cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra, terrorismo

Chi vi uccide sa quello che fa, date retta

Il diritto di uccidere (Eye in the Sky, Gavin Hood, 2015)

Ora vi spiego la guerra, signorini.

O uomo occidentale, cos’è troppo grande per te? Gli dèi del tuo antenato, gli dèi della folgore e degli oracoli, non avevano un decimo del tuo potere e del tuo sapere. I tuoi droni possono localizzare il nemico al gabinetto; colpirlo con folgori da decine di megatoni e spalancare l’inferno ovunque tu decida che è giusto. Puoi vedere tutto, puoi bruciare tutto. Ma a volte vorrai solo chiudere gli occhi.

C’è un Occhio che gira intorno al mondo e vede quello che vuoi e che non vuoi. C’è una casetta da qualche parte in Kenya, con stanze separate da tramezze che non arrivano al tetto (molto comodo per le inquadrature dei mini-droni). Dentro ci sono terroristi fanatici, che forse credono che la cittadinanza inglese o americana li protegga dall’Occhio. Stanno per indossare pettorine e andarsi a fare esplodere in qualche luogo affollato. Bisogna colpirli prima che colpiscano – ma c’è una bambina in strada, a pochi metri dal probabile impatto, vende focacce e non si sposterà finché non avrà il paniere vuoto. Ci sono soldati che devono fare il loro mestiere. Ci sono politici che non sanno che ordini dare.

È fortissimo, James Bond gli taglia le unghie dei piedi.

Gavin Hood lo ha fatto di nuovo. Dopo Ender’s Game, ecco un altro film meno problematico di quanto vorrebbe sembrare, in cui sotto il dilemma etico si intravede una visione del mondo abbastanza solida: la guerra esiste e bisogna farla combattere ai soldati, che hanno competenze, nervi saldi, mani sensibili ma disponibili a sporcarsi. Mentre i civili, i politici, non ne capiscono niente: si commuovono al momento sbagliato, per la bambina sbagliata, perdono tempo, giocano allo scaricabarile, cercano disperatamente al telefono qualche superiore, qualche mamma o qualche Dio che li perdoni o si addossi le loro colpe. La democrazia è una perdita di tempo che non produce consapevolezza, ma falsa coscienza. I militari sono più bravi anche a farsi venire i dubbi – e a superarli – e a piangere per le vittime collaterali. Scordatevi i cecchini cinici di quel vecchio video di Wikileaks che dopo aver fatto strage di combattenti, fotografi e bambini si complimentavano per i “nice shots” e ridacchiavano per il cadavere caldo calpestato da un tank.

QUALCUNO LE COMPRI QUEL PANE

I soldati d’occidente di Gavin Hood non alzano mai la voce coi sottoposti; sono autorevoli, umani, anche fragili, e se premeranno un grilletto state ben sicuri che ci avranno prima pensato cento volte (continua su +eventi!)

giornalisti, Islam, razzismi, scoutismo, scuola, terrorismo

Cerca di essere un uomo, Filippo Facci

In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo per spiegare che anch’io, come tutti, ho paura. Di tante cose, tutte in realtà collegate: del fatto che questo sia l’ennesimo mese più caldo di sempre, delle migrazioni probabilmente inevitabili, della xenofobia che ne scaturisce nei Paesi di confine come il nostro, e non solo; delle pulsioni isolazioniste e identitarie che portano a infortuni come la Brexit e creano consenso intorno a personaggi come Trump o Erdogan; insomma ho paura di tutto, come tutti.

E in questo tutto c’è anche il terrorismo di matrice islamica, com’è normale che sia – benché continui a fare meno vittime del traffico, non c’è motivo per cui non debba spaventare un qualsiasi europeo di mezza età che ha una famiglia e ogni tanto vorrebbe andare al cinema o in ispiaggia. Quindi sì, ho paura anch’io. Se in questo periodo non ne scrivo, non è per paura di ammettere di non aver paura. Più banalmente: sono un adulto, e non credo che gli adulti dovrebbero fare spettacolo delle proprie emozioni.

Lo so che è strano scriverlo su un blog; che all’inizio del gioco nella melassa delle emozioni abbiamo tutti intinto la penna e non solo; ma se c’è un errore in archivio da cui mi piacerebbe prendere le distanze, è proprio questo. Quando sei un bambino, se hai paura urli e piangi. È giusto che sia così, è giusto che gli adulti si ricordino continuamente che hai esigenze, così non ti dimenticano in macchina nel parcheggio. Quando cresci – e intorno a te i bambini cominciano a piangere – tu sei quello che deve restare calmo. Anche se hai paura. Proprio perché hai paura.

Questa è una cosa che ho capito molto presto, credo grazie allo scoutismo. A distanza di mezza vita continuo a rendermi conto che lo scoutismo ha fatto un’enorme differenza nel modo in cui sono cresciuto. Non per i discorsi che facevamo e che mi sono quasi tutti dimenticato, ma per il modo in cui lo scoutismo ci prendeva a diciott’anni e ci intestava la responsabilità di una ventina di minorenni, tuttora se ci ripenso mi spavento – così che invece di preoccuparci dei soliti nostri problemi di generazione X dovevamo passare il tempo a tirar su il morale a questi monelli, anche quando si allagavano le tende o qualcuno si fratturava il femore. Eravamo incoscienti, certo, ma se anche avessimo avuto un po’ di paura, non ci era consentito esibirla. È così che sono cresciuto; forse è per questo che lavoro ancora coi minori e non vado in giro a strillare che il mondo sta finendo e l’eurabia trionferà. Non lo trovo razionale, ma soprattutto non lo trovo virile.

In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo del genere, finché stamattina mi sono imbattuto in uno sfogo estivo di Filippo Facci su Libero, trenta righe su quanto odia l’Islam. Un pezzo ai limiti dell’autoparodia, l’Uomo Bianco Che Strippa In Estate, ormai un classico. Facci ha sempre dato l’impressione di essere più intelligente delle cose che pubblica, e anche stavolta, mentre va avanti con la bava alla bocca gli scappa un’ammissione, è come quando in un film di zombie ne vedi uno a cui sfugge una lacrima da un occhio pesto, appena un sospetto di umanità. Guarda che roba mi sto riducendo a scrivere.

Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle [ma parla per te, al limite parla per Giuliano Ferrara], anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, blablablà, va avanti a lungo.

Ma insomma, “eccone il risultato”. Invece di prendervi delle responsabilità, di esercitarvi a ragionare coi lettori scansando le reazioni più emotive, avete deciso che avreste venduto emozioni, amplificato emozioni, sdoganato le emozioni. Il risultato è che state sulla cinquantina e il vostro mestiere consiste nel vomitare odio su un giornalino di benpensanti razzisti che hanno bisogno di sentirsi dire che l’Islam è odioso, e il cui contributo alla guerra di civiltà si esaurirà nel farvi l’obolo di un euro, un euro e venti, e magari sputare sulla passante magrebina che incrociano al semaforo. Tu, Filippo Facci, che pure sembravi così intelligente: e il tuo collega Giordano, quella povera persona che chiama alle armi l’occidente con la sua vocina querula, una metafora vivente. Speculare sui bassi istinti dei vostri lettori non è soltanto spregevole e rischioso. Soprattutto, non è una cosa da veri uomini.

A Libero sì che sanno taggare

Nel senso un po’ machista del termine, sì.

Siete quei poveri isterici che nei film catastrofici urlano MORIREMO TUTTI!, e nessuno spettatore in effetti ritiene necessario che debbano sopravvivere. Va bene, la congiuntura è quel che è, ormai i giornali si vendono così – ma in realtà non li vendete lo stesso. Perché dovrei avere rispetto per gente come voi? Per quindici anni avete solo detto parole, parole, parole, e intanto io ad esempio lavoravo. Con un sacco di brava gente, alcuni anche musulmani. In questi quindici anni diversi li ho diplomati, alcuni li vedo ancora: hanno un lavoro, magari pensano a farsi una famiglia. Il famoso Islam moderato, che secondo le vostre teorie quindecennali non esiste. Magari davvero no,  non saprei: posso dire che è da mezza vita che ho a che fare con bambini musulmani, genitori musulmani, ragazzi musulmani, e mediamente mi hanno dato meno problemi di quelli di origine italiana (mi hanno anche dato meno problemi di Filippo Facci). Insomma io non lo so se esiste l’Islam moderato, ma in questi 15 anni coi musulmani moderati ci ho lavorato. Voi non lo vedete perché non è il vostro target, da quel che scrivete si capisce benissimo che il vostro contatto coi musulmani si limita al kebab all’angolo e alla tizia che vi lava le scale e che secondo Gramellini dovrebbe subito andare in questura se sente discorsi strani in moschea. Ma c’è tanta gente che vive e lavora e studia: e voi non li vedete. Non studiano nelle vostre scuole, non lavorano nei vostri giornali, e nemmeno li compreranno mai, quindi perché preoccuparsi? Eh, ma io in quelle scuole invece ci lavoro. Quest’anno la mia alunna che si è diplomata col voto più alto era di origine pakistana, per dire.

Certo, ogni tanto i miei studenti mi raccontano cose che mi spaventano – anche se cerco di non mostrarlo. Per esempio raccontano di passanti che inveiscono contro di loro. Succede spesso dopo un attentato. Ragazzine di dodici anni che tornano a casa a piedi, magari una delle due porta un velo: passa un vecchio in bicicletta e sputa loro addosso. Queste cose non vanno mai in prima pagina, nemmeno in sedicesima, ma succedono un po’ tutti i giorni. Quel vecchio magari non legge gli sfoghi estivi di Filippo Facci su quanto è opportuno tirare calci all’Islam che siede sui nostri marciapiedi. Però Libero, quando pubblica una strippata di Facci sull’Islam, pensa esattamente a quel tipo di lettore.

Adesso viene la parte più inquietante. Una cosa che scrive Facci – che l’Islam sarebbe avrebbe portato una “permalosità sconosciuta alla nostra cultura” – è abbastanza ridicola, soprattutto se penso all’autore. Però sì, un certo tipo di permalosità è innegabile, anche se lo trovo un tratto comune di tutte le civiltà mediterranee. Comunque può essere un problema, anche considerato che le temperature non si abbasseranno per un po’. Ora, io ho avuto diversi studenti musulmani, e il rischio della radicalizzazione so cos’è. Se mi chiedi: quale fattore può portare un ragazzino o una ragazzina a radicalizzarsi, io a freddo ti risponderei: un vecchio in bicicletta che ti sputa addosso, o sputa a tua sorella.

Dunque, caro Facci, la situazione è questa: tu per vivere fai la tua tiratina isterica su Libero: un coglione razzista la legge, esce di casa e sputa addosso a una ragazzina. Quella ragazzina magari ha un fratello che lavora con me. Se è permaloso, se si radicalizza, non verrà a farsi esplodere a casa tua, figurati. Non saranno cazzi tuoi, mi rendo conto. Saranno cazzi tutti miei, se un giorno viene a scuola con un coltello o peggio.

Ma io non posso avere paura. Nessuno mi paga per averne. Nessuno mi paga per pisciarmi addosso le mie emozioni.

Invece mi pagano per aver coraggio. Quindi io continuerò ad avere coraggio, e tu continuerai ad avere paura. Così è la vita.

Volevo dirti un’ultima cosa ad effetto, del tipo: la prossima volta che ti sale il panico, cerca di essere un uomo, Filippo Facci. So già che mi risponderesti – senza un’ombra di islamica permalosità – vaffanculo imbecille. Già. Buone vacanze anche a te.

dialoghi, giornalisti, Islam, migranti, razzismi, terrorismo

Caro fratello musulmano di Gramellini

Caro musulmano non integralista che in privato hai confidato a Gramellini il tuo sgomento per l’eresia wahabita, e la tua rabbia verso la corte saudita che si atteggia a nostra alleata e invece finanzia quell’eresia dai tempi di Bin Laden, esci fuori.

Lo so che esisti, Gramellini ti ha tradito. Dai, esci, su.

Il piano degli aspiranti califfi è piuttosto chiaro: utilizzano ragazzotti viziati come gli stragisti del Bataclan, ma anche relitti umani come il camionista che ha seminato la morte sulla promenade di Nizza per alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, così da portare i razzisti al potere in Occidente e creare le condizioni per innescare una guerra di civiltà, insomma la qualunque, va bene tutto, qualsiasi commando improvvisato noi lo attribuiamo ai Sauditi Malvagi, se non direttamente a Sauron o al Veglio della Montagna, perlomeno il tuo amico Gramellini ormai ragiona così, un Vittorio Feltri dal volto umano, e tu ancora ci parli, chissà dove poi, magari uscite a cena, e al dessert tu gli fai: sono sgomento per l’eresia wahabita.

“La che?”
“L’eresia wahabita, è la confessione della corte saudita”.
“Sono i cattivi?”
“Beh, senz’altro hanno finanziato diversi terroristi”.
“Ah, il terrorismo, conosco, gli anni Settanta, sapessi, le Brigate Rosse, i compagni che sbagliano…”
“Ecco, non c’entra niente”.
“Ma è terrorismo, lo hai detto tu”.
“Il terrorismo è un fenomeno complesso, sarebbe sbagliato leggere gli avvenimenti degli ultimi vent’anni con le lenti degli anni di piombo, che tra l’altro ormai ve li ricordate solo voi giornalisti italiani e…”
“Ma non scaldarti, su, beviti un bicchiere”.
“No, grazie”.
“Ah già sei musulmano”.
“No è che a quest’ora non lo reggo, e forse anche tu dovresti…”
“Però sei stronzo che mi fai bere da solo. Vabbe’, ho capito, i sauditi vogliono fare la rivoluzione e i musulmani di tutto il mondo li considerano compagni che sbagliano, è così?”
“Sigh”.
Negli Anni Settanta del secolo scorso il terrorismo di sinistra insanguinò le nostre strade con altri metodi (bersagli simbolici e non indiscriminati) ma identici obiettivi: scatenare la rivoluzione“.
“In che senso identici obiettivi? La rivoluzione non è mica una guerra di civiltà”.
“Vabbe’, dettagli. Comunque tu in questa storia saresti il sindacalista Guido Rossa, che pagò con la vita la rottura dell’omertà in fabbrica!
“Cioè devo farmi ammazzare”.
“Ma no, si fa per dire, anzi ti auguro lunga vita“.
“Ma mi tocco i coglioni, guarda”.
“Ah, lo fate anche voi?”
“No, è che mi sto integrando”.
“Bravo”.
“Ma insomma cos’è che dovrei fare?”
Da te che ci aspettiamo il gesto che può cambiare la trama di questa storia. I farabutti che sgozzano in nome dell’Islam non vengono dal deserto: sono cresciuti in Occidente e quasi sempre ci sono anche nati“.
“Embè?”
Frequentano i tuoi negozi“.
“Io faccio la spesa alla coop”.
“E la carne halal?”
“Ce l’hanno anche alla coop”.
“Ah”.
“Tu non la fai mai la spesa, vero?”
“Però frequentano anche le tue moschee“.
“Cioè secondo te i jihadisti discutono di bombe davanti a tutti nel parcheggio della moschea? Che molti manco ci vanno in moschea. Si fanno le madrase in casa”.
“Ecco, perché non li denunci?”
“Li denuncio per cosa?”
“Hai appena detto che si fanno della roba in casa”.
“Le madrase, le scuole islamiche, si trovano in garage o nel seminterrato e pregano e insegnano l’arabo ai figli”.
“E tu non li denunci?”
“Ma per cosa? Per il reato di pregare insieme a casa propria e insegnare l’arabo ai figli?”
“Lo vedi che non sei collaborativo? Eppure parlano la tua lingua!
“Ma mica tanto”.
“Come, non siete tutti arabi?”
“Guarda, io son tunisino, e i marocchini già faccio fatica a capirli. Poi ci sono i pakistani che non sono proprio arabi, proprio per niente. L’arabo giusto per le preghiere”.
“Ma te pensa. Comunque hanno figli che vanno a scuola con i tuoi“.
“Perché con i tuoi no?”
“Ehm, boh, non saprei. Senti, per troppo tempo hai guardato ai terroristi come a dei fratelli che sbagliavano ma che non andavano traditi“.
“Eh?”
Non condividevi i loro comportamenti, ma non te la sentivi di denunciarli“.
“Ma che cazzo dici?”
In qualche caso per paura, ma più spesso per una forma perversa di solidarietà religiosa e razziale“.
“Cioè mi stai accusando di favoreggiamento ai jihadisti? Così? Mi inviti a cena e mi dici una cosa del genere?”
“No, veramente la scrivo sulla prima pagina del giornale”.
“Perché sono tuo fratello”.
“Certamente, di me ti puoi fidare”.
“E meno male che non ero solo tuo cugino, ma vaffanculo, va’”.
“Lo dite anche voi?”
“Mi sto integrando”.
“Bravo. Adesso però il gioco si è fatto troppo duro e non puoi più restare sull’uscio a osservarlo“.
“Ma osservare cosa, ma lo sai che c’è gente che dopo ogni attentato mi insulta per strada?”
Adesso anche tu, come l’operaio comunista di quarant’anni fa, hai qualcosa da perdere“.
“Cioè dici che prima no, che prima ero un pezzente senza niente da… senti, ma sei venuto in macchina?”
“Certo, perché”.

“Forse è meglio che andiamo, mi sembra che tu abbia già bevuto un po’ troppo”.
“Aspetta, aspetta. Bene o male l’Occidente ti ha accolto, offrendoti la possibilità di una vita più dignitosa di quella che ti era consentita nella terra da cui sei scappato“.
“Cameriere, ci porta il conto per favore?”
“No, stavo pensando a un amaro. Mi fai compagnia?”
“Io non sto bevendo, Gramellini”.
“Ah già, dimenticavo. Senti. Cosa stavo dicendo?”
“Niente di particolarmente intelligente”.
Non puoi continuare a negare l’evidenza o a girarti dall’altra parte“.
“Ma chi si gira, ma cosa stai…”
Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il menefreghismo dalla complicità“.
“Cameriere, sul serio, noi adesso andiamo, pago tutto io con la carta”.
Facciamo un patto“.
“Che la prossima volta offri tu? sarebbe anche ora”.
Noi cercheremo di tenere i nostri razzisti lontani dal governo e di migliorare il livello della sicurezza, anche se è impossibile proteggere ermeticamente ogni assembramento umano“.
“Dammi il braccio, non lo vedi che barcolli”.
Tu però devi passare all’azione“.
“Sì capo”.
Devi prendere le distanze dagli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano“.
“Dammi le chiavi della macchina, che è meglio”.
Denunciarli, sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte“.
“Sissì, guarda, parto da domani”.
“Denuncerai?”
“Denuncerò”.
“Sbugiarderai?”
“Sbugiarderò”.
“Controbatterai punto su punto le loro idee distorte?
“Controbatterò… scusa, una curiosità, tu negli anni Settanta passavi il tuo tempo così?”
“Eh?”
“Passavi il tempo a controbattere punto su punto le idee distorte dei brigatisti?”
“Ma che c’entra, io mica ero un operaio”.
“Ah già”.
“Sei tu l’operaio, ricordatelo!”
“Sì capo”.
“Bravo”.
“C’è altro capo?”
“Ah, e poi nelle moschee si dovrebbe parlare in italiano”.
“Eh?”
“Cioè, a seconda dei Paesi in cui uno è: sei in Francia? Francese! Sei in Italia? Italiano”.
“Ma le preghiere sono in arabo”.
“E non si possono tradurre?”
“No”.
“E perché no? Chi lo dice che no?”
“Ma direi il Profeta”.
“E chicazz’è sto profeta e profeta, tu sei in Italia adesso, hai capito? In Italia si parla italiano. Noi la Messa l’abbiamo pure tradotta”.
“Dopo 1960 anni”.
“Vabbe’ ma che c’entra, è casa nostra, facciamo quello che ci pare”.
“È anche casa mia”.
“Eh?”
“Sono italiano, lavoro, pago le tasse, è anche casa mia. La mia religione è uguale alla tua davanti alla Costituzione”.
“E dove sta scritto”.
“Nella Costituzione”.
“E quindi insomma continuerai a pregare in arabo”.
“Credo proprio di sì”.
“Come i tuoi fratelli wahabiti”.
“Non mi stanno molto simpatici”.
“Ma non li denuncerai”.
“Per cosa?”
“Perché fomentano l’odio razziale”.
“Ma è una considerazione generale, non conosco nessuno che in pratica… oddio, uno forse sì”.
“Ecco, vedi che uno lo conosci”.
“Cioè è un brav’uomo, ma certe volte fa dei discorsi che ti fomentano, ti fomentano proprio”.
“Denuncialo”.
“Ma è un mio amico”.
“Lo stai difendendo?”
“Non credo che istigherà mai nessun terrorista, anche se”.
“Anche se?”
“In effetti i suoi discorsi hanno un certo effetto, circonolano tra migliaia di persone, cioè come si può escludere a priori che tra i suoi seguaci non ci sia qualcuno disposto a…”
“Ecco, lo vedi? La connivenza! La zona grigia!”
“Però è un mio amico”.
“Un amico che sbaglia”.
“Già”.
“Ma che amico sei per lui, se lo lasci libero di spargere odio?”
“Non so, devo pensarci”.
“Pensaci, pensaci bene. Dove ho messo le chiavi?”
“Le ho io, ti porto a casa”.

Caro fratello musulmano di Gramellini – lo sappiamo che esisti – esci allo scoperto. La tolleranza è una gran cosa, ma è chiaro che tu hai tollerato troppo.

(Le parti in corsivo Gram le ha scritte davvero).

guerra, terrorismo

La bomba, o al limite un camion

Ma hai sentito quei bastardi cos’hanno fatto.
È una vergogna.
E noi glielo lasciamo fare.
Quanta altra gente dovrà morire.
Le donne, i bambini.
È una vergogna.
E noi ancora qui a discutere, cosa c’è da discutere.
La bomba atomica, altroché.
Averne una.
Dove la tireresti.
E che ne so.
Tanto i potenti hanno sempre i rifugi, non li becchi mai.
La tiri nel mucchio.
Come avvertimento.
Voi ci ammazzate? Noi bomba atomica.
Ma non l’abbiamo.
Allora una bomba normale.
E dove la compri?
Ci sono quelle bombe che si fanno in casa.
Tu la sapresti fare?
E allora che si fa?
Restiamo qui a dirci “bastardi è una vergogna” finché non toccherà anche a noi?
Basta chiacchiere.
Facciamo qualcosa stavolta.
Una bomba non l’abbiamo.
Fucili?
Qualche cosa si trova, poca roba.
Poi ti ammazzano subito.
Ci ammazzino, che mi frega.
Avessimo un blindato.
Basta coi sogni, su.
Blindati non se ne trovano.
Non è un film.
Un camion?
Un camion si trova.

giornalisti, razzismi, terrorismo

Vittorio Feltri e la caccia al bengalese

Qualche volta mi è capitato, negli ultimi anni, di assegnare temi sui migranti e di ricevere in cambio temi sui vuccumprà da spiaggia. Una cosa che mi rigetta sempre nel 1984, quando sulla sabbia di Pinarella cercavo di usare il sedere di mio fratello per costruire una pista da biglie e incontravo per la prima volta questi Alieni, questi stranieri, e li incontravo sotto forma di Vuccumprà. Ora invece è il 2016, a scuola abbiamo ragazzi con tutti i cognomi possibili, tutti i colori, tutte le religioni, eppure se chiedo al bimbo biondo medio: disegnami un Migrante! Lui mi abbozza un Vuccumprà. Alcuni secondo me sono convinti che sbarchino direttamente a Pinarella con le catenine e i braccialetti. Poi naturalmente crescono.

Spero. Voglio dire che la fobia per il Vuccumprà, l’Uomo Nero che viene a turbare i tuoi giochi da spiaggia, è una cosa che forse l’italiano medio si porta nell’inconscio. Ho la sensazione che se si potesse smontare la xenofobia di molti adulti, aprire il baule delle paure, scopriremmo da qualche parte un fantoccio di stracci ed ebano dall’espressione astuta e ineffabile, un genio del deserto, un demone meridiano. Questo naturalmente non scusa il nostro razzismo. In particolare non scusa la banda di “giovanissimi” che, secondo il Corriere Adriatico, avrebbe pestato ieri due ambulanti bengalesi sul lungomare di Porto d’Ascoli. Prima dell’aggressione qualcuno avrebbe chiesto ai due “se conoscevano il Vangelo”.

I giovanissimi non leggono i giornali, e quindi sarebbe molto difficile indicare come loro mandante morale Vittorio Feltri. Pure, non è una coincidenza così bizzarra che ieri Libero, il quotidiano di Feltri, puntasse il dito contro la Quinta Colonna della Jihad in Italia, che a quanto pare sarebbero proprio loro, i diabolici venditori di rose.

I COMPLICI DEI TAGLIAGOLE
Con le bancarelle i bengalesi finanziano la jihad
di Andrea Morigi.

“Inoffensivi ma insistenti, ti offrono le rose rosse, l’asticella per scattarsi i selfie o gli ombrellini pieghevoli quando piove, ai semafori e all’uscita deri ristoranti. In alternativa, piazzano sui marciapiedi aeroplanini, bamboline a batteria e orologi oppure fanno decollare qualche aggeggio luminoso a molla. Sono i 100mila venditori ambulanti bengalesi, discreti e silenziosi quanto basta a raccogliere circa 100 milioni di euro l’anno dal commercio abusivo”.

Come abbiano fatto a Libero a calcolare 100 milioni di euro non si sa, Andrea Morigi non si premura di spiegarcelo. Azzardo: forse ha preso il numero, già abbastanza vago, di 100mila venditori ambulanti, e l’ha moltiplicato per mille. Perché alla fine vuoi che in un anno un ambulante non riesca a metter da parte almeno mille euro? Certo, una volta detratto il vitto e l’alloggio, e pagato il fornitore degli ombrellini e dei selfie-stick, e soprattutto non dimentichiamo la cresta alla camorra – la cosa è talmente evidente che anche Morigi non riesce a negarla: il racket degli ambulanti non è mica in mano all’Isis, è in mano alla camorra. Però una volta pagati i fornitori, il padrone di casa, il camorrista, vuoi che l’Isis non si prenda la sua briciolina? “Chi acquista incautamente da loro sulle spiagge o per le vie cittadine magari neanche ci pensa, ma ha altissime probabilità di finanziare e importare la guerra santa islamica”. A botte di rose e ombrellini.

Il pezzo va avanti per altre tre colonne e non contiene, spoiler, nessuna prova che con le bancarelle i bengalesi finanzino la jihad. Nel frattempo altri organi di informazione ci hanno spiegato che gli stragisti di Dacca provenivano da famiglie benestanti (un dettaglio tutt’altro che nuovo a chi studia il jihadismo contemporaneo), e che quindi insomma questa storia di colpire il venditore ambulante da 1000€ per colpire il terrorista islamico non ha molto senso. D’altro canto.

D’altro canto mettetevi in Vittorio Feltri.

Lui vende emozioni, non informazioni. Se lo facesse, gli sarebbe bastato raccattare un’agenzia Ansa che ci ragguaglia sul volume di affari tra Bangladesh e Italia, intorno ai 498 milioni.

In particolare con Dacca erano in forte crescita gli scambi lombardi: +13,4% l’import e +6,7% l’export nel periodo gennaio-marzo. I dati sono stati presentati oggi dalla Camera di commercio di Monza e Brianza. La Lombardia trainava il Paese con il 17% degli scambi nazionali. Nello studio, la Camera di Commercio rileva che il Bangladesh, considerato tra i primi Paesi più rischiosi, aveva incrementato i suoi rapporti commerciali con l’Italia fino a posizionarsi tra i primi Paesi al mondo in termini di scambi. Nei primi 3 mesi del 2016, scambi per 498 milioni.

Praticamente mezzo miliardo di euro – altro che due rose e un selfie-stick. E da qui quante domande: facciamo bene a commerciare con un Paese così “rischioso”? Forse no: molti di questi scambi sono il risultato della delocalizzazione, che ha fatto chiudere tante fabbrichette in Italia e ha creato tra le altre cose l’humus adatto a leghisti, xenofobi e lettori di Libero. E però nel frattempo abbiamo aiutato il Bangladesh, l’ottavo Paese al mondo per popolazione, ad avviare uno sviluppo e uscire dalla povertà, quindi forse abbiamo fatto bene… e però tra i problemi dei Paesi che escono dalla povertà ultimamente c’è appunto il jihadismo dei figli di buone famiglie, quelle che magari dalla nostra delocalizzazione ci hanno guadagnato. Mentre il poveraccio che vende le rose nei ristoranti, dopo l’attentato di Dacca, se la vede mediamente grigia e forse questa settimana non uscirà e non venderà nulla: la Jihad non è un grande affare per lui. Insomma, è complicato. E Vittorio Feltri non vende complicazioni.

Vende emozioni facili: rabbia, paura. E soluzioni pratiche: vuoi fare qualcosa contro la Jihad? Non comprare più rose dai bengalesi. Io non l’ho mai fatto, toh, temevo di passare per uno stronzo senza compassione e invece sono un cittadino modello, in prima linea nella lotta contro la Jihad (e contro la camorra). Feltri non ha idea di chi precisamente finanzi la Jihad in Bangladesh o altrove. Non gli interessa nemmeno, non è il suo core business. Lui lavora nell’ombra del nostro subconscio, manovra i fantocci che ci hanno fatto prendere paura sulla spiaggia, un mezzogiorno di trent’anni fa.

giornalisti, Israele-Palestina, sicurezza, terrorismo

Cos’ha da insegnarci Netanyahu (anche niente)

In linea generale forse no, mettersi a piangere durante una conferenza stampa non è la migliore risposta che si possa dare ai terroristi. Così come non lo è lucrare sul panico della gente, o scrivere editoriali scomposti il cui senso è stiamo perdendo aiuto aiuto lasciamo le chiavi della macchina a Netanyahu.

A Netanyahu.

Lo scrive Cerasa sullo stesso Foglio in cui appena uno sciagurato tira fuori un coltello, o da Gaza parte un razzo, qualcuno si precipita a spiegarci che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza, Israele ha bisogno della solidarietà di tutto il mondo civile. Ora: non c’è nulla di strano nel fatto che Israele abbia amici nella stampa italiana. Ma possibile che non si possano trovare amici credibili, competenti? Non riescono mai a non sembrare un po’ bipolari. I giorni pari Israele è sotto assedio, i giorni dispari Israele è la potenza trionfante sui suoi nemici interni che ha tante cose da insegnarci. Però vedo che anche l’Unità oggi sembra sintonizzata. Persino Haaretz suggerisce che l’Europa abbia qualcosa da imparare dall’antiterrorismo israeliano – che non è solo un’efficace serie di accorgimenti: è uno stile di vita. Va bene, vediamo. Vediamo cos’ha Netanyahu da insegnarci, in termini di sicurezza.

Se il tono un po’ sgamato degli israeliani e dei loro amici è in parte giustificabile – è vero che convivono col terrorismo islamico da più tempo – l’idea che in Europa le stragi tra civili siano una novità è abbastanza ridicola. Il terrorismo è una delle tante cose che abbiamo inventato noi e – come si vede dal grafico qua a destra – in molti casi l’abbiamo anche già risolto (non è stata una passeggiata, e non lo sarà neanche stavolta).

Statista.com

Per quanto si stiano impegnando negli ultimi anni, gli integralisti non hanno ancora invertito la tendenza negativa: il terrorismo politico o indipendentista faceva molti più morti negli anni Settanta. Guardando al numero delle vittime, il panico degli ultimi giorni non è solo sbagliato: è anche ingiustificabile. Si spiega soltanto con la mentalità dell’assedio, con cui molti cittadini europei stanno reagendo alla crisi dei profughi. Terrorismo e profughi sono due fenomeni diversi, con cause e soluzioni diverse, ma stanno contribuendo a formare una mentalità isolazionista. Chi chiede soluzioni facili al terrorismo, probabilmente sta pensando anche ai profughi. Chi parla di Netanyahu magari sta pensando a un bel muro, pardon, barriera protettiva, che però, nella situazione, nemmeno Netanyahu saprebbe dove costruire: intorno all’Europa? O al Belgio?

Ovvero: nessuno nega che l’isolazionismo abbia dato risultati, in Israele. Se hai una nazione di ventimila chilometri quadrati (più o meno l’Emilia-Romagna), con zone desertiche e altre densamente popolate (ma nessuna città superiore al milione di abitanti); se la maggior parte dei terroristi proviene da un territorio (in teoria) straniero (ma militarmente occupato e/o circondato da posti di blocco), tu alzi una bella “barriera” di cemento + filo spinato e gli attentati, fatalmente, diminuiranno. Bisognerà però contestualmente ritirarsi da alcune zone che proprio non riusciresti a controllare – e qui magari si può far notare che Netanyahu non era affatto entusiasta dell’idea di ritirarsi da Gaza. Che però ha dato risultati abbastanza spettacolari.

Questo è il grafico più esauriente che ho trovato – e che illustra bene, a mio parere, quanto sia stato importante per la sicurezza degli israeliani il ritiro da Gaza e l’erezione della “Barriera” (2004-2005). Netanyahu è tornato al governo nel 2009, un anno abbastanza buono. Però morti e feriti ne ha contati tutti gli anni, purtroppo. Sei nel 2009. Dieci nel 2010. Ventuno nel 2011. Otto nel 2012. Sette nel 2013. Trentanove nel 2014. Trentasei nel 2015. Li ho contati sulla Jewish Virtual Library, dove non credo che abbiano interesse a tenere i numeri più bassi di quanto non siano – e comunque c’è qualcosa che non va, visto che lo stesso sito sostiene che per il Shin Bet l’anno peggiore sia stato il 2015 con ‘solo’ ventotto vittime. Dipenderà anche dalla matrice del singolo episodio, che può essere terrorismo ma anche criminalità comune.

Nota: per raccogliere questi dati ho finto che Israele non sia nel frattempo coinvolta in un conflitto a bassa intensità con Hamas e altre organizzazioni. Non ho contato le vittime palestinesi, che farebbero salire di parecchio il contatore (soprattutto nel 2009 con l’operazione Piombo Fuso e nel 2014 con l’operazione Margine di Protezione). E non ho fatto la cosa che i giornalisti filo-israeliani fanno nei giorni in cui ci spiegano che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza, ovvero non ho diviso il numero di vittime per il numero di abitanti: altrimenti, com’è ovvio, si scoprirebbe che Israele è ancora un posto molto, molto più pericoloso di qualsiasi paese dell’Unione Europea, incluso il complicatissimo Belgio.

Vittime terroristiche in alcuni Paesi (1970-2013), secondo il Global Terrorism Database,
(No, c’è qualcosa che non mi torna).
Ad esempio l’impennata di Israele nel 2013: Margine di Protezione?

Israele ha otto milioni di abitanti: se ogni anno ne muoiono una trentina a causa di attentati terroristici – malgrado la barriera di protezione, malgrado i metal detector nelle scuole e nei locali – forse c’è un problema, ed è grosso. Non voglio dire che Netanyahu farebbe bene a informarsi sui come stanno reagendo le forze di sicurezza belghe, che con tutti i loro limiti nel giro di un anno hanno individuato una banda di terroristi che aveva fatto il nido nella capitale (al punto che hanno dovuto anticipare un attentato e uccidere probabilmente una piccola frazione delle vittime che speravano di fare), e tuttavia… che bella “provocazione” sarebbe, eh? Un bel titolaccio: Netanyahu, vecchia schiappa, va’ a scuola dai belgi. Ma temo sarebbe antisemitismo. Vabbe’.

Secondo Cerasa invece Netanyahu – e gli israeliani, in generale – avrebbero cose da insegnarci: vediamo cosa. “Bisogna proteggere con le guardie armate ogni spazio pubblico, ogni scuola, ogni centro sportivo, ogni supermercato“. Pare che in Israele facciano così. Col risultato di avere, nel 2015, una trentina di vittime su appena otto milioni di abitanti. Lasciamo perdere la spesa: conviene? A me non sembra.

Bisogna armarsi fino ai denti“. Cerasa non spiega se vanno armati i cittadini o le forze di sicurezza (a proposito: re-istituiamo il servizio di leva? Forse è meglio dirlo con chiarezza). In entrambi i casi avremo un Europa più sicura? Prendiamo un altro Paese civile dove hanno pensato di armarsi fino ai denti: gli USA. Diciamo che in Israele negli ultimi anni il terrorismo fa più o meno 3,5 vittime su un milione su un milione di abitanti. Negli USA nel 2013 gli omicidi da arma da fuoco erano 35 su un milione – dieci volte tanto. Cioè, magari ce la facciamo anche a risolvere il problema del terrorismo – anche il martello pneumatico, dicono, è molto efficace contro la carie. Il fatto che poi ci mettiamo ad ammazzarci per strada non dev’essere un problema. Purché ci ammazziamo tra noi, niente islamici in mezzo. Ma forse Cerasa intende soltanto: armiamo le forze di sicurezza. Che sapranno fare un uso ragionevole della violenza, nevvero?

Prendiamo ancora gli USA: nel 2016 la polizia ha già ammazzato 243 persone, di cui 21 disarmate. Lo so, per alcuni di noi sarebbe consolante essere ucciso alle spalle da un poliziotto spaventato, piuttosto che da un integralista dell’Isis. Allo stesso tempo no, in coscienza non posso dire che funzioni. Se ti armi fino ai denti non combatti il terrorismo: finisci per colpire gli stessi cittadini che il terrorismo terrorizza. Stai passando dall’altra parte. Proprio ieri è stato divulgato un video in cui sembra che un soldato israeliano spari a un attentatore palestinese già immobilizzato a terra. Questo tipo di controterrorismo funziona? È più forte l’effetto deterrente o la rabbia che scatena nei palestinesi? Non lo so. So solo che negli ultimi anni le vittime stanno aumentando, non diminuendo.

Bisogna accettare, come hanno già fatto gli israeliani, che convivere con la minaccia del terrorismo significa rinunciare a un po’ di privacy a favore della sicurezza (loro avranno anche rinunciato a un po’ di privacy, ma continuano lo stesso a morire di terrorismo). Bisogna rendersi conto che non esiste intelligence vera se non si va alla radice del terrorismo islamista: sia combattendolo sul campo, con una forza incomparabilmente superiore a quella mostrata dai terroristi, sia combattendolo dal punto di vista economico, individuando gli stati che creano e finanziano le cellule da cui nasce il terrore nel nostro continente”.

Quindi, insomma, la vera intelligence è bombardare. Ecco: se il senso della tirata è che dobbiamo invadere la Libia, forse si poteva essere un po’ più chiari. Naturalmente l’Italia – che in questo momento non sembra essere un obiettivo preferenziale dei terroristi – se interviene in Libia lo diventerà. E a quel punto, sì, pretenderete di sbloccarci il telefono per controllare se per caso i terroristi non siamo noi. Queste cose scrivetele pure, se vi regge la faccia – ma perché dovete tirare in mezzo il povero Netanyahu? Non ha già le sue grane?

Meglio ribadire: se c’è stato un momento in cui Israele è riuscito a far calare in modo spettacolare il numero di vittime del terrorismo, non è stato quando ha messo i metal detector nei supermercati; non è stato quando ha bombardato i Territori. È stato quando si è ritirato da Gaza (Netanyahu non era molto d’accordo) e ha tirato su una Barriera. E siccome Cerasa non può permettersi di consigliare ai belgi di ritirarsi da Molenbeek (salvo bombardarla ogni tanto) e alzar muri in Fiandre e Vallonia, cosa vuole esattamente?

Vuole che conviviamo col terrore: che impariamo a temerlo mentre siamo al supermercato, nelle scuole, negli stadi, al telefono. È più o meno la stessa cosa che vuole l’Isis. Vuole guardie dappertutto, e armate fino ai denti. Non c’è prova che funzioni, anzi sia in Israele che negli USA sembra proprio che succeda il contrario, ma si potrebbe anche provare. Con che soldi? A tal proposito, avrei una controproposta. Offriamo pure a Netanyahu “le chiavi d’Europa”. Chiediamogli però di portarsi con sé i tre miliardi di dollari che ogni anno gli USA versano al suo Paese solo per la difesa. Ok, quella che per Israele è una risorsa fondamentale, per l’Europa sarà solo una briciola. Ma insomma, Bibi non è che stia salvando la vita ai suoi cittadini con la sua bella faccia. Ci spende dei soldi. E il risultato lascia comunque a desiderare.

Magari una minima frazione di questi soldi viene impiegata per ottenere qualche editoriale filo-israeliano nei Paesi amici. Ecco, non sarebbe uno scandalo; avrebbe un suo senso – se però il risultato sono queste sbrodolate senza pudore, per favore, israeliani: risparmiate. Compratevi anche solo un metal detector in più.

giornalisti, terrorismo

Contro il terrore chiudiamo il Giornale

Le quinte colonne del terrore. 

Dite che siamo in guerra, va bene. Mi domando come reagirete nel momento in cui in guerra ci andremo seriamente (ormai ci siamo). Comunque, se volete sentirvi già in guerra, se la cosa vi aiuta in un qualche modo, se vi dà una forma di speranza, non ho obiezioni.

Vorrei però che vi fosse chiaro che in guerra certi atteggiamenti non si tollerano. Seminare il panico, ad esempio, in tempo di pace può essere una fruttuosa strategia editoriale che porta qualche migliaio di clic in più e la pagnotta ai redattori. In guerra è tradimento: c’è la corte marziale.

Dite che siamo in guerra: traetene le conseguenze. Secondo me siamo in pace, e quello del Giornale è semplicemente abuso della credulità popolare, forse anche procurato allarme.

Da quando ho preso questa istantanea, il contatore di facebook ha raddoppiato: il falso allarme della madonna brasiliana sta “piacendo” a diecimila lettori. Tra questi ci saranno anziani, ci saranno adolescenti, ci saranno persone che ci ridono sopra e altre che non hanno i filtri culturali necessari a identificare la monnezza. Vogliamo dire che su diecimila persone sono riusciti a spaventarne mille? Mi sembra un buon risultato, qualcosa che l’Isis può apprezzare.

(Per par condicio, ecco il pezzo di Libero, che rettifica: la madonna di Bahia non avrebbe mai indicato il 23. Comunque anche a Libero ci tengono a puntualizzare che l’Italia trema. Siamo in guerra del resto, cagarsi addosso dev’essere una specie di imperativo morale).

aborto, cristianesimo, Islam, pontefici, preti parlanti, terrorismo

Perché i cristiani non ammazzano gli abortisti (quasi mai)?


Se ci pensate, è curioso.

Un tizio negli USA entra in una clinica dove si programmano aborti, e si mette a sparare; uccide un po’ di personale medico ma da noi non fa quasi notizia. D’altro canto in Kenya hanno ammazzato una cooperante italiana, in Turchia un avvocato dei curdi, è un periodo difficile. Ci sono apprezzabili motivi storici e geografici per cui oggi in Italia possiamo aver paura più del terrorismo di matrice islamica che di quello antiabortista che da noi per ora non esiste. Peraltro, chi volesse approfittare di un fatto tanto estremo per attaccare gli antiabortisti italiani, si tirerebbe la zappa sui piedi: per quanto sia gente odiosa, non va in giro a sparare a medici o infermieri.

A me però un giorno piacerebbe discutere proprio di questo: perché gli abortisti italiani non vanno in una clinica e fanno una strage? Non per polemica, credo che sia una domanda interessante e meno retorica di quanto potrebbe sembrare.

Credo che ogni religione abbia una sua logica, che funziona magari solo se la osservi dall’interno – il che significa, per esempio, che in teoria potresti catechizzare un robot. Ma appunto, se a un robot spieghi che

1. La vita ha inizio dal concepimento
2. A chi muore prima del battesimo è negata la grazia di Dio, e di conseguenza il paradiso

“Genocidio o scelta?”

Questo robot non potrebbe che dedurne che ammazzare i medici abortisti è cosa buona e giusta, così come sarebbe stata cosa buona e giusta ammazzare Hitler prima che iniziasse a sterminare disabili, ebrei, rom, eccetera. Lasciatemi per una volta usare proprio il consuntissimo paragone col fuehrer, perché i numeri me lo consentono; se crediamo che la vita abbia inizio dal concepimento (e i cristiani ci credono!) quello che i parlamenti di tutto l’occidente hanno progressivamente legalizzato dal dopoguerra in poi è un vero e proprio sterminio di massa, degno di figurare accanto a quelli più o meno professionalmente organizzati da Mao o Stalin o altri.

Per il cristiano però l’aborto è ancora più grave: non soltanto strappa alle sue vittime la vita terrena (una proprietà, per i cristiani, trascurabile), ma pregiudica anche la felicità nella vera vita, quella eterna. Non è solo un infanticidio di massa – che già sarebbe grave – ma è uno sterminio di anime. Anche se su quest’ultimo punto si annida un po’ di provvidenziale bruma teologica. Forse la decisione del penultimo papa di eliminare l'”ipotesi” del Limbo nasce proprio dalla volontà di stemperare i toni: si trattava di una regione liminare dell’inferno dove i bambini non battezzati bruciavano a fuoco lentissimo (“damnatione omnium mitissima”, diceva Agostino), ma comunque bruciavano. Io a una cosa del genere mi rifiuterei di credere, ma se ci credessi non avrei alternative a farmi esplodere in un consultorio: come potrei sopportare di convivere con un’umanità che permette che dei bambini non nati brucino in eterno? Se però decidiamo di non porre limiti alla misericordia di Dio, il pensiero dell’infanticidio diventa un po’ più sopportabile. Ma pur sempre infanticidio resta.

Ecco, quando discutiamo del cosiddetto “islam moderato”, e ci sembra una contraddizione in termini, (come si possono “moderare” certi dettami del Corano?) forse potremmo fare un confronto con una situazione del genere: uno dei principi più strenuamente difesi dal cattolicesimo moderno – non quello medievale, tomista, no: quello post-conciliare – è la sacralità della vita dal concepimento. È un principio che non ha nulla di “moderato”, il famoso “valore non negoziabile”: chi abortisce è un’assassina, chi l’aiuta è complice di strage. La “moderazione” non interviene sul piano ideologico, ma su quello pragmatico. Cioè, nella teoria un cattolico non può non pensare che Emma Bonino sia una stragista dichiarata. Nella pratica, se la incontra in chiesa durante un rito funebre non si sbigottisce; addirittura può domandarsi come mai non la facciano salire sul pulpito per dire due parole. Questa ci sembra “moderazione”, ci sembra “buon senso”, ma se fossimo un po’ più estranei alla situazione potremmo anche chiamarla “doppiezza”, o “ipocrisia”. Come quando accusiamo i rappresentanti dell'”Islam moderato” di non raccontarcela giusta, di fingere di non vedere i passi più violenti del Corano che pure sono attualmente messi in pratica nelle teocrazie e nelle repubbliche islamiche.

Quando poi capita che un tizio entri armato in un consultorio e faccia fuoco su dei dottori, lo chiamiamo “matto”. Non ci attraversa nemmeno per un istante l’idea di accusare il Papa, o qualche pastore protestante, di averlo ispirato. Eppure.

Islam, Oriana Fallaci, scuola, terrorismo

L’Isis è tra noi. E non vuole che andiamo in gita

First We Take Torpignattara… 

Cari operatori locali del terrore: politici, opinionisti e semplici reporter a caccia di segni che l’Isis sta arrivando, è qui, non farà prigionieri; care quinte colonne della Jihad prossima ventura, che posso dirvi? Potreste persino aver ragione.

In effetti non c’è motivo di pensare che gli errori commessi in Belgio o in Francia, in materia di immigrazione o integrazione, non siano stati ripetuti anche da noi; e che nell’hinterland di qualche città italiana non esista un ghetto come Molenbeek, dove gli integralisti possono nascondersi e fare proselitismo indisturbati. L’ipotesi è plausibile, non si può liquidare con un’alzata di spalle. Una Molenbeek italiana magari c’è.

A questo punto però dovreste mostrarcela.

Perché se tutto quello che riuscite a trovare è Torpignattara; e anche per dipingere Torpignattara come un ghetto islamico siete costretti a sforbiciare vecchi spezzoni d’interviste, ecco, no. Topignattara sicuramente non è il paradiso, ma altrettanto sicuramente non è il quartiere marocchino di Molenbeek. Se la minaccia islamica in Italia esiste, perché vi riducete a inventarvela? I vostri dossier dovrebbero essere gonfi di fatti, di soprusi, prevaricazioni documentate, musulmani che minacciano salumieri, donne costrette a velarsi, ecc. È da vent’anni e più che ci state raccontando di un’invasione islamica dell’Italia, come minimo a questo punto dovrebbero essere riusciti a imporre la Sharia almeno in una circoscrizione, un isolato, un ballatoio. Voi dovreste essere là, e documentare la cosa con tutta la Rabbia e tutto l’Orgoglio di cui siete sicuramente capaci. E invece.

E invece l’altro giorno un giornalista come Filippo Facci, non esattamente un becero qualunque, si ritrova a scrivere una cosa del genere:

Non voglio leggere che una gita scolastica è stata annullata perché prevedeva la visita a un Cristo dipinto da Chagall: voglio che gli insegnanti responsabili vengano sanzionati, o, addirittura, come ha scritto Claudio Magris sempre sul Corriere, licenziati.

La Grande Minaccia Islamica 2015: una gita scolastica annullata. Peccato che non sia semplicemente vero: che la notizia di una classe che rinuncia alla gita per non offendere gli alunni musulmani fosse già stata smentita dal preside della scuola nel momento in cui Facci si sedeva a scrivere il suo laico grido d’allarme. Poco importa: in mancanza di niente gli operatori locali del terrore hanno deciso che il segno dell’Apocalisse musulmana è questo: un consiglio di classe che blocca una gita per mancanza di adesioni (una cosa che è sempre successa, anche quando i genitori che non volevano pagare non erano ancora musulmani ma semplicemente poveri). Ne sta parlando la Meloni in tv proprio adesso a Porta a Porta, in palese cattiva fede. Nel frattempo il Miur ha mandato gli ispettori in quella scuola, al cui dirigente va tutta la mia solidarietà.

(Non so se vi rendete conto. Durante un consiglio di classe decidono di bloccare una gita probabilmente per mancanza di adesioni. Nel corridoio qualcuno mormora che è colpa dei genitori musulmani. La scuola finisce sui giornali. Claudio Magris sul Corriere vuole licenziare gli “insegnanti responsabili”! Cioè se tu blocchi una gita scolastica perché un po’ di genitori non se la sente di pagare, Claudio Magris chiede al Corriere che tu sia licenziato, e il Ministero ti manda gli ispettori. Ma questo non è cavarsela a buon mercato? Forse si dovrebbe fare di più, magari iniziare a tagliare qualche parte del corpo al professore che non riesce a organizzare una visita d’istruzione. Non possiamo mica rischiare che vinca l’Isis).

Facci comunque non si preoccupa soltanto per le visite d’istruzione. Mali tempi incorrono:

Non voglio che la scuola pubblica elimini dai testi scolastici le parole «maiale» e «carne di maiale» (più tutti i derivati) per non offendere musulmani ed ebrei: 

A me questa è sfuggita: qualcuno ha proposto di togliere “maiale” e “ciccioli frolli” dai testi scolastici? Che io sappia a musulmani ed ebrei è fatto divieto di mangiarne, non di sentirne parlare o di leggere la parola su un libro. Insomma questa è una cosa che è successa davvero o un’esagerazione? E che bisogno c’è di esagerare, se in giro per l’Italia vige davvero la Sharia? Ma fateci degli esempi concreti.

Facci non fa che ripetere lo stesso schema che dall’11 settembre hanno ripetuto tutti gli operatori locali del terrore: siccome la Minaccia Islamica tarda un po’ a manifestarsi, se la fabbricano in casa con quel che passa il convento. A Sarcazzo sull’Oglio un crocefisso è caduto da una parete e nessuno l’ha raccolto; nel comune di Massaveneta si sono rotti i coglioni di fare il presepe; la tal classe non va in gita: tutti segni che Maometto sta vincendo. In fondo l’Isis, quando proclama su Youtube di essere a poche miglia nautiche da Roma, non sta facendo la stessa cosa? Arrendetevi, abbiamo conquistato un quartiere di Tripoli, stiamo arrivando.

La grande maestra di questi professionisti del panico è stata ovviamente lei, Oriana Fallaci. Tre anni dopo aver vomitato tutta la sua Rabbia e il suo Orgoglio, pubblicò un testo che si presentava sin dal titolo come un’assai più ponderata riflessione sul tema Quei bastardi fottuti ci fanno il culo, tiriamo fuori le palle, Cristo! Il volume, il secondo della trilogia, si intitolava appunto La forza della ragione. 

“Stavolta non mi appello alla rabbia, all’orgoglio, alla passione. Mi appello alla Ragione”.

In questo testo tanto ragionato, la Fallaci spiegava ai suoi lettori che lo Stato in quel momento (2004!) stava giungendo a una specie di concordato con le comunità islamiche operanti nel Paese. Cito da Cathopedia:

Le bozze d’intesa tra Stato italiano e comunità islamiche prevederebbero inoltre: il riconoscimento del venerdì come giorno di festa (per i soli musulmani, insieme alla domenica); la possibilità di interrompere il lavoro per recitare la preghiera rituale quattro volte al giorno; l’esenzione dal lavoro per gli islamici in occasione delle loro feste e per poter effettuare il pellegrinaggio a La Mecca; la possibilità per le donne di avere sui documenti d’identità la foto con il velo; la facoltà di usufruire del contributo dell’otto per mille; il riconoscimento della validità del matrimonio islamico con relativa facoltà da parte del marito di ripudiare la moglie o praticare la poligamia (attualmente punita dal Codice penale); l’obbligo per ogni mensa aziendale, scolastica, ospedaliera, carceraria di distribuire cibi islamici; il permesso di praticare la sepoltura dei cadaveri secondo il rito islamico (cioè il cadavere avvolto solo da un lenzuolo e sepolto a fior di terra, in contrasto con le nostre norme igienico sanitarie)…

Sono passati undici anni: qualcuno sa che fine hanno fatto quelle “bozze d’intesa”? Nel caso, potrebbe anche ragguagliarmi su quali “comunità islamiche” stessero facendo pressione sul governo Berlusconi per depenalizzare la poligamia? Ci sono tracce di queste bozze, da qualche parte, onde verificare se davvero qualcuno aveva intenzione di seppellire cadaveri avvolti in un lenzuolo a fior di terra? Perché tutte queste cose le scriveva la Fallaci, e la Fallaci ci stava parlando con la Forza della Ragione.

Adesso ve li faccio io degli esempi concreti. Io abito in un piccolo centro dove non ci sono moschee. Ufficialmente. Se parli coi ragazzi ce ne sono cinque o sei. Almeno fino a qualche anno fa il principale problema di sicurezza era la tensione tra arabi e pachistani – presso la stazione autocorriere ci fu una rissa memorabile. A una decina di chilometri da casa mia, qualche anno fa una madre musulmana difese sua figlia con la vita – e fu uccisa dal marito. Di cose successe più vicino a me non posso parlare; dico solo che ogni volta che sento un giornalista o un opinionista montare a neve un caso come quello della scuola di Firenze, mi sento preso in giro. Solo con le madrase clandestine ci sarebbe di che riempire un libro non ridicolo, e tutto quello che riuscite a trovare voi cazzari anti-islamici è una classe che non va in gita. Non fate senso solo come giornalisti, incapaci di notare quel che succede appena un po’ oltre la punta delle vostre scarpe: fate pure pena come quinte colonne del terrore, bravi solo a spaventarvi a vicenda. L’Italia potrebbe anche diventare più pericolosa del Belgio, non lo so e non lo escludo; ma so che nel caso sarete gli ultimi ad accorgervene.

Islam, razzismi, santi, terrorismo

Islam non è la risposta

20 novembre – San Dasio († 303), martire.

A San Dasio, un martire qualsiasi, caduto ovviamente ai tempi di Diocleziano presso Durostorum (oggi sarebbe Bulgaria), un monaco che s’annoiava associò una leggenda curiosa. Dasio non aveva ancora fatto il suo coming out di cristiano, quando fu acclamato dai suoi concittadini re dei Saturnali, il carnevale di quei tempi: al termine del quale il re sarebbe stato scannato dai suoi sudditi in festa. Era un’usanza che magari il monaco si inventò lì per lì per conferire ai legionari pagani i costumi più turpi possibili: finché James Frazer non la trovò e in un qualche modo decise che si trattava dell’unica testimonianza rimasta di un antichissimo rito comune a tutta l’antichità greca e romana, in fondo perché no? Se l’ha detto Frazer.

sacrifice Solo a quel punto Dasio, vedendosi comunque condannato a morte, decise di rivelarsi per un cristiano: e così, invece che sacrificato a Crono, morì da martire. La storia sembra escogitata apposta per provocare una discussione: benché sia morto esattamente sotto le stesse armi di tanti altri colleghi di martirio, Dasio potrebbe sembrarci un po’ meno eroico: mentre ad altri fu offerto di rinnegare il loro Dio, e rifiutarono, Dasio sapeva che sarebbe morto in ogni caso. L’unica scelta a sua disposizione era cambiare il senso della sua morte. Voi dite che io muoio per X, e invece io muoio per Y. Per noi, che non crediamo più né in X né in Y, la cosa sembra quasi irrilevante. Ma la stessa cosa penseranno i posteri di noi.

Un giorno scrolleranno un papiro, un microfilm, un’immagine a mezz’aria, e leggeranno dei dibattiti che facevamo nel novembre del 2015 sugli stragisti di Parigi: se fossero morti perché (x) islamici o perché (y) vittime della mancata integrazione, del degrado delle banlieues (z), del pasticcio geopolitico medio-orientale (w), della carestia che col riscaldamento globale cominciava a bussare a un bordo del Mediterraneo (v): e tutti questi concetti per loro saranno ugualmente astratti. I fatti di cronaca in sé, invece, li afferreranno benissimo: c’era una fazione che voleva seminare il terrore sparando a obiettivi precisi ma anche a casaccio; questo è comprensibile, è successo altre volte e probabilmente non smetterà mai di succedere, per cui possiamo essere ragionevolmente sicuri che finché ci saranno individui della nostra specie, la violenza terroristica non sarà loro aliena: ma avranno parole diverse per spiegarla, parole che a loro sembreranno molto più semplici. Scrolleranno la testa, invece, di fronte alle nostre astruse spiegazioni, alle nostre razionalizzazioni così poco razionali.

Quando per esempio parliamo di Islam, e ci domandiamo se possa avere o meno a che fare col terrorismo. È una domanda seria? Voglio dire, sono musulmani integralisti, brandiscono il Corano, ci definiscono infedeli e crociati, e muoiono come martiri: così a occhio direi che l’Islam un po’ c’entra. È curioso anche solo il fatto che ci poniamo il problema. Perché abbiamo difficoltà ad ammettere che la religione sia un fattore determinante, se non scatenante, di un fenomeno terroristico? Probabilmente perché abbiamo paura di offendere quei musulmani che non sono integralisti, né fanatici, né terroristi (è la stragrande maggioranza) e che anzi, sono il primo obiettivo degli integralisti, dei fanatici, dei terroristi. I cosiddetti “islamici moderati”. Bene.

India France Paris AttacksMa è una paura che si spalma sull’ipocrisia. Se davvero fossero “moderati”, non dovrebbero offendersi, tanto è evidente il fattore religioso in un terrorismo di dichiarata matrice islamica. Allora forse siamo noi per primi a non crederci molto, a questa cosa dei “moderati”. Abbiamo paura di urtare la loro suscettibilità – e se poi si radicalizzano? Se smettono di essere “moderati”? (Noto qui per inciso che in italiano il termine esiste solo per gli islamici: non ho mai sentito parlare di cristiani o di ebrei “moderati” – al massimo di cristiani integralisti, o ebrei ultraortodossi. L’islam è l’unico grande monoteismo che sentiamo di dover “moderare”).

Il vero motivo per cui almeno io percepisco una certa difficoltà a individuare l’Islam come un agente patogeno del terrorismo, è molto più terra-terra: non voglio darla vinta alla Fallaci. E a tutti quelli che la citano, ovviamente, ormai senza neanche leggerla più (resterebbero sorpresi nello scoprire, per esempio, che era scettica sugli effetti della Guerra al Terrore di Bush; e del disprezzo con cui liquidava la Lega e il suo leader di allora). Per un sacco di gente, dall’11 settembre di 14 anni fa, “Islam” è diventata la risposta più comoda, e in molti casi l’unica. Perché ci vogliono ammazzare? Perché sono islamici. Ma non sarà che provengono da Paesi disastrati dalle fallimentari strategie geopolitche delle superpotenze? Naaah, è solo che sono islamici. Sicuri che non c’entri per niente il modo in cui abbiamo corrotto la loro classe dirigente, mettendo un Paese contro l’altro e vendendo armi un po’ a tutti, senza riflettere su che fiori tossici sarebbero nati dalle macerie? No, no, guarda, è molto più semplice: loro leggono un solo libro e su quel libro c’è scritto che ci devono ammazzare. E la fragilità del benessere di Paesi basati sull’esportazione di idrocarburi, praticamente privi di una classe media che possa creare le premesse per una democratizzazione e laicizzazione della soc… Uff, perché la fai tanto lunga? Islam. E la questione israelo-palestinese, questa ferita aperta che non si ricuce mai? Anche lì, è semplicissimo: i palestinesi sono islamici, gli islamici sono antisemiti, quindi… E il malessere delle banlieues? Dovevano stare a casa loro. Ma le migrazioni sono inevitabili, cioè guarda qualsiasi proiezione demografica, è chiaro che un sacco di gente arriverà in Europa da sud in cerca di cibo e lavoro, parliamo di milioni di persone, mica li puoi tenere fuori… non essere buonista, loro vengono perché sono islamici e sul loro libro c’è scritto che ci devono conquistare. Ecc. ecc.

libero

Nota per il postero: non sto riassumendo dei discorsi da bar. Ovvero, è chiaro che se ne sentono anche al bar, di discorsi così: ma sono gli stessi che fanno autorevoli leader di partito, intellettuali, opinionisti anche loro “moderati”: quelli del Corriere che si nascosero dietro le urla scomposte dell’anziana Fallaci (nessun editorialista maschio ebbe il coraggio di prendersi una fatwa in quell’eroico momento: tutti dietro la vecchietta). Quelli un po’ bricconcelli, un po’ situazionisti del Foglio; gli sciacalli del collasso del berlusconismo, Salvini e la Meloni. Per loro ormai “Islam” significa “ci odiano”, il che rende i loro ragionamenti perfettamente circolari, se non puntiformi. Perché ci odiano? Perché sono islamici. Perché sono islamici? Perché ci odiano. Quel corto circuito tautologico che attirava l’attenzione di Roland Barthes. “Islam” per noi è ormai un mito, nel senso che lui dava al concetto; una parola svuotata del suo senso originario, delle storie complesse che rappresentava, e trasformata in un dato di natura. “Ci odiano”, e non c’è bisogno di altra spiegazione. Ormai lo possiamo scrivere sulla cartina, proprio dove una volta scrivevamo “Hic sunt leones”. Non c’è bisogno di indagare, studiare, capire. Ci odiano. Perché? Islam (continua sul Post…)

attivismo, guerra, manifestaiolismi, terrorismo

Avevamo il 5% e avevamo ragione

Avevo in bozza la fine del ragionamento sul partito di sinistra del 5%, che questa settimana sembra abbastanza superato (alligna in me almeno il germe dell’ottuso-bravo-cittadino, quello che nei momenti di crisi si stringe alla bandiera e alle istituzioni; al punto che riesco ad apprezzare un buon discorso di Renzi e persino qualche degno intervento di Angelino Alfano; e a sospirare al pensiero che nelle stanze dei bottoni ci siano loro e non altre creature sempre meno antropomorfe).

Una cosa però la voglio buttare giù, visto che in questi giorni è facile andare col ricordo al periodo della guerra al terrore. Bene, se c’è stato un momento, negli ultimi vent’anni, in cui una sinistra minoritaria ha dimostrato di essere utile, se non necessaria, è stato quello. Non eravamo tantissimi, non avevamo necessariamente categorie più raffinate dei neocon che avversavamo; non eravamo eleganti, non sapevamo capitalizzare i successi dei forum sociali e dei cortei no-war. Non eravamo l’avanguardia intellettuale del Paese e non meritavamo senz’altro di conquistare l’egemonia; però avevamo ragione.

Ce lo hanno mostrato i fatti, lo ha ammesso persino il mellifluo Tony Blair. Qualsiasi ingenua analisi postata su un blogghetto amatoriale (che mi costa una certa fatica andarmi a rileggere) sembra comunque illuminata da una spaventosa chiaroveggenza, se solo la paragono alle ciarle che nello stesso periodo facevano sbrodolare alla povera Fallaci. Avevamo ragione sui rischi di destabilizzazione del Medio Oriente, avevamo ragione nel liquidare a sberleffi le ideologie contraddittorie dello scontro di civiltà e dell’esportazione della democrazia; eravamo forse un po’ più ingenui quando parlavamo di petrolio, ma almeno avevamo capito che sotto la trama religiosa c’è sempre la cara vecchia economia.

In seguito c’è chi è partito per la tangente; chi aveva troppo fiuto per i retroscena ha iniziato a vedere false flag e scie chimiche; però l’intuizione iniziale era buona, e veniva da un ambiente che conservava gli strumenti per vedere quello che altri non potevano o non volevano vedere, per diplomazia o per interesse o pura e semplice insipienza. Non è che abbia nostalgia di quello spazio e di quel momento (che non è mai riuscito a costituirsi in un partito organizzato, peraltro). Ma credo che molti giovani avrebbero bisogno proprio di un ambito del genere, dove coltivare un sano dubbio post-ideologico e imparare a irridere gli impavidi arruolatori di ogni stazza ed età. Certo, le elezioni non si vincono subito e forse non si vinceranno mai. C’è però anche altro nella vita: e anche il piccolo orgoglio di avere avuto i dubbi giusti e quasi sempre ragione non è da sbatter via. Ci si può costruire qualcosa.

(Vien quasi la vertigine, a pensare quanto ero stupido quando avevo sempre ragione. A me poi piacerebbe anche aver torto ogni tanto, son quel classico Tramaglino a cui piacerebbe annoiare il prossimo raccontando i propri errori di gioventù. Ne avessi fatti un po’ di più! e invece quasi niente).

guerra, internet, scuola, terrorismo

Se è una guerra siate adulti, per favore.

In Italia al sabato le scuole sono aperte, il che almeno mi ha impedito di passare mezza giornata su internet a litigare. Grazie al cielo c’è un lavoro da fare, e grazie al cielo è un ottimo lavoro – anche le mattine in cui i ragazzi sono nervosi e non sai bene cosa raccontare. Una cosa bella del mio lavoro è che mi mette costantemente davanti ai miei limiti e mi obbliga a essere una persona un po’ migliore. Non sempre ci riesco, ma quando uno è costretto a provarci cinque mattine su sei alla fine qualche risultato lo porta a casa.

A volte credo che molta gente avrebbe semplicemente bisogno di sperimentare quello che quotidianamente capita a tizi come me: invece di alzarsi e correre a citare qualche frasetta della povera Fallaci, o titolare “bastardi islamici” per lucrare un po’ di copie, provare a venire in una scuola qualsiasi della Repubblica, al mattino: a entrare in una classe e trovarsi venticinque cuccioli, di cui quattro o cinque musulmani. E a quel punto, coraggio, vediamo fino a che punto riesci a parlare di invasione, di eurabia. Vediamo fino a che punto riesci a dire “islamici bastardi” in presenza di bambini normalissimi che hanno lo stesso zainetto degli altri, lo stesso astuccio degli altri, gli stessi voti degli altri – e sono nati nello stesso ospedale dove sei nato tu.

In *tutte*, cioè non è che se fai il liceo coreutico
non devi studiare la Fallaci.

A questo punto, mentre non trovi le parole per offendere la religione di un miliardo di persone, magari potresti notare che quei bambini, quei ragazzi, possono essere persino più spaventati di te: e che quei gridi scomposti e intolleranti che su facebook o altrove ti riuscivano così bene, ti facevano sentire così libero… non sono altro che forme di panico; e tu non puoi farti prendere dal panico, perché sei l’adulto e gli adulti non dovrebbero cedere al panico. Altrimenti hanno vinto loro, no?

E tu non vuoi che vincano loro, o no?

Tu dici che è una guerra: va bene. Non sarà allora il caso di comportarsi come ci si comporta in una guerra? Da uomini, si diceva una volta. Da adulti, diciamo. E quindi: se abbiamo paura, dobbiamo ricacciarcela in gola, e ai ragazzi prima di ogni discussione premettere un concetto: vinceremo. Anche se oggi siamo in ginocchio (ma ci rialziamo), anche se per qualche minuto abbiamo davvero avuto paura (ma ci sta passando), anche se per un attimo un nemico ci ha portato a sospettare l’uno dell’altro, ad accusare l’uno o l’altro; tutto questo non importa, perché contro il terrorismo abbiamo sempre vinto e vinceremo anche stavolta. Perché ieri sera i parigini aprivano le porte delle case per dare rifugio a chi scappava; perché i tassisti hanno fatto la spola per tutta la notte, perché per ogni terrorista ieri a Parigi c’era almeno un migliaio di cittadini che sono accorsi agli ospedali a donare il sangue: perché noi siamo tanti, e loro no. Siamo uniti, e loro no. Siamo più forti, e certamente qualcuno di noi può cadere, ma noi tutti insieme no.

Va bene che non siamo tutti Churchill, ma resto convinto che siamo migliori della nostra bacheca su facebook. E allora basta chiacchiere per favore, un po’ di coraggio e un po’ di disciplina, è tutto.

1500 caratteri, giornalisti, terrorismo

Gli stragisti italiani e i loro cattivi maestri

Semmai lo Stato ci tortura lasciando mano libera ai magistrati“, scriveva giusto ieri Sallusti, in un pezzo dichiaratamente senza vergogna. Oggi Claudio Giardiello ha impugnato una pistola – mirava a un pubblico ministero – e ha ucciso un giudice e un avvocato. Può darsi che non fosse un lettore di Sallusti. Potrebbe essersi perso quel folle pomeriggio di tre anni fa, quando il signor Martinelli entrò armato in un ufficio postale e fece 15 ostaggi: e poiché non era un integralista islamico, né un black bloc, ma un imprenditore che non voleva pagare il canone RAI, Bossi affermò che andava “capito”, e Fabrizio Rondolino lo definì “un eroe” che lottava “per le nostre libertà naturali”. Un eroe ancora barricato in un ufficio postale con fucile a pompa, due pistole e 15 ostaggi.

https://twitter.com/loffio

Può darsi che di questo “brutto clima” di cui si lamenta l’ex pm Gherardo Colombo, non siano responsabili gli organi di stampa inflessibili coi no-tav e pieni di comprensione per la sofferenza di chiunque sia in difficoltà coi pagamenti – purché abbia un cognome italiano. “Compagni che sbagliano“, si diceva una volta: adesso sono più spesso imprenditori, ma insomma, vanno capiti. Sparano, feriscono, uccidono: ma interpretano un disagio reale. Ecco, chiunque scriva queste cose, sappia che almeno per quanto mi riguarda fa lo stesso schifo di chi scusava il terrorismo brigatista 40 anni fa, e quello islamico oggi. Magari non siete responsabili, no. Sicuramente siete irresponsabili.

1500 caratteri, giornalisti, razzismi, terrorismo

Certi africani sono più morti di altri

Quando 10 anni fa arrivarono i primi video di decapitazioni dall’Iraq, alcuni opinionisti iniziarono a invitarci a non distogliere lo sguardo, perché solo guardando quei video avremmo capito davvero cos’era il Terrorismo. Una singolare sintonia coi terroristi che quei video li giravano e diffondevano: curiosamente Al Zarqawi e Antonio Polito desideravano da noi la stessa reazione, più di pancia che di cervello. Perché alla fine in quelle decapitazione c’era poco da capire, e molto da soffrire.

Col tempo l’invito a non distogliere è diventato un genere a sé. Sabato Paolo Giordano ci invitava a “riguardare l’immagine della strage di Gaiassa sostituendo “alla pelle scura dei volti schiacciati una carnagione chiara”. Altrimenti rischieremmo di sentirci “solo timidamente partecipi”, come davanti alle foto dei massacri in Ruanda. Invece occorre empatizzare di più, perché le vittime sono cristiane (ma veramente anche in Ruanda…), perché “ci assomigliavano, perché cristiani e attratti dalla stessa cultura universale sulla quale si fonda ogni atto quotidiano. Il loro peccato imperdonabile era di essere come noi”.

E se invece non avessero voluto essere come noi, come le vittime musulmane dei cristiani che in Centrafrica hanno distrutto 417 moschee? O come gli abitanti musulmani di Gaiassa che furono massacrati da un governo ‘cristiano’ nel 1980? In quel caso, mi par di capire, sbiancare la pelle non servirebbe a niente: c’è nero e nero, non tutti meritano la nostra preziosa empatia.

giornalisti, guerra, medio oriente, terrorismo

Troppi specchi in questo bar, andiamo via

Ma siamo sempre stati così? Così incapaci di festeggiare semplicemente per il ritorno a casa di due giovani, così insofferenti per il coraggio che le ha trascinate nei guai, così meschini da voler fare i conti in tasca a chi all’occorrenza salverà anche noi? È difficile dire. Senz’altro sono successe cose, negli ultimi dieci anni, che ci hanno segnato. Può darsi che la crisi ci abbia indurito; di certo le guerre in medio oriente non sono più una nostra priorità – più una di quelle pendenze a cui non vorremmo mai pensare, che ogni tanto salta fuori irritando i nostri sensi di colpa.

Del resto, se anche fossimo stati altrettanto cinici dieci anni fa – quando furono rapite e poi liberate Simona Torretta e Simona Pari – non ci avremmo fatto così tanto caso. Non c’erano i social network ad amplificare le nostre reazioni più luride. Probabilmente qualche brutta chiacchiera da banco la sentivamo anche allora: ma quel che si diceva al bar, restava al bar. Adesso è diverso. Adesso un commentino di un balordo in calce a un pezzo del Giornale rimbalza su qualche sito specializzato in bufale finché non rimpalla sulla timeline del vicepresidente del Senato.

A che serve avere un blog da così tanti anni, se non a offrire qualche controprova, qualche capsula del tempo. Sull’argomento in archivio c’è un pezzo solo, abbastanza imbarazzante (quanto scrivevo male, dio mio). Tutto giocato sull’idea dell'”isteria” di media, governo e opposizione, che secondo il mio illuminato giudizio non sapevano gestire la crisi né comunicare nulla di sensato. Col senno del poi è tutto piuttosto discutibile (il governo in questione risolse la crisi con una certa efficienza, anche se nessuno dei suoi esponenti sembra andarne molto fiero oggi). Me la prendevo già coi giornali che titolavano qualunque cosa senza riscontri, con la nostra ansia di essere aggiornati (“noi che tra un tg e l’altro consultiamo il televideo”, che tenerezza), con Berlusconi che non annullava una visita diplomatica, con Bertinotti che parlava in nome dell’opposizione quando avrebbe potuto anche tacere, con Gianni Letta che licenziava un comunicato costituito di un solo periodo sintattico di 113 parole. Basta. E per gli standard di allora ero uno che se la prendeva per un sacco di cose. Ma l’opinione pubblica? Niente. Non pervenuta. Parlavo di media, e non di lettori. Di governanti, e non dei loro elettori. Ero molto incazzato con chi aveva responsabilità – io non ne avevo. Urlavo dal basso all’alto. Non è una posizione molto elegante, ma per un blog è l’unica sensata.

E se fosse questa, la cosa che è maggiormente cambiata in questi dieci anni? Non la meschinità, non il cinismo, ma l’enorme specchio che Zuckerberg e colleghi ci hanno messo davanti. Tutti questi pareri di perfetti sconosciuti che rimbalzano qua e là – spesso ritagliati e riprodotti in screenshot come rappresentativi di chissà quale sentimento popolare – tutta questa merda non era ancora così facilmente disponibile. Bisognava andare a estrarla dai forum o dai blog (molti quotidiani non avevano ancora aperto lo scolo della fogna sotto ai loro articoli), una gran fatica. Quel che era al bar restava al bar. Era meglio? Era peggio? Era diverso.

Che ipocrita sarei a sostenere che lo specchio di Zuckerberg non mi fornisca mai dritte importanti. È come entrare in decine di bar tutti i giorni, e non m accorgo nemmeno di pagare la consumazione. Quel che pensa la gente mi interessa, mi ha sempre interessato, perché non dovrebbe interessarmi? C’è il problema che su facebook, come dovunque, la battuta trucida o l’opinione tagliata col coltello vinceranno sempre la gara di like contro i ragionamenti ponderati: c’è un sacco di gente intelligente e garbata al bancone, ma l’unica cosa che si sente distintamente è la gara di rutti là nell’angolo. Se l’obiettivo è perdere la fede nell’umanità, i social network si prestano davvero molto bene.

Continuerò a usarli, perché non saprei dove altro andare. Ma mi propongo, come misura di profilassi, di non prendermela mai coi perfetti sconosciuti, per quanto penose od offensive mi possano sembrare le loro opinioni. Continuerò per quel che posso a mirare in alto, con quella caratteristica immodestia che mi imbarazzerà tantissimo quando rileggerò questo pezzo nel 2025. Me la prenderò con chi ha il potere, e in teoria dovrebbe saperla più lunga, e in pratica ha più responsabilità per quello che dice o fa: coi giornalisti e politici. Con chi ‘indirizza’ le opinioni – per quanto sappia che non funziona esattamente così: che per ogni Sallusti ci sono migliaia di italiani che erano stronzi anche prima di mettersi a leggerlo; migliaia di stronzi con cui un Sallusti ha deciso lucidamente di sintonizzarsi. Questo però non scusa un Sallusti: io continuerò a prendermela con lui, e a salutare con gentilezza i suoi lettori che domani incontrerò al bar, perché in questo mondo ci devo pur vivere. Ci sarà sempre qualche idiota che la spara più grossa e non posso fare a pugni con tutti, per quanto ne dica il papa.

Francia, Islam, santi, terrorismo, vignette sataniche

Charlie è un martire, e io l’ho tradito

13 gennaio – Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam

Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall’imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant’anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un’ottantina.

I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II – il più grande santificatore della storia – nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l’occasione si legge che “il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell’Oriente”. Sarà.

Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato – lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina – qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell’Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c’è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.

Ci ho ripensato domenica, dando un’occhiata come tutti agli oceanici funerali dei caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l’attentato di tre anni fa), e l’hanno corso fino alla fine. “Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”, aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l’opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un’epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l’icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?

Si è visto nell’occasione che non eravamo disposti poi a molto. Da qualche tempo lo Stato non forniva più una scorta, e Charb ne aveva una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po’ fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.

Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l’islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po’ leziosa. Charb è vittima dell’integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa – come è stato da molti notato – il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone. 

Siamo tutti Charlie… ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un’altra legge sanziona l’incitamento all’odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l’Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po’ meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.

La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant’anni in su sono entusiasti – ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l’Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l’arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee – quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz’ora dopo il primo combattimento, l’idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un’ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.

Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l’unico diritto in discussione è quello di offendere l’Islam: per loro è una religione che incita all’odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c’è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.

Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall’altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però… stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall’altra parte qualche columnist dall’altra parte dell’Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione intepretata da un’élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall’alto sui cittadini riconoscenti. Dall’altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua sul Post…)

satira, scontro di civiltà, terrorismo, vignette sataniche

Tutti un po’ più fanatici, domani

Stéphane Charbonnier nel 2011, quando esplose la sede
di Charlie Hebdo. Oggi l’hanno ammazzato.

Stamattina tutti i vignettisti francesi che ancora riconoscevo sono stati uccisi, sul posto di lavoro, mentre difendevano un principio sul quale resto dubbioso – ma perdio, conoscevano il rischio e sono andati avanti fino alla fine. Se questo non è eroismo, non so cosa l’eroismo sia. Probabilmente su di loro nessuno sputacchierà dalla sua postazione internet le battutine ciniche che molti in questi tempo riservano per chiunque abbia ogni mattina più coraggio di quanto ne abbiamo noi in tutta la nostra vita. Io spesso sono scettico sull’eroismo, su quanto possa servire a una determinata causa – ma spero di essere ancora in grado di riconoscerlo quando lo vedo. Non so quanto Charb o Wolinski e gli altri fossero consapevoli che difendendo un punto d’onore si candidavano a diventare il casus belli di una guerra di religione europea: siccome non erano stupidi, e hanno avuto molte mattine per pensarci, credo che tutto sommato la cosa per loro andasse bene. Ora sono martiri della libertà di vignetta e di espressione, e adesso il problema passa a noi sopravviventi. Che facciamo?

Il buon proposito per il 2015, che ancora stamattina mi sembrava in un qualche modo plausibile: riporre in archivio l’antirenzismo spicciolo e l’antigrillismo ormai pleonastico, aprire le finestre; dare aria agli ambienti; studiarsi Piketty; concentrarsi su concetti nient’affatto nuovi ma colpevolmente snobbati come disparità sociale; prepararsi alla fine dell’eurozona come la conosciamo; metter la barra a sinistra a costo di navigare per un bel pezzo quasi solo.

Il 2015 che ci si prospetta ora somiglia più a un 2003 o a un 2004: si parlerà di eurabia e islamofascismo e islamofobia e antisemitismo, la Le Pen volerà nei sondaggi, Salvini esulterà e speculerà sulla morte di gente che da viva lo avrebbe spernacchiato a sangue, si litigherà nelle scuole e nelle case su una cosa per cui abbiamo litigato dieci anni fa e anche allora non servì a niente. Invece che tra ricchi e poveri litigheremo tra cattolici e no, islamici e no, e Huntington, ancora Huntington, quella roba che sapeva già allora di muffa.

Voi come fate a distinguere i fanatici su internet? Al giorno d’oggi è quasi un vantaggio evolutivo. Io ne seguo alcuni, giusto per tenermi in allenamento. Quello che mi rassicura è che in qualsiasi momento tu li vada a trovare stanno sempre scrivendo le stesse cose, alla stessa gente, linkando gli più o meno le stesse vignette che magari gli ha appena segnalato qualcuno a cui un anno fa loro stessi le avevano segnalate, e in questo modo si confortano tra loro. Possono essere filoisraeliani o antisemiti; non ha così importanza: quel che importa è la loro prassi quotidiana, monomaniacale. Io credo di non essere così; cerco in effetti di essere l’esatto opposto – il che magari non equivale alla normalità, ma a qualche altra sindrome. L’importante è che mi stanco. Mi è capitato spesso di prendermela coi miei simili per lo stesso limite – il solito problema per cui certi problemi passano di moda prima di essere risolti (il riscaldamento globale, Berlusconi). Ma anch’io sono un po’ così in fin dei conti.

A volte è un limite ma sempre più sono propenso a considerarla una liberazione. L’ho pensata in un modo e poi mi sono stancato di pensarla così; l’ho pensata in tanti modi e ogni volta l’ho scritta – e appena scritta, e riletta, e apprezzata, mi sembrava già il momento di pensarla in un modo diverso. Ho riso per vignette che oggi mi farebbero ribrezzo e viceversa. Nel 2006, quando scoppiò il caso delle vignette, gestivo due blog. Su questo scrissi che forse non andavano ripubblicate, nell’altro furono furono pubblicate e non le cancellai. Poi successe qualche altra cosa e parlammo d’altro. Su un blog funziona così – sul blog di una persona normale, perlomeno. Sono superficiale? Un po’ mi rincresce, ma è meglio che essere un fanatico. Chi è un fanatico? Chi è rimasto al 2006, o al 2001, o al 1989, e non schioda. Può aver cambiato anche un paio d’abiti nel frattempo, ma scrive le stesse cose, alla stessa gente, ridendo o incazzandosi per le stesse battute. Le stesse vignette.

Come andrà a finire? Non finisce mai, oppure se preferite c’è qualcosa che finisce tutti i giorni. Oggi finisce forse una certa idea di Europa come ponte tra il mondo ricco e il povero; chi voleva minarlo ha avuto tutto il tempo, mentre noi forse eravamo distratti. Finisce magari l’esiguo spazio rimasto per una critica da sinistra alla società in cui viviamo: se si va verso lo scontro una certa polarizzazione è inevitabile. Ci diranno – lo stanno già dicendo: o sei con le vignette o sei coi terroristi. Poi: o sei con le misure che prenderemo per difendere le vignette, o sei coi terroristi. O ti fai leggere le mail, o sei coi terroristi. O accetti di vivere in un determinato Occidente blindato, in cui incidentalmente le disparità sociali si vanno accentuando, o sei coi terroristi (dall’altra parte del tavolo i terroristi annuiscono, sono perfettamente d’accordo). È inteso che, dovendo difenderti, questo Occidente blindato non ti garantirà il benessere che garantiva ai tuoi genitori (era un’offerta lancio, un dumping colossale). D’altro canto la guerra creerà qualche posto di lavoro, e nel tempo libero potrai consolarti con le vignette satiriche su Maometto o Kim Jong-un. Spero naturalmente di sbagliarmi, e buon 2015 a tutti.

Bush, guerra, terrorismo

E se George W Bush avesse avuto ragione?

Il nemico perfetto

La guerra, quindi, se giudichiamo dall’esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l’un l’altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).

1. A un certo punto – più o meno a ridosso delle primavere arabe – abbiamo credo in molti percepito un’accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest’accelerazione, che magari segna l’inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po’ di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l’Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un’elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto – chi all’inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad – adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l’opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l’impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile – l’esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L’unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C’è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.

2. Prendi l’ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un’organizzazione terroristica? Le BR erano un’organizzazione terroristica. Settembre Nero era un’organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L’ISIS, per adesso, no. È un’organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati – per ora – non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l’ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l’ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c’è solo da ringraziare lo stato dell’arte dell’antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po’ ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l’alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell’ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l’ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un’altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.

3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell’isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell’isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un’ideologia o a un’organizzazione (l’assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.

Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l’Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un’infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell’immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l’esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l’occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell’ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l’ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.

4. Bush junior vedeva il terrorismo come “qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un’ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt’altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d’altri, a casa nostra sarebbero insostenibili […] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c’è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po’ in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte“.

Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall’ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n’è stato bisogno.

Israele-Palestina, Leonardo sells out, terrorismo

Il piccolo terrorista israeliano

Qui è ancora sbarbato.

4 agosto 2005 – Il diciannovenne israeliano Eden Natan-Zada fa fuoco in una corriera, uccidendo quattro connazionali arabi e ferendone altri dodici, prima di essere linciato.

Eden Natan-Zada oggi avrebbe ventotto anni, magari sarebbe in spiaggia con una moglie giovane e una bambina. Invece è morto linciato da una folla di gente che avrebbe voluto uccidere, a uno a uno, con una pistola a ripetizione.

Eden Natan-Zada nasce nel 1986, da una famiglia giunta in Israele dall’Iran. I famigliari lo descrivono come un bravo ragazzo studioso che avrebbe conosciuto il kahanismo attraverso internet. Il kahanismo è l’ideologia sviluppata da Meir Kahan, il fondatore della Jewish Defense League, riconosciuta come organizzazione terroristica da Israele, USA e UE.

Per Kahan lo Stato di Israele, centro universale dell’ebraismo, è minacciato nella sua stessa esistenza da nemici arabi che non si arrenderanno mai; l’unica soluzione è la guerra – esatto, sì, questo progetto in Israele è considerato terroristico, non so se sia il caso di avvisare Rondolino. L’obiettivo della guerra dovrebbe essere un grande Israele teocratico comprendente Gaza, Cisgiordania e anche un po’ di tutti i Paesi confinanti, incluso l’Iraq. Agli arabi residenti sarebbero tolti i diritti civili – solo gli ebrei avrebbero diritto di voto.

Un vero e proprio contatto coi kahanisti, Natan-Zada potrebbe averlo avuto nell’insediamento di Kfar Tapuach, in Cisgiordania, dove passava spesso i fine settimana e dove infine si rifugiò per evitare il servizio militare. Secondo Matthew Gutman, del Jerusalem Post, a Kfar Tapuach era presente una cellula di kahanisti.

È l’estate del 2005. Il piano di sgombero degli insediamenti di Gaza, annunciato da Sharon sin dall’anno scorso, sta per diventare operativo. I coloni di Gaza si stanno preparando, chi al trasloco, chi all’assedio. Alcuni aspetteranno l’esercito israeliano con il filo spinato, e rovesceranno acido sui ragazzi di leva venuti a sgomberarli. Ma Eden Natan-Zada non sarà tra quei ragazzi. Qualche giorno prima ha scritto: “come non potrei mai eseguire un ordine che dissacrasse il Sabato, così non posso essere parte di un’organizzazione che espelle gli ebrei”. L’organizzazione in questione può essere l’esercito di Israele, o Israele tout court. La famiglia ha già denunciato la scomparsa del figlio, facendo presente che ha ancora con sé parte del suo equipaggiamento militare.

Shefa Amr è una cittadina di trentamila abitanti nel nord di Israele, per la maggioranza arabi, musulmani cristiani e drusi. È arabo Michel Bahus, l’autista del bus che quando vede salire a bordo un soldato IDF con la kippah, la barba e i ricciolini, gli chiede se è sicuro di non aver sbagliato destinazione. Sono arabi tutti i passeggeri. Quando il bus arriva nel quartiere druso, Natan raggiunge il conducente, attende che abbia aperto lo sportello, e gli spara. Poi spara a Nader Hayek, che sedeva dietro il conducente. Poi spara verso il resto dei passeggeri e riesce ad ammazzare due ragazze, due sorelle ventenni: Hazar Turki e Dina Turki. Poi si ferma a ricaricare, e in quel momento un passeggero gli afferra la canna della pistola, ustionandosi. È un attimo: chi non si è ferito gli arriva addosso. Lo portano fuori, lo ammazzano a mani nude. Nove poliziotti si feriscono nel tentativo di impedire il linciaggio. Dopo una lunga inchiesta, un processo nel 2013 riconoscerà tra la folla sei colpevoli di omicidio. Un loro avvocato mostrerà un filmato preso da un drone durante l’attentato: la tesi (spericolata) è che Eden fu lasciato libero di agire. Già in precedenza serpeggiava una teoria del complotto presso gli attivisti del movimento contro lo sgombero degli insediamenti: Eden sarebbe stato usato per screditare tutto il movimento. In ogni caso Sharon si precipitò a definirlo un “terrorista israeliano assetato di sangue”.

Bahus e Hayek furono sepolti in un cimitero cristiano; le sorelle Turki in un cimitero musulmano. Nessun cimitero ebraico era pronto per accogliere Eden Natan-Zada. In particolare la comunità di Kfar Tapuach non voleva saperne, lo sconfessò apertamente. Alla fine si riuscì a trovare un posto in un cimitero civile, ma ci vollero due giorni.

In un primo momento i famigliari delle vittime e i feriti non ebbero gli indennizzi previsti dalle leggi sul terrorismo, perché Eden Natan-Zada non era ufficialmente affiliato a nessuna organizzazione terrorista. Un matto, non un terrorista. La legge – veramente molto discutibile – fu modificata l’anno successivo.

Il ritiro da Gaza proseguì più o meno secondo il piano previsto. Già l’anno prima uno stretto collaboratore di Sharon, Dov Weisglass, aveva spiegato con molta franchezza ad Haaretz come questo ritiro non significava il riconoscimento di una Palestina indipendente, ma preparava uno scenario di piccola-guerra-infinita che è più o meno quello in cui vivono e crescono oggi israeliani e palestinesi. IDF e Hamas li armano, e su internet trovi tutta l’ideologia che ti serve. Buon 4 agosto, Shalom.

Almanacco, Leonardo sells out, memoria del 900, terrorismo

Una cosa, una roba senza senso o forma

2 agosto 1980Esplode una bomba alla stazione dei treni di Bologna. 85 morti, 218 feriti.

Andrea Pazienza via Paz-tastic

…La storia della caldaia resse sino a sera, ma già intorno a mezzogiorno le cose erano chiare. Nella squadretta di Scialoja c’era un sottufficiale che da soldato era stato artificiere. Gli era bastata un’occhiata alla voragine per scuotere la testa e sentenziare:
“Gas un cazzo. Questa è una bomba”.
La stazione era sventrata. Le sirene ululavano. Militari e volontari, fianco a fianco con le mascherine sul naso, scavavano le macerie in cerca di un segno di vita. Qualcuno piangeva, i più moltiplicavano gli sforzi per rimandare l’appuntamento con la rabbia e lo sgomento. Arrivarono le troupe televisive. Una folla di parenti angosciati assiepava i binari. Circolava una parola maledetta e rivelatrice: strage. Le lancette del grande orologio del piazzale Ovest erano ferme sulle 10 e 25. […] Scialoja s’era concesso una sigaretta. Una giornalista impicciona gli fu subito addosso. La mandò a quel paese e si rimise la mascherina. Dal profondo di due travi squarciate che si erano miracolosamente incastrate a formare una sorta di cavità naturale proveniva un flebile lamento. Scialoja si avventò. Vide una piccola mano coperta di graffi, la strinse, tirò. Le travi ressero. La bambina era sotto choc. Ma respirava. Lo guardava con i suoi enormi occhi stupiti e respirava. La prese in bracciò e la consegnò a un’infermiera. La bambina era biondissima e non capiva l’italiano. Un ufficiale dei carabinieri in alta uniforme lo bloccò al volo.
“Lei! Vada immediatamente al binario uno. Bisogna organizzare un servizio di scorta per le autorità!”
Scialoja mandò anche lui a quel paese e tornò al lavoro. Era lacero, era sudato, puzzava. Ma non sentiva la fatica, non sentiva il disagio. Aveva dormito troppo a lungo. Il letargo era finito… (Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, 2002).


…Definiamo quindi “neosensibilismo” il nostro modo di essere sensibili. Che in tutto si distacca dalle ambiguità di Francesca Mambro; da cui ci dissociamo anche per l’uso sconsiderato e irresponsabile del vocabolario. (Offlaga Disco Pax, Sensibile)

cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, terrorismo

Quando i terroristi erano bianchi

E le cabine erano rosse.

Doppio Gioco (Shadow Dancer, James Marsh, 2012)

Quant’è difficile essere mamme in carriera, Colette lo sa. Se poi la carriera è quella di terrorista nell’IRA, in una cellula che è una piccola impresa di famiglia, prima o poi un guaio ti capita. Non puoi neanche dire a tuo figlio ciao, torno a fine settimana perché devo piazzare una bomba nella metro di Londra. E poi ti distrai, ti dimentichi di attivare il timer, ti fai prendere dai tizi dell’antiterrorismo che ti propongono di fare il doppio gioco, e a quel punto il casino si triplica: mamma, terrorista IRA e doppiogiochista di Sua Maestà, mai un momento per te. Che vita di merda, alzarsi al mattino, preparare la colazione, calzare il passamontagna, tradire i fratelli senza farsi ammazzare… C’è un modo per uscirne? Certo che c’è, Colette. Magari però ci ha già pensato qualcun altro prima. Doppio gioco è un film lento, di una lentezza inespressiva: non è che mostrando tutti i corridoi che deve attraversare l’agente Clive Owen ti si aumenti in qualche modo la suspense… (continua su +eventi!)

Beppe Grillo, terrorismo

Ho sentito degli spari in una via del centro

Benito Mussolini è probabilmente il personaggio politico più odiato e controverso del secolo scorso; tra il 1925 e il 1932, mentre consolidava la sua posizione di potere, scampò ad almeno sei attentati (Zaniboni, Gibson, Lucetti, Zamboni, Schirru, Pellegrino Sbardellotto). Alcuni erano anarchici, altri fascisti delusi, altre matte. Silvio Berlusconi ha più volte sostenuto di essere l’uomo politico vivente più odiato, preso di mira sistematicamente da una parte politica e una concentrazione mediatica: in vent’anni di carriera politica si è preso un treppiede e una madonnina. Ai democristiani nei ’70 e negli ’80 non era andata altrettanto bene; il brigatismo inflisse perdite pesanti tra le prime e le seconde file. I comunisti nel 1948 a per poco non perdevano Togliatti. I politici sono da sempre nel mirino: sono personaggi pubblici e rappresentano il potere, i motivi per prendersela con loro non sono mai venuti meno. Un tizio che nel 2013 si mette a tirare davanti a Palazzo Chigi può essere disturbato, può essere disperato; senz’altro sarà vittima della società e in particolar modo della determinazione con la quale negli ultimi anni si è abbattuta sui più indifesi l’Imposta sull’imbecillità, alias il videopoker; ma al netto di tutta l’eterogenesi dei moventi, un poveretto che non sa nemmeno che politico mirare e finisce per tirare a un carabiniere qualsiasi; e a momenti ammazza una donna incinta; uno così non fa statistica. Cioè ci sarà anche una rabbia montante, in Italia, nei confronti del ceto politico; sarà in gran parte causata dalla crisi economica che lo stesso ceto politico ha contribuito più a causare che a combattere; potremmo discutere a lungo se Grillo e compagnia ne siano un fattore scatenante o un semplice sintomo, o addirittura uno sfogo benigno che evita eruzioni più violente. Possiamo farlo, facciamolo anche a lungo, ma senza passare sul corpo steso di un tizio qualunque che soprattutto voleva farsi ammazzare. Un episodio del genere fa molto colore; riempie i pomeriggi di giornalisti che non sanno più che retroscena rifriggere; ma la statistica ci dice che in Italia la violenza di matrice politica è ai minimi storici. C’è qualche anarco-insurrezionalista che è riuscito a far recapitare qualche pacco bomba a Equitalia; uno forse nel 2012 ha gambizzato l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare; fine. Se c’è del disagio in Italia oggi – e ce n’è – si esprime soprattutto in altre forme.

Un mese fa ho visto quella che credo sia l’unica vera commedia italiana di successo in questa stagione (come dire: l’unico film italiano che qualcuno è davvero andato a vedere). Nei primi minuti c’è un politico davanti a Montecitorio che all’uscita dall’auto blu viene bersagliato da uova e ortaggi, e chiede il perché. “Come perché, non sei un politico?” “Certo che sono un politico”. E giù uova. La cosa interessante è che non sapremo mai di che politico si tratti: durante tutto il film è il portavoce di un partito; ogni tanto si ritrova con altri due rappresentanti di partiti concorrenti; si vestono nello stesso modo ed è impossibile dai loro discorsi capire chi stia rappresentando chi. Nessuna ideologia, solo spartizione del potere. Sono uguali. Nei credits si chiamano “Politico bello”, “Politico ruspante” e “Politico col pizzetto”. Il Bello è quello che si prende le uova. Durante quella scena qualcuno si è alzato in piedi in sala e si è messo ad applaudire. Gente che va al cinema al mercoledì: vittime dei videopoker? di equitalia? è Grillo che li sobilla? o non sta semplicemente vendendo un articolo per cui c’è veramente molto mercato? Il film è uscito in marzo, ma era stato scritto un paio d’anni prima.

Il 7 marzo 2013, a urne ormai chiuse, Silvio Berlusconi è stato condannato a un anno per aver violato il segreto di ufficio facendo pubblicare sul Giornale l’intercettazione in cui Pietro Fassino maldestramente festeggiava la acquisizioni dell’Unipol dicendo al manager Giovanni Consorte “E allora, siamo padroni di una banca?” Fassino non era diventato padrone di una banca; non controllava l’Unipol; per la cattiva luce gettata su di lui i fratelli Berlusconi lo devono risarcire di 80.000 euro (altri 40.000 euro li dovrebbe ricevere da Fabrizio Favata, l’imprenditore che fornì ai Berlusconi l’intercettazione). Ma Fassino non è l’unica parte lesa. “Abbiamo una banca” fu il tormentone delle elezioni del 2006: insieme a “abolirò l’ICI” fu una delle formule magiche che riportarono in sella la Casa delle Libertà, fino al pareggio finale. La campagna a mezzo stampa che infangò Fassino, i DS e l’Ulivo, l’abbiamo tutti pagata amarissimamente. Non saremo risarciti; questa è la grande vittoria di Silvio Berlusconi. Aver convinto la maggior parte degli italiani che i politici sono tutti uguali, al punto che qualsiasi coglione, se spara, sparerà sempre nel mucchio; e come invariabilmente succede in questi casi, sparerà sempre a quello sbagliato. I gloriosi eletti del popolo, che dovevano mandare a casa la casta, alla fine riusciranno a mandare a casa solo Pier Luigi Bersani: l’unico poveretto disposto a scendere a patti con loro. Si consoleranno fantasticandolo come un tessitore di oscure trame all’ombra dei Paschi di Siena. Intanto alla luce del sole chi si spartisce il vero potere saluta e ringrazia. Erano indaffarati a giurare, gli spari li hanno sentiti per ultimi. Anche delle nostre discussioni devono giungere soltanto echi lontani, un vago starnazzare di inutili galline che si azzuffano per niente.

Afganistan, Americana, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, guerra, terrorismo

Il Grande Osama Bianco

Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012)

Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l’autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l’agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l’ha trovato (forse) e l’ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe’, storia vecchia, parliamo del film).

C’è stato un momento – non posso dire quale – in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un’oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po’, ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell’ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l’inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding…) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell’11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.

Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell’attacco al compound di Abbottabad è senz’altro lo stato dell’arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant’anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall’altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol… (continua su +eventi!)

11/9, Islam, terrorismo

La tesi di Atta

Come la prima fidanzata, spesso la tesi di laurea è un mondo a parte in cui hai vissuto per uno o due anni, sforzandoti in tutti i modi di trovarti bene, affezionandoti a particolari irriferibili, amandola con tutto il cuore mentre da qualche parte nella tua mente covavi il progetto di farla in piccoli pezzi per non intasare il sifone del WC. Tutto questo è ormai al di là della nostalgia e del rimpianto, in un passato blindato in una scatola in cantina che prima o poi marcirà o prenderà fuoco, mentre tu pensi ad altre cose che non hanno più niente a che fare. Oppure è in giro per il mondo, come la tua prima fidanzata, che incontra gente, capisce cose, si diverte e non pensa a te, per fortuna. Così vanno le cose, così è giusto che vadano. Sennò diventi Mohammed Atta. Ci hai mai pensato?

Non pensa mai nessuno a Mohammed Atta, mi pare. È il più grande villain degli ultimi 25 anni, ma i bambini neanche lo conoscono per nome. Hitler, per dire, lo conoscono: Atta no. È scivolato quasi subito in un incomprensibile cono d’ombra. Se hanno fatto un film su di lui, non ha avuto successo. Il che è inspiegabile, la sua vita è un film. D’azione. Viaggi intorno al mondo, spie, pedinamenti. E un lungo preambolo in cui si discute di architettura.

Mohammed Atta, basta andare su wikipedia, è nato nel 1968, da qualche parte nel delta del Nilo. Nel 1990 si è laureato in architettura all’università del Cairo. Nel 1993 si è trasferito in Germania, e ha cominciato a frequentare un politecnico ad Amburgo. Si paga gli studi lavorando in una concessionaria, il che forse lo ritarda un po’, visto che si laurea solo nel 1999 (in urbanistica?) con una tesi su Aleppo, in cui depreca il degrado architettonico-urbanistico dell’antico centro, causato dalla modernità e in particolare dai… grattacieli.

L’anno prima – quello in cui mi sono laureato io – Atta aveva creato con alcuni suoi coinquilini la cosiddetta “cellula di Amburgo”, un nucleo di fondamentalisti in cerca di jihad, che in un primo momento pensano di trovarla in Cecenia, ma poi finiranno in Afganistan ad allacciare contatti con Al Qaeda, e il resto della storia vagamente lo sapete (benché siano i dettagli a renderla intrigante).

Mohammed Atta, tutti quelli che ammettono di averlo conosciuto, lo ricordano come una persona dai modi gentili ma inequivocabilmente islamici, che sorrideva spesso e quasi si scusava di non poter stringere la mano ai membri della commissione di laurea che avevano la ventura di esser donne; diamo quindi per scontato che credesse in tutto quello a cui credono i jihadisti suicidi: il paradiso a base di vergini, eccetera. Il fatto che nell’estate del 2001 lo si trovasse spesso ubriaco negli stripbar di Las Vegas, lo prendiamo come un tentativo abbastanza riuscito di stornare i sospetti della CIA (che lo aveva schedato molto prima che lui entrasse negli USA, ma, curiosamente, smise di seguirlo non appena vi entrò). Però – è una suggestione che lascia il tempo che trova, prima o poi l’avrei scritta e ci ho messo 11 anni – forse la cosa in cui Atta credeva davvero, con tutta l’anima e tutta la mente, ancor più del Corano, era la sua tesi di laurea. I grattacieli erano il nemico. Bisognava cominciare a buttarne giù. Dare l’esempio, almeno.

Chissà cosa direbbe Atta delle macerie che oggi sono Aleppo. Chissà se gioirebbe per i brutti palazzoni che crollano, o per il centro millenario che le granate non risparmiano. Non potrebbe neanche arrogarsi qualche merito, o addossarsi qualche colpa: l’11 settembre è già lontano, quel che succede oggi in Siria ha altre origini, altri fini. Chissà che direbbe delle Abraj Al-Bait Towers della Mecca, inaugurate in questo 2012 e già dichiarate il più grande edificio sulla Terra: in cima c’è ovviamente l’orologio più alto del mondo, un BigBen sotto steroidi che promette di assestare un bel pugno nell’occhio di tutti i pellegrini che da ogni parte del globo vengono lì sotto a pregare intorno alla Ka’ba. Atta ci andò nel 1994: al posto delle Al-Bait Towers c’era ancora un forte ottomano, poi smantellato e ricostruito altrove.

Le foto delle Al-Bait Towers (via Mazzetta) hanno un che di spaventoso e disumano e bellissimo. Quel BigBen è così assurdo, così fuori contesto, così blasfemo, che alla fine ti ipnotizza, in un modo non troppo dissimile da come ci ipnotizzò 11 anni fa Mohammed Atta, buttando giù una torre ancora più alta. Più guardi le foto, più ti ripeti: Atta ha perso. Più lo ripeti, più ti sorprendi a pensare che nel 1998, all’inizio perlomeno, non è che avesse tuttissimi i torti.

crisi? che crisi?, poveri piccoli imprenditori, terrorismo

Imprenditori che sbagliano

Capire le ragioni dei sequestratori di persona.

Adesso però scusate. Mettiamola in questo modo. Prendiamo… un No-Tav. Uno di quelli duri e puri. Magari rinviato a giudizio per resistenza a pubblico ufficiale e cazzivari. Mettiamo che una mattina sbrocchi ed entri negli uffici del comune di Susa con due pistole, un fucile a pompa carico, cento munizioni e un coltello. Mettiamo che prenda 15 ostaggi. Secondo voi i giornalisti come la prenderebbero? Quanti si spingerebbero a scrivere un bell’elogio del povero valligiano esasperato, stigmatizzando magari anche un po’ la violenza, perché effettivamente prendere ostaggi in generale è brutto e non si fa, però bisogna anche capire la rabbia la frustrazione di un popolo che da 20 anni chiede giustizia e non viene ascoltato e bla, bla, bla?

Riproviamo. Un musulmano italiano. Incazzato per un qualsiasi motivo, per esempio che “musulmano italiano” suona ancora strano e non c’è nemmeno un’organizzazione islamica nel tabulato dell’otto per mille. E il comune non gli fa costruire la moschea sul suo terreno, magari si era pure accollato un mutuo e sperava di rifarsi con le questue dei fedeli. E la Santanché è una stronza. Ed ecco che sbrocca pure lui. Entra nell’ufficio del catasto con due pistole, un fucile a pompa carico, cento munizioni e un coltello. Prende anche lui 15 ostaggi. Secondo voi quanto ci mettono Magdi Allam e Guido Olimpio a riconoscere la mano di Al Qaeda Ahmadinejad Jihad Islamica Hamas Ali Babà + 40 ladroni? E le teste di cuoio a irrompere e a farlo a fettine fini fini? Ecco.

Un brigatista. L’ultimo. Ha deciso di finire col botto. Entra in un commissariato con due pistole, un fucile a pompa carico, cento munizioni e un coltello. Prende 15 ostaggi e poi chiede la libertà per Nadia Desdemona Lioce e tutto il resto della cumpa. Lo comprendiamo? In fondo anche i brigatisti ormai è da quarant’anni che si fanno il mazzo per niente, insomma, dai, un po’ di esasperazione a questo punto ci sta, vogliamo ignorare l’esasperazione?

Ricapitolando: un brigatista, un No-Tav, se irrompono in un locale a mano armata e prendono degli ostaggi sono terroristi. Un musulmano, se fa la stessa cosa, è un terrorista islamico. Ma un imprenditore italiano, se entra in un ufficio postale con due pistole, un fucile a pompa, cinquanta munizioni e un coltello, è un “gran lavoratore” a cui esprimere solidarietà; un martire della crisi; un “eroe”, cinguettava Fabrizio Rondolino, che “sta lottando per le nostre libertà naturali”. Col fucile a pompa. Con due pistole. Con ancora gli ostaggi dentro, e nessuno che gli abbia risposto Rondolino, sei fuori di testa, rileggiti, riguardati, ci può ancora scappare un morto: nessuno.

Quando ero bambino e mi raccontavano le favole sugli anni di piombo – uh com’erano brutti brutti quegli anni di piombo – una di quelle che non si dimenticavano mai di somministrarmi era quella dei giornalisti di sinistra, e di centro-sinistra, colti, borghesi, proto-radical-chic, che all’inizio nelle brigate rosse mica ci credevano. Pensavano a depistaggi. Poi a dei gruppuscoli. Poi sequestrarono Moro. Ed era tutto un dire: compagni che sbagliano. Ecco, quando ero bambino e mi raccontavano le favole degli anni di piombo (brutti!) ci tenevano a spiegarmi che questa cosa dei compagni-che-sbagliano era stata micidiale, aveva mantenuto la temperatura e l’umidità necessarie a far sì che il terrorismo allignasse, che diventasse nelle chiacchiere di molti un’opzione un po’ folle ma non del tutto irragionevole, non del tutto da buttar via, in anni in cui del resto la ragionevolezza era Giulio Andreotti.

Ecco, questa fiaba dei compagni che sbagliano me la sono sentita ripetere tante volte, tante volte ritorcere contro quando magari scrivevo che a Genova era stata la polizia a sfondare e non viceversa; che gli anarcoinsurrezionalisti bombaroli sono probabilmente una dozzina; che i terroristi islamici in Italia in dieci anni di jihad hanno fatto due vittime, cioè sé stessi. E avevate ragione, siamo in guerra, non si può perdere tempo a spaccare i capelli, rubando spazio che si può meglio impiegare scrivendo: terrorismo brutto. Anarcoinsurrezionalismo brutto, brutto, brutto. No-Tav che salgono sui tralicci: stupidi, cattivi.

Imprenditori armati di tutto punto che sequestrano quindici persone? Eroi.

anniversari, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, repliche, terrorismo

Un Natale anarchico e informale

Io sulla Federazione Anarchica Informale ho, più che una teoria, una sensazione; non sono in grado stasera di dimostrarlo, ma mi pare proprio che colpiscano sempre a fine anno. Questa cosa li rende un po’ più simili a dei maniaci seriali che a dei rivoluzionari. Come rivoluzionari anzi faccio sempre più fatica a immaginarmeli, di solito un rivoluzionario o ha molta pazienza o molta fretta; uno che smolla due pacchetti bomba sotto le feste ogni anno, e qualche volta salta pure l’anno, che razza d’insurrezione ha in mente?

Quel che è peggio è che ormai gli anarchici informali si sono impregnati di quello spirito natalizio ancora lieve dei primi di dicembre, privo delle angosce che ci attanagliano dal venti dicembre in poi: senti che hanno messo una bomba e ti viene in mente che è ora di addobbare l’albero e telefonare agli amici lontani. Forse c’è una spiegazione tecnica, forse sotto le feste è più facile contrabbandare esplosivi in mezzo ai botti di fine anno, non lo so. In realtà non ne sa niente nessuno.

Due anni fa (avevo appena cominciato a scrivere sull’Unità), trovai su un forum anarchico un testo che è la cosa più vicina a un manifesto della Federazione Anarchica Informale. Anche in quel caso si respira a pieni polmoni l’atmosfera della notte di San Silvestro, con quell’acre sentore di petardo. Ci scrissi un pezzo che coi suoi difetti mi sembra ancora interessante, anche se ormai di difficile reperibilità. Lo ricopio qui, credo di fare cosa non troppo inutile.

“Abbiamo scelto di colpire dove meno ve lo aspettate”, scrivono le “Sorelle in armi” nel comunicato in cui rivendicano la bomba alla Bocconi. E invece non c’è mai stata una bomba tanto prevedibile, nel luogo e nel momento in cui più avremmo potuto aspettarcela. 

Una bomba anarchica a Milano, nell’anniversario della morte di Pinelli. Una bomba anarco-insurrezionalista, mentre al vertice di Copenaghen i black bloc attiravano (o distoglievano, a seconda del punto di vista) l’attenzione del pubblico mondiale. Una bomba in un ateneo privato, mentre gli studenti italiani manifestavano per la scuola pubblica. Una bomba gravida d’odio proprio mentre Berlusconi, percosso al volto ma non domo, si dichiarava sicuro della “Vittoria finale dell’Amore”. Tanto maldestre in fatto di detonatori, queste Sorelle, quanto raffinate nella scelta dei luoghi e dei momenti più suggestivi. Raffinatezza che molti hanno voluto trovare sospetta – non saremmo più in Italia se pochi minuti dopo il ritrovamento della bomba non fosse già fiorita una specifica dietrologia. Ma bisogna anche capirci: abbiamo stragi che aspettano un colpevole da trent’anni, poliziotti che piazzano molotov… con simili precedenti è effettivamente dura per un’organizzazione terroristica alle prime armi farsi prendere sul serio. 

Il comunicato non aiuta, perché le citazioni che fino a qualche anno fa avrebbero dimostrato inoppugnabilmente il radicamento delle Sorelle nell’anarcoinsurrezionalismo ‘latino’ (la citazione dell’anarchico spagnolo Pombo da Silva, il richiamo all’anarchico cileno Mauricio Morales), nell’era di google diventano facilmente falsificabili: chiunque può farsi una cultura su da Silva o Morales in dieci minuti, e magari condirla con un verso di De Andrè che fa sempre anarchia. Questo in effetti è il punto meno credibile del comunicato: un anarchico che cita De Andrè è un po’ banale, ma un anarchico che cita De Andrè fraintendendolo così (il Bombarolo che vuole terrorizzare per non “ammalarsi di terrore” è un borghesotto figlio di papà) o è un ragazzino o un impostore. Brutta storia in entrambi i casi.

L’attenzione dei giornalisti si è concentrata sulla sillaba finale
. Bastano infatti tre lettere, la sigla Fai, per trasformare la bomba di un gruppo sconosciuto nell’ultima azione del più temibile gruppo terroristico italiano. La Fai, spiegano, sta per Federazione Anarchica Informale: e se ti dicono così, significa che la Fai ha già vinto. Non la guerra, ma almeno una battaglia di immagine contro la vera FAI, la Federazione Anarchica Italiana nata nel 1945, editrice della malatestiana Umanità Nova e depositaria della storia più nobile dell’Anarchia italiana. La storica FAI non ha mai perso un’occasione per dissociarsi dal gruppo di bombaroli che ne usurpa la sigla: anche in questo momento sul suo sito compare un comunicato che “denuncia la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d’Isonzo”. Fatica sprecata: ormai per il grande pubblico la Fai sono gli anarchici che mettono le bombe. “La principale minaccia terroristica di matrice anarco-insurrezionalista a livello nazionale», secondo l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Se non proprio l’unica. 

Una “galassia”, scrive Paolo Colonnello sulla Stampa, addirittura un “universo che nel 2003 provò a colpire Prodi”. Visti gli effettivi attentati portati a termine sarebbe il caso di parlare, più che di galassia, di una costellazione. Una manciata di gruppetti, disseminati in tutt’Italia, senza nessuna velleità di costituire un movimento armato unitario (anzi, la frammentarietà è quasi rivendicata), che tra il 2003 e il 2006 hanno piazzato e spedito ordigni che anche quando sono scoppiati non sempre sono riusciti a guadagnarsi le prime pagine. Unico risultato concreto: oggi la sigla Fai è cosa loro. Fino al 2006 le periodiche consegne esplosive della Fai informale ribadivano l’esistenza di una corrente sotterranea violenta annidata tra le pieghe del “Movimento dei Movimenti”. Per i Movimenti invece la Fai informale non è mai esistita: si trattava di infiltrati, servi del potere. I loro comunicati, come s’è visto, non appaiono molto convincenti.

Forse la sola testimonianza a favore della ‘genuinità’ della Fai è l’unico bizzarro comunicato divulgato su internet, dal sito Anarchaos.it (ma “a semplice scopo informativo”). Risale al Natale del 2006 e porta il nome di “Documento-Incontro della Federazione Anarchica Informale a 4 anni dalla nascita”. Dopo una cronistoria accurata delle azioni compiute dai gruppi prima e dopo la nascita della Fai informale, il Documento riporta i verbali di una riunione natalizia in… “casa di Paperino”. Sì, perché per ragioni di segretezza i nomi degli esponenti dei vari gruppi (“COOPERATIVA ARTIGIANA FUOCO E AFFINI, BRIGATA 20 LUGLIO, CELLULE CONTRO IL CAPITALE, IL CARCERE, I SUOI CARCERIERI E LE SUE CELLE, SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALE”) sono sostituiti da quelli della banda Disney. 
E così, insieme a Paperino abbiamo Paperina (che milita nello stesso gruppo, ma con qualche dubbio in più), Pippo che insiste per vedere il bicchiere sempre mezzo pieno (“la crescita anche se minima c’è stata”), Archimede Pitagorico, che opera da solo e sembra il più pratico di esplosivi, Qui Quo e Qua che vorrebbero passare alle pistole, (“noi invece andiamo avanti a dinamite, diserbante e qualche manciata di polvere nera”), eccetera. Si capisce che siamo a mille miglia dallo stile serioso e contorto dei comunicati brigatisti. I quali, proprio perché seriosi e contorti, non erano poi così difficili da falsificare. Mentre la lunga conversazione dei Paperi con Pippo ha tutta la freschezza di una bicchierata in un casolare di campagna, il camino in un angolo, i cani sotto il tavolo a rosicchiare costolette. I Paperi che festeggiano il Natale del 2006 e i quattro anni di Fai Informale non hanno per niente l’aria di infiltrati dei servizi: sono i primi a riconoscere che qualcosa non ha funzionato, ad esempio le bombe (“Magari fossimo degli specialisti, con tutte ste bombe e bombette in questi anni siamo riusciti a fare solo un paio di sbirri feriti! Fanno di più allo stadio la domenica!”), ma anche la comunicazione (“Internet per noi, che con l’informatica siamo a zero, è un problema”). Da bravi anarchici informali, non si troppo il problema di stabilire obiettivi comuni. L’unica idea accettata universalmente è la propaganda armata, poi ognuno per sé. E Archimede, che termina la riunione ansioso di “socializzare” con gli altri gruppi i suoi “fuochi d’artificio”, è il ritratto perfetto del bombarolo isolato, un po’ criminale e un po’ bambino, affamato di botti la notte di Natale. 

Troppo realista per essere finto?
 Diciamo che se è un falso, nel suo genere è un capolavoro. I dialoghi sono credibili e vanno giù che una meraviglia, come nei romanzi di Wu Ming (in effetti, se fossi un agente dei Servizi e dovessi inventarmi dialoghi del genere, da chi altri scopiazzerei?) Gli errori di ortografia non sono troppi, né troppo pochi. I paperi si scambiano le esperienze, battibeccano un po’, poi brindano all’Anarchia, senza trovare nessuna sintesi, perché la sintesi non c’è. “Mi sembra che l’indicazione sia quella di continuare”, dice Archimede, ed è il Natale del 2006. Ma nei tre anni successivi, la Fai informale non piazzerà più nessuna bomba. Un lunghissimo “silenzio operativo”, come lo chiama l’AISI, interrotto una settimana fa alla Bocconi. Eppure c’è qualcosa di veramente singolare in un gruppo che non è un gruppo, ma una costellazione di gruppetti scarsamente coordinati tra loro, che in quattro anni piazzano una trentina di bombe, e poi all’improvviso tacciono all’unisono. È difficile immaginare Paperina, Pippo e Qui Quo Qua che da città diverse aderiscono a un “cessate il fuoco” unilaterale. Se anche qualcuno l’avesse proposto, certo qualcun altro lo avrebbe rigettato. E allora cos’è successo?

Magari niente di speciale. Forse Paperina è tornata a casa con più dubbi di quelli che aveva prima, ha mollato l’eterno fidanzato vestito da marinaretto e si è laureata in zootecnia. Forse Qui ha trovato una rivoltella, si è sparato in tasca e ha accantonato la propaganda armata. Forse Archimede è esploso mentre preparava un attentato a capodanno, passando inosservato nei bollettini dei caduti del primo gennaio. Forse. Forse, più in generale, tra 2006 e 2007 è stato l’intero Movimento dei Movimenti a sfaldarsi, con migliaia di Paperine e Paperini che hanno cominciato a disertare cortei e centri sociali, mentre i loro leader si trovavano sistemazioni istituzionali (l’onorevole Caruso!) che alla lunga avrebbero danneggiato il loro carisma. Forse, svaporato il Movimento, non c’era nemmeno più bisogno delle frange anarco-insurrezionaliste con le loro bombe demodé.

Finché, all’improvviso, tre anni dopo quel Natale anarchico… non ve l’aspettavate, scrivono le Sorelle in armi, lontane parenti di Paperino e Paperina. In effetti no, ma è solo perché non sappiamo guardarci intorno. La scuola e l’università sono in fermento, la piazza si riempie di antiberlusconiani a cui non serve più nemmeno un partito per radunarsi (basta Facebook). Il Presidente, colpito da un pazzo, denuncia un clima d’odio montato da internet e dai giornali… no, decisamente, una bomba avremmo potuto anche aspettarcela.

1977, Br, manifestaiolismi, memoria del 900, terrorismo

Perché non fanno le BR?

Alla guerra globale con le fionde

L’insurrezionalismo dei cappuccetti neri non è un fenomeno così nuovo e originale come Maroni & co. vorrebbero. È comunque qualcosa che cronisti e commentatori, non necessariamente superficiali, stanno ancora cercando di mettere a fuoco. Si procede per aggiustamenti: abbiamo accettato che non sono tutti infiltrati (ma sono infiltrabili), non sono tutti fascisti (ma fascisti ce n’è) e che i black bloc internazionali, quelli che sconfinavano ai tempi dei grandi vertici, ormai hanno meglio da fare. Ogni tanto però partono ancora riferimenti storici alla c* di cane, ad esempio c’è chi parla di BR. È un passato che riemerge più per mancanza di fantasia che per altro: non penso che nemmeno i leghisti ci credano, a questa cosa delle nuove BR. È una specie di termine per assurdo, come quando si dice “uscire dall’euro” o “secessione”: se scenari del genere si concretizzassero, sarebbero i primi a sbalordirsi. In cuor loro sanno, come lo sappiamo un po’ tutti, che i cappucci neri non rifonderanno le BR, che non ne sarebbero capaci e comunque manco ci tengono: tanto è stridente il contrasto tra il loro movimento e i brigatisti di 40 anni prima (quaranta!) Ne siamo tutti così sicuri che forse vale la pena ridiscuterla, questa sicurezza: capire su quali fondamenti si posa.

Perché i cappuccetti non rifaranno le BR? In fondo brigatisti e cappucci condividono una premessa simile: l’insurrezionalismo. Le azioni di guerriglia urbana, siano sequestri o rapine o vandalismi, sono sempre concepiti come la premessa di una rivoluzione che è possibile: basta solo mostrare alla massa che si può, che la cosa è fattibile.

La differenza sta nel metodo. I cappucci sono vandali, devastatori, e lo rivendicano con orgoglio. Ogni manifestazione è una dimostrazione che la rivoluzione si può fare, anche se probabilmente l’unica idea di rivoluzione rimasta è una piazza ancora più grossa che brucia, con più camionette, più spranghe, più poliziotti da menare di più, in pratica il livello successivo del videogioco.

I brigatisti i videogiochi non li avevano. Erano sicari. I loro metodi consistevano per esempio nell’intimidazione a mezzo ciclostile, nel sequestro, nella gambizzazione, nell’omicidio politico. In ogni caso, si tratta sempre di fissare il mirino su un individuo, un solo esemplare del nemico: non la casta dei padroni, ma quel padrone, quel caposquadra o giornalista servo del padrone, quel sindacalista venduto, quell’uno da colpire per educarne cento. Col tempo l’orizzonte si estende, le Brigate Rosse alzano i mirini dalle officine al parlamento allo Stato maggiore NATO; teorizzano persino lo Stato Imperialista delle Multinazionali… però continuano a darsi obiettivi incarnati in individui: quel politico, quel segretario di partito, quel generale. Basterebbe questo a farci capire che siamo in un secolo diverso. Gli insurrezionalisti del duemila non sequestrano nessuno, non minacciano nessun Nome e Cognome, al massimo si danno come obiettivo la sede di un’istituzione nazionale o internazionale; ma se non riescono ad arrivarci va bene anche una Qualsiasi Banca. L’omicidio politico o il sequestro sono opzioni mai prese nemmeno lontanamente in considerazione, neppure dal più boccalone dei commentatori di indymedia. Varrebbe la pena di chiedersi il perché.

Un’ipotesi (un po’ subdola): fare i brigatisti è troppo sbattimento. La vita del sicario, spesso ridotto in clandestinità, richiede una disciplina, una professionalità, una capacità organizzativa che il cappuccetto nero non è in grado di reggere. D’altro canto i brigatisti venivano dalle fabbriche, erano abituati alla sveglia alle sei del mattino e a proiettare la fatica quotidiana in un orizzonte progettuale. I cappuccetti neri sono disoccupati  o precari cronici, la sveglia probabilmente la vivono come una costrizione borghese. Sto senz’altro stereotipando, in realtà non credo che i cappuccetti neri siano (tutti) degli allegri cialtroni: di sicuro hanno capito come si sta in piazza e hanno buone competenze tattiche, maturate nei fantomatici campi d’addestramento greci o più probabilmente in Val di Susa. Però alla fine sono vandali organizzati, tutto qui: non è che debbano gestire sequestri o reti di covi e arsenali in tutta la penisola. Gestire sequestri, soprattutto, richiede un’organizzazione infinitamente più complessa e professionale: e poi servono fondi. È noto il modo in cui i brigatisti si autofinanziavano: rapine.

Ecco, chiediamoci questa cosa: perché i cappuccetti neri non fanno rapine? Una certa contiguità con la criminalità comune dovrebbero averla, almeno quelli che vengono dalla curve. In ogni caso ormai sanno tutto su come violare la vetrina blindata di una banca: non gli è mai venuta la curiosità di dare un occhiata non dico al caveau, ma ai cassetti degli sportelli? Non è che debbano trasformare l’insurrezione in una forma estrema di shopping, come è successo durante gli ultimi riots di Londra: però il saccheggio è pur sempre parte integrante di una rivoluzione, che non è, mi par di ricordare, un pranzo di gala. Vandalizzare una banca senza rapinarla mi sembra come fumare senza aspirare, un voler peccare per forza senza riuscirne a godere. Oltre al fatto che anche i cappuccetti avranno le loro spese: fionde, bulloni, spranghe, corsi di aggiornamento in Grecia in tariffa economica, d’accordo, ma è pur sempre un traghetto andata e ritorno. Cari cronisti, magari la prossima volta che trovate un ragazzo così chiacchierino, fategli la domanda: ma chi finanzia? Perché all’esercito di pancabbestia figli di papà io non ci credo; ce ne saranno senz’altro, ma non possono essere la maggioranza. E quindi? I centri sociali producono davvero tutto questo plusvalore?

Insomma paragonare BR e insurrezionalisti contemporanei è quasi un esercizio di stile. Un discorso diverso meritano le analogie con Autonomia Operaia, sempre dagli anni di piombo, ma quelli dopo il ’77. Perché lo spartiacque è quello: chi tira fuori le BR si classifica immediatamente come un barbogio che parla a casaccio e probabilmente tiene ancora in casa 33 giri di prog italiano, la Premiata Forneria Marconi eccetera. Chi parla di Autonomia Operaia ha in mente il punk, e di punk ai cortei insurrezionalisti se ne ascolta ancora. Come dire che gli anni Settanta hanno due lati, il primo è suonato da musicisti professionali e molto tecnici e nessuno osa più passarlo per radio; dall’altra c’è già lo stesso rumore sguaiato che ascoltiamo tutti i giorni. In ogni caso no anche qui è opportuno rimarcare le differenze, non teoriche ma tecniche: nel ’77 negli spezzoni di AutOp si vedevano le P38. Gli insurrezionalisti prevedono una rivoluzione globale non molto pacifica, ma per ora l’idea di sporcarsi le mani con armi non anticonvenzionali non li sfiora. Eppure noi non viviamo in un mondo meno armato di quello del ’77. La criminalità organizzata controlla interi distretti della penisola: un gruppo insurrezionalista determinato non dovrebbe avere difficoltà ad equipaggiare gruppi di fuoco, in luogo delle falangi con le fionde che saranno anche efficaci a intrappolare le camionette, ma fanno comunque Ragazzi della via Pal. Se non stanno alzando il livello dello scontro alla fase sparatoria, se per lo meno non danno impressione di volerlo fare, neanche a livello di minaccia deterrente, vale anche qui la pena di chiedersi il perché. Va bene essere l’avanguardia della rivoluzione: ma pensate di farla tutta a spranghe e a estintori? In un certo senso sì, perché alle capacità devastatrici (modeste) di spranga ed estintore si aggiunge la potenza della vera arma del cappuccetto nero: il video. La rivolta è più un happening, una liturgia che un effettiva battaglia; tenere una piazza italiana per mezza giornata può considerarsi una vittoria solo se nel frattempo filmi tutto e lo condividi con gli amici. Le pistole in tutto questo non avrebbero senso: molto più fotogenico è l’estintore strappato al nemico, la fionda con tutto il sottointeso biblico (hai un bel da frantumare madonne, alla fine la Bibbia ti prende alle spalle). Sono armi che ti lasciano innocenti: quando si impugneranno i calci delle pistole l’innocenza sarà finita per sempre, ma chissà se succederà mai.

Chissà se ci credono davvero, è la domanda che mi resta in mente. Già qualche dubbio doveva serpeggiare sotto i passamontagna dell’Autonomia, che negli anni Ottanta approdarono ai centri sociali delle grandi città come a un rifugio sicuro. Lì dentro, per vent’anni, l’utopia rivoluzionaria ha ceduto il passo a una proiezione molto più ristretta, quella delle Zone Temporaneamente Autonome, la riserva indiana dell’utopia. Verso la fine degli anni Novanta i centri sociali che non erano diventati semplici discoteche o circoli ricreativi erano incartati in discorsi talmente autoreferenziali da riuscire incomprensibili anche a chi veniva dentro a ballare o a cercare sostanze (solidarietà ai compagni imprigionati durante manifestazioni di solidarietà ad altri compagni imprigionati durante gli sgomberi di centri sociali occupati in seguito agli sgomberi di altri centri sociali). Il movimento antiglobalista internazionale fu una boccata d’aria salutare, di cui alcuni seppero profittare, altri no. Dopo il forum di Firenze la spirale autoreferenziale ha ripreso il sopravvento. Forse l’episodio che ha scompaginato le carte stavolta è stato molto più locale: la guerriglia in Val di Susa. Lì i militanti dei centri sociali non hanno soltanto trovato nuove tattiche. Può darsi che abbiano trovato quello che più di tutto serve a un combattente: un motivo concreto per combattere. Non l’insurrezione globale, ma la difesa di quella valle, quel ruscello, quella gente (che non ha fatto mancare la solidarietà). Forse questo ha reso i cappucci molto più determinati. A Roma hanno portato un’organizzazione più efficace del solito. Ma a Roma c’è anche chi ha tutto l’interesse a usarli da utili idioti, e questo forse se l’erano dimenticato. Su in montagna probabilmente era tutto più chiaro: una linea da tenere, un nemico da punzecchiare, tanti amici pronti a nasconderti… Ehi, un attimo. Anch’io ho poca fantasia: sto ricascando negli anni Quaranta. Meglio finirla qui.

fascismo, razzismi, terrorismo

Non siete così meglio di Breivik

Non è un pazzo.

Solo perché ha portato alle logiche, estreme conseguenze le chiacchiere che possono scapparvi a una certa ora al terzo grappino, al secondo limoncello, voi dite che è un pazzo, Breivik.

E siccome sotto la patina becera e pagana siete uomini di mondo, moderni e disincantati, non vi attraversa nemmeno per un istante il sospetto di averlo evocato voi il folle Breivik, durante i sonnellini della vostra ragione. No, il mostro lo avrà senza dubbio partorito qualcun altro – il gene dello stragismo, il welfare nordico, il disagio della società multiculturale, i videogiochi, il “sistema”.

Io per me non credo che Breivik sia un pazzo, o meglio: non credo che la sua pazzia sia di un genere diverso dalla vostra. Se faccio qualche distinguo tra voi e lui, non è perché rispetti l’atteggiamento moderato con cui anche stanotte vi alzerete dal tavolino e ve ne andrete a nanna senza aver fucilato nemmeno un negro, nemmeno un comunista. Non è che vi stimi più di lui: mi fate meno paura, questo sì, ma non perché lui sia un pazzo e voi no. Il fatto è che la sua “pazzia”, chiamiamola pure così, è molto più efficiente. Breivik, se ho capito bene, è stato abbastanza pazzo da trasferirsi in campagna per qualche anno, onde poter acquistare tutto il fertilizzante esplosivo che gli serviva senza destare sospetti. Quando alla fine ha colpito, non ha tirato alla cieca come i terroristi, a cui basta seminare il terrore.

Breivik aveva un obiettivo molto più preciso, accessibile soltanto in una piccola nazione: ammazzare un intero partito, interrompendone il ricambio generazionale. Così ne ha fatto esplodere la sede della capitale, attirando la polizia lontano dall’isola dove ha decimato con freddezza i futuri quadri del laburismo norvegese. Tutto alla luce del sole, perfettamente spiegato, senza quelle zone d’ombra in cui il terrorismo incuba: Breivik non è un terrorista, è il flagello di Dio. Il sorriso che mostra nelle foto dell’arresto lo leggete come il sorriso di un folle: io ci vedo la soddisfazione per un buon piano eseguito, per un lavoro ben fatto. C’è nella sua “pazzia” un metodo, una lucidità che forse noi sani di mente non possiamo permetterci. Quella che ci impedisce di irrompere con una mitraglietta nella redazione di Feltri, togliendo a lui e ai suoi pards la possibilità di mettere alla prova il proprio coraggio, la propria abnegazione, cos’è? ragionevolezza? O paura, o rassegnazione? Siamo meno pazzi o soltanto più pigri?

Di fronte a uomini lucidi come Breivik, in grado di concepire una missione e sacrificarvi tutta la loro esistenza; individualisti assoluti pronti a bruciare il proprio ego pur di rischiare l’alba di un nuovo Califfato o di un nuovo Sacro Romano Impero, forse la soluzione è: più videogiochi. Sul serio. Nel suo caso evidentemente non ne ha giocati abbastanza: alla lunga è rispuntata la voglia di irrompere nella realtà, realizzandovi le sue fantasie di sterminio e sacrificio. Forse avremo risolto il problema quando ognuno di voi, senza neanche alzarsi dal tavolino, avrà a disposizione la sua realtà simulata in cui uccidere tutti i laburisti e i negri che vuole, trionfare e regnare. Più crociate per tutti, purché virtuali; più target, più missioni, più munizioni, più ministeri in Brianza, più oppio per i popoli dell’Europa dei popoli. Il giorno in cui la fantasia sarà davvero più soddisfacente della realtà, quel giorno forse vi libererete all’estasi dei vostri sogni di purezza e gloria, e ci lascerete in pace a tentare di convivere e sopravvivere in questo mondo imperfetto. Forse a Bossi non abbiamo dato abbastanza Braveheart; forse da qualche parte qualcuno ha già scritto il gioco di ruolo che riuscirà a incatenare per sempre l’inquieto Borghezio, come Merlino nel Lago.

Nel frattempo dobbiamo sopportarvi, ma non è che ci facciate meno schifo di Breivik. Un po’ meno paura, forse: e forse abbiamo torto. Perché non sarete lucidi e conseguenti quanto Breivik, ma quando volete sapete uccidere meglio di lui, con più pulizia e senza pagarne le conseguenze. A un simpatico leghista moderato come il ministro Maroni, a quel mattacchione ex-post-fascista sdoganato del ministro La Russa, basta lasciare soltanto due motovedette a pattugliare un largo braccio di mare all’apice dell’emergenza profughi in Libia, e il Canale di Sicilia si riempie in pochi giorni di quelle centinaia di cadaveri di fronte ai quali Breivik perde tutto il suo carisma folle e si rivela per quel che è: un dilettante, che ora andrà in galera. Voi invece restate al governo. Ma non è che mi facciate meno schifo di Breivik, o che dobbiate sembrarmi meno pazzi di lui.

repliche, terrorismo

Sem livros e sem fuzil

(Questo è un pezzo che ho scritto per l’Unità on line in gennaio, quando Lula rese evidente che Battisti non sarebbe mai stato estradato, anche se in Italia faceva comodo a molti pensarla diversamente. Lo ripubblico qui perché può essere ancora utile, con un’avvertenza: io non sono un giornalista in nessuna accezione del termine, men che meno un esperto di giudiziaria, anni di piombo, diplomazia o Brasile. I primi pezzi che scrissi sul caso Battisti erano deliberatamente cose da blog un po’ cialtrone. Vederli linkati ancora oggi come fonti primarie mi crea più imbarazzo che soddisfazione; continuare a leggere su molti organi autorevoli gente che ne sa ancora meno mi dà, non scherzo, le vertigini).


Un latitante troppo fotogenico
Alla fine di tante discussioni su Cesare Battisti resta un dubbio: ma se non avesse la faccia che ha, con quel ghigno da furfante che ha mostrato ai fotografi due o tre volte di troppo, ne staremmo ancora parlando? In fondo un motivo ci deve pur essere, se a distanza di tanti anni il suo volto è ancora sui titoli dei tg, mentre di tanti altri latitanti non si parla semplicemente più. Non si parla più di Giorgio Pietrostefani, che per i giudici italiani è colpevole dell’omicidio di Luigi Calabresi. Nessun La Russa si permette di minacciare fuoco e fiamme contro la Svizzera che non intende estradare Alvaro Lojacono, complice dell’assassinio di Moro, divenuto cittadino elvetico; nessuno propone sanzioni contro il Nicaragua se il brigatista Casimirri gestisce suo ristorante in riva all’oceano. E la lista di gente che l’ha fatta franca potrebbe continuare ancora a lungo: cos’ha dunque Battisti che tutti questi assassini non hanno? Io una teoria ce l’avrei.


Battisti è il latitante più fotogenico che abbiamo. Per quante volte possa avere rinnegato la lotta armata, il suo volto è diventato l’icona con cui i cronisti scelgono di rappresentarla. Bastano pochi secondi di filmati di repertorio, lui che ghigna in un parcheggio, e i Due Minuti d’Odio quotidiani sono serviti. Sarà per questo che di lui si parla tanto, e invece non si parla mai, per esempio, di Cacciola?
Salvatore Alberto Cacciola non è un terrorista, ma la sua storia è ugualmente interessante. È un banchiere fraudolento. Nato in Italia, cresciuto in Brasile, fuggito in Italia nel 2000, quando l’aria per lui cominciava a farsi pesante. Non lascia orfani e vedove, come ne lasciarono i Proletari Armati di Battisti, ma famiglie sul lastrico ne ha messe parecchie, e in questi dieci anni i brasiliani non si sono mai veramente scordati di lui. Questo è un dettaglio importante, che spesso si omette quando si parla di Battisti in Brasile. Perché prima che il nostro Proletario Armato fuggisse laggiù, era l’Italia che avrebbe dovuto estradare Cacciola in Brasile, e non lo fece. Fino al 2007, condannato in patria a tredici anni, Cacciola rimase a spassarsela dentro i confini della nostra rispettabile Repubblica, più o meno ignorato dai nostri organi di stampa. Che i brasiliani non se lo fossero affatto dimenticato lo dimostra la velocità con cui fu acciuffato appena osò mettere appena il naso oltre Ventimiglia, per un weekend a Montecarlo con una nuova fidanzata. Fu il ministro della giustizia Genro a ricordarlo allo stesso presidente Napolitano, un anno fa: gli italiani che ci chiedono Battisti non ci hanno mai dato Cacciola, un criminale comune. È superfluo notare chi aveva avuto, per gran parte di quei sette anni, la responsabilità di governo.
D’altro canto Berlusconi ci teneva tantissimo, a Battisti. A parole. Nei fatti, è lecito dubitare che si sia mai realmente speso per l’estradizione. Non risulta che ne abbia parlato con Lula nell’ultimo incontro, il vertice italo-brasiliano di fine giugno. Non in pubblico, “magari in ascensore”, dice l’ex sottosegretario Adolfo Urso, oggi in Futuro e Libertà. Il fatto è che Battisti diventa un argomento interessante soltanto davanti ai microfoni italiani. Ai brasiliani magari fece più effetto il party privato con sei ballerine che Berlusconi si concesse per l’occasione. 
Il caso Battisti è un esempio classico dell’approccio berlusconiano ai problemi: perché risolverli, quando li si può trasformare in spettacolo? Vedi l’emergenza rifiuti: dopo le elezioni Berlusconi aveva gli strumenti e il consenso per risolverla in modo strutturale, anche con misure impopolari; ma gli conveniva davvero? Che altro avrebbe promesso alle elezioni successive? Lo stesso con Battisti. Forse, con un’azione diplomatica più ponderata, Berlusconi avrebbe potuto averlo indietro.

Ma ne valeva davvero la pena? Non era meglio mandare in vacanza il solito ministro Frattini, rilasciare una dichiarazione insolente nei confronti di Lula, e liberare il ministro delle chiacchiere moleste, on. Ignazio La Russa? Si sventola il ghigno del mostro al tg delle venti, si mobilitano i parenti delle vittime (che hanno tutte le ragioni per sentirsi presi in giro), e se non si ottengono risultati, si può sempre lamentare l’esistenza di un complotto radical chic contro l’Italia. Probabilmente orchestrato da Carla Bruni – che con Battisti ha smentito di aver mai avuto a che fare, ma non ha importanza: tutto fa brodo. Compresi i dubbi di chi in Italia osa mettere in discussione le sentenze: non per una questione ideologica, ma perché tutto lascia intendere che su Battisti, una volta fuggito, qualche ex complice abbia scaricato tutto quello che poteva in cambio di sostanziosi sconti di pena.

Questa è stata la giustizia italiana che ci ha fatto uscire dagli anni di piombo. Possiamo anche decidere che certe pagine è meglio non riaprirle, ma dobbiamo accettare che i brasiliani, a distanza, maturino un giudizio diverso. Anche alla luce di un altro dato di cui si parla poco: le nostre carceri fanno schifo. In un anno abbiamo perso 170 detenuti: l’ultimo, morto il 28 dicembre, era un invalido al 100%. Di questi, 65 sono suicidi. Sono conteggi che difficilmente sentiremo al tg: il ghigno del perfido Battisti è senz’altro più sexy. Eppure l’Unione delle Camere Penali parla senza mezzi termini di strage, e lamenta che le carceri italiane siano diventate una “discarica sociale dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell’umanità”: di fronte a tutto questo desta stupore che una richiesta di estradizione venga rifiutata per ragioni umanitarie?
E adesso che si fa? Si potrebbero ammettere i propri errori sul caso Cacciola, chiedere scusa per le dichiarazioni che hanno fatto infuriare Lula, pensare magari a un possibile percorso di revisione dei processi, non solo nel caso di Battisti. Ma tutto questo sarebbe faticoso e complicato, e avrebbe come unico risultato il ritorno in patria di personaggi che fanno molta piùaudience finché recitano, loro malgrado, la parte di cospiratori all’estero. Molto meglio continuare a far baccano, blaterando di sanzioni e altre misure minacciose che danno un tono molto virile ai nostri governanti. Paolo Granzotto, sul Giornale, ha scritto che “un tempo, in simili casi, una nazione con gli attributi e che non voleva esser trattata a pesci in faccia mandava le cannoniere”: insomma siamo già alla battaglia navale. Discorsi da pranzo di capodanno, chiacchiere ideali per assopire i cummenda in poltrona: quando poi lunedì si torna al lavoro, di blocchi alle esportazioni e accordi commerciali congelati nessuno vorrà più sentir parlare, i cummenda per primi.

E quindi? Ricominceremo da capo. Quello che non abbiamo saputo chiedere a Lula, lo richiederemo a Dilma Roussef, probabilmente con la stessa boria. E davvero non ha nessuna importanza che le possibilità di ottenere un verdetto diverso dalla nuova Presidente siano praticamente nulle. In fondo è proprio quello che Berlusconi e i suoi uomini perseguono sempre, consapevolmente o no: un gran baccano intorno al nulla. Battisti continuerà a scappare di nazione in nazione, coi suoi rimorsi (se ne ha); la sua foto, l’unica cosa che realmente interessa ai nostri governanti, continuerà a sogghignare in tv, alla faccia nostra.

dietrology, ho una teoria, Obama, terrorismo

The Man in the High Castle

Se ne sta nel suo palazzo blindato, a emettere sentenze di morte.
Ogni tanto manda fuori un video per i suoi fedeli, 
li informa di qualche sua vittoria,
e tutto quello che dice 
è sempre vero.
Lo avete senz’altro riconosciuto.

La versione di Obama (H1t#74) è sull’Unita.it e si commenta laggiù.

Ma se qualche anno fa il presidente George W. Bush avesse annunciato al mondo che Osama Bin Laden era stato ritrovato e ucciso, ma che non poteva mostrarne il corpo perché era stato prontamente sepolto in mare; in compenso erano state scattate delle foto, che però non avrebbe diffuso perché erano troppo truculente; al massimo ci avrebbe fatto vedere qualche video preso dal suo computer; ma solo qualche spezzone senza audio, ecco… gli avremmo creduto? No, forse a Bush non avremmo creduto. E perché invece alla versione di Obama crediamo tanto volentieri? 

Questione di carisma.  Come siano andate realmente le cose ad Abbottabad probabilmente non lo sapremo mai, ma le reazioni mondiali dopo il blitz sono la definitiva dimostrazione dell’enorme credito che il presidente democratico, già Nobel per la Pace ‘sulla fiducia’, continua a mantenere presso l’opinione pubblica globale. In più, dall’11 settembre 2001 in poi la letteratura complottistica è cresciuta a ritmo esponenziale (anche grazie a internet, che offre spazio alle teorie di chiunque). L’inflazione di leggende urbane ha reso un pessimo servizio a chi vuole semplicemente concedersi il sanissimo vizio di dubitare delle versioni ufficiali. Ad esprimere pubblicamente i propri sospetti c’è il rischio di trovarsi subito iscritto nelle file di quelli che credono che tutto l’11/9 sia una montatura, per tacere degli sciachimisti e dei rettiliani. Alla fine si crede in Obama anche per non ritrovarsi a dover credere a Giulietto Chiesa o alle scie chimiche: non sarà proprio la verità al 100%, ma almeno ne è una ricostruzione seria, fatta con un po’ di coscienza: e se tra qualche anno si scoprirà che ci ha ingannato, beh… ci ha ingannato in tanti, mal comune mezzo gaudio.
  
Prendiamo i video. Sabato sono stati diffusi alcuni spezzoni di questi videomessaggi che sarebbero stati trovati nel computer personale di Bin Laden. Almeno così dicono gli americani. Stampa e tv hanno ripreso le immagini, senza porsi nemmeno la domanda più banale: se Bin Laden aveva realizzato nuovi video, perché non li diffondeva? Cosa stava aspettando?
La storia dei videomessaggi di Bin Laden è molto curiosa. Quando il primo viene diffuso, il 15 settembre del 2001, le ceneri del World Trade Center sono ancora calde. Dalle rocce sullo sfondo gli esperti deducono che Osama si trova in Afganistan, e parla come un comandante in prima linea. Tra settembre e dicembre 2001 verranno divulgati altri tre messaggi, con cadenza più o meno mensile. Poi un lungo silenzio, interrotto nell’ottobre del 2004 da un videomessaggio recapitato ad Al Jazeera, in cui Bin Laden, rivolgendosi agli americani, ammette per la prima volta le sue responsabilità sull’11 settembre, proprio a un mese dalle elezioni che avrebbero riconfermato Bush alla Casa Bianca. A quei tempi qualcuno fu così malizioso da notare la coincidenza.
 
Dopo un ulteriore anno di silenzio, Bin Laden si rifà sentire più volte nel 2006, ma senza più metterci la faccia. Circostanza che fece insospettire parecchi: se Bin Laden era vivo e abbastanza operativo per incidere messaggi, perché non si faceva più riprendere in volto? Forse non voleva mostrare un fisico indebolito dalla guerriglia e dalla fuga. Oppure era morto, e i messaggi audio erano opera di imitatori, se non vecchi nastri rimessi in circolazione: nel 2006 ormai lo sospettavano in molti, anche tra i sostenitori di Bush.
A questo punto, però, Bin Laden sorprende ancora il mondo, facendosi rivedere nel 2007 con un videomessaggio molto controverso. Non è soltanto per il colore della barba, più nera che sette anni prima, come a voler fugare qualsiasi sospetto sul proprio decadimento fisico. Il fatto è che Osama appare vestito esattamente come nel messaggio del 2004 (anche l’inquadratura sembra identica). È vero che dice cose nuove (per la prima volta parla di riscaldamento globale, nomina Gordon Brown e Nicolas Sarkozy), ma… non muove le labbra. In effetti, il videomessaggio si blocca dopo due minuti; la voce continua a parlare, ma l’immagine rimane statica e torna ad animarsi solo al dodicesimo minuto (per bloccarsi di nuovo dopo un altro minuto e mezzo). I riferimenti all’attualità e ai nuovi governanti di Francia e Regno Unito sono tutti compresi in quei dieci minuti in cui l’audio funziona e il video no. Difficile non pensare a una manipolazione. Eppure, già allora, i giornalisti cominciavano ad apparire meno interessati alle speculazioni sull’autenticità dei video. Il personaggio ormai ispirava una certa stanchezza, e forse il vero motivo per cui abbiamo tutti accolto con tanta prontezza l’annuncio della sua morte è proprio questo: di lui e dei suoi messaggi non ne potevamo più.

Abbiamo una gran voglia di cambiare pagina, sia in Medio Oriente sia altrove, e questo Barack Obama lo ha capito. Forse tra qualche tempo divulgherà la versione integrale dei nuovi videomessaggi, e capiremo come mai lo sceicco del terrore preferiva tenerli per sé invece che divulgarli. Forse era un perfezionista. Oppure c’è un’altra ragione, anche più banale.

Ma potrebbe anche darsi che non ci sia. Certe volte dovremmo semplicemente ammetterlo: non sapremo mai come sono andate veramente le cose. Nessuno ci fornirà mai abbastanza elementi per ricostruire i fatti. Però questo non significa che dobbiamo per forza accettare la versione di Obama, che incidentalmente è anche la versione del più forte. Possiamo, semplicemente, andare avanti coi nostri dubbi, senza pretendere di saperla lunga. Sappiamo solo di non sapere, che non è molto; però è già tantissimo.
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