma decisamente noi esistiamo al di là delle sue idee batteriche su di noi. Però gli anselmiani non si rassegnano. Se esistono infiniti universi, esisterà anche quello con l’isola esatta precisa immaginata da Gaunilone. E quello in cui ti ho spaccato la testa col bastone.

“E in un altro universo io te l’ho spaccata col martello”.
“E in un altro io te l’ho spaccata con due martelli”.
“E io sempre uno più di te!”
“Ah, qui ti volevo! Pensi di avere esaurito gli universi? E allora senti questa: sempre due più di te!”
“E io sempre tre più di te”.
“E io sempre un miliardo più di te”.
“E io sempre un miliardo di miliardi più di te”.
“E io sempre un infinito più di…. eHI! Lo hai visto? Che cos’è stato?”
“Non so, sembrava un fulmine”.
“All’inizio. Ma poi è diventato piccolo piccolo”.
“Una scintilla”.
“Una lucciola”.
“Le lucciole non esistono”.
“Sì esistono una volta le ho viste”.
“Ma valà giura”.
“Giuro una volta che sono andato a rane nella burana con mio fratello”.
“Non ci credo che hai preso le rane”.
“No ma ho visto le lucciole”.
“Magari in un universo quella lucciola è Dio”
“Magari in questo universo”.
“Giura di non dirlo a nessuno”.

via Blogger https://ift.tt/R1GD6lW

Senza categoria

La madonna spallonata

 18 aprile: Madonna dell’Arco di Sant’Anastasia (NA).

Com’è che oggi non crediamo più nei miracoli? Di solito si dà la colpa all’illuminismo, ma è stato parecchi secoli fa e in generale non diamo l’impressione di essere così illuminati. Potremmo persino avere perso la nostra fede per il motivo contrario: non perché siamo diventati troppo razionali, ma perché di miracoli in giro ce ne sono troppi, siamo assuefatti, prendi le madonne che piangono sangue. Una madonna che piange sangue una volta sola è un evento eccezionale, che fa sensazione e orrore. Oggi però c’è questa necessità di produrre tutto in serie, ed ecco che abbiamo più madonne che piangono, alcune anche a intervalli regolari, al punto che prima o poi raccogliere un po’ di quel materiale ematico e analizzarlo diventa inevitabile – ma molto prima che arrivino i risultati delle analisi, è la nostra capacità di meravigliarci che è se n’è andata per sempre. Una volta non era così, una volta bastava una sola goccia di sangue su un’immagine sacra per causare sbigottimento generale e devozione secolare, Prendi la Madonna dell’Arco. Ma prendila con cautela. Non è veramente il caso di scherzare, con la Madonna dell’Arco di Sant’Anastasia (NA). C’è chi ci ha rimesso i piedi, e peggio.

Non sappiamo esattamente chi l’abbia dipinta, non prima del Quattrocento. Non doveva trattarsi di un grande artista ma forse è proprio l’asimmetria del volto della vergine ad avere ispirato la leggenda. Quanto alla macchia scura sulla guancia sinistra, ecco, lì avrebbe pianto dopo essere stata colpita da una palla, quando ancora non si trovava al centro di un santuario dedicato al proprio culto, ma un’umile immaginetta in un’edicola votiva sotto l’arcata di un antico acquedotto romano. Era il lunedì di pasquetta del 1450. Bisogna considerare che la pallonata non fu accidentale, ma inferta da un giocatore di pallamaglio infuriato per aver perso una partita a causa di un rimbalzo fortuito su un tiglio lì nei pressi. La pallamaglio è l’antenato comune del croquet e del golf, che avrebbe avuto origine a Napoli o perlomeno i napoletani ci credono molto, e si gioca perlopiù con palle di legno che possono probabilmente lasciare un segno su un muro, se vi sono lanciate contro con una certa forza. Possiamo insomma supporre che la macchia sia il risultato dell’ammaccatura del quadro, ma l’idea che la vergine si sia presa una pallonata sulla guancia fa impressione. Durante il processo-lampo si appurò che il colpevole aveva anche bestemmiato la vergine, motivo per cui sarebbe stato impiccato a quello stesso tiglio, il quale si sarebbe seccato nel giro di un giorno – questo dettaglio oggi viene interpretato da alcuni come una presa di distanza della Madonna da una punizione tanto brutale, ma nel Cinquecento probabilmente serviva a sottolineare l’empietà del condannato.

Ancora più cruento è il secondo miracolo, avvenuto 139 anni dopo, sempre a pasquetta. Nella piazza non si giocava più a pallamaglio, ma evidentemente doveva esserci mercato. Marco Cennamo vuole accendere un cero alla Madonna, che lo ha salvato da una brutta malattia agli occhi. Lo accompagna la moglie, Aurelia Del Prete, che però si è appena comprata un maialino e non lo può mica lasciare in giro, e poi insomma è Sant’Anastasia, mica Lourdes (che ancora non esiste), ci sono le bancarelle, nessuno si formalizza se ti presenti davanti alla Madonna con un porcellino in braccio. Il porcellino però scappa, Aurelia si mette a rincorrerlo per tutta la piazza bestemmiando, probabilmente la gente ride, Aurelia è conosciuta in paese come un tipo nervoso e nell’occasione dà di matto sul serio: quando il marito cerca di calmarla, gli prende il cero e lo calpesta. Ma cosa fai, le dice Marco, ma guarda che ci rimetti i piedi. Aurelia non ci sente, è troppo arrabbiata. Torna a casa, si mette a letto, i piedi le fanno male. Li perderà l’anno dopo, sempre a Pasquetta. Le si staccheranno dal resto del corpo, e sono ancora custoditi nel santuario. Una versione della leggenda però sostiene che prima dell’orribile miracolo Aurelia avesse portato una copia in cera dei suoi piedi alla Madonna, per ringraziarla di averla guarita da una brutta ferita: i piedi custoditi nel santuario potrebbero essere appunto quelli di cera, un bizzarro ex voto (ma neanche così bizzarro, se uno ha presente certi santuari) che avrebbe ispirato la macabra leggenda. Il senso resta chiaro: una pallonata può scappare, un maialino può farti arrabbiare, ma se insisti e bestemmi per il gusto di bestemmiare, la Madonna dell’Arco non ti perdona.

via Blogger https://ift.tt/RuS4aYU

Senza categoria

Altri 100 minuti

Arrivo tardi, ma lo voglio lasciare scritto: quello che ha fatto Alberto Nerazzini lunedì scorso, con la sua inchiesta sulle narcomafie di Roma e Velletri, è qualcosa di clamoroso e prezioso. Oltre a raccontarci una storia complicatissima che negli ultimi anni era scomparsa dietro l’orizzonte, è anche una lezione su come dovrebbe funzionare un’inchiesta televisiva, e su quanto funziona bene quando funziona. Tante cose che ormai diamo per scontate, che una volta sembravano tv d’assalto e adesso infastidiscono, Nerazzini si ricorda ancora andrebbero fatte. 

Disturbare i personaggi della storia per strada, o al telefono, ad esempio, è una pratica che di solito mi fa cambiare canale all’istante: colpa di Iene, di Striscia, di un’estetica che punta tutto sul mettere alla berlina il personaggio preso a bersaglio, e ti propone di trovare divertente il suo imbarazzo. Forse solo Nerazzini si ricorda che può servire a costruire un racconto a farci immedesimare in un personaggio: questo reporter che si aggira per Roma e dintorni a piedi o in automobile, con una giacca a righine che fa impazzire la videocamera. Non possiamo cambiare più canale, non fosse altro perché siamo preoccupati per lui. 

Come i detective delle storie seriali, ha un suo stile, il suo modo di appoggiare battute che può fare solo lui (“eh, ma dipende da quale Porsche…”) e che forse serve un po’ di abitudine per capire. Come quei detective, alla fine fa rapporto a un superiore, trova una soluzione decente a un mistero, sipario. Nella vita vera sarebbe promosso, diventerebbe famoso, tutti i canali se lo disputerebbero: ma purtroppo siamo nella tv italiana. Lunedì c’è un’altra puntata e io spero di trovarlo di nuovo, per più tempo possibile. 

via Blogger https://ift.tt/2NFmEgS

Senza categoria

Il santo col falcastro in testa

6 aprile: San Pietro da Verona (1205-1252), martire patrono degli inquisitori

Forse perché non potevano vantare un fondatore carismatico come altri Ordini, i domenicani sembrano essere quelli che hanno più puntato sulla riconoscibilità, sia collettiva (il loro saio bianconero è un vero e proprio brand), sia individuale: quando ne incontri uno su una pala d’altare, lo indovini praticamente sempre. Se ha le ali, per esempio, è San Vincenzo Ferrer (5 aprile); se ha il rosario è San Domenico stesso; ma il più riconoscibile di tutti è senz’altro San Pietro da Verona – non capita a tutti i santi, di morire con un falcetto conficcato in testa. I domenicani ne vanno giustamente fieri, al punto da aver conservato la stessa arma del delitto. (Il cui nome più preciso sembra essere “falcastro”).

L’agguato di cui Pietro fu vittima, nel bosco di Seveso, è uno dei fatti di cronaca più noto del XIII secolo, anche perché le circostanze in cui fu commesso permisero all’ordine domenicano il controllo completo sulla narrazione della vicenda. Non solo il compagno di Pietro, Domenico, sopravvisse per qualche ora alle ferite riportate, il che gli consentì di rendere testimonianza dell’accaduto: ma a fare sensazione fu soprattutto il pentimento dei due sicari. Uno dei due, Albertino Porro, si pentì ancora prima dell’agguato e corse a dare l’allarme; mentre Pietro da Balsamo, che materialmente fessurò il cranio di Pietro da Verona con una lama (tecnicamente un falcastro) e ne trafisse il petto con un pugnale, fuggito dal carcere di Milano, si lasciò ritrovare in un convento di Forlì, preferendo probabilmente alla giustizia secolare quella dei domenicani che in cambio di un solenne pentimento lo convertirono (e rinchiusero a vita) (ma una volta morto lo venerarono come beato: si festeggia il 28 aprile).

 


L’assassino raccontò di non essere che un povero contadino che aveva accettato denaro dai catari lombardi per far fuori il loro nemico numero uno. I domenicani decisero di credergli, e ottennero rapidamente l’incriminazione del capo della comunità milanese: anche lui al processo penale preferì la conversione e il perdono dei domenicani. Contro i catari, Pietro da Verona usava soprattutto le armi della persuasione, come raccomandato dal maestro Domenico di Guzman: e però sia a Firenze che in Lombardia, dopo il passaggio di Pietro tra catari e cattolici erano scoppiate battaglie che si erano concluse, di solito, con la violenta affermazione di questi ultimi. Pietro per altro era probabilmente considerato un traditore dai catari, visto che lui stesso raccontava di essere nato da genitori aderenti a quella fede.


È molto raro che un inquisitore, invece di ammazzare qualcun altro, muoia per difendere il proprio credo: non sorprende perciò che Pietro da Verona sia stato proclamato il patrono della categoria, anche se era appena stato nominato inquisitore dal papa (solo per questo, temo, non aveva ancora fatto in tempo a bruciare nessuno). È probabile che molte notizie intorno a Pietro siano state ricostruite dopo il suo martirio, che in mano ai domenicani divenne una straordinaria arma propagandistica: per esempio che a Firenze abbia fondato la prima opera assistenziale, (la Misericordia) e sia stato il padre spirituale dei sette fondatori dell’ordine dei Servi di Maria; che abbia diffuso il rosario in Italia – responsabilità che altri riconducono al maestro Domenico, ma probabilmente il rosario si recitava già. Che “Credo” sia stata sia la sua prima parola da fanciullo, sia la prima preghiera che imparò a memoria a sette anni (magari per infastidire i genitori eretici), sia l’ultima che avrebbe sussurrato agonizzante. Un dettaglio toccante che però i pittori non sapevano come dipingere: finché qualcuno non si inventò la scena di Pietro morente che scrive “Credo” sul suolo con un dito intinto nel sangue. Per quanto nei secoli successivi i pittori si siano adoperati a dipingere domenicani col falcastro in testa, forse il ritratto più toccante lo dipinse il confratello Beato Angelico, senza falcastro ma con la ferita esposta, e il dito a chiudere le labbra, come se dicesse: io per difendere le cose che dicevo mi sono fatto ammazzare; tu pensaci un attimo, prima di dare aria ai denti.

via Blogger https://ift.tt/X43VhWy

Senza categoria

Israele uccide chi vuole, quando vuole, ovunque vuole; e dovremmo smetterla di farci domande

Sembra successo tutto in un giorno, che per qualche perverso motivo è stato il primo aprile 2024.

Fino a tutto il marzo di quest’anno potevamo ancora essere convinti che:

– I messaggeri fossero sacri. Lo sono da millenni; è un principio che nell’era contemporanea è stato formalizzato nella definizione di immunità diplomatica. Gli ambasciatori risiedono in sedi extraterritoriali che anche nelle fasi più cruente di una guerra o di un bombardamento non sono mai stati obiettivi militari. 

– I volontari delle ONG che portano aiuti nelle zone di guerra – col consenso delle forze belligeranti – fossero tutelati, prima ancora che da qualche codicillo internazionale, da un principio di buon senso e di umanità.

– I giornalisti avessero ogni diritto di documentare quello che avviene in un teatro di guerra. 

https://platform.twitter.com/widgets.js
Poi è arrivato il primo aprile, Netanyahu ha annunciato che Al Jazeera non avrà più diritto di operare in Israele (e nei territori che Israele evidentemente occupa, nel mentre che l’esercito israeliano bombardava una sede diplomatica iraniana a Damasco e prendeva di mira, uccidendoli, sette cooperatori internazionali a cui aveva dato il permesso di circolare nella Striscia di Gaza. E all’esercito di questa nazione che prende di mira i giornalisti, prende di mira i cooperatori internazionali, prende di mira i diplomatici, e non lo nega, anzi ormai lo rivendica come suo specifico diritto, l’amministrazione Biden venderà qualche altro jet di guerra di ultima generazione; armi forse un po’ esagerate finché l’obiettivo è desertificare la Striscia; ma la speranza ormai evidente è che scoppi presto una guerra diretta con l’Iran; del resto se bombardi un’ambasciata non è che serva un esperto decifratore di messaggi. E se sembra un po’ esagerato aggiungere che domani potrebbe accadere a voi, a me, a noi, a chiunque muova un dito a favore di qualcuno che Israele considera suo nemico, mettiamola semplicemente così: è già successo. L’IDF ha ucciso Saifeddin Issam Ayad Abutaha, ha ucciso Zomi Frankcom; ha ucciso Damian Sobol, Jacob Flickinger, John Chapman, Jim Henderson e James Kirby. Ha ucciso Rachel Corrie e centinaia di giornalisti: lo ha evidentemente fatto per avvertire noi e chiunque altro voglia mettere il naso nel massacro dei palestinesi, e questo avvertimento noi lo abbiamo ricevuto forte e chiaro; altrettanto forte e chiaro sentiamo la necessità di ritrasmetterlo, non per un sussulto di coraggio ma perché magari qualcuno intorno a noi non si è ancora reso conto, non si è ancora spaventato abbastanza. 

Tutto questo somiglia sempre più all’inizio di una fine. La fine di un certo diritto internazionale, come ci eravamo illusi che funzionasse perlomeno da Yalta in poi; un ordine internazionale basato sull’idea, forse illusoria, forse consolatoria – che le guerre fossero uno stato di eccezione, e che la pace fosse l’equilibrio a cui le nazioni cercavano di tendere. Che tutto ciò dovesse infrangersi, di tutti i luoghi al mondo, proprio a pochi chilometri da Gerusalemme, è un’evidenza carica di una sinistra ironia.
E allo stesso tempo tutto questo non sembra avere un vero senso storico; tutto intorno l’umanità si evolve vorticosamente, le stagioni e i paesaggi cambiano, miliardi di persone nascono e diventano adulte in un mondo che di Gerusalemme si infischia e se ne infischierà sempre più. Persino quello tra Nato e Ucraina, dal punto di vista di cinesi e indiani, è un conflitto poco più che regionale, tra vecchie superpotenze rancorose; chissà cosa ne pensano di quel vecchio contenzioso su una piccola città del Medio Oriente che si trascina ormai da duemila anni. 
Non è vero che stiamo impazzendo tutti per Gerusalemme: in primis sta succedendo agli americani, e non da ieri. Può darsi che Israele alla fine non sia che una concrezione esotica dei loro sogni, delle loro aspirazioni bibliche e messianiche; la conseguenza estrema di un certo modo di concepire la politica come prosecuzione della guerra tra comunità organizzate in gruppi di pressione. Tutto questo che a tanti anche in Europa sembrava un modello, da Tocqueville in poi (ma anche Tocqueville forse andava letto con più attenzione) a un certo punto ha prodotto Bush, ha prodotto Fox News, ha prodotto l’ultrasionismo contemporaneo, ha prodotto Trump. Può persino darsi che abbia prodotto la stessa guerra in Ucraina, che una diplomazia più saggia avrebbe potuto evitare? Non lo so. Quel che so è che è ingiusto prendersela con gli israeliani per quello che fanno, e che possono fare semplicemente perché qualcuno lo consente a loro e soltanto a loro: chi altro potrebbe sognare di prendere di mira ambasciate, volontari e giornalisti, e farla franca. Va a finire che davvero il vecchio Bob ci aveva azzeccato, con quella canzone neanche troppo ispirata: Israele è solo il bullo del quartiere. Dietro a ogni bullo – Bob questo non ce lo diceva – c’è un boss che lascia fare, finché un giorno forse si stancherà, o non si troverà invischiato in guai ben più grandi. Quel giorno, ammesso arrivi, non è stato lo scorso primo aprile.

via Blogger https://ift.tt/YMtkSn4

Senza categoria

Tajani e il bambino nel forno

Stavo appunto riflettendo, senza molto costrutto, sul disastro di Gaza e a cosa posso paragonarlo, per cercare di spiegarlo a me stesso e agli altri; e a come, guardando i volti rapiti dei volontari israeliani che sembrano divertirsi un mondo mentre trasformano una città in un cumulo di macerie che nessuno forse avrà più la capacità di smaltire, mi sia affiorata alle labbra la parola: Pogrom. Un improvviso sussulto di violenza, nei confronti di una minoranza percepita come ostile; dove la diffidenza secolare improvvisamente viene portata a combustione: e la scintilla è molto spesso la propaganda. 

https://platform.twitter.com/widgets.js

Volantini che additano i nemici dello Zar o della Rivoluzione; leggende nere su bambini scomparsi, dati per sgozzati a scopo alimentare; uno potrebbe anche osservare che non c’era bisogno di raccontare cose del genere per sobillare gli israeliani contro Hamas; eppure le leggende sono state raccontate lo stesso, e qualche effetto lo hanno sortito. Stavo riflettendo su questo, e su quanto bisognerà insistere, in futuro, sulla nuvola di disinformazione che si abbatté su di noi nell’autunno 2023: storie incredibili e francamente poco plausibili, spacciate per vere da testate prestigiose e persone esperte e intelligenti. Ora che ormai nessuno le riprende, bisognerà ricordare che per settimane e mesi sono state ripetute con foga sempre maggiore, e hanno offerto a chi era sul campo una scusa e un’ispirazione per commettere crimini di guerra.

Sarà complicato dover riferire di leggende come quella del bambino cotto dai miliziani nel forno a micro-onde, pregando gli interlocutori di credere che è successo davvero – non che un bambino sia stato cotto dai miliziani, ma che fior di giornalisti opinionisti e ufficiali dell’esercito ci abbia voluto credere; e mentre penso a queste cose nell’altra stanza è rimasta accesa una tv, e sento il ministro Tajani spiegare a Bruno Vespa che i miliziani di Hamas hanno cotto un bambino nel forno. “Avrà visto le immagini”. Non sento Vespa rispondere, ma lo immagino annuire. Eppure le immagini non le ha viste nessuno. Non ci sono. È una storia messa in giro dai primi soccorritori, che però non hanno mai fornito prove.

Ora, questo è curioso. Continuo a imbattermi in persone che sostengono di avere “visto le immagini”. Su twitter più o meno un mese fa, una tizia aveva visto un miliziano estrarre il feto da una vittima sbudellata, benché l’episodio fosse stato denunciato come falso mesi prima dalla stessa stampa israeliana. Hanno filmato gli stupri! dicono. Lo hanno fatto per vantarsi, e li hanno visti tutti. Viene il sospetto che qualcosa, tra sette e otto ottobre, sia stato veramente trasmesso. Immagini di repertorio, o fiction spacciata per vera a un pubblico sotto choc. Ma forse semplicemente basta saper usare le parole giuste, mentre in primo piano scorrono fotogrammi che la memoria ricombina a suo piacimento. 

Sia come sia, ormai è primavera. L’Onu ha chiesto un Cessate il Fuoco e per la prima volta gli USA si sono astenuti. Ma ancora per il nostro Ministro degli esteri, Hamas è l’organizzazione che mette i bambini nel forno. C’è un repertorio di vecchie leggende e nuove fake news che ha convinto soldati e civili della necessità di sconfiggere un nemico disumano, a ogni costo. Ora che il disastro si è compiuto, dovranno continuare a crederci, o smettere di credere in sé stessi.  La seconda opzione è più difficile e dolorosa; la prima comporta una fuga dalla realtà che non può portare molto lontano.

via Blogger https://ift.tt/bQNithq

Senza categoria

Un beato, un poliedro

27 marzo: Beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), poliedro

Torino è una gabbia cartesiana di viali a guardia di una selva di follie. Alcune si vedono da lontano; altre necessitano di un occhio più attento. Ad esempio in San Donato c’è un campanile sgargiante che è il più alto della città, ma da vicino rischi di passare senza notarlo perché è sottilissimo – la base quadrata è di 5,5 metri per 5,5. Che razza di architetto può averlo disegnato? In effetti non si trattava esattamente di un architetto perché a Edoardo Arborio Mella subentrò a un certo punto lo stesso committente, il poliedrico Francesco Faà di Bruno. Quest’ultimo non aveva una particolare esperienza in fatto di chiese o campanili; in compenso fu ufficiale dell’esercito, matematico, cartografo, astronomo, inventore, benefattore e prete. E probabilmente mi sto scordando qualcosa. 

Provo da capo: Francesco da Paola Virginio Secondo Maria Faà di Bruno nasce ad Alessandria nel 1825, dodicesimo figlio di Lodovico Faà, marchese di Bruno, e di Carolina Sappa de’ Milanesi, che morì quando aveva appena nove anni. Cinque dei suoi fratelli, ben prima di lui, avevano scelto la vita ecclesiastica: una percentuale ragionevole per una delle più blasonate famiglie di proprietari terrieri del Basso Piemonte. Francesco invece è avviato alla carriera militare, come il fratello maggiore Enrico (che, in qualità di capitano di vascello, affonderà nella battaglia di Lissa). Si diploma all’Accademia di Torino nel 1846, appena in tempo per partecipare alla Prima Guerra d’Indipendenza. Durante l’assedio di Peschiera ha l’occasione di disegnare una carta dettagliata della regione del Mincio. Alla battaglia di Novara è ferito a una gamba e decorato, e benché scrivendo a un fratello si schermisca (“Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere”) qualche indizio ci lascia supporre che l’esperienza della battaglia lo abbia segnato profondamente. Alla fine della guerra il nuovo re, Vittorio Emanuele II, lascia intendere la volontà di nominarlo precettore dei suoi figli Umberto e Amedeo. Non è chiaro quanto fosse vincolante la proposta, ma FdB la prende così sul serio da trasferirsi a Parigi per diplomarsi almeno in matematica alla Sorbona. Quando si ripresenta a corte, due anni dopo, con una license in Scienze Matematiche, scopre che l’incarico è sfumato: come mai? Secondo Giuseppe Palazzini, autore della voce “Faà di Bruno” della Bibliotheca Sanctorum, a causa del “settarismo di alcuni consiglieri dei re” che non lo consideravano adatto in quanto “cattolico fervente”. Nel piccolo regno anche la scelta di un precettore reale poteva essere interpretata come un segnale politico, e in effetti FdB era tornato a Torino in un momento particolarmente delicato: il baricentro del parlamento si stava spostando dall’asse liberal-clericale di D’Azeglio al centrosinistra del connubio Cavour-Rattazzi. FdB non ha ancora debuttato nell’agone politico, ma quando lo farà (1857) si candiderà con i Cattolici Conservatori, gli antagonisti sconfitti dal nuovo astro del Regno: il conte di Cavour. Prima però si congeda dall’esercito. La pagina di Wiki racconta che FdB sarebbe stato sfidato a duello da un ufficiale torinese che lo aveva offeso, sostenendo che non era stato in grado di laurearsi. FdB avrebbe rifiutato di battersi (sempre in quanto “fervente cattolico”), ma avrebbe risposto alla sfida tornando alla Sorbona e completando brillantemente gli studi. Raccontato in questi termini, l’episodio non ha senso: chiunque abbia letto due o tre romanzi ottocenteschi sa che al massimo sarebbe stato l’offeso, ovvero FdB, a domandare soddisfazione; né il Dizionario biografico Treccani né la Bibliotheca Sanctorum riferiscono di questo duello. 

Vabbe’ ma era ovvio, dai.

A Parigi FdB compone non una ma due tesi: una sulla teoria algebrica dell’eliminazione, l’altra sulla meccanica celeste. In entrambi i casi il suo relatore è Augustin-Louis Cauchy, pioniere del calcolo differenziale, ma anche grande filantropo: in pratica l’esempio vivente di come la mentalità scientifica si potesse coniugare con la sensibilità sociale (e un orientamento politico clericale-reazionario).  Nell’armonia delle leggi della fisica e della matematica, FdB riconosce”un’ombra delle perfezioni di Dio”. “Il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”.

Un’altra passione di FdB, la musica, lo porta a confrontarsi con una categoria umana che forse la vita militare e la matematica non gli avevano dato molte possibilità di incontrare: le donne. FdB scrive inni religiosi e ama suonarli all’organo. Le pie donne che frequentano le messe domenicali sono il suo pubblico e le sue interpreti: per loro apre una scuola parrocchiale di canto. Molte sono domestiche di umile estrazione, che il giorno di festa non sanno come occupare il tempo al riparo dalle tentazioni. Per risolvere questo specifico problema FdB istituirà l’Opera della Domenica, scegliendo di dedicarsi a loro, così come Giovanni Bosco aveva scelto gli spazzacamini e Giuseppe Cottolengo gli infermi. Il che ovviamente non significa che abbandoni gli studi scientifici: nel 1855 pubblica un articolo in cui compare una formula che ancora oggi prende il suo strano nome, “Formula di Faà di Bruno”. Nel ’56 comincia a insegnare matematica all’Università di Torino (proseguirà per più di vent’anni, senza mai diventare ordinario), mentre tiene corsi popolari di astronomia. Quando scoppia la Seconda Guerra d’Indipendenza, le mappe del Mincio che aveva disegnato dieci anni prima si rivelano utilissime agli eserciti sardi e francesi: non è una sorpresa che venga invitato a insegnare topografia, geodesia e trigonometria alla Scuola di applicazione del corpo di stato maggiore. Nel frattempo inventò tra le altre cose una sveglia meccanica, un barometro a mercurio e uno scrittoio per non vedenti, ispiratogli da una sorella ipovedente.

Nel 1859 FdB fonda l’Opera di Santa Zita, un complesso assistenziale dedicato alle donne non sposate. All’inizio è soprattutto un centro per la formazione e lo smistamento delle giovani domestiche, ma offrendo la propria disponibilità a una categoria che al tempo era socialmente invisibile, fatalmente FdB scoperchia un mondo di problemi ai quali s’ingegna a trovare soluzioni: un istituto per le donne “intellettivamente non molto dotate”, impiegate in una lavanderia di sua progettazione; un pensionato per donne non sposate o come si soleva dire allora, di “civil condizione”; una classe di magistero per allieve maestre, un liceo, la biblioteca circolante gestita da donne, la tipografia con cui poteva pubblicarsi in casa i canzonieri e i saggi di teologia, e in Via della Consolata un’istituzione top secret: una casa di preservazione per le ragazze madri. Tutto un mondo di donne per cui nel 1864 FdB decise di costruire un tempio a sue spese nel quartiere San Donato: la chiesa di Santa Maria del Suffragio, dove le Suore Minime (ordine fondato ovviamente da FdB) avrebbero pregato per l’anima dei morti nelle battaglie, che nel mondo degli uomini proseguivano copiose. E con la chiesa, FdB disegnò il campanile. Non esattamente una torre campanaria, ma due torri, una sopra l’altra: in mezzo, trentadue colonne di ghisa tinte di azzurro cielo, che amplificano il suono delle campane. Più in alto, un osservatorio astronomico e l’orologio più alto della città. Un’ipotesi è che volesse regalare a tutti gli operai del quartiere uno strumento che avrebbe consentito loro di arrivare puntuali al lavoro e non farsi fregare sulla lunghezza dei turni; e in effetti il campanile segna le ore su tutti i quattro i lati. Non è escluso che Faà di Bruno, scienziato e filantropo cattolico, subisse un inconfessabile spirito di competizione nei confronti dell’altra folle costruzione che in quegli anni stava sfidando il cielo sotto Torino, e che ne rappresentava l’anima più laica: la Mole. Lo stesso architetto Alessandro Antonelli, interrogato come esperto dalla Commissione Edilizia del comune avrebbe definito il campanile l’opera di un genio – però questa cosa la scrive la Stampa, non esattamente la Legenda Aurea, ecco. C’è da dire che fin qui il campanile ha retto i rovesci temporaleschi molto meglio della Mole, senza mai riportare danni significativi.

In un qualche modo il campanile è anche il ritratto di FdB, un poliedro che è una sintesi assurda di razionalità e spericolata fantasia. Amico di don Bosco, su sua istigazione e con l’approvazione di Pio IX Faa’ di Bruno sarebbe diventato sacerdote a ben 51 anni – per morire poco prima di compierne 63, il 27 marzo del 1888: è sepolto nella chiesa da lui disegnata, dove pregano le suore dell’ordine da lui fondato e dove lui stesso diceva messa, vicino al liceo dove insegnava la sua matematica. 

via Blogger https://ift.tt/yrVY2LU

Senza categoria

Ma quale antisemitismo, vergognatevi

C’è qualcosa di osceno nel voler commentare un massacro mentre accade, in presa diretta, e questo la maggior parte delle sere mi fa desistere. Ma poi leggo che invece Molinari è andato in un’università, a spiegare le solite tre idee sciocche che frigge per i suoi committenti da venti e più anni, e ha scoperto che gli studenti non avevano così voglia di ascoltarle; anzi che lo avrebbero contestato. Ha quindi insistito per parlare comunque? per difendere in pubblico, rischiosamente, idee per cui qualcun altro sta morendo in questi giorni? No, anche perché le sue idee consistono alla fine in questo: che tocchi agli altri morire, in Ucraina e a Gaza e chissà dove domani. E quindi, dando prova di perfetta coerenza, Maurizio Molinari se l’è data a gambe, lamentandosi perché qualche decina di studenti lo contestava. In seguito abbiamo scoperto – sul giornale diretto da Molinari – che si tratta di una recrudescenza antisemita, perché Maurizio Molinari è ebreo, non lo sapevate? No, per esempio io non lo sapevo. E adesso che lo so, spero di scordarmelo alla svelta. 

Tutto questo ha passato il segno, molto tempo fa. È in corso un massacro, in un Paese a cui siamo legati da stretti rapporti diplomatici ed economici. Questo ci fa sentire in parte responsabili, se non conniventi. Se questo ci allarma, se questo ci spaventa, è semplicemente perché siamo umani. Quando qualche giornalista cerca di spiegarci che va tutto bene, che non è proprio un massacro, oppure ormai sì, è un massacro ma non c’erano alternative; quando qualche propagandista viene a spiegarci la versione dei massacratori, peraltro senza particolare abilità (non parliamo esattamente di penne di prima scelta) non abbiamo nemmeno più lo spirito di ridergli in faccia. Non per questo lo staremo ad ascoltare. Lo contesteremo, non certo per antisemitismo, ma anche solo per pietà di noi stessi e del propagandista in questione, della sua conclamata mediocrità; della povertà di spirito di chi ha pensato che fosse adatto per quell’ingrato mestiere. Dite che è ebreo? Rispondiamo che non è interessante; lo giudichiamo per le sue idee e le sue idee non sono interessanti. Dite che siamo antisemiti? Dovreste vergognarvi di impugnare una parola del genere, e di banalizzarne così tanto l’uso e il senso. 

Qualche giorno fa un accademico israeliano ha spiegato su Twitter, con chiarezza e semplicità, che secondo lui a Gaza è in atto un genocidio. Se ci fosse andato lui, alla Federico II, immagino che gli studenti lo avrebbero accolto, e discusso volentieri le sue opinioni. Non perché Lee Mordechai sia meno ebreo di Molinari, ma perché le sue opinioni sono basate su quello che è successo negli scorsi mesi e anni a Gaza e dintorni; laddove le tesi di Molinari sono gli spin sempre più inerziali di un think tank di Washington che da vent’anni provoca soltanto disastri. 

Nella Striscia sono morte già trentamila persone, di cui un terzo minori: altre moriranno di fame, per concreta responsabilità dell’esercito israeliano che occupa e bombarda il territorio. Questa per i palestinesi è una catastrofe umanitaria, e per gli israeliani una catastrofe morale da cui il Paese non si risolleverà per almeno una generazione. Almeno credo, ma di questi tempi tutto è possibile, compreso che funzioni l’operazione di maquillage messa in mano a gente come… Molinari. Ma per convincere la maggior parte degli italiani che un genocidio non c’è stato, o c’è stato ma era inevitabile, e portato a termine con la massima moralità, occorrerà un’opera di repressione e propaganda talmente capillare che onestamente non riesco a immaginarla.

Non basterà chiudere TikTok (che secondo il povero Molinari è una “tecnologia più avanzata di quella occidentale”: ora davvero, ma con tutti gli intellettuali ebrei informati e intelligenti, dove l’avete pescato questo qui). Anche tutte le piattaforme sociali occidentali, compreso questa piattaforma dove sto scrivendo, dovrebbero essere sottoposta a censura; così come tutti i quotidiani, beh lì in effetti siamo a buon punto. E poi ovviamente le scuole e le università. Tutto in nome di uno strisciante antisemitismo, nel mentre che al governo c’è ‘na tizia che portava le borse a Giorgio Difesadellarazza Almirante. Dovreste veramente comprare tutti quelli che hanno un prezzo e mettere a tacere gli altri, e forse cinguettando nel vostro cortile sociale vi siete convinti che la cosa sia fattibile. Io non credo sia cosa alla portata delle vostre tasche e soprattutto delle vostre capacità, ma se la guerra continua molte cose impensabili diventeranno pensabili. Nel frattempo io continuerò a spernacchiarvi, dalla mia posizione qualsiasi, vincendo la repulsione, finché potrò: dopodiché amen.

via Blogger https://ift.tt/mN5QnJB

Senza categoria

Lo stratagemma della vergine

13 marzo: Sant’Eufrasia di Nicomedia, vergine astuta

Consegnata dai persecutori pagani a un boia che prima di tagliarne la testa intende stuprarla, Eufrasia promette al suo carnefice di preparare un unguento che lo renderà invulnerabile, come la pozione di Asterix; salvo che può essere preparato soltanto da una vergine. Il boia decide quindi di risparmiarla almeno finché il miracoloso unguento sarà pronto; credendo tuttavia di essere furbo, prima di spalmarselo chiede alla vergine di testarlo su sé stessa. Eufrasia obbediente si strofina l’unguento sul collo e dice al boia: prova a decapitarmi adesso, vedrai che non ci riesci. Il boia picchia più forte che può, ed Eufrasia perde la testa… ma non la propria verginità, che le era più cara. 


L’episodio è un esempio tipico del cosiddetto “stratagemma della vergine”, un tropo narrativo relativamente conosciuto: la prima vergine che riesce a farsi ammazzare con un trucco simile sembra comparire nella Presa di Gerusalemme, una cronaca del VII secolo di cui ci rimangono soltanto frammenti. In quel caso i pagani erano i persiani zoroastriani che verso il 616 strapparono Gerusalemme ai bizantini. Lo stratagemma compare in seguito più volte anche in leggende mediorientali (mentre non è del tutto chiaro se abbia origini precristiane, magari nella letteratura alessandrina). La martire della Presa è ancora anonima; successivamente un sinassario bizantino la chiama Anna ma continua ad ambientare la sua avventura a Gerusalemme. Nel XIV secolo Niceforo Callisto Xanthopoulos nella sua Storia Ecclesiastica sposta l’episodio tre secoli indietro e lo colloca a Nicomedia, dove la martire Eufrasia sarebbe stata arrestata e uccisa dai più tipici persecutori romani. Da qui la riprende Francesco Barbaro nel De Re Uxoria, un fortunatissimo trattato sul matrimonio che fu una specie di equivalente rinascimentale di Innamoramento e Amore di Alberoni, qualcosa che andava assolutamente letta o data per letta per stare in società. Tra quelli che lo lessero davvero, l’inquieto poeta Ludovico Ariosto, che riutilizzò lo stratagemma nell’Orlando Furioso.

Le strisce sono prese dal meraviglioso Orlando Furioso di Pino Zac, editoriale Il Corno 1975
(Credo sia fuori commercio). 

A interpretare i ruoli della martire e del carnefice nel suo poema, Ariosto sceglie con cura i due personaggi più consoni: la dama più casta e insidiata (Isabella) e il cavaliere più violento e orgoglioso, Rodomonte re d’Algeri. L’ironia crudele di Ariosto li fa incontrare proprio nel momento in cui entrambi soffrono la fine di un amore: non lo sapranno mai, ma la causa delle pene di entrambi è lo stesso cavaliere, l’impetuoso Mandricardo. Mandricardo ha ucciso in duello Zerbino, il promesso sposo di Isabella; non solo, ma in un altro canto del poema ha sedotto Doralice, già promessa sposa a Rodomonte. Quel che è peggio è che la stessa Doralice ha ammesso pubblicamente davanti a re Agramante di preferire Mandricardo al fidanzato ufficiale. Per Rodomonte è stata un’umiliazione insostenibile, che lo ha costretto a disertare l’accampamento. Ora si aggira per il sud della Francia, incerto se tornarsene ad Algeri o continuare a vagare alla ricerca di una donna fedele, ammesso che ne esista una. Rodomonte è convinto di no; è appena passato in un’osteria dove i suoi lamenti hanno aperto un dibattito. Un oste ne ha approfittato per raccontare una storiaccia di donne infedeli che somiglia tantissimo alla fiaba di Shahzaman e Shahriyār, la cornice narrativa delle Mille e una notte. Rodomonte approva e zittisce un altro avventore che osa obiettare che le donne alla fine non sono più infedeli degli uomini. Ma poi scende la notte e “il suo pensier” non lo lascia dormire: lo trova ovunque Rodomonte cerchi di fuggire, per terra e sul fiume. È un chiodo fisso che non può essere scacciato da un altro chiodo, e questo nuovo chiodo Ariosto glielo ha allestito alla fine del canto XXVIII, sotto forma di Isabella. 
Anche Isabella sta piangendo la fine di un amore, ma nel suo caso la situazione è relativamente più semplice: dopo infinite peripezie in cui è riuscita a salvare la sua verginità nei modi più inverosimili (a un certo punto era ostaggio di una banda di pirati), Isabella si era infine ricongiunta col suo amato Zerbino, soltanto per vederlo soccombere durante un duello proprio contro il turpe Mandricardo. L’uomo che ha ucciso il grande amore di Isabella per futili motivi (impadronirsi delle armi di Orlando) è lo stesso che per capriccio ha portato via a Rodomonte la sua promessa sposa. Isabella e Rodomonte insomma hanno molto in comune, e non lo sanno. Lo sa Ariosto, e non glielo vuole dire. È il lettore che deve essere almeno tentato da un sospetto: e se trovassero la loro consolazione, l’uno nell’altro? Non sarebbe la coppia peggio assortita del poema. Ma non possono, hanno un ruolo da recitare fino alla fine: Isabella dev’essere casta e accorta, Rodomonte violento e sciocco. Quando lui vede lei, tutta la retorica sulle donne infedeli cede di schianto. Non tenta affatto di violentarla, come si dice in giro: (“E si mostrò si costumato allora / che non le fece alcun segno di forza”). Vuole piacerle, ma in questo si mostra assai meno abile del suo rivale Mandricardo, che proprio con qualche discorso accorato aveva vinto il cuore della sua Doralice. Isabella invece davanti a Rodomonte non smette di sentirsi “qual topo in piede al gatto”, e decide rapidamente “di darsi con sua man prima la morte”. Con parole eloquenti riesce a convincere Rodomonte a lasciarle preparare l’unguento, e il resto lo sapete. Quando Rodomonte vede rotolare la testa di Isabella, capisce di essere stato umiliato anche dall’unica donna casta che è riuscito a trovare, e decide di dedicarle un mausoleo degno di quello di Adriano. 

L’Orlando Furioso è un poema cavalleresco composto nel Cinquecento, molto prima che si sviluppassero gran parte delle convenzioni narrative che diamo per scontate quando apriamo un romanzo contemporaneo. I personaggi sono poco più che marionette, che Ariosto fa giostrare con manovre astute che facilmente confondono il lettore occasionale. Su tutte le scene regna un sovrano senso di ironia, a volte più divertita, a volte più dolente. Mai per un istante il narratore ci autorizza a condividere le tirate misogine di Rodomonte, che vengono sempre segnalate per quello che sono: sfoghi di un uomo frustrato e deluso. E allo stesso tempo in quella frustrazione è molto facile riconoscersi: e se è il caso, condannarsi. È una cosa che i lettori dell’Orlando fanno da secoli: chi oggi accusa l’Ariosto di aver perpetrato una visione del mondo “prettamente maschile”, forse dovrebbe aprirlo e provare a leggerlo. Rimarrebbe forse stupitә dalla quantità di maschi delusi, frustrati, imbelli, giocati e rigiocati da dame più astute – ma non sempre più oneste: c’è una discreta quantità di truffatrici, anche tra loro, e perché non dovrebbero essercene? Ariosto non aveva nessun maschilità tossica da esaltare. Leggendolo si capisce che deve essersi innamorato spesso, soffrendone parecchio: fino a perdonarsi e dimenticare. L’Orlando, se proprio parla di qualcosa, parla di questo. Oppure non parla di niente, è solo una corbelleria, come la chiamava uno sponsor di Ariosto. Ma il giorno che smetteremo di leggerlo ci perderemo qualcosa. 

via Blogger https://ift.tt/MJkYo64

Senza categoria

Il nemico è un insetto

 

Forse non c’è mai stato un video tanto chiaro, nel mostrarci il punto di vista dei giganti: il nemico non è che uno sciame di insetti, che qualche astrusa convenzione internazionale impedisce di schiacciare una buona volta. Sono troppi e non si arrendono, ma anche se si arrendessero sarebbero comunque troppi: non si sa dove metterli e qualcuno da fuori pretende pure di nutrirli. Ma portare aiuti ormai è impossibile, nel fazzoletto di terra che gli abbiamo lasciato sono troppo affamati, instabili, pericolosi, qualcuno dei nostri avrà pure sparato, ma non c’era alternativa. E ora coraggio, fateci pure la morale: ci siamo abituati, a espiare per tutti. 

Come se non fossimo semplicemente i primi a porsi il problema, come se un giorno non toccherà a voi inquadrare i vostri poveri dall’alto, e schiantare qualche folgore per ridurne le sofferenze. Certo che capiterà anche voi, non temete. Anzi speratelo, perché se voi o i vostri figli non saranno dalla parte giusta di questa foto, allora saranno le formichine; per cui coraggio, da che parte state? A chi sceglierà la parte giusta forniremo tutti i particolari, scritture millenarie e un corso di Storia accelerato su tutte le occasioni che noi eroicamente abbiamo colto e che i palestinesi hanno volontariamente scelto di perdere; per gli stomaci forti e le coscienze deboli c’è poi una galleria di orrori veri e presunti che potete rinfacciare a chiunque provi ancora per gli insettini qualche incomprensibile simpatia. Noi non possiamo. Qualcuno deve pure stare in alto a giudicare i poveri e i loro peccati; e abbiamo preferito essere noi. 

via Blogger https://ift.tt/Nl4uY8z

Senza categoria

La guerra mondiale è già cominciata?

La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. (Lessico Famigliare).

https://it.wikipedia.org/wiki/Beatus

– Se anche una guerra mondiale fosse già scoppiata, che senso avrebbe scriverlo qui. Nessuno. O forse il senso è da cercare in quell’antica superstizione italica che prende il nome di scaramanzia. Mentre tutti là fuori fanno previsioni e sperano di azzeccarle (se le fanno tutti i giorni, prima o poi una dovrebbero azzeccarla) può darsi che io scriva per l’esatto contrario; per far sì che quello che immagino non si avveri. Cinque anni fa oggi, una circolare avvisò che le scuole dell’Emilia-Romagna sarebbero rimaste chiuse per una settimana per un concreto rischio epidemico. Io scrissi che mi sembrava assurdo, una settimana non avrebbe cambiato niente. Avevo probabilmente ragione: una settimana non avrebbe cambiato niente. Avevo decisamente torto: le scuole riaprirono in settembre.  

– (Invece due anni fa dissi in una classe di stare tranquilli perché no, i russi stavano soltanto mostrando i muscoli, ma non potevano invadere un’altra nazione sovrana. Purtroppo Putin non volle ascoltarmi e un anno fa cominciai a notare che non stavamo vincendo. Vedete, statisticamente prima o poi uno ci azzecca; mai quando vorrebbe). 

– A chi ti dice che studiamo troppo Storia (sì, qualcuno ogni tanto lo dice), mostra la cosiddetta intervista a Putin di Tucker Carlson. Che appena prova a fare una domanda che abbia senso per un americano (signor Putin, perché ha invaso l’Ucraina?) viene travolto da una lunga digressione storica che parte dalla Rus di Kiev e non può replicare, non può notare le distorsioni, le pure invenzioni, perché non ha la minima idea, non capisce neanche di che millennio si stia parlando. Conoscere un po’ di Storia può aiutarci a non lasciarci fregare dal primo dittatore che ti propone la sua narrazione. 

– Così come può servirti a capire quanto tutto sia relativo, spesso, e arbitrario. Per esempio: quando scoppiò la seconda guerra mondiale, non tutti lo accettarono subito, il nome non prese piede immediatamente. Per diversi mesi sembrò un conflitto circoscritto. È vero, Germania e URSS avevano invaso la Polonia, ma era stata una guerra lampo. È vero, Regno Unito e Francia avevano dichiarato guerra alla Germania, ma per un po’ non successe quasi niente. Poi la Francia fu travolta, e a quel punto De Gaulle lo ammise: questa è una guerra mondiale (l’alternativa era che fosse una guerra persa). Ma quando era cominciata? 

Dipende. È una nozione arbitraria, di solito elaborata dai vincitori. Di solito la consideriamo iniziata il 1° settembre del 1939, come un anno scolastico (che infatti finisce nell’estate di sei anni dopo). Ma è mondiale perché interessa anche il Pacifico, e in Pacifico il Giappone aveva già invaso la Cina da qualche anno. Del resto anche in Europa l’espansionismo tedesco (e italiano) aveva iniziato a manifestarsi ben prima; la guerra di Spagna vede già impegnati bombardieri tedeschi e fanti italiani, contro un governo socialista e sostenuto dall’Unione Sovietica. Potremmo anche dire che la Seconda Guerra Mondiale comincia in Spagna: se non lo facciamo, è perché all’appello mancavano le democrazie occidentali, ovvero quelle che reclamano di averla vinta e scelgono di raccontarla in un certo modo. Molti combattenti, volontari o meno, intuivano già che la Spagna era soltanto uno dei teatri di un conflitto più grande. Nessuno lo chiamava ancora per nome, ma a volte il nome è l’ultima cosa che arriva, quando proprio non si può negare l’evidenza del fenomeno. 

– In questi giorni sta succedendo quasi il contrario: sempre più osservatori ci informano che il conflitto in atto è un conflitto mondiale. C’è un asse del male ormai abbastanza definito: la Cina che appoggia la Russia che istruisce l’Iran che arma Hamas. Criticare Israele significa sostenere la Russia, ovvero tradire l’Ucraina, ovvero sei un traditore della patria dell’Occidente. Questi appelli di solito partono sempre da personaggi di area cosiddetta liberale che due anni fa ci spiegavano che un’eventuale guerra contro la Russia sarebbe stata breve, brevissima, e vittoriosa entro l’inverno. Ora che le cose sembrano andate diversamente, scopriamo che la Russia non ha intenzione di fermarsi, dopo l’Ucraina sarà la volta dei Paesi Baltici, della Moldavia, l’esercito che non ha preso Odessa in due anni ce lo dovremmo trovare a Berlino in pochi mesi. Chi si affanna ogni giorno in questa propaganda spicciola somiglia al giocatore che due anni fa pensava di avere le carte giuste e non vuole accettare che si sbagliava: fosse per lui, continuerebbe a raddoppiare la posta finché la sorte non gliele servirà. Molto meno nervosa appare la destra di governo: vuoi perché deve fare dimenticare anni e anni di simpatia per Putin, vuoi perché governando un po’ il polso del Paese lo senti, e il Paese tutta questa voglia di guerra decisamente non ce l’ha. 

– Ce l’hanno i borghesi. Qui l’analogia è più con la Prima Guerra che con la Seconda: quando a chiedere a gran voce l’Intervento erano le pagliette, gli avventurieri, i futuristi, oltre ovviamente alla Fiat e all’Ansaldo. Oggi invece è una tribù che pur avendo occupato ormai tutti gli organi di stampa lasciati liberi da Mondadori-Angelucci, non riesce ad avere una rappresentanza politica, o meglio: è perfettamente rappresentata dalla sociopatia dei personaggi che dovrebbero rappresentarla, un Renzi o un Calenda o il radicale di turno. Qualche possono fare è bersi la propaganda Nato: rielaborarla in messaggi interessanti per il pubblico italiano è una missione al di sopra delle loro capacità e possibilità. Il grillismo prima, e il covid in poi, li hanno fortificati nella percezione di essere gli unici intelligenti in un Paese di stupidi, e questo è sostanzialmente tutto quello che hanno da dire a chi non gli dà retta: siamo stupidi. Stupidi a non capire che Putin è debolissimo e sta per perdere, serve ancora un piccolo sforzo; stupidi a non capire che Putin è minacciosissimo e potrebbe invadere dopodomani l’Unione Europea, stupidi a manifestare contro un genocidio senza capire che Israele è minacciato nella sua stessa esistenza, stupidi a non capire che un minuscolo Paese al centro del Medio Oriente non è un’esca, bensì un baluardo contro l’invasione araboislamica dell’Europa, e così via. Soprattutto siamo stupidi perché ogni volta che ci chiamano stupidi, non ce ne convinciamo: è sconfortante. Non c’è più Berlusconi a spiegar loro come si parla alla gente, o a parlare alla gente visto che loro non sono capaci: e si vede. 

– Magari non è ancora iniziato, ma un conflitto su scala planetaria è forse inevitabile. Nei prossimi anni la crisi climatica causerà la morte di centinaia di milioni di persone. Non moriranno di caldo – alcuni sì, ma la maggior parte degli effetti del riscaldamento: crisi energetica, carestie, epidemie. A chi ti chiede perché studiare Storia puoi rispondere che a volte ti dà qualche dritta, ad esempio di solito quando compaiono due cavalieri dell’Apocalisse (Carestia, Epidemia) il terzo è dietro l’angolo, ed è Guerra. L’unico motivo per cui una corsa all’accaparramento delle risorse primarie – alimentari ed energetiche – non debba per forza sfociare in un conflitto mondiale è la presenza di arsenali nucleari che garantirebbero a tutte le parti una mutua distruzione assicurata: purtroppo questo è anche il motivo per cui un conflitto su larga scala nel territorio europeo era inimmaginabile, fino a due anni e qualche giorno fa.

– …niente, volevo finire con una nota di speranza, anche solo una battuta, ma non mi viene: se qualcuno vuole aggiungerla qua sotto, prego.

via Blogger https://ift.tt/pSEhTF4

Senza categoria

Il popolo più intelligente (che fine ha fatto)

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un determinista geografico – perlomeno nel senso che credo che la geografia determini il modo in cui stiamo al mondo. L’ho sempre pensata così, quindi all’inizio non era che un pregiudizio: ma in seguito non ho trovato che conferme. 

Ad esempio: c’era una volta, ma neanche tantissimo tempo fa, un popolo che per una lunga e complicata serie di problemi era stato costretto a spargersi per il mondo, e inevitabilmente a mescolarsi con gli altri popoli; pur conservando con una certa ostinazione i riti e le leggende di una cultura millenaria. Ebbene, è probabile che questo popolo nei secoli avesse sviluppato una caratteristica peculiare: un’intelligenza media… sopra la media. Possiamo dimostrarlo? No, ma abbiamo molti indizi: il grande numero di intellettuali di spicco, alcuni dei quali diedero letteralmente vita a intere branche della scienza e della filosofia; la quantità di personalità ascese ai livelli più alti della scena politica e finanziaria senza diritto di nascita, o anche banalmente il numero di premi Nobel conferiti. Non bastava nascere in seno a quel popolo per essere più intelligenti, ma in un qualche modo aiutava. Il perché non è chiaro, e ci dà anche un certo fastidio domandarcelo. Si ha sempre paura di fare un discorso razzista.

Wikipedia

Sarebbe senz’altro un discorso razzista, se considerassimo quel popolo una razza (i nazisti lo facevano); ma siccome nel frattempo abbiamo concluso che le razze non esistono, e in particolare non potrebbe esisterne una che si mescoli nei secoli con le altre che incontra sulla strada, l’ipotesi razziale è facilmente archiviata. Più difficile risulta scartare del tutto un’ipotesi genetico-evolutiva, ovvero una tendenza tipica di quella specifica cultura a premiare gli individui più intelligenti, quelli che imparavano a leggere e a calcolare con meno sforzo; magari erano considerati elementi importanti della comunità e stimolati a sposarsi tra loro e ad avere famiglie numerose; laddove in altre culture individui con le stesse predisposizioni venivano persino disincentivati a figliare, mediante l’istituzione di caste di intellettuali celibi (vedi il cattolicesimo). Un altro stimolo poteva venire dall’appartenere, ovunque nel mondo, a una minoranza quasi costantemente minacciata e angariata; il lavoro intellettuale poteva apparire ai membri di questa comunità una via di fuga dai ghetti fisici e virtuali. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e probabilmente è meglio così – a un dittatore distopico potrebbe venire in mente di istituire un ghetto anche solo per verificare l’ipotesi.

Va bene, direte voi, e il determinismo geografico cosa c’entra? Parliamo di uno dei popoli meno geograficamente determinati del mondo! Ecco, appunto. Erano mediamente più intelligenti, erano spesso perseguitati (forse anche per questo motivo), erano sparsi per tre e più continenti. A un certo punto qualcuno di loro ha pensato, e non sembrava una cattiva idea: ma se ce ne tornassimo tutti nello stesso posto? Non necessariamente quello da cui provenivano i nostri antenati duemila anni fa – oppure no, aspetta, tutto sommato la terra costa lì meno che altrove, andiamo proprio lì. Ecco. Che idea potente. Milioni di persone mediamente più intelligenti degli altri, concentrate nello stesso piccolo spicchio di terra. Cosa avrebbero potuto fare, cosa avrebbero potuto diventare? Una civiltà da fare impallidire l’Atene di Pericle; ebbene, dopo qualche generazione oso dire di no. 

Sarò persino più brutale. Sono andati a vivere nel deserto, sono già diventati predoni. La geografia è un destino. Lo dico senza la minima soddisfazione, perché se invece fossero riusciti a farlo fiorire davvero, quel deserto, sarebbe stata una buona notizia per tutti. Ma per farlo fiorire serve banalmente l’acqua; per avere l’acqua bisogna prenderla ai palestinesi, e il resto della storia lo sapete. Dopodiché certo, Israele continua a essere un Paese culturalmente rilevante, con università importanti e intellettuali di spicco. Sarebbe anche il minimo, coi soldi che arrivano dagli USA ogni anno. Ma se andiamo a vedere un po’ più da vicino, ecco, nelle università gli studenti prendono a sassate i professori dissidenti. I grandi intellettuali hanno una certa età, i più giovani sembrano meno interessanti e più faziosi: esattamente come in Italia, ma perché avrebbe dovuto finire come in Italia?

https://platform.twitter.com/widgets.js

C’erano tutte le premesse perché Israele diventasse un faro per l’occidente e il mondo; appunto, c’erano tutte le premesse tranne la geografia: si vede che la geografia è l’unica condizione necessaria. Prendi il popolo più intelligente del mondo, schiaffalo su una strisciolina di terra con poche risorse, in mezzo ad altri popoli ostili, e guarda quanto ci mette a sviluppare un nazionalismo fanatico, e a devolversi anima e corpo a un militarismo spietato. La più giovane delle nazioni occidentali a costituirsi tale è anche il più grande argomento contro il concetto di nazione. E noi che una volta ci misuravamo con scrittori e intellettuali di straordinario acume, ci ritroviamo a leggere il fondo di una tale Dina Porat, “consulente accademica del centro Vad Yashem e professoressa emerita dell’università di Tel Aviv”. 

https://platform.twitter.com/widgets.js

Parliamo di un temino sconfortante, che in futuro magari sarà usato come pietra di paragone per stabilire la degenerazione dell’intelligenza media nel Ventunesimo secolo, probabilmente a causa della concentrazione di polveri sottili. Attenzione, non sto dicendo che la professoressa sia stupida – mai mi permetterei, non la conosco – ma è decisamente stupido il discorso che sceglie di fare: tarato per lettori incapaci di discorsi complessi, che poi saremmo noi che lo leggiamo. La professoressa ci spiega per prima cosa che la mentalità israeliana è per sua natura occidentale. A riprova di ciò cita… niente, assolutamente niente, l’occidentalità degli israeliani è autoevidente, eventuali prove ci affaticherebbero. Il fatto che gli israeliani stiano combattendo una lotta tribale contro altre fazioni tribali, a dispetto di ogni logica strategica ed economica, non deve distrarci. Se anche si stanno facendo terra bruciata intorno, lo fanno con una mentalità occidentale che “pensa seguendo linee logiche, calcola le proprie mosse in base al profitto e mira al benessere di cittadini e nazioni”, capito? Noi occidentali siamo così, il romanticismo lo avrà elaborato qualche altra cultura. “La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti…” No, aspetta.

Chiedo al lettore, se è arrivato fin qui, un piccolo sforzo. Chiuda gli occhi. Pensi a Lutero. Ad Agostino di Ippona. A Paolo di Tarso. E poi rilegga.

La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti.

Per scrivere qualcosa del genere (e per pubblicarlo sul quotidiano che un tempo era Repubblica), bisogna essere o molto in buona fede, o molto in malafede. Non sta a me determinarlo, ma o la professoressa Porat ignora completamente il pensiero cristiano – il che denoterebbe un tragico abbassamento degli standard qualitativi delle istituzioni accademiche che rappresenta – oppure pensa che ce la beviamo, in fondo figurati se li studiamo davvero, quei Luteri e quegli Agostini.

https://platform.twitter.com/widgets.jsCi sta blandendo, proprio come un accorto mercante beduino blandisce il cliente frescone. Ed eccoci davanti al paradosso del bugiardo: se la prof.sa Porat ci sta prendendo in giro, non è “fondamentalmente onesta”, e quindi non è così occidentale come vorrebbe sembrare, anzi starebbe facendo prova di astuzia levantina… oppure no, è perfettamente occidentale, tranne che la cultura occidentale non è così logica e consequenziale come lei sostiene che sia: magari mira davvero al “benessere di cittadini e nazioni”, ma nel farlo non si preoccupa di dire bugie e causare il malessere di altri cittadini, altre nazioni. Non saprei. Mi sembra tutto così avvilente. Forse la Fallaci era scesa così in basso, ma era anziana, era malata ed era il Corriere, ventidue anni fa. Da tanti errori dovremmo avere capito qualcosa e invece no, siamo ancora allo stereotipo dell’occidentale onesto che non capisce il beduino astuto e malvagio. Tranne che anche questa propaganda di basso livello intellettuale cosa ormai l’abbiamo delocalizzata, la facciamo scrivere direttamente ai beduini.  

https://platform.twitter.com/widgets.js

Quando i leader e gli opinion maker israeliani e occidentali pensano all’Islam e ai musulmani lo fanno sulla base del proprio modo di pensare e delle proprie convinzioni, e non su una profonda e attenta conoscenza della mentalità e delle convinzioni dei musulmani. Credono ciò che vorrebbero fosse vero. Questo è il motivo per cui di fronte ai fatti del sette ottobre Israele si è trovata impreparata…

Ah, ecco, questo è il motivo. Pensi che ingenui, professoressa; noi credevamo che il governo israeliano si fosse trovato impreparato perché incompetente, assorbito dalle beghe interne, e non del tutto ostile all’eventualità che qualche miliziano producesse un casus belli prima delle elezioni USA del 2024. Mentre invece ora è tutto chiaro: non se l’aspettavano perché erano occidentali, cioè un po’ cristiani, cioè un po’ ingenui, incapaci di concepire la malvagità del nemico. Inoltre la terza guerra mondiale è in pratica già scoppiata, perché Hamas è un emissario dell’Iran, che “ha stretto un’alleanza con Russia e Cina. I tre Paesi sono ferventemente anti-americani e anti-occidentali, e quindi ostili ad Israele e agli ebrei”. Quante volte ci è capitato di dircelo in questi anni: chi aspetta i barbari, molto spesso non sa di esserlo. La professoressa è convinta di fare un discorso “occidentale”: razionale, cartesiano, utilitaristico. Laddove sotto una paginetta del genere l’Occidente è morto, o quantomeno riavvolto fino al secolo XI: qualcuno dal balcone ci sta chiamando alle crociate, i cristiani sono buoni e i mori sono cattivi. Certo che questi discorsi si leggevano anche vent’anni fa. Su Libero, sul Giornale. Oggi arrivano su Repubblica, e infiammano quel che resta di una borghesia che, nello spicchio che intravedo da Twitter, mi sembra completamente sconvolta dagli eventi: hanno investito molta emotività su fronti che non stanno reggendo. L’Ucraina è un baluardo dell’Occidente – salvo che il fronte cede; Israele è un baluardo dell’Occidente – peccato che stia commettendo crimini contro l’umanità. Ormai vedo professori cattedratici buttarsi su Milei, il quale per quel che ci è dato da capire ha una concezione dell’economia tanto facilona quanto facilone è l’approccio della Porat al conflitto israelopalestinese. Stiamo diventando tutti scemi? Sono le polveri sottili? O la semplificazione intellettuale e linguistica è quel che avviene quando comincia una guerra, e la guerra è appunto già cominciata?

via Blogger https://ift.tt/W3D0fyc

Senza categoria

Lost in Ratio: Proportional Thinking and the Gaza Catastrophe

(This should be the English translation of this post. Unfortunately, after so many years, my English still doesn’t fit my thoughts, so please be indulgent).

Israel is a complex phenomenon that we shouldn’t try to summarize with simplistic definitions. No doubt about it. But those who argue that it is also an out-of-control sociological experiment have been provided with an important evidence in the last few days: the latest statement from the Israeli embassy to the Holy See.

Why does the Israeli government communicate in such a disastrous way? Here, on a flimsy A4 sheet, we have an exhibition of arrogance and an admission of guilt. “We must consider the big picture”, they say. OK. Those who said the same thing after October 7th were called anti-semitic, but now of course it’s different. So what’s the big picture here? Looks like we should consider that for every militant “killed”, only three civilians have “lost their lives”. Only three civilians out of four, yes, they’re really claiming something like that. They don’t even seem to expect that the interlocutor could react by asking: who caused these three civilians to “lose” their “lives”? The most immediate explanation is that they are accustomed to interlocutors who never ask them these questions: by constantly rejecting any criticism as anti-semitic thoughtcrime, they have slipped into a self-referential bubble where no one would dare accuse them of killing civilians. But it’s not just that.

To be truly convincing, you must believe in what you say, and this is usually one of the flaws underlying every regime based on propaganda: at some point, friction with reality becomes explosive. Whoever wrote that statement seems to believe that three civilian victims for every combatant is a success, something to be proud of. The Israel Defence Force is and will always be the most moral army in the world, and this should be proven by the fact that in wars fought by NATO in recent years, the ratio was higher, 1 to 9 or 1 to 10. How they managed to extract these numbers, I don’t know, I took a look at the data for Iraq and it’s a huge mess. Here I’ll take them for granted because I’m not interested in debunking propaganda; I’m interested in understanding what they’re thinking because it’s the way they think that has led them to the catastrophe of these days.

My hypothesis is that Israeli government officials are so used to communicate ratios that they no longer understand absolute values. This leads to a culture shock, as absolute values are the only interesting data for the rest of the world. The rest of the world realizes that thirty thousand deaths in three months is an immense figure, unparalleled for a contemporary war (and there are many very close and very violent ones). How do Israeli government officials respond? They don’t even try to correct the absolute value (thirty thousand). Instead, they provide a ratio (one militant out of four victims). How the rest of the world is supposed to react? Someone does the math and deduces that the IDF is accusing itself of having eliminated 22,500 civilians. It’s still an enormous number, especially from a government defending itself in The Hague against a charge of genocide. Whoever wrote the statement didn’t probably think that anyone would divide thirty thousand by four and then multiply by three. He was only thinking about the fractional number: three out of four, come on, it’s not bad. In other wars it went worse, why do you even look at us?

Why so much emphasis on the ratio? Well, it certainly looks better than the absolute value. But to think that the rest of the world would buy into this, Israeli government officials must have bought into it first and for a long time. If we now take a look at how they communicated in the last 20 or 30 years, we realize that the habit of turning every absolute value into a ratio between different quantities is practically mandatory for them. Twenty years ago, during the so-called Second Intifada, I called it the Kissinger equation, except it’s not exactly an equation (and I’m not exactly a mathematician). I called it that because at some point the former US diplomat, trying to explain the Israeli point of view, turned an already significant figure of victims (50 victims of suicide bombings) into something much more dramatic: he said that the suicide bombers had killed “the equivalent of 2500” US victims.

How did Kissinger get this figure? With a ratio. 50 Israeli victims stood to the total of Israeli Jews as 2500 victims stood to the total of US citizens. It’s not that it didn’t make sense. The sense was also to make it clear how serious a figure (50 civilian deaths) could be, which in the vast USA may seem almost routine. No, those 50 deaths were a lot because Israel is very small. Here, perhaps, we are at the heart of the whole problem.

Israel is very small. The disproportion between its size and its military and economic power (and its cultural and diplomatic influence) is something unseen since the times of the Greek city-states. Perhaps the catastrophe stems from here: the West is trying to save a too small outpost in every way; it cannot begin to give up pieces of it (it is already too small!), or let an enemy occupy strategic positions on the heights or the coast. But geography is a destiny: if a region is too small, and surrounded by potential enemies, it doesn’t matter how many resources and settlers you can pour on it; one day it will simply cost too much.

Another immense disproportion is between Israel’s smallness and the huge attention it receives from the world. To maintain this attention, to justify it, to alleviate the impression that half the world is fighting over an irrelevant strip of land, Israeli communicators have very quickly become accustomed to turning every number ratios by the Kissinger equation. I could cite endless examples, but I’m lazy. This is a slide published by IDF in 2014. 

Even in 2014 Gaza war, Palestinian deaths were more or less thirty times those of Israelis, but this was not the ratio that IDF wanted to share with us. The Israeli Force was keen to point out to us that the situation, although as usual confined to an area roughly the size of one of the 20 Italian regions, was extremely serious: the equivalent of carpet bombing over more than two-thirds of the peninsula. It’s just propaganda, of course.

Or maybe not. In the eternal debate between those who think that language shapes thought and those who believe that thought shapes language, I wonder if some philospher wasn’t right when he suggested that language and thought eat each other’s tails infinitely. I’m not sure what philospher was and if he really said that. However, it seems to me a powerful idea: man has a thought, to express it he invents a language, and yet language leads him to think in certain ways and not others, which leads him to speak in certain ways and not others, until this thought/language leads him to collide with a reality that no longer corresponds to his thoughts or his words. Many empires have crashed on this problem.

The Kissinger equation, in the way Mr Kissinger applied it, didn’t sound so eccentric. The problem is when you’re not just communicating like this, but you start to think like this. Behind that ratio (one dead Israeli is worth 50 dead Americans) lies an axiom of chilling nationalism: every country recognized by the international community would be worth the same amount. Just as we are used from middle school to divide the GDP by the number of inhabitants, perhaps we should also divide the victims of wars and terrorism. As once I pointed out, this would make the injury of a citizen of the Republic of San Marino a crime against humanity. I was obviously joking. But whoever wrote that statement is serious. 

For him, the absolute number is not of great value. It needs to be contextualized – i.e., introduce a ratio between quantities that shows that other wars have had more victims. Even during the Iraqi War it took years and years of fighting in more cities to put together a similar number of civilian casualties. What happened in the last three months, however, is extraordinarily circumscribed, both in time and space. This is a strong argument for those who speak of attempted genocide. And yet Israeli government officials don’t seem to understand it. It’s possible that they are simply hiding behind the numbers. That would be the most optimistic hypothesis. I have another one: they consider Israel a state at risk of extinction. Any number of collateral victims would ultimately be irrelevant because the essential thing is the survival of Israel: without which perhaps the world would perish. Assuming that the world matters something to Netanyahu: let’s hope so, or let’s hope for his successors.

via Blogger https://ift.tt/027cjYG

Senza categoria

Il pensiero proporzionale e la catastrofe di Gaza

Al Jazeera

Israele è senza dubbio tante cose. Ma chi sostiene che si tratti anche di un esperimento sociologico fuori controllo, nelle ultime ore ha potuto mettere a verbale una prova importante: l’ultimo comunicato dell’ambasciata alla Santa Sede. 

Perché il governo israeliano comunica in un modo così disastroso? Qui abbiamo, in un esile foglio A4, un’esibizione di arroganza e un’ammissione di colpevolezza. A chi in questi giorni ha criticato me e altri perché prendevo per buono il bodycount delle autorità di Gaza (ovvero di Hamas), non posso che segnalare che il governo israeliano quei numeri già da tempo li ha accettati. Anche in questo comunicato non li nega. Oserei dire che li rivendica, ma lasciamo perdere quel che penso io. Cerchiamo di capire cosa pensano loro. 

Bisogna considerare il quadro generale, dicono. Senz’altro. (A chi diceva la stessa cosa il 7 ottobre davano dell’antisemita senza troppi complimenti: ma prendiamolo per un progresso). Per ogni militante ucciso, hanno perso la vita tre civili, spiegano; dando per scontato che l’interlocutore non reagirà immediatamente chiedendo: ma chi gliel’ha fatta “perdere”, la “vita”, ai tre civili? La spiegazione più immediata è che sono abituati a interlocutori che queste domande non gliele fanno mai: a furia di respingere ogni critica come psicoreato antisemita, si sono lasciati cullare in una bolla autoreferenziale dove nessuno oserebbe accusarli di uccidere i civili. Ma non è soltanto questo. 

Per essere davvero convincenti, bisogna credere in quello che si dice e questo è di solito uno dei difetti alla base di ogni regime basato sulla propaganda: a un certo punto l’attrito con la realtà diventa deflagrante. Chi ha scritto questa cosa, ritiene davvero che tre vittime civili per ogni vittima combattente sia un successo, una cosa da rivendicare a testa alta: siamo l’esercito più morale del mondo, lo prova il fatto che nelle guerre combattute dalla Nato negli ultimi anni il rapporto era più alto, 1 a 9 o 1 a 10. Come siano riusciti a estrarre questi numeri non lo so, ho dato un’occhiata ai dati per l’Iraq ed è un ginepraio immenso. Qui li prenderò per buoni, perché non m’interessa debunkare la propaganda; mi interessa capire cosa stanno pensando, perché è il modo in cui pensano che li ha portati alla catastrofe di questi giorni. 

L’ipotesi è che i governativi israeliani siano talmente abituati a usare indici relativi, da non comprendere più gli indici assoluti. Che invece sono quelli che interessano al resto del mondo. Il resto del mondo a un certo punto si rende conto che trentamila morti in tre mesi è una cifra immensa, senza paragoni per una guerra contemporanea (e ce ne sono di molto vicine e molto violente). Come rispondono i governativi israeliani? Non si sognano neanche di correggere il numero assoluto (trentamila). Forniscono invece un indice relativo (un militante su quattro vittime). A questo punto il resto del mondo rimane sbigottito: qualcuno fa l’operazione e deduce che l’IDF si stia autoaccusando di avere eliminato 22.500 civili. Continua a essere un numero enorme: da parte poi di un governo che si sta difendendo all’Aja da un’accusa di genocidio. Ma probabilmente chi ha scritto il comunicato non pensava davvero che qualcuno avrebbe diviso trentamila per quattro e poi moltiplicato per tre. Chi ha scritto il comunicato pensava soltanto al numero frazionario: tre su quattro, dai, non è male, in altre guerre è andata peggio. 

Perché tanta enfasi sul numero frazionario? Beh, senz’altro si presenta meglio del valore assoluto. Ma per pensare che il resto del mondo si beva questa cosa, i governativi israeliani se la devono essere bevuta per primi e molto a lungo. Se ora diamo un’occhiata a come hanno comunicato negli ultimi 20 e 30 anni, ci rendiamo conto che l’abitudine a trasformare ogni valore assoluto in un rapporto tra grandezze diverse è per loro un passaggio praticamente obbligato. Vent’anni fa, durante la cosiddetta Seconda Intifada, la chiamavo equazione Kissinger, salvo che non è esattamente un’equazione (e io non sono esattamente un matematico). La chiamavo così perché a un certo punto l’ex diplomatico statunitense, per cercare di spiegare il punto di vista degli israeliani, trasformava una cifra di vittime già importante (50 vittime di attentati suicidi) in qualcosa di estremamente più drammatico: 2500 vittime statunitensi “equivalenti”).

Come faceva Kissinger a ottenere questa cifra? Con un rapporto. 50 vittime israeliane stavano al totale degli ebrei israeliani come 2500 vittime stavano al totale dei cittadini USA. Ora, non è che la cosa non avesse un senso. Il senso era anche quello di far capire quanto poteva essere grave un dato (50 morti civili) che negli sterminati USA può sembrare quasi di routine. No, quei 50 morti sono tantissimi, perché Israele è molto piccolo. Ecco, siamo forse al nodo di tutto il problema.

Israele è molto piccolo. La sproporzione tra la sua grandezza e la sua potenza militare ed economica (e la sua influenza culturale e diplomatica) è qualcosa di mai visto dai tempi delle polis greche e forse nemmeno a quei tempi. Forse la catastrofe nasce da qui: l’occidente sta cercando di salvare in tutti i modi un avamposto troppo piccolo; né può cominciare a cederne dei pezzi (è già troppo piccolo!), o lasciare che un nemico occupi posizioni strategiche sulle alture e sulla costa. E però la geografia non perdona: puoi rovesciare risorse e coloni, ma una regione troppo piccola sarà sempre troppo difficile da difendere. 

Un’altra sproporzione immensa è tra la piccolezza di Israele e l’enorme attenzione che riceve dal mondo. Per mantenere questa attenzione, per giustificarla, per alleviare l’impressione che mezzo mondo stia litigando per una irrilevante strisciolina di terreno, i comunicatori israeliani si sono molto presto abituati a trasformare ogni numero con l’equazione Kissinger. Potrei citare infiniti esempi, ma non ho tanto tempo. Questa è una slide del 2014, credo che l’operazione si chiamasse Margine di Protezione. Anche in quel caso i morti palestinesi furono più o meno dieci volte quelli israeliani, ma non era questo l’indice relativo che interessava al governo israeliano. Il governo israeliano ci teneva a farci presente che la situazione, per quanto come al solito circoscritta in un territorio grande più o meno come l’Emilia-Romagna, era gravissima: l’equivalente di un bombardamento a tappeto su più di due terzi della penisola. È solo propaganda, certo. 

Oppure forse no. Nell’eterno dibattito tra chi pensa che il linguaggio formi il pensiero e chi ritiene che il pensiero formi il linguaggio, io mi domando se per caso non avesse ragione Charles Sanders Peirce quando suggeriva che le due cose si mangino la coda all’infinito. Lui a dire il vero non si esprimeva così. Non sono nemmeno sicuro che lo abbia mai detto davvero. È possibilissimo che sia io ad aver capito male, in effetti per essere un pragmatista era piuttosto incomprensibile. Mi sembra comunque un’idea potente: l’uomo ha un pensiero, per esprimerlo inventa un linguaggio, e però il linguaggio lo porta a pensare in determinati modi e non altri, il che lo porta a parlare in determinati modi e non altri, finché questo pensiero/linguaggio non lo porta a sbattere contro una realtà che non corrisponde più né ai suoi pensieri né alle sue parole. Molti imperi sono andati a sbattere contro realtà simili. 

L’equazione Kissinger, nel modo in cui la applicava l’omonimo ex diplomatico, non suonava nemmeno così eccentrica: era un banale rapporto, tipico del linguaggio giornalistico americano che ama istituire rapporti tra oggetti lontani e domestici, ad esempio misurare la distanza tra un pianeta e il sole in campi da football. Il problema è quando, oltre a comunicare così, si comincia a pensare così. Perché dietro a quel pensiero (un morto israeliano vale 50 morti USA) c’è un assioma di un nazionalismo agghiacciante: ogni Paese riconosciuto dalla comunità internazionale varrebbe la stessa quantità, diciamo 1. Così come siamo abituati sin dalla scuola media a dividere il PIL per il numero di abitanti, così dovremmo forse dividere le vittime di guerre e terrorismo. Come facevo notare, questo avrebbe reso il ferimento di un cittadino della Repubblica di San Marino un crimine contro l’umanità. Stavo ovviamente scherzando. Ma chi ha scritto quel comunicato è serio. Per lui il numero assoluto non ha un grande valore. Occorre contestualizzare – ovvero introdurre un rapporto tra grandezze che dimostri che altre guerre hanno avuto più vittime. A dire il vero persino durante la guerra in Iraq, per mettere assieme una quantità simile di vittime civili, servono anni e anni di combattimenti in più città. Quello che è successo negli ultimi tre mesi è invece straordinariamente circoscritto, sia nel tempo sia nello spazio. Questo è un grande argomento a favore di chi parla di tentato genocidio, ma i governativi israeliani non sembrano capirlo. Può darsi che si stiano semplicemente nascondendo dietro ai numeri. Sarebbe l’ipotesi più ottimista. La mia è che ritengano Israele uno Stato in perenne via di estinzione. Qualsiasi numero di vittime collaterali alla fine sarebbe irrilevante, perché l’essenziale è la sopravvivenza di Israele: senza la quale perirebbe forse il mondo. Ammesso che del mondo interessi qualcosa a Netanyhau: speriamo di sì, o speriamo nei suoi successori. 

https://platform.twitter.com/widgets.js

via Blogger https://ift.tt/Swy2ERJ

Senza categoria

Questo non è fascismo (non è abbastanza serio)

Nel 1938 l’editore italiano di origine ebraica Angelo Fortunato Formiggini decise di protestare contro le leggi razziali nel modo più spettacolare, lanciandosi dalla Ghirlandina (la torre del duomo di Modena). Si dice che prima di lanciarsi avrebbe urlato “Italia” tre volte. Si dice: ma per un po’ se ne dovette parlare sottovoce. I giornali non riportarono il fatto. Sotto il fascismo andava così.

Continuo a essere convinto che ogni volta che paragoniamo una situazione qualsiasi al nazismo (e al fascismo), noi esprimiamo per prima cosa la nostra scarsa fantasia. Il ‘900 è la nuova Bibbia, ci ha dato le parole che parliamo e i concetti che pensiamo, e non riusciamo a uscirne. Tra l’altro è un secolo di orrori, che fa impallidire quelli della Bibbia vera. Per esempio, chi paragona quel che è successo in Rai questi giorni a quello che sarebbe successo sotto il nazismo (o il fascismo), manca clamorosamente il punto. In un regime davvero nazista un cantante come Ghali… non sarebbe nemmeno nato, ma ipotizziamo che un Ghali relativamente biondo avesse detto davanti ai microfoni del Festival della Canzone Nazista “Stop al genocidio”: come avrebbe reagito a quel punto un regime seriamente nazista?
Non avrebbe reagito.
Nessuno avrebbe risposto niente.
Avrebbe dato alla vicenda la minore importanza possibile. Meno se ne parla, meglio è.
 
Chi era davanti alla tv in quel momento (non moltissimi gli svegli) ne avrebbero parlato un po’, nei giorni successivi, ma non così tanto, anche perché in sé la frase non dice molto: stop al genocidio, e ci mancherebbe, chi sarebbe mai favorevole a un genocidio? Nemmeno chi lo commette, di solito, sostiene di esserlo. E poi di che genocidio si tratterebbe? Alla radio ogni tanto parlano di un genocidio da qualche parte in Cina – gli uiguri? O forse in Congo, meno male che il nostro beniamino Ghali Biondo ci ricorda che esistono anche questi lontani scenari di guerra. Bravo Ghali Biondo, e sarebbe finita lì.
L’Eiar funzionava così. L’Eiar non improvvisava. Se avete dato un’occhiata a qualche cinegiornale Luce, sapete che non avevano nessuna remora a parlare di crimini di guerra. Purché fossero crimini imputabili agli inglesi, o ai sovietici.  
Invece nel nostro Paese, che chiamare fascista è offensivo (forse a questo punto è anche offensivo nei confronti del fascismo), un cantante ha cantato che non gli sembra giusto bombardare gli ospedali… e nel giro di poche ore il presidente di una importante comunità aveva scritto un comunicato in cui definiva inaccettabile, giuro, inaccettabile, il fatto che una canzone stigmatizzasse gli ospedali bombardati. Dal che cosa dobbiamo dedurre: che la comunità in questione è favorevole a bombardare ospedali? O piuttosto che il loro rappresentante non li sta rappresentando al meglio?
I cantanti di mestiere vendono canzoni, e se un po’ di polemica li può aiutare, troppa rischia di essere controproducente per cui lo stesso Ghali, lo stesso Ghali! ha immediatamente tentato di stemperare la questione, dichiarando di avere scritto quel verso prima del 7 ottobre. E la sera successiva si è limitato ad aggiungere “Stop genocidio”. Nient’altro.
Ed è scoppiata una crisi diplomatica.
Per Ghali. 
L’indimenticabile interprete di “Chi se ne frega dei tuoi ma, dei tuoi se, dei tuoi bla-bla”.
Ghali. 
Se la situazione non fosse tragica, sarebbe persino divertente, perché davvero, non si è mai vista a memoria d’uomo una coda di paglia così grande. Ghali ha detto “Stop genocidio”, e il giorno dopo l’ambasciatore israeliano ha sentito la necessità di rispondergli, trasformando un cantante famoso tra i ragazzini nel nuovo punto di riferimento del pacifismo italiano. Merlo lo ha già definito antisemita, e come ti sbagli? Un’AI sarebbe stata meno prevedibile, magari Merlo ormai adopera l’AI, oppure l’AI adopera Merlo. Costretto da cotanti interlocutori a ritornare sull’argomento a Domenica In, Ghali non ha detto molto di più, ma tanto è bastato per costringere Mara Venier a leggere un comunicato della direzione, e se credete che tutto questo sia il fascismo avete una strana idea del fascismo. Questo è il risultato di un sistema mediatico che invece di troncare e sopire ogni dissenso, lo stimola e amplifica finché non diventa una crisi diplomatica. Questo è anche il disastro comunicativo che si verifica quando qualcuno che crede di avere ben saldo il controllo della narrativa scopre che non è così: un cantante qualsiasi ha notato che il re è nudo e non c’è più niente che si può fare. 
Ovvero no: si può continuare a sfilare nudi, portando a casa almeno un po’ di coerenza e decenza, come il re della favola di Andersen. Invece il re che abbiamo visto all’opera in questi giorni sta passando il tempo a strepitare sui giornali e sui social che lui non è nudooooooo! basta dire che sono nudoooooo! Questo è un vestito finissimooooooo, posso mostrarvi le fatture dei sarti di fama mondiale, voi non lo vedete perché siete incompetenti. Saremo anche incompetenti, ma la sentenza preliminare della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja l’abbiamo letta; c’è scritto che i rischi di genocidio erano concreti e che Israele doveva prevenirli. Questo, alcune settimane fa: dopodiché il governo israeliano ha intimato i profughi palestinesi di raggiungere Rafah, e ora sta bombardando Rafah. Un’altra cosa che il governo ha fatto è cercare di screditare l’UNRWA, che aveva fornito gran parte delle prove ammesse alla Corte. Ma per ora nessuna accusa è stata provata. 
Ora vi prego di seguirmi: se Israele, che doveva prevenire un genocidio, non lo sta facendo, e anzi sta distruggendo archivi e cimiteri – i segni della secolare presenza palestinese a Gaza – premendo la striscia come un tubetto di dentifricio sul varco di Rafah, si sbaglierà più di tanto Ghali a dire “Stop genocidio”? Che non vuol nemmeno dire che il genocidio ci sia già stato. Vuol dire che il rischio c’è, perdio, siamo a trentamila morti, due terzi civili, se avete paura a usare la parola in questo momento, per quale motivo al mondo abbiamo perso tempo a insegnarvela? Lo capite che tutta la Storia che avete studiato serviva a evitare di ritrovarvi qui, ora, di fronte a una catastrofe, con gli occhi chiusi per non vedere, e la bocca piena di se, di ma, di bla-bla, per non sentire?  
No, non solo Ghali non sbaglia, ma non dice niente di eccezionale. Quel che dice diventa eccezionale perché nessuno professionista ha il coraggio di dirlo. Ghali e Dargen D’Amico – quanto dev’essere frustrante passare anni e risorse a piazzare un po’ di gente in tutto il sistema mediatico e politico, a blandire e minacciare, per poi scoprire che la gente dà retta a un tizio vestito da scemo che cantava Fottitene e balla? Di chi è esattamente la colpa, se Ghali e Dargen D’Amico sono più informati e attendibili della Repubblica e del Corriere? Quanto può essere ridicolo un Montanari che non pubblica l’intervista a Ghali finché non prende le distanze da Hamas, come se i lettori fossero più interessati alle lezioni di Montanari che alle parole di Ghali? Diteci ancora una volta, coraggio, che i giornali stanno sul mercato perché danno alla gente quello che vuole leggere.  
Come ha notato per esempio Anna Momigliano su Haaretz, in Italia di Gaza non si stava parlando molto, prima di Sanremo. E Ghali non ne stava praticamente parlando, prima che i filoisraeliani non lo stimolassero in tal senso. Convinti di avere dalla loro parte una cassa di risonanza che non funziona, anzi li stordisce, li convince di avere il polso di un pubblico che semplicemente non li conosce. Se sulla Repubblica non esce un’intervista a Ghali, non è certo un danno per Ghali. Sarebbe un danno per Repubblica, se non avesse chiuso, qualche anno fa.

via Blogger https://ift.tt/Iv6C8Mh

Senza categoria

Per favore, Angelina Mango, rinuncia all’Eurovision Song Contest

Cara Angelina Mango

per prima cosa, complimenti: hai vinto il festival della canzone italiana, al termine di una delle edizioni più seguite e più combattute. Con la tua vittoria hai probabilmente scritto una pagina della storia della musica italiana, e tante altre frasi fatte che potrei scriverti, prima di passare al dunque. Perché alla fine, se ti scrivo, è soltanto perché devo chiederti un favore. Molto grande.

Cara Angelina Mango, 

in quanto vincitrice del festival, hai il diritto di partecipare all’Eurovision Song Contest. Immagino che si tratti di un’occasione non piccola per far conoscere il tuo brano e la tua bravura anche all’estero. Ecco il motivo per cui ti scrivo. 

Devo chiederti di non partecipare: di boicottare l’Eurovision Song Contest. 

Sì, lo so, non sono cose da chiedere a un’artista.  

Ma non so a chi altro rivolgermi, sono abbastanza disperato. Proprio in questi giorni in cui tu hai avuto altre cose cui pensare, il governo israeliano ha chiesto ai civili palestinesi di evacuare Rafah, perché deve smantellare le basi di Hamas che a quanto pare adesso si troverebbero lì – è tre mesi che le cerca, devastando la Striscia nel processo. In queste ore l’esercito israeliano sta già bombardando Rafah. I civili dovrebbero andarsene, ma c’è un problema: Rafah è l’ultima città della Striscia. La gente che tre mesi fa ha accolto un simile invito ad andarsene da Gaza, è scappata più a sud, a Khan Younis – salvo che gli israeliani hanno bombardato e occupato anche Khan Younis, invitando la popolazione ad andare ancora più a sud, appunto a Rafah. Più a sud di così non possono andare, c’è solo il confine egiziano, che rimane chiuso. Ci sono centinaia di migliaia di civili in trappola, a Rafah. Negli ultimi tre mesi ne sono morti più di 25.000, uccisi dalle bombe e dai fucili dell’esercito israeliano. Più di un terzo erano minori. Sono numeri che il governo israeliano non contesta. È chiaro che tu non hai nessuna responsabilità di tutto questo.

https://platform.twitter.com/widgets.js

Però all’Eurovision gareggerai contro gli artisti di altri Paesi, tra cui Israele, che ha già ufficialmente presentato la cantante che difenderà i suoi colori. Ora, parliamoci chiaro: l’Eurovision è una baracconata al quadrato, che moltiplica due cose che sono già baracconate in sé: le competizioni tra canzoni e le competizioni per nazioni. Tu ci vai a promuovere la tua canzone, non a difendere l’Italia; e allo stesso modo la tua collega non andrà a difendere Israele, né a rappresentare le decisioni del governo o i bombardamenti dell’esercito. E però ci andrà. Come se non stesse succedendo niente. 

Questa cosa, perdonami, la trovo insopportabile. Non è vero che non sta succedendo niente. Due anni fa, come sai, la Russia è stata esclusa dall’Eurovision in seguito all’invasione dell’Ucraina. I rappresentanti di diverse nazioni (non l’Italia) avevano annunciato che se la Russia restava in gara, loro non avrebbero partecipato. A tutti gli osservatori non filorussi sembrò una decisione ragionevole, un modo per dare un segnale al governo e alla popolazione russa: non possiamo tollerare un’invasione a poche centinaia di km da casa nostra, non possiamo giocare assieme a votare il cantante mentre c’è chi bombarda e uccide. Ecco. Due anni dopo il messaggio che rischia di passare è l’opposto: che il governo israeliano può fare quello che vuole senza che nessuno, almeno in Europa, si opponga. E cosa vuole fare il governo israeliano?

Youtube

C’è una sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja che lo mette nero su bianco: Israele deve prevenire qualunque atto che possa essere ricondotto a genocidio. Il che significa quanto meno che il rischio di genocidio c’è. Dopo averla recintata e isolata dal mondo per decenni, l’esercito israeliano sta distruggendo la Striscia. I soldati stanno uccidendo migliaia di palestinesi, cercando di forzarne l’esodo in Egitto. Ufficialmente lo fanno per eliminare i guerriglieri di Hamas e ritrovare gli ostaggi, ma non sembra che stia funzionando. Inoltre compiono azioni che non sembrano avere molto a che fare con l’antiguerriglia. Ad esempio, distruggono gli archivi. e smantellano i cimiteri. Per quale motivo al mondo un esercito in guerra può perdere tempo a eliminare tombe e documenti? Mi viene in mente un solo motivo: cancellare la storia degli abitanti di Gaza, impedire che in futuro qualcuno possa dimostrare l’entità di quello che è successo. Ma come (potresti obiettare), sappiamo bene cosa sta succedendo: ci sono i giornalisti sul posto. Ormai non più, dall’inizio della crisi ne sono morti più di cento, sotto i bombardamenti o colpiti da armi da fuoco. È un numero assolutamente eccezionale, per un teatro di guerra così circoscritto. Sembra proprio che i giornalisti siano presi di mira dai militari israeliani. 

È come se in gioco non ci fosse soltanto la vita di centinaia di migliaia di persone (il che già basterebbe) ma la nostra oggettività. Israele è un Paese nostro amico, e quindi può riscrivere la sua storia a piacimento, e noi dobbiamo far fingere che sia tutto ok, che un tentativo di genocidio sia semplicemente un’operazione antiterroristica. Dobbiamo continuare a raccontarci questa cosa finché non cominceremo a crederci. Scrivere nei nostri libri che i palestinesi erano una sparuta minoranza che a un certo punto si è dileguata per cause naturali, e poi farli leggere ai nostri figli finché non si convinceranno che sia andata così. Questa normalizzazione comincia oggi, quando un tuo collega dice “stop genocidio” e la Rai taglia la frase dal video dell’esibizione; quando si parla dell’Eurovision e diamo tutti per scontato che ci saremo noi e ci sarà anche Israele.

Cara Angiolina Mango, il giorno del tuo trionfo a Sanremo ha coinciso con il giorno del ricordo dei massacri delle foibe, forse hai sentito a un certo punto Amadeus che ne parlava. Si tratta di un episodio storico molto controverso; ti basti pensare che su wikipedia le stime dei morti infoibati oscillano tra le tre e le undici migliaia. Anche volendo prendere il numero più alto, si tratta di un massacro inferiore a quello che è avvenuto a Gaza negli ultimi mesi. Da cui la solita domanda: a cosa serve ricordare un episodio di 80 anni fa, se non a impedire che cose simili succedano? E se lasciamo che cose simili succedano senza opporre nemmeno la nostra coscienza, a che ci serve ricordare episodi di 80 anni fa?

https://platform.twitter.com/widgets.js

Cara Angiolina Mango,

probabilmente sto sbagliando tutto. Il conteggio dei morti non è mai un argomento efficace. La fantasia umana ha dei limiti oltre ai quali non riesce più a concepire l’orrore: tremila, trentamila, non fa nessuna differenza. Per questo motivo i comunicatori più abili di solito si concentrano sui casi singoli. Forse avrei dovuto parlarti semplicemente di Hind Rajab, la bambina di sei anni che è sopravvissuta per qualche ora al bombardamento che aveva ucciso la sua famiglia. Stavano scappando da Gaza in automobile, quando è stata presa di mira. La cugina quindicenne è riuscita a chiamato la Mezzaluna Rossa prima di morire. La Mezzaluna Rossa ha richiamato e solo Hind poteva rispondere, così ha risposto. Ha implorato che la venissero a prendere, era lì nascosta tra i cadaveri dei parenti e aveva paura del buio. Il personale della Mezzaluna Rossa ha contattato l’esercito israeliano, ha chiesto di poter accedere all’area. Ha aspettato per ore. Finalmente un’ambulanza è potuta partire, ma non è mai arrivata. L’esercito ha sparato anche all’ambulanza. Non è così raro laggiù. I volontari che partivano, sapevano che il rischio c’era. Ma c’era una bambina sola al buio, e così sono andati. Tutto questo non è normale, non dovrebbe succedere. Se abbiamo la minima possibilità di impedirlo, dobbiamo utilizzare quella minima possibilità. 

Così la mia minima possibilità, stasera, è domandarti questa cosa: per favore, prendi almeno in considerazione l’idea di non partecipare all’Eurovision. Che poi diciamocelo, hai già vinto Sanremo, cosa dovresti dimostrare all’Eurovision? Tutti gli anni una canzone vince l’Eurovision: di solito è un ritornello scemo e ce ne dimentichiamo la settimana dopo. Ma se tu riuscissi a dire, nei prossimi giorni: preferirei non andare, mi sento a disagio a partecipare; vorrei che prima di partecipare Israele si attenesse alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia e prevenisse un genocidio, ecco, credo che milioni di persone in Italia, e in Palestina, e in tutto il mondo (persino in Israele) non ti dimenticheranno più. Scriverai un’altra pagina di storia, persino più nitida di quella che hai scritto ieri.  

E poi certo, qualcuno se la prenderà. C’è gente che non sopporta nemmeno di sentire le parole “stop genocidio”: le considera offensive, forse non sa cosa significa genocidio, oppure pensa che è una buona cosa, non lo so. Esiste gente così, e se tu dici che non vuoi andare all’Eurovision, si offenderà molto. Ma è gente che non ti avrebbe ascoltato comunque. E siccome non si può piacere a tutti, probabilmente la cosa migliore è scegliere di non piacere a chi difende i genocidi. Scusami, sono stato troppo lungo. Grazie. E ancora complimenti.

via Blogger https://ift.tt/OShP618

Senza categoria

Tutto intorno a Fiorello (che non ne può più)

Ci sono cose molto più orribili che succedono tutti i giorni, ma parliamo pure di Fiorello. È più interessante di quanto sembri, giuro. 

La tv ormai è un medium anziano, con una terribile sensibilità per la storia, la tradizione, e per il Canone – non quello che si paga, ma una galleria di artisti e contenuti il cui valore dovrebbe essere tramandato di generazione in generazione. Per cui il banale format falloniano – prendi una celebrità, costringila bonariamente a fare qualcosa di molto stupido – doveva comunque essere intinto in una soluzione di malinconia. In effetti se vi ricordate, io inspiegabilmente me lo ricordo, John Travolta a Sanremo ci era già andato e credo con Victoria Cabello aveva già fatto lo stesso inutile siparietto di coreografie: Stayin’ Alive, Grease e Pulp Fiction. Che altro fargli fare, del resto. Ecco, se lo domandi a qualsiasi autore di media sensibilità, probabilmente scuoterà la testa: nient’altro. 
Ma se lo domandi a Fiorello (o ai suoi autori), il risultato è qualcosa che può indurre a vergognarsi persino l’immortale interprete di Senti chi parla 3 e il produttore di Battaglia per la terra. Il ballo del qua qua è oltre, ma perché? Una chiave ce l’ha data lo stesso Fiorello (Fiorello queste chiavi le fornisce sempre, perché parla molto): noi oggi qui ti roviniamo la carriera. Stava scherzando, ma Fiorello ha questo modo di scherzare, lasciatemelo dire, siciliano, che a me dà spesso un brivido. Non perché Fiorello possa veramente rovinare la carriera di JT (più di quanto non se la sia già JT complicata da solo). Ma perché non gli dispiace veramente farci capire che ne sarebbe capace. Scherzandoci su, per carità. Che poi davvero ha mai rovinato la carriera di qualcuno, Fiorello? Mi vengono in mente solo personaggi che ha aiutato. Magari quelli che cancella lui scompaiono sul serio, anche dalla mia memoria. O forse sotto quella bonarietà da imbonitore che mi induce sempre a diffidare, Fiorello non è una persona cattiva. Vuole solo che ogni tanto lo sospettiamo.  
Da giovane Fiorello è diventato molto famoso e molto in fretta, al punto che è quasi un caso se non ci è rimasto secco. Da lì in poi ha goduto di una specie di rendita di posizione. Mentre tutti davano per scontato che fosse il mattatore che avrebbe salvato la tv generalista, Fiorello ha avuto un po’ di tempo e di agio per capire i suoi limiti. Fiorello voleva fare il cantante, ma avrebbe dovuto lavorarci di più. La tv lo voleva come Grande Presentatore di Varietà, l’unico degno successore di Pippo Baudo: ma avrebbe dovuto fare quel passo indietro che non è mai stato in grado di fare. Baudo sapeva far brillare gli ospiti, e ai comici faceva da spalla; Fiorello vuole essere capocomico e gli ospiti tende a eclissarli, ormai lo sa e ci scherza sopra: se vai ospite nel suo programma ti può capitare di esibirti ai semafori. Rispetto a Fallon c’è una punta di cattiveria che rivela una mentalità più feudale: Fiorello nel suo spazio televisivo è signore assoluto, se lo è conquistato vincendo determinate battaglie e cedendo soltanto ad alcuni compromessi, e se vuoi essere suo ospite devi svegliarti all’ora che piace a lui, giocare al gioco che ha scelto lui. Lui suona e tu balli e chissenefrega se sei Hollywood (la solita Hollywood a cui Sanremo chiede una scintilla consunta di internazionalità): qui comando io e questo è il ballo del qua qua, John, balla.
Per un’ironia della situazione (la situazione è quella di una regressione culturale pluridecennale) il feudo personale di baron Fiorello è comunque il programma più innovativo di tutti i palinsesti Rai, se non l’unico. Se ci pensate è una cosa di cui nessuno sentiva l’esigenza – un varietà alle sette del mattino – e che mescola con una fluidità impressionante il linguaggio radiofonico e quello dei social. A riprova del fatto che ogni innovazione nasce da un errore di percorso, da una mutazione imprevista che si dimostra più efficace nell’adattarsi all’ambiente, Viva Rai 2 non è nata a tavolino come uno spazio per la sperimentazione, ma è semplicemente quel che è successo quando hanno chiesto a Fiorello: va bene, il varietà tradizionale no, e allora cosa ti piace fare? e lui deve aver risposto: mi piace svegliarmi presto. E si sono tutti messi a svegliarsi presto per adattarsi al bioritmo di Fiorello. Il programma è centrato su di lui al punto che letteralmente si mangia l’inquadratura: non gli basta essere il centro, a volte gioca col chroma key per fare anche da sfondo. Tutto è basato su di lui, va bene, e allora qual è la novità?
Che lui è stanco. Non ne fa mistero: ha sessant’anni, una paura sincera di perdere il filo mentre parla (le due spalle dovrebbero aiutarlo in questo, ma fanno comunque fatica a reggere il ritmo). Come è tipico di chi fa lo stesso mestiere da troppi anni, si è rotto i coglioni soprattutto di provare: gli sketch con Biggio sono sotto il livello delle scenette dei turisti ai villaggi, non tanto per i testi ma perché questi due professionisti non riescono a stare seri per due minuti, non gliene potrebbe fregar di meno, buona la prima e vai con lo stacchetto. Qualcuno ogni tanto tira fuori Arbore, ecco, la prima differenza è che dopo una stagione Arbore salutava, passava in cassa e andava a inventarsi qualcos’altro. Fiorello non ce la fa, gli piace troppo presentare, invitare gli ospiti e cantarci sopra, e soprattutto, sospetto, gli piace comandare. Ogni tanto ci mostra il telefono e ci fa vedere che può chiamare chiunque, in qualsiasi momento: anche alle sette del mattino. L’agente del tal cantante gli manda una canzone pregandolo di non farla ascoltare entro la tal data, come è prassi nell’ambiente: lui ridacchia e la mette su il giorno prima, tanto è Fiorello, chi è che può permettersi di litigare con Fiorello? 
Un’altra differenza con Arbore è che quest’ultimo veniva dal jazz: l’idea era imparare un tema, chiamare dei professionisti che l’avrebbero saputo suonare a occhi chiusi, e farli improvvisare. Fiorello viene dai villaggi, infierisce ancora sugli ospiti come gli animatori sui turisti: dai, balla il ballo del qua qua che è divertente. Gli altri turisti in effetti in quel momento ridono: tu no ma vabbe’, riderai domani, e poi non si può piacere a tutti. 

via Blogger https://ift.tt/7dzX1RS

Senza categoria

Il papa più sconfitto (ma infallibile)

7 febbraio: beato Pio IX (1792-1878), papa sconfitto

Pio IX è stato il primo papa a essere
fotografato (questa è del 1864 e non è
la prima). 

Quant’è difficile scrivere un pezzo su Pio IX senza sembrare papalino o anticlericale. Ne abbiamo già parlato: i santi più difficili sono quelli dell’Ottocento. I santi del secolo precedente tutto sommato sono ancora variazioni roccocò sui modelli antichi o medievali. Quelli del Novecento sono alieni, ucronie ambulanti, personaggi di fatti di cronaca o agghiaccianti film di guerra, i pezzi quasi si scrivono da soli. Il fatto è che dopo aver forgiato il nostro immaginario per millenni, da cento e qualche anno la Chiesa è diventata qualcosa di esotico, che merita rispetto come tutte le culture in via di estinzione. In mezzo però c’è questo secolo complicato in cui è avvenuta la transizione, un secolo in cui la Chiesa ha combattuto una guerra per l’egemonia culturale, ed evidentemente l’ha persa: e nessun uomo rappresenta questa sconfitta meglio di Pio IX. Nessuno ha regnato quanto lui (tradizionalmente lo si considera il pontificato più lungo dopo quello di Pietro, del quale però non abbiamo vere notizie), per 31 anni. Nessuno ha acceso speranze tanto vive nei contemporanei, e ispirato tanta delusione. 

Giovanni Maria Battista Pietro Pellegrino Isidoro Mastai-Ferretti nasce a Senigallia nel 1792, nono figlio del conte Girolamo Benedetto Gaspare. Nella giovinezza è soggetto a crisi epilettiche che in famiglia vengono fatte risalire a un trauma cranico riportato a cinque anni a causa di una caduta in un torrente. Oltre a interrompere gli studi regolari presso il collegio degli Scolopi, le crisi non gli consentono di assolvere il servizio di leva presso l’esercito del napoleonico Regno d’Italia; anche dopo la Restaurazione la nuova Guardia Pontificia lo congeda quasi subito, dopodiché Giovan Maria Battista guarisce e non avrà più crisi epilettiche in vita sua. Il miracolo viene collegato al primo incontro che avrebbe avuto con Pio VII, presso il santuario di Loreto: il papa gli avrebbe detto semplicemente “Crediamo che questo crudele male non vi tormenterà mai più”. Detto, fatto. Invece di riprovare con la carriera militare, Giovan Maria scopre la vocazione ecclesiastica, che nello Stato Pontificio corrispondeva con quella burocratico-amministrativa. Il primo incarico, presso un’istituzione di orfanotrofi, non sembra molto prestigioso, e dovrebbe corrispondere a un’umile predisposizione all’apostolato e alla beneficienza che lo avrebbe portato a rifuggire cariche più importanti. Potrebbe anche essere andata così, ma parliamo di un uomo che ha avuto trent’anni di tempo per aggiustare la sua biografia/agiografia. A trent’anni partecipa a una missione diplomatica in Cile e in Uruguay, terre al tempo lontanissime: è il primo papa ad aver messo piede in Sudamerica. A trentacinque è già vescovo di Spoleto, dove accade un altro episodio leggendario: durante i moti del 1831 avrebbe salvato la vita a un facinoroso carbonaro dal cognome illustre, Luigi Napoleone Bonaparte. Di vero c’è che durante i moti Giovan Maria riuscì a trattare una resa pacifica degli insorti ed evitare uno spargimento di sangue. Un’altra occasione di dimostrare sangue freddo e senso pratico è il terremoto dell’anno successivo; dal 1832 Mastai-Ferretti è promosso vescovo di Imola e nel 1840 è già cardinale.

Quando viene eletto papa (1846), Pio IX ha appena 54 anni ed è il candidato della fazione più liberale del conclave. È un liberalismo molto relativo: Mastai-Ferretti esalta i neoguelfi che immaginano una federazione delle monarchie italiane guidate dal Papa, piace al popolo che lo ha visto amministrare Spoleto e Imola e ne apprezza la sensibilità filantropica, ma nemmeno dispiace a Metternich che intuisce in lui un uomo d’ordine: e si sbaglia meno degli altri. Il papa appena incoronato deve promulgare un’amnistia che rimette in circolo diversi carbonari democratici e liberali: è la prassi, ma democratici e liberali la vedono come una scelta di campo: Pio IX arriva al fatidico 1848 acclamato come il Papa Liberale, ma la situazione gli sfugge di mano. Quando Milano e Venezia si liberano degli austriaci, il nuovo re di Sardegna dichiara guerra all’Impero e attacca la Lombardia. Sull’onda dell’entusiasmo anche nello Stato della Chiesa si forma un esercito di volontari antiaustriaci: il papa li lascia partire, poi forse si rende conto che l’Austria potrebbe ancora vincere e prova a richiamarli – col risultato di scontentare tutti. Quando il suo primo ministro, Pellegrino Rossi, viene assassinato dai democratici che osteggiano il progetto federativo, Pio IX teme di essere il secondo della lista e scappa a Gaeta, ospite del re delle Due Sicilie. A Roma viene proclamata la Repubblica; arrivano Mazzini e Garibaldi; poco dopo però arrivano anche i soldati francesi, questi ultimi inviati proprio da quel Luigi Napoleone che Mastai-Ferretti aveva salvato a Spoleto e che era appena diventato il Presidente della Seconda Repubblica. Ai suoi elettori, Luigi aveva promesso di rimettere il papa al suo posto. La resistenza è vana; Garibaldi guida i volontari fuggitivi in direzione di Venezia in una trafila estenuante durante la quale perderà, tra gli altri, la compagna Anita: dal 1849 in poi per lui l’ex papa liberale sarà il “metro cubo di letame”.

(Bellocchio, 2023)

Reinstallatosi a Roma, non più al Quirinale ma nel Vaticano che dava più sicurezza in caso di tumulti, Pio IX revoca la costituzione, rimette gli ebrei nel ghetto, ripristina la pena di morte, insomma fa tutto quello che i re assoluti facevano dopo che le rivoluzioni ottocentesche esaurivano le fiammate. Quelli che non abdicavano: ma lui, l’aveva spiegato prima di fuggire a Gaeta, non aveva “il diritto di abdicare”: doveva essere papa fino in fondo, anche se questo significava ormai abbracciare la Reazione. Quando l’Inquisizione a Bologna sottrae a una famiglia ebraica un bambino di sei anni, Edgardo Mortara, Pio IX non ha nulla da obiettare: una cameriera lo aveva battezzato di nascosto per salvarlo dal limbo, e per la legge chi era battezzato non poteva crescere in una famiglia ebraica. Il caso fa molto clamore anche all’estero, ma Pio IX si dimostrerà, in questo e in altri casi, completamente tetragono alla nuova opinione pubblica. Succede a molti supposti liberali, di rinnegare il proprio progressismo non appena si raggiunge una posizione di potere: e la posizione di Pio IX era ancora quella di un sovrano assoluto.  Modernismo, liberalismo, socialismo e in sostanza qualsiasi -ismo di cui si fosse sentito parlare vengono condannati nel Sillabo (1864). Il rinnovamento tecnologico, non ufficialmente osteggiato, va a rilento; strade e ferrovie rischiano di facilitare traffici e contatti con territori e popoli più liberi; il fisco è leggero e alle grandi famiglie nobiliari piace così, anche perché attira grandi turisti e capitali. Il popolo non è così contento ma ribellarsi non conviene. A Roma mastro Titta è ancora attivo: qualcuno nota l’ironia di un regime che ha rinnegato ogni scoperta rivoluzionaria tranne la ghigliottina, ma se vogliamo essere precisi i romani avevano cominciato a usare un supplizio simile prima dei francesi, durante l’ancien régime, dimostrandosi almeno in questo campo all’avanguardia mondiale. 

Quando nel 1859, allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza, Perugia insorge, un reggimento di soldati pontifici riporta l’ordine in città con un massacro di civili. La situazione è delicata: l’integrità dello Stato della Chiesa dipende sempre da Luigi Bonaparte, ora non più presidente ma imperatore Napoleone III. Quest’ultimo però sta giocando una partita complessa su due tavoli diversi: ha infatti deciso di appoggiare anche l’espansione del Regno di Sardegna nel nord Italia, sorprendendo gli austriaci ma scatenando quelle forze democratiche che a Pio IX l’avevano giurata. Tra questi in particolare Garibaldi, che sbarcato in Sicilia con poco più di mille uomini sta risalendo la penisola col chiaro intento di arrivare a Roma; a fermarlo accorre lo stesso re di Sardegna, ma il prezzo da pagare per salvare il Lazio è la cessione di Umbria, Marche e Romagna. A partire dal 1861 lo Stato della Chiesa è circondato dal nuovo Regno d’Italia; Vittorio Emanuele II promette che non toccherà Roma, ma Garibaldi continua a provarci finché non gli sparano a una gamba. A Caprera battezza un asino Pionono, così può bastonarlo a suo piacimento.

Francesco Podesti, musei vaticani. Gli affreschi della sala dell’Immacolata
sono l’ultimo kolossal pittorico romano, prima del grigio diluvio democratico.

Mentre vede il suo potere temporale assottigliarsi, Pio IX cerca di puntellare il suo potere spirituale, con un’iniziativa abbastanza arrischiata. Nel 1854, con la costituzione apostolica Ineffabilis Deus, mette una pietra sul millenario dibattito tra maculisti e immaculisti. Questi ultimi sostenevano che Maria di Nazareth era stata concepita senza peccato originale, per poter ospitare in grembo il figlio di Dio; i primi obiettavano che Maria aveva scelto di essere madre di Gesù, esercitando il libero arbitrio. Pio IX, da sempre devoto all’Immacolata Concezione, decide di proclamare la tesi degli immaculisti come dogma di fede. C’è però un problema non piccolo: fino a quel momento i dogmi non erano stati proclamati dai pontefici, ma dai Concili. Pio IX convocherà effettivamente un concilio, non per confermare il dogma dell’Immacolata Concezione, bensì per sancire il principio dell’infallibilità del pontefice ex cathedra, cioè in materia di fede. È il Concilio Vaticano I, che si apre nel 1869: a questo punto Mastai-Ferretti è papa da un quarto di secolo, eppure non tutti i vescovi accorsi dall’Europa sono pronti ad accettare un concetto (l’infallibilità) che teoricamente potrebbe porre fine alla storia dei concili. 

Si consuma anche un piccolo scisma con i cosiddetti veterocattolici; il Concilio poi si scioglie precipitosamente (e non ufficialmente) perché nel frattempo Napoleone III ha avuto l’idea di dichiarare guerra ai prussiani e le cose non sono andate esattamente come prevedeva. Il Secondo Impero francese crolla di schianto: il papato perde il suo protettore internazionale. A Vittorio Emanuele II che cerca di spiegargli che ormai è questione di giorni, Pio IX scrive “Vi dico che non entrerete a Roma”. La resistenza nei fatti è impossibile, ma il papa ordina ai suoi uomini di non arrendersi senza combattere un po’, giusto per ribadire di fronte all’opinione pubblica internazionale che non si tratta di un’annessione, ma di un’invasione. Ne risulterà una sessantina di morti, dopodiché il papa rifiuterà l’offerta di rimanere re di una porzione dell’Oltretevere e si dichiarerà prigioniero politico del regno d’Italia. 

Ai sudditi cattolici del regno la sua bolla Non expedit domanderà la non-partecipazione alla vita politica: una richiesta che introdurrà nella coscienza di tanti italiani una lieve forma di bipolarità: come se essere contemporaneamente buoni cittadini e buoni cristiani non fosse del tutto possibile, e in effetti forse non lo è.   

Pio IX morirà nel 1878, quattro anni prima di Garibaldi. È stato beatificato nel 2000 da Giovanni Paolo II, il papa che per appena cinque anni non è riuscito a battere il suo record di permanenza. La beatificazione riaprì le polemiche, soprattutto con la comunità ebraica e la famiglia Mortara. Oggi come oggi è difficile immaginare che un nuovo miracolo schiuda le porte a un iter di canonizzazione, ma dipenderà anche dal taglio che vorranno dare al loro pontificato i successori di Francesco. Non è difficile immaginare che a un papa sensibilmente più progressista dei due precedenti ne possa seguirne un altro più conservatore, che in Pio IX possa riconoscere un simbolo della lotta alla modernità e dell’infallibilità del magistero. Vedremo. Agli osservatori consiglierei prudenza, Mastai-Ferretti nel 1846 sembrava davvero un papa avanti; ma a volte la Storia soffia troppo forte, e nel panico l’unica soluzione sembra ammainare le vele prima che si strappino. 

via Blogger https://ift.tt/TSkvHKD

Senza categoria

I palloni di Hamas

Avvertenza: questo pezzo contiene descrizioni di atti di violenza che possono impressionare il lettore, così come hanno impressionato me. 

Il 5 febbraio è la festa di Sant’Agata, la martire siciliana a cui il Signore avrebbe fatto ricrescere il seno, dopo che i carnefici glielo avevano amputato. Dunque se devo scrivere un pezzo sui seni-pallone amputati da Hamas, lo farò oggi. 
Ma devo proprio? Su un argomento così macabro, col rischio di indugiare in dettagli morbosi o mancare di rispetto alle vittime di una strage? Scrivere un pezzo che nessun algoritmo si filerà, che ben pochi verranno a leggersi, e quei pochi magari proprio per notarne i difetti, perché?
Pare sia terapeutico. Ho sentito dire che le fobie si superano parlandone. Inoltre ho la sensazione di essere stato preso in giro, da qualcuno che sapeva esattamente come spaventarmi, e mi ha raccontato una storia orribile ben sapendo che i dettagli più sanguinosi mi avrebbero tenuto lontano. Cedere a un trucco simile significa ammettere le proprie debolezze, per cui non lo farò. Siccome ho paura delle mutilazioni, ora scriverò un pezzo lungo e disteso sulle mutilazioni. Chi sperava di impressionarmi col sangue almeno saprà che non funziona.
È stata soprattutto questa fobia a tenermi lontano dai primi resoconti che apparivano sui media immediatamente dopo il 7 ottobre. I dettagli ultraviolenti mi turbano in modo particolare: mi restano in mente e non riesco a liberarmene, è come se contagiassero la mia fantasia. Forse si tratta di una mia fragilità, il motivo per cui ancora oggi ho grossi problemi a guardare film dell’orrore che i miei studenti minorenni mandano giù come Biancaneve. Oppure i miei studenti hanno capito che mandar giù film dell’orrore è un sistema efficace per non invecchiare fragili come sta succedendo a me. Non lo so, né mi ponevo il problema: i più prestigiosi organi di informazione riportavano che in quei giorni erano avvenute cose orribili, che i colpevoli erano i miliziani di Hamas, e io lo ritenevo assodato: senza troppo preoccuparmi di quanto orribili fossero. 

Finché – ma erano già i primi di gennaio, e un pool legale sudafricano stava per accusare all’Aja il governo israeliano di genocidio – lessi che i seni delle vittime erano stati “asportati e usati per giocare a pallone”. Lo lessi in questo bizzarro appello, pubblicato su diversi quotidiani:

Trovate il testo per esempio qui.
Ma a chi sono state consegnate le firme?
Chi dovrebbe dichiarare il “femminicidio di massa”? 

E non ci ho creduto. 

Forse era troppo terribile per me, forse c’è un limite all’orrore che riesco a provare: un mostro con otto occhi mi farebbe paura, con cento occhi mi farebbe ridere? Oppure semplicemente il seno-pallone non è plausibile, è qualcosa di cartoonesco, completamente fuori dall’uncanny valley che sfida il mio senso critico. I seni non sono sferici (specie una volta asportati) né rimbalzano; per quello che ne so. E ho la sensazione di saperne di più, sui seni, di chi ha messo in giro questa storia. In mezzo a un resoconto di fatti orripilanti, è un dettaglio che manda in tilt la mia fantasia e sembra messo apposta per farmi dubitare di tutto il resto. Forse da un diabolico antisemita infiltrato che vuole prendersi gioco di chi in buona fede legge e firma… Oppure è una provocazione messa lì perché qualcuno ci caschi. Quel qualcuno sono io? È l’antisemitismo a farmi dubitare dell’equipollenza tra un pallone e un seno umano?

Va bene. Se qualcuno deve, ci cascherò io. Non rappresento nessuno oltre me stesso, non sono un esperto di nulla (senz’altro non sono un esperto di seni), ma ho una certa dimestichezza con le leggende di martiri ormai, e questa ha tutta l’aria di essere una leggenda. 

A dire il vero la prima analogia che mi è venuta in mente, per una pura associazione di idee, è assai più recente: 24 anni fa, alla vigilia delle manifestazioni genovesi anti-G8, i membri delle forze dell’ordine furono informati che i manifestanti li aspettavano al varco con “palloncini di sangue infetto“. Era una leggenda metropolitana altrettanto implausibile e cartoonesca: anche in quel caso mescolava subdolamente l’idea del sangue coi liberi giochi all’aria aperta: non si capiva come adulti responsabili avrebbero mai potuto credere in qualcosa del genere. E però può anche darsi che abbia funzionato: in quei giorni poliziotti e carabinieri sembravano spiritati, animati da una furia che non aveva giustificazioni razionali. Magari era paura.

Allo stesso modo, ogni volta che un breve video dell’IDF ci mostra soldati sorridenti che si aggirano in mezzo alle macerie; o cittadini allegri che fanno cordone per non far passare gli aiuti umanitari, e ci domandiamo: ma cosa sta succedendo a tutta questa gente? Ci vorrà molto tempo per capirlo, sempre che qualcuno vorrà dedicarcisi; può darsi che in parte sia quello che succede a normali individui quando persone degne di fede ti raccontano che ci sono uomini cattivi che giocano a pallone con i seni umani. 

https://platform.twitter.com/widgets.js

La propaganda ha le sue leggi che la ragione non conosce, ma qualcuno le ha studiate e le sa applicare. Quello che inorridisce me, può animare la furia cieca di un soldato di leva. La storia dei seni-palloni faceva parte di un un repertorio di testimonianze che arrivò sui media prestissimo, soprattutto in Israele dove per qualche giorno chiunque si sentiva in dovere di raccontare le peggio cose che gli venivano in mente, che le avesse viste o no. Non lo dico io, lo dicono i giornalisti israeliani sionisti: e non solo quegli eterni brontoloni di Haaretz, ma anche canali generalisti. Nelle ultime settimane quasi tutte le storie più raccapriccianti sono state debunkate (malgrado qualcuno le ripeta ancora ad alta voce, e forse ci creda ancora). Abbiamo saputo abbastanza presto che i miliziani non avevano decapitato quaranta bambini; che non hanno strappato un feto a una donna incinta (quest’ultimo è un vero topos: ricorre nelle testimonianze di molti eccidi in tempo di guerra). Soprattutto Haaretz ci ha raccontato che nei primi giorni l’IDF appaltò la raccolta dei cadaveri del 7 ottobre a un’organizzazione ultrasionista, Zaka, che definire controversa è un eufemismo. Molti dettagli truculenti sono stati forniti proprio dagli operatori di Zaka, che purtroppo hanno mostrato nell’occasione più fantasia nell’inventare mutilazioni non dimostrabili che perizia nella gestione dei corpi delle vittime. E tuttavia la storia dei seni-palloni non proviene da Zaka. Non potrebbe: per assistere a un’amputazione e vedere miliziani giocare a pallone bisognava essere lì durante il fatto. Questa storia richiede dei testimoni oculari. Ci sono?

Ce n’è uno. 

Questo è un problema, per più di un motivo. Nell’appello riportato sopra avete letto di “seni asportati e usati per giocare a pallone”. È già una forzatura. L’appello tradisce la volontà di far apparire come sistematica una pratica di mutilazione cui la testimone avrebbe assistito una volta sola, e che difficilmente avrebbe potuto essere ripetuta durante un blitz che sappiamo essere stato molto concitato. I miliziani stavano cercando di tornare nella Striscia portando con sé più ostaggi possibile, e a partire da un certo punto hanno dovuto difendersi dall’esercito che stava intervenendo con gli elicotteri. Che abbiano perso tempo a giocare torturare sadicamente ostaggi che avrebbero dovuto usare come moneta di scambio sembra assurdo, ma è anche vero che in battaglia la gente perde la testa e fa le cose più assurde. 

Comunque la testimone c’è. È una donna – il che è cruciale – ha 22 anni, fa un lavoro di ufficio (“accountant”) e si fa chiamare Sapir; non vuole rivelare la sua identità perché, scrive il New York Times, “sarebbe braccata per tutta la vita”. La polizia la ritiene una teste chiave e ha divulgato quasi subito un video in cui il suo volto sfuocato racconta la storia che più tardi ha ripetuto al NYT, e che riporto qui

She said that at 8 a.m. on Oct. 7, she was hiding under the low branches of a bushy tamarisk tree, just off Route 232, about four miles southwest of the party. She had been shot in the back. She felt faint. She covered herself in dry grass and lay as still as she could.

Ecco. Non solo è l’unica testimone, ma era ferita alla schiena. Si sentiva debole. Ciononostante, dal suo nascondiglio (un cespuglio sotto un tamarindo) avrebbe assistito a una scena molto lunga e complessa, di fronte alla quale altri avrebbero certamente distolto lo sguardo.

About 15 meters from her hiding place, she said, she saw motorcycles, cars and trucks pulling up. She said that she saw “about 100 men,” most of them dressed in military fatigues and combat boots, a few in dark sweatsuits, getting in and out of the vehicles. She said the men congregated along the road and passed between them assault rifles, grenades, small missiles — and badly wounded women.

“It was like an assembly point,” she said.

The first victim she said she saw was a young woman with copper-color hair, blood running down her back, pants pushed down to her knees. One man pulled her by the hair and made her bend over. Another penetrated her, Sapir said, and every time she flinched, he plunged a knife into her back.

She said she then watched another woman “shredded into pieces.” While one terrorist raped her, she said, another pulled out a box cutter and sliced off her breast.

“One continues to rape her, and the other throws her breast to someone else, and they play with it, throw it, and it falls on the road,” Sapir said.

She said the men sliced her face and then the woman fell out of view. Around the same time, she said, she saw three other women raped and terrorists carrying the severed heads of three more women.

Le tre teste non sono state trovate – ma è anche vero che i volontari di Zaka raccolsero i cadaveri in modo molto approssimativo, e che in certi bodybag furono trovate più teste. Non sono stati trovati nemmeno i seni, né il taglierino da cartone (“box cutter”) che Sapir sostiene essere stato adoperato per asportarli. Per ora non è stato trovato niente di quello che racconta Sapir, la quale del resto era ferita alla schiena mentre osservava una scena che sembra presa da un torture porn. 

Per credere che tutto questo sia successo dobbiamo prendere per buona una testimone unica,  probabilmente sotto choc, che era ferita alla schiena e nascosta in un cespuglio, che ha fotografato il cespuglio in cui era nascosta ma non i resti delle mutilazioni che racconta di avere visto. In coscienza, non posso dimostrare che sia una storia falsa: ma è una storia a cui non credo. Non credo che tagliare i seni con un taglierino (durante uno stupro) sia così facile. Non posso escludere che una persona ferita e sotto choc sia vittima di allucinazioni, o che subisca la pressione di organi di propaganda che sin dall’inizio della crisi erano determinati a far funzionare l’equazione Hamas=Isis. Giova ricordare che la mutilazione dei seni delle vittime era praticata dai miliziani di Isis in Siria, e che foto e resoconti delle loro torture rimbalzavano con gli smartphone negli anni in cui “Sapir” era adolescente. Per noi l’Isis ormai è una sigla lontana, ma per i giovani che stanno minando la striscia di Gaza è stato un incubo concreto, che ha nutrito la loro fantasia negli anni della formazione.  

Allo stesso momento, non posso escludere che la storia sia vera. Improbabile, ma non impossibile. Ci sono persone che in stato di choc dimostrano lucidità e presenza di spirito; un taglierino, se è abbastanza grosso, può anche recidere muscoli; se poi la vittima aveva protesi, ecco, si tratta di sacchetti di silicone che i miliziani avrebbero anche potuto lanciarsi per scherno. Forse il vero motivo per cui non voglio crederci è quello per cui fatico a credere alle leggende di santi torturati e mutilati. Se non ci credo, smetto di essere vero. Quei seni non sono mai stati tagliati: come il Salvatore, li faccio ricrescere. Forse sto scrivendo la mia leggenda anch’io… (continua)

<!—Mi faccio coraggio, cerco su google "breast" "hamas" e "football" (li cerco in modalità incognito). Non mi sembra di trovare nulla di rilevante, ma non ho troppa voglia di scavare. Rileggo l'appello. Noto particolari che alla prima scorsa erano sfuggiti alla mia attenzione – distratta dall'orrore. Ad esempio: è un appello a vuoto. A chi sarà consegnata la raccolta di firme? "Il femminicidio del 7 ottobre deve essere dichiarato femminicidio di massa". Da chi? C'è un'autorità nazionale o sovranazionale che si occupa di dichiarare i femminicidi? "GLI AUTORI DEVONO ESSERE CONDANNATI PER CRIMINI CONTRO L'UMANITÀ". Non avrei niente da eccepire, e a questo punto l'unica autorità che mi viene in mente è la corte internazionale di giustizia dell'Aja: quello che negli ultimi giorni forse sta impensierendo i sostenitori di Israele, per via della denuncia mossa dalla Repubblica Sudafricana. 

https://platform.twitter.com/widgets.js

Ma insomma era già abbastanza chiaro che si trattasse di propaganda, legittima finché non stravolge i fatti; è sin dall’inizio dei bombardamenti nella Striscia che gli hasbaristi cercano di distrarre l’attenzione dal massacro ricordando ogni giorno, anche più volte al giorni, gli orrori del 7 ottobre. Nel frattempo la Striscia è stata invasa, le vittime sono aumentate di giorno in giorno e ormai sono più di ventimila, tra cui un centinaio di giornalisti e molti più bambini. È un orrore che va avanti imperterrito da più di due mesi e posso capire la frustrazione di chi ogni giorno deve cercare di rubare la scena tornando sempre, ossessivamente, sul 7 ottobre. Non escludo che l’enfasi sull’orrore delle mutilazioni sessuali sia causato proprio dalla necessità di attirare l’attenzione ogni giorno in un modo diverso, e però inevitabilmente prima o poi a qualcuno doveva scappare la mano e direi che è successo. Chi ha raccontato la storia dei miliziani che giocano a pallone con i seni? L’appello non perde tempo a citare fonti: l’unico riferimento esplicito è il New York Times. Vado a controllare l’inchiesta uscita di recente, di cui ho sentito parlare anche molto bene e che fin qui avevo colpevolmente aggirato.

L’inchiesta parla di molte cose orribili, e a un certo punto 

 (tranne un cenno, su cui tornerò più avanti); ma soprattutto, non trovo tutte quelle certezze che altri lettori hanno voluto trovarci. È un’inchiesta che si basa sui resoconti dei testimoni oculari. Addirittura 250 resoconti, il che dovrebbe mettere a tacere qualsiasi obiezione salvo per il fatto che su 250 testimoni, i giornalisti del NYT non hanno trovato una sola vittima di violenze sessuali. Riportano tutti le violenze fatte ad altre persone. Questo non è poi così strano, e non significa che le violenze non ci siano state: è sufficiente ipotizzare che i miliziani violentassero e mutilassero soltanto le persone che intendevano uccidere – e che quindi avessero chiaro abbastanza presto chi intendevano uccidere e chi prendere come ostaggio; bisogna inoltre assumere che abbiano potuto fare esattamente tutto quello che avevano pianificato di fare, malgrado l’intervento dell’esercito israeliano, che per quanto tardivo ha senz’altro ostacolato le loro operazioni. È un’interessante raccolta di testimonianze, mettiamola così, e notiamo, senza commento, che sono tutte testimonianze di israeliani; quanto alle prove, l’inchiesta non ne contiene e cerca anche di dare una spiegazione del perché: l’esercito aveva fretta e ha ripulito tutto. Questa fretta, devo dirlo, non mi sembra così credibile. Il 7 ottobre le stragi sono avvenute in località israeliane sulle quali l’IDF ha il pieno controllo. E l’IDF aveva, come si è visto, un’esigenza impellente di trovare le prove delle violenze sessuali commesse dai miliziani: ma quando i giornalisti del NYT le hanno cercate, non le hanno trovate. Nel frattempo circolavano voci agghiaccianti (la storiaccia dei bambini decapitati), mai provate, e queste voci potrebbero anche avere influenzato i testimoni. Vale la pena di ripetere, per l’ennesima volta: questo non significa che non siano stati commessi stupri e mutilazioni sessuali. La strage del 7 ottobre è stata spaventosa, c’è stato più di un migliaio di vittime: mi sembrerebbe strano anche da un punto di vista statistico che non fosse avvenuto nemmeno uno stupro, nemmeno una mutilazione. Che però stupri e mutilazioni siano stati sistematici, è una cosa che i testimoni raccontano, non una cosa che si possa dimostrare. 

Queste obiezioni, finché le faccio io, non 

—>
.

via Blogger https://ift.tt/M6sULX5