11/9, Leonardo sells out

L’uomo sul filo più alto del mondo

7 agosto 1974 – Philippe Petit lancia un filo da una Twin Tower all’altra e ci cammina sopra.

Le twin towers non sono probabilmente mai esistite; ma se lo fossero, quarant’anni fa Philippe Petit si sarebbe introdotto in una delle due, e avrebbe mosso un passo dal cornicione al vuoto; e dopo quel passo un altro, verso il niente, cinquanta chili sospesi a quattrocento metri d’altezza, a disposizione dei venti.

Vedi anche:

11/9, Islam, terrorismo

La tesi di Atta

Come la prima fidanzata, spesso la tesi di laurea è un mondo a parte in cui hai vissuto per uno o due anni, sforzandoti in tutti i modi di trovarti bene, affezionandoti a particolari irriferibili, amandola con tutto il cuore mentre da qualche parte nella tua mente covavi il progetto di farla in piccoli pezzi per non intasare il sifone del WC. Tutto questo è ormai al di là della nostalgia e del rimpianto, in un passato blindato in una scatola in cantina che prima o poi marcirà o prenderà fuoco, mentre tu pensi ad altre cose che non hanno più niente a che fare. Oppure è in giro per il mondo, come la tua prima fidanzata, che incontra gente, capisce cose, si diverte e non pensa a te, per fortuna. Così vanno le cose, così è giusto che vadano. Sennò diventi Mohammed Atta. Ci hai mai pensato?

Non pensa mai nessuno a Mohammed Atta, mi pare. È il più grande villain degli ultimi 25 anni, ma i bambini neanche lo conoscono per nome. Hitler, per dire, lo conoscono: Atta no. È scivolato quasi subito in un incomprensibile cono d’ombra. Se hanno fatto un film su di lui, non ha avuto successo. Il che è inspiegabile, la sua vita è un film. D’azione. Viaggi intorno al mondo, spie, pedinamenti. E un lungo preambolo in cui si discute di architettura.

Mohammed Atta, basta andare su wikipedia, è nato nel 1968, da qualche parte nel delta del Nilo. Nel 1990 si è laureato in architettura all’università del Cairo. Nel 1993 si è trasferito in Germania, e ha cominciato a frequentare un politecnico ad Amburgo. Si paga gli studi lavorando in una concessionaria, il che forse lo ritarda un po’, visto che si laurea solo nel 1999 (in urbanistica?) con una tesi su Aleppo, in cui depreca il degrado architettonico-urbanistico dell’antico centro, causato dalla modernità e in particolare dai… grattacieli.

L’anno prima – quello in cui mi sono laureato io – Atta aveva creato con alcuni suoi coinquilini la cosiddetta “cellula di Amburgo”, un nucleo di fondamentalisti in cerca di jihad, che in un primo momento pensano di trovarla in Cecenia, ma poi finiranno in Afganistan ad allacciare contatti con Al Qaeda, e il resto della storia vagamente lo sapete (benché siano i dettagli a renderla intrigante).

Mohammed Atta, tutti quelli che ammettono di averlo conosciuto, lo ricordano come una persona dai modi gentili ma inequivocabilmente islamici, che sorrideva spesso e quasi si scusava di non poter stringere la mano ai membri della commissione di laurea che avevano la ventura di esser donne; diamo quindi per scontato che credesse in tutto quello a cui credono i jihadisti suicidi: il paradiso a base di vergini, eccetera. Il fatto che nell’estate del 2001 lo si trovasse spesso ubriaco negli stripbar di Las Vegas, lo prendiamo come un tentativo abbastanza riuscito di stornare i sospetti della CIA (che lo aveva schedato molto prima che lui entrasse negli USA, ma, curiosamente, smise di seguirlo non appena vi entrò). Però – è una suggestione che lascia il tempo che trova, prima o poi l’avrei scritta e ci ho messo 11 anni – forse la cosa in cui Atta credeva davvero, con tutta l’anima e tutta la mente, ancor più del Corano, era la sua tesi di laurea. I grattacieli erano il nemico. Bisognava cominciare a buttarne giù. Dare l’esempio, almeno.

Chissà cosa direbbe Atta delle macerie che oggi sono Aleppo. Chissà se gioirebbe per i brutti palazzoni che crollano, o per il centro millenario che le granate non risparmiano. Non potrebbe neanche arrogarsi qualche merito, o addossarsi qualche colpa: l’11 settembre è già lontano, quel che succede oggi in Siria ha altre origini, altri fini. Chissà che direbbe delle Abraj Al-Bait Towers della Mecca, inaugurate in questo 2012 e già dichiarate il più grande edificio sulla Terra: in cima c’è ovviamente l’orologio più alto del mondo, un BigBen sotto steroidi che promette di assestare un bel pugno nell’occhio di tutti i pellegrini che da ogni parte del globo vengono lì sotto a pregare intorno alla Ka’ba. Atta ci andò nel 1994: al posto delle Al-Bait Towers c’era ancora un forte ottomano, poi smantellato e ricostruito altrove.

Le foto delle Al-Bait Towers (via Mazzetta) hanno un che di spaventoso e disumano e bellissimo. Quel BigBen è così assurdo, così fuori contesto, così blasfemo, che alla fine ti ipnotizza, in un modo non troppo dissimile da come ci ipnotizzò 11 anni fa Mohammed Atta, buttando giù una torre ancora più alta. Più guardi le foto, più ti ripeti: Atta ha perso. Più lo ripeti, più ti sorprendi a pensare che nel 1998, all’inizio perlomeno, non è che avesse tuttissimi i torti.

11/9, memoria del 900

Il temino sull’11/9

Io l’11 settembre 2001 ero

[inserire il luogo in cui dov’ero]

e stavo facendo

[descrivere brevemente la mia occupazione in quel momento]

quando all’improvviso [in tv / alla radio / al telefono un amico / su internet, perché modestamente io la usavo già] ho scoperto quello che stava succedendo; ho visto coi miei occhi

[spazio per inserire due o tre immagini toccanti che tutti si ricordano: torri che fumano, persone che precipitano]

e ho pensato: niente sarà più come prima.

Poi ci sono state alcune guerre, ma insomma, i dieci anni sono passati e io sono ancora qua, Bin Laden invece è morto, salire sugli aeroplani è più difficile, però tutto sommato poteva andarci peggio, dai. Ma non dimenticherò, perché chi non ha memoria non ha futuro. Questa è più o meno la traccia tipica del temino sull’11 settembre, purtroppo non a scuola ma sui nostri quotidiani (e sui blog, certo), dove abbiamo cominciato a leggerne già il 12 settembre 2001. A distanza di dieci anni, sarebbe interessante prendere i giornali di domattina e contare quanti pezzi saranno composti ancora con una traccia del genere. Magari neanche uno, chissà, magari si sono stancati di scriverli, come noi (da un pezzo) di leggerli. Sì, appunto, magari.

Chi sa dov’è il Wendy’s più vicino?

Tra qualche ora vedremo. Nel frattempo vorrei fermare qui un appunto, una cosa che mi è venuta in mente, da raccontare a chi non c’era. Ma, appunto, il problema con l’11 settembre è che c’eravamo tutti, sicché questa mania di continuare a raccontarcela a vicenda è un po’ stucchevole. Tra l’altro, più ce la raccontiamo, più rimescoliamo le nostre memorie, e alla fine sembra davvero che tutti ci ricordiamo le stesse cose.

L’unica speranza risiede nelle giovani generazioni – sperando che non si siano sciroppate troppi documentari e docufiction negli ultimi dieci anni, altrimenti rischiano di avere una memoria a posteriori migliore della nostra (quel fenomeno per cui io mi ricordo la formazione di Italia Germania 4-3). Comunque io quest’anno avrò una classe di ragazzi del Duemila, ormai ci siamo. Anche se è ancora un po’ troppo presto per spiegar loro questa cosa che mi è venuta in mente.

Mi è venuta in mente guardando la controversa foto qui sopra (via il Post) che ritrae alcuni giovani in una posa apparentemente spensierata sulla sponda sicura dell’East River, con Manhattan affumicata sullo sfondo. Dico apparentemente perché, quando la foto è diventata famosa, le persone catturate dal fotografo si sono difese spiegando che in realtà erano tutte piuttosto sconvolte. Anche se dallo scatto non appare. Il che potrebbe sembrare strano, a chi l’11 settembre non fosse lì, di fronte a Manhattan. (Ma c’eravamo tutti).

Allora bambini quello che dovrei dirvi, non oggi ma tra qualche anno, è che in realtà non è affatto strano. È la differenza tra fotografia e fiction, forse. Un regista di fiction, se dovesse immaginare un set così, chiederebbe agli attori di assumere espressioni di incredulità, impotenza, rabbia, disperazione, sgomento, panico, insomma una bella spadellata di Urli di Munch. E se gli attori non fossero dei cani, potremmo trovare la scena verosimile. Questa foto però non ha nessuna pretesa di essere verosimile, perché è vera. Io lo posso dire perché ero lì, cioè non proprio lì; a sei fusi orari di distanza, ma avevo davvero davanti la stessa scena: e benché mi sentissi anch’io sconvolto, impotente, incredulo, probabilmente sul viso non avevo un’espressione molto diversa da quella di quei cinque ragazzi. Potrei essermi stiracchiato anch’io, a un certo punto, sul terrazzino che dava sul mio ufficio. Avrò anche sorriso un po’, per cortesia o addirittura ascoltando una battuta – sì, ci raccontavamo addirittura le battute. Perché è vero che eravamo preoccupati. Eravamo preoccupatissimi. Ma per il momento eravamo sulla sponda sicura. Nessuno poteva ancora sapere cosa sarebbe successo il 12 settembre 2001: parlare di Terza Guerra Mondiale, in quel momento, non suonava affatto fuori luogo. Nulla sarebbe stato come prima, davvero, nulla, ma nel frattempo eravamo ancora in quel “prima”, non sapevamo bene da che parte quel “prima” avrebbe cominciato a franarci addosso, e più che rabbiosi, più che impotenti, più che sgomenti, io credo di aver trovato la parola che potrebbe definirci.

Eravamo euforici. Nell’occhio del ciclone di un grande cambiamento storico. Comparse di un action movie che non sarebbe finito senza qualche milione di morti. Ma era il nostro film, finalmente. Riguardava noi, e l’unica cosa sicura era che ci avrebbe cambiato la vita. In un modo o nell’altro. E dovete capire, bambini, che la maggior parte di noi faceva già una vita abbastanza di merda. Dicevamo “nulla sarà come prima” e intanto pensavamo “magari”.

Poi la sera arrivò Vespa, Scajola disse che c’erano stati venti, trentamila morti, gliel’avevano detto gli americani, arrivavano agenzie di bombardamenti di Afganistan, Massoud era morto ammazzato, io mi addormentai sul divano davanti a RaiNews.

No, aspetta. Non potevo captare RaiNews.
Ecco, sta succedendo. Sto ricordando quello che è successo a qualcun altro.

11/9, Islam, terrorismo

Il veglio Reloaded

L’Eletto

E quando lo Veglio vuole fare uccidere neuno uomo, egli lo prende e dice: “Va’ fa’ cotale cosa; e questo ti fo perche’ ti voglio fare tornare al paradiso”. E li assesini vanno e fannolo molto volontieri. E in questa maniera non campa niuno uomo dinanzi al Veglio de la Montagna.

Si riparla di Bin Laden ultimamente – a propos, voi ci credete, in Bin Laden? Non il personaggio storico, no: ci credete in Bin Laden vivo, oggi 25/9/2008? Riuscite a immaginarlo respirare in questo esatto istante, in un bunker da qualche parte sotto il vostro stesso suolo? Perché io, con tutta la più buona volontà, non ce la faccio. Per anni mi avete raccontato che era braccato, bombardato, dializzato, scomparso, poi eccolo rispuntare con la barba più tinta di prima. Più che la fiducia, è il mio buon senso che vien messo a dura prova.

Si riparla di Bin Laden perché tra un mese si vota negli USA, e metti che lo prendano proprio adesso; oppure (più credibile) metti che l’abbiano preso già da un po’ e decidano di levargli il cappuccio a dieci giorni dalle elezioni: per i Repubblicani sarebbe un bello spot. Ma sarebbe anche la fine della Guerra al Terrore: bisognerebbe reimpostare la politica estera, trovare nuovi nemici, e non è detto che McCain sia pronto. Forse conviene tenerlo in fresco ancora un po’.

O ancora: metti che Bin Laden sia (come ci raccontano) vivo e libero, e persino operativo: in questo caso i tempi sono maturi per un altro attentato, come quello di otto anni fa che fu sufficiente a impostare la politica estera per due mandati presidenziali. A quel punto ha poca importanza chi vincerà a novembre, così come aveva poca importanza chi vinse nel 2000: sia Obama che McCain per ora non vorrebbero ricalcare le orme di Bush, ma è un dettaglio. Anche Bush voleva preoccuparsi soprattutto di politica interna, fino al dieci settembre. Tu mandagli una mezza dozzina di kamikaze e vedrai quanto ci mette il futuro presidente Obama/McCain a infilarsi l’elmetto di Commander in Chief (conquistandosi anche un’opzione sicura sulle presidenziali del 2012). Forse ci siamo rimessi a parlare di Osama perché in tutti questi anni è stato il primo responsabile della politica estera di Bush, una specie di Ministro del Terrore, molto più influente di Cheney e della Rice, e siamo curiosi di sapere se avrà un posto nel nuovo gabinetto. O non sarà rimpiazzato da giovani promettenti, come Ahmanedinejad.

Da noi si riparla di Bin Laden anche perché ci manca. Dopo di lui, certe sensazioni non ce le ha fatte provare nessuno. Tra un po’ ci ricorderemo di Riva del Garda 2008 soltanto perché durante un dibattito un creativo ha definito l’11 settembre come la campagna pubblicitaria meglio riuscita degli ultimi dieci anni. A prescindere da ogni considerazione morale, naturalmente. Ne è seguita una lunghissima polemica con alcuni astanti che di prescindere non se la sentivano proprio, certo, è comprensibile, però vi rendete conto? Finché Stockhausen lo considerava un artista, Osama rimaneva almeno nella sfera del sublime. Ma se addirittura nel 2008 lo abbiamo degradato ad art director, significa che l’occidente ha vinto! Lo abbiamo macinato, digerito, infilato nella stessa categoria di quelli che per mestiere s’inventano le avventure dello scoiattolino scoreggione.

Anche se.
Anche se in fondo Bin Laden è sempre stato più occidentale di quanto non apparisse. Certo, ai tempi di Tora Bora sembrava ormai trasformato in un archetipo medio-orientale, il Veglio della Montagna che trasforma i giovani in Assassini. Senonché, anche il Veglio della Montagna è leggenda occidentale, almeno da Marco Polo in poi. E cosa c’è di più occidentale di Mohammed Atta che aspetta l’undici settembre in un locale di lapdance? Un uomo che pensasse di andare in paradiso dopodomani, uno assolutamente convinto di entrare in possesso di 72 vergini nel giro di 48 ore, pensate che perderebbe tempo con le lapdancer? Un martire islamico no, Atta sì. Atta sembra un personaggio scritto in ascensore da uno screenplayer di Hollywood. Tutto l’11 settembre sembra il secondo tempo di un action movie anni Novanta: vi ricordate come ci siamo sentiti in quel pomeriggio? Cosa abbiamo provato esattamente: paura? Panico? Quel pizzicorino ai piedi, sospetto che alla fine fosse soprattutto euforia. Improvvisamente, quando non ce l’aspettavamo più, eravamo entrati in un film. Come comparse, ovviamente; nella solita scena di massa in cui qualcuno urla: “Moriremo tutti” e gli altri scappano; non importa, ce l’avevamo fatta. E se questo è un sogno, è un sogno tutto occidentale.

Di Al Quaeda, dopo anni, continuamo a saperne poco. Sappiamo che, a differenza di altre organizzazioni islamiche, non reclutava i suoi uomini tra i poveri delle campagne o delle periferie. Atta e compagni erano figli di quella classe media che è sotto pressione in tutto il mondo, e che nei Paesi islamici non ha avuto nemmeno molto tempo per svilupparsi. Gente che dopo anni di lavoro, o di studio (o di semplice vagabondaggio per il mondo) si rende conto di essere fuori dai giochi. Non ha potere, non ha rappresentanza. Tutto quello che la tv satellite e internet sembravano dare per scontato, il famoso “tenore di vita occidentale”, non sarà mai alla loro portata. È la stessa situazione in cui mi sono trovato io, e forse anche voi. A questo punto uno cosa fa? Voi cosa avete fatto?

Giochino. Vi racconto una storia che sapete già, e vediamo quanto ci mettete a riconoscerla.
C’è un giovane che vive la sua vita in una città al centro del mondo. O alla periferia: tanto ormai il mondo è tutto uguale. Le cose non gli vanno né troppo male né troppo bene, ma lui si annoia. Ha come la sensazione di non potersi esprimere per quello che è veramente. È una cosa difficile da spiegare, i suoi amici non capiscono. L’unico che gli dà retta è un tale misterioso che incontra su Internet, e che dopo una lunga attesa gli dà un appuntamento.
È una specie di sacerdote: nelle sue parole si sente un vago retroterra religioso, parole orecchiate nelle preghiere dell’infanzia. Al giovane che lo ha trovato spiega che il mondo in cui vive è pura apparenza, creatura di Satana che inganna gli uomini per succhiare energia tra loro: occorre trascendere, chiudere gli occhi e ritrovare la realtà. Che non è un nirvana, al contrario: la realtà è un mondo durissimo, dove gli Eletti combattono Satana e se necessario sacrificano la loro vita. Devo andare ancora avanti? Stasera daranno Matrix 3 in tv, fateci caso: Neo ha una mantellina nera da ayatollah. Non arriverò a dire che Bin Laden si è ispirato ai fratelli Wachowsky: lui è più vecchio, si dev’essere fermato a Die Hard 3. Ma dico che Al Quaeda e Matrix si sono sviluppati nello stesso brodo di cultura, che è 90% occidentale, con qualche spezia esotica: che l’impulso che ha portato molti musulmani di classe media nelle braccia di Al Quaeda è simile a quello che ha portato noi al cinema a guardare a bocca aperta una storia più sconclusionata di altre, che però in qualche modo ci toccava più di altre; che sapeva toccare corde che nemmeno noi sapevamo di possedere.

(Tutto questo avevo già provato a spiegarlo nel 2025, con risultati non proprio limpidi).

11/9, giornalisti, italianistica, Oriana Fallaci

Riposa in prrrrr

Quel figlio mai nato

Oriana lavora da anni a un’ opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. (Ferruccio de Bortoli, corruttore di vecchiette, Corsera, 29/9/2001)

Sul romanzo postumo di Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege (ciliege senza la “i”, tarate il vostro correttore automatico), io ho un forte pregiudizio, che nemmeno ho intenzione di verificare.

Perché parliamoci chiaro: se alla mia età non ho ancora letto le Upanishad e i Miserabili, non credo che troverò il tempo per il cappello pieno di ciliege. No, quello che farò qui è incartarvi il pregiudizio fatto e finito. Una cosa discutibile e persino un po’ vigliacca, la pisciatina sull’inedito illustre; ma su un blog si può fare.

Dicevamo, il cappello pieno di ciliege. Una gran palla, secondo me. Per i lettori non lo so, ma per lei di certo. Perché scusate, mica stiamo parlando di uno di quegli stitici letterati del Novecento, perennemente in preda a crampi e blocchi, quelli da cento paginette a decade; questa è Oriana Fallaci, una che quando trovava la storia giusta (e la trovava spesso), ti buttava giù un paginone centrale prima di colazione, una che la sua Olivetti Lettera 32 la pestava con undici dita alla volta, la faceva cantare come un Kalashnikov, tatatatatà ding! Tatatatà ding! Ding! Ding! Ding!

Almeno fino al 1991.
Era appena uscito Insciallah, un poema epico lungimirante (NIE quando ancora Genna guardava i cartoni), che mentre tutti fissavano con aria attonita le rovine del Muro, indicava nel Medio Oriente il nuovo sanguinoso fronte tra mondo libero e barbarie. Passa qualche mese e un certo Saddam Hussein le dà clamorosamente ragione invadendo il Kuwait, in quello che agli osservatori internazionali appariva ancora un inspiegabile capriccio. La guerra è imminente e la prima reporter d’Italia (e del mondo) non si fa aspettare… ma poi nelle retrovie succede qualcosa.
Questa guerra non si vede. La Fallaci ha passato una vita a guardare e a raccontare, ma stavolta no. Stavolta non si vede e non si capisce niente. Luci verdi su sfondo scuro, ed è tutto. La prima guerra del Golfo fu uno choc per molti vecchi reporter, ma per la decana Oriana dev’essere stata la percezione della fine. Analogica in un mondo digitale. Improvvisamente sei un vecchio disco polveroso e comunque il giradischi lo abbiamo lasciato in casa dei nonni.

Ma credete che abbia strepitato, sputato fuoco contro i nuovi media e i giornalisti embedded? No, quella volta reagì in un modo curiosamente freddo. Si ritirò a New York a scrivere un romanzone storico. Lo chiamava “il-mio-bambino”, sì, vabbè – un bambino, per quanto piantagrane, massimo in nove mesi si scodella. Questo in dieci anni non ha voluto venir fuori. Oh, ma stiamo parlando di Oriana Fallaci, settanta battute al minuto! Voi come ve lo spiegate? Per me, semplicemente, si annoiava. Il Settecento, l’Ottocento, le guerre in costume, le ciliegie… una palla. Il suo bambino. Quante volte avrà voluto raschiarlo via, quel bambino mai nato e già promesso agli editori. “Oriana, come va?” Eh, come va, mica posso dirti che non sto combinando un cazzo. “Sto lavorando a quel romanzo, sai… ma è una cosa lunga”. “Ah, sarà sicuramente un capolavoro”. Certo, certo, come no.

In mezzo a tutto questo, ti diagnosticano pure il cancro… l’“alieno”, come amavi chiamarlo. Sicché tra un bambino che non vuole saperne di nascere, e un alieno che ti vuole morta, non devi aver passato degli anni molto belli, a New York. Fino a quel mattino di settembre in cui, come tutti sanno, il Medio Oriente si rifece vivo alla finestra.
E tu c’eri. Di nuovo in mezzo alla notizia. In mezzo alla realtà. Altro che Sette e Ottocento. 11 settembre 2001, e la prima reporter del mondo c’è. Come devi esserti sentita? Piena di rabbia e di orgoglio, lo sappiamo; ma in mezzo a tutta questa rabbia e orgoglio, come ti devi essere sentita, Ms Fallaci?
Secondo me ti sentivi bene. Come dopo un’operazione alle cataratte, ti sbendano e rivedi il mondo con occhi nuovi, con gli occhi vecchi, con gli occhi tuoi. Che emozione, rinascere a settant’anni. Fissi la finestra per un’ora, telefoni a qualcuno, qualcuno ti telefona, e fumi come una ciminiera; ma prima o poi ti volti verso l’olivetti lettera 32. E lo vedi. Il tuo bambino mai nato, deforme e rompipalle. Ma che se ne vada a fottere nel cestino! Foglio nuovo, vita nuova.

“Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’ altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini”.

Decisamente i palestinesi di Gaza non avevano molti motivi per gridar vittoria, col senno del poi lo sappiamo. Ma tu, invece. Che gran momento è stato per te. Da eremita volontaria, scrittrice quasi fuori catalogo, a salvatrice dell’Occidente. Hai venduto odio cartonato ai cinque continenti, ma più che per soldi credo che tu l’abbia fatto per dimostrare che eri viva, come l’occidente quando non sa che problema risolvere e bombarda a casaccio. L’hai fatto perché non volevi finire come una vecchia scrittrice coi crampi, e soprattutto non volevi morire di cancro, come una fumatrice qualsiasi: tu volevi la fatwa, l’hai chiesta in tutti i modi, hai fatto in modo di meritartela… e se quei barbogi dei mullah non te l’hanno concessa è solo perché sono veramente stronzi. Ma nessuno la meritava più di te, insomma, chi è questo Rushdie al tuo confronto?

Poi un giorno sei morta, e adesso eccolo qui, il tuo bambino mai nato. Bello, brutto, chi lo sa. Io credo che non ti piacesse, e che piuttosto di finirlo avresti fatto scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Riposa in pace. Un giorno voglio andare a sussurrarlo sulla tua tomba. Solo per tendere l’orecchio e sentire che dallo sdegno ti rivolti. Vecchia stronza, beh, sì – un po’ mi manchi.

11/9, anniversari

– i want to be a part of it

11/9, easy and chic

Ma questo 11 settembre 2006, non vi sembra un po’ in ritardo?
In che senso? In nessun senso. Indubbiamente oggi è l’11 settembre 2006, eppure: cinque anni? solo cinque anni? In America sembravano almeno sette, otto. Quattro euro fanno cinque dollari, non sarà così anche per gli anni? Di là il tempo passa più in fretta. O succedono più cose. O c’è più tempo per pensarci sopra. O altri motivi che conosco.

Insomma, non ho la minima idea del perché, ma posso scommettere una cosa. Scommetto che stamattina capiterà a tutti voi, tra Internet tv e giornali italiani, di imbattersi nel Pezzo Autoreferenziale Tipico Sull’11 Settembre. Quello, per intenderci, scritto rispettando la seguente scaletta:

L’11 settembre di cinque anni fa io ero [da qualche parte] a [fare qualche cosa], quando mi dissero che le due torri erano crollate [oppure lo vidi alla tv, o il telefono, internet, l’autoradio] e pensai: niente sarà come prima.
Fine.

Oltre ad averne letti e straletti, di pezzi così, a volte li abbiamo pure scritti: in fondo a cosa serve un blog, se non puoi nemmeno raccontare dov’eri l’11/9/01? Qualche anno fa qualcuno organizzò persino un blog collettivo per raccogliere tutte queste cose autoreferenziali che, evidentemente, interessavano ancora a qualcuno. E oggi? Oggi credo di no: se il genere sui media va ancora forte, è per inerzia, o più semplicemente perché raccontare i fatti propri è un modo molto economico di riempire colonne. E anche in tv dopo i soliti filmati (più o meno gli stessi), qualche servizio sulle esequie ufficiali, qualche clip inedita o rara di Bin Laden, di spazio probabilmente ce n’è. Si potrebbe occupare con qualche riflessione (tenendo sempre presente che Niente Sarà Come Prima); ma il rischio di dire banalità è tale che forse è meglio sorteggiare un Vip a caso, telefonargli e chiedergli: Dov’Eri Tu l’11 Settembre?

Ecco, la mia sensazione è che oltre Atlantico questa fase sia abbondantemente superata. Nessuno si è dimenticato l’11/9 (anzi): ma l’autoreferenzialità sulla grande tragedia che ha inaugurato il secolo è finita – del resto i secoli, una volta inaugurati, devono andare avanti. E così, mentre in Italia continuiamo a tirar fuori i nostri vecchi album dell’11 settembre, negli Usa ci si interroga sulla più grande tragedia americana della storia recente: che non è più l’11/9, ma Katrina.

Qui non si tratta di stabilire quale delle due tragedie sia stata più grave, o più simbolica, o più luttuosa. Né di tifare per il documentario di Spike Lee contro il film di Oliver Stone. L’idea di un settembre 2001 e un settembre 2005 l’un contro l’altro armati, di una tragedia “di sinistra” (l’uragano) da contrapporre a una tragedia “di destra” (l’attentato più cruento e spettacolare della Storia), è una sciocchezza. Piuttosto val la pena di chiedersi: perché in Italia si continua a parlare così tanto di 11/9 (anche in mancanza di cose da dire) mentre Katrina ha forato così poco? È solo una questione di ritardo, come coi telefilm? Stiamo aspettando il doppiaggio? Due ipotesi.

Prima ipotesi: l’11/9 è semplice. Un grande vecchio cattivo decide di umiliare la nazione più potente del mondo con un diabolico piano. Il piano funziona, uccidendo migliaia di persone, ma la nazione attaccata reagisce compatta. Tutto qui. Qualunque storico o politologo potrebbe spiegarlo in modo più complesso, ma in sostanza l’11/9 si può ridurre a questo: una storia con buoni e cattivi che si può spiegare ai bambini. Pochi episodi della Storia si prestano a un’interpretazione così rassicurante. A me viene in mente soltanto la Seconda Guerra Mondiale: anche lì, gira che ti gira, buoni contro cattivi – coincidenza, di solito chi ha il pallino dell’11 settembre ha anche il pallino della guerra antinazista: buoni contro cattivi, e indovina un po’ da che parte stiamo noi.
Katrina, per contro, è la classica catastrofe postmoderna, con una lista di responsabili che non finisce più. Si va dal Padreterno – che poteva darci un pianeta meno turbolento – al Presidente Usa che misconosce il riscaldamento globale e taglia i fondi, al Governatore che non li investe in dighe, alla polizia che prima spara poi chiede, giù giù fino al singolo cittadino che, appena tagliano la luce, si sente autorizzato a rinnegare la civiltà e saccheggiare quanto può. Chi è il buono? Nessuno. Non è una storia che possa veramente piacere a noi bambini.

Seconda ipotesi: l’11/9 è chic. Mentre in fin dei conti, Katrina è solo un uragano. Sì, d’accordo, un uragano che affonda e getta nel caos una metropoli del Paese più potente del mondo ha qualcosa di eccezionale: ma un uragano per noi sarà sempre Terzo Mondo.
L’11 settembre rimane la nostra tragedia perché, alla fine dei conti, New York rimane la nostra città: l’orizzonte a cui aspiriamo. E questo spiegherebbe anche il nostro delirio autoreferenziale: perché continuiamo a raccontarci che eravamo in autostrada, o al lavoro, o dormivamo, e ci siamo fermati in un bar, o davanti a una vetrina di tv… chi se ne frega? Raccontarci serve a sentirci parte di una comunità ricca, affermata, improvvisamente minacciata nel suo simbolo più alto e prezioso. Eravamo sulla Tangenziale Ovest, ma ci sentivamo sulla West Side Highway; oppure eravamo in ufficio, ma in quel momento il nostro ufficio era la succursale del centro direzionale più alto del mondo: ci affacciavamo alla finestra e gli aerei che decollavano dal Marconi ci strappavano un brivido. Ci sentivamo tutti newyorkesi, era terribile ma anche fantastico.
Sentirsi neworleansiani, invece, fa schifo. La possibilità – nemmeno tanto remota – che anche il mediterraneo possa essere scosso da qui a qualche anno da catastrofi da Paese tropicale, non ha nulla di cool: è deprimente e basta. Per un disastro da Terzo Mondo possiamo commuoverci, perfino mobilitarci (basti pensare al diluvio di offerte che seguì lo Tsunami): ma immedesimarci, questo no. Abbiamo ancora un certo contegno.
(Eppure intanto l’America va, e noi arranchiamo).

11/9, 2025, ambiente, dietrology, riscaldamento

– 2025


L’Esperimento Unico

Caro Leonardo,
va bene, daccapo. Forse la storia ha più senso se narrata dal primo giorno.
E il primo giorno è – ci ho messo molto a capirlo, ma ormai mi sono rassegnato – l’Undici Settembre dell’Uno. Ricordo perfettam dov’ero, anche se non ha la minima importanza.
Diciamo che a quel tempo stavo facendo bla bla con bla bla e bla bla, giusto per intenderci, e nel pomeriggio ci fu un po’ di agitazione per un attentato terroristico a New York. A quel tempo erano cose che facevano ancora parecchia notizia, e qll’attentato in particolare fu il fattore scatenante di un paio di invasioni usastre in Asia negli anni successivi. Mi sembra.

Qsto, comunq, c’entra poco o nulla. L’Undici Nove è passato alla Storia per l’Esperimento Unico, anche se per parecchi anni ancora sarebbe rimasto perlopiù argomento da cocktail ai convegni dei climatologi. Vedi, Leonardo, era un mondo così. Ogni giorno si scoprivano cose eccezionali. Troppe cose. Stava diventando semplicem impossibile tenerle tutte insieme, anche per i più benintenzionati, che non sono mai la maggioranza, tralaltro.

L’Esperimento, in sé, era di una banalità sconcertante. Riguardava le scie dei jet di linea. Erano decenni che gli studiosi si facevano domande su questi cirri enormi, bianchissimi, e quindi in grado di rimandare molto calore al mittente, raffreddando di conseguenza le terre emerse sottostanti: il Nordamerica soprattutto, la portaerei del Mondo.

Sin dagli anni Settanta del secolo scorso qlcuno aveva ipotizzato che i jetto-cirri stessero abbassando la temperatura globale. In seguito, però, la temperatura globale aveva smesso di abbassarsi ed era andato piuttosto alzandosi, a un ritmo che innervosiva i meteorologi più scafati. Anche allora qlcuno aveva ipotizzato che i cirri c’entrassero per qlcosa. Insomma, in un modo o nell’altro dovevano pure avere una conseguenza climatica, ‘sti benedetti cirri. Possibile che la crosta del pianeta si raffreddi e si riscaldi fregandosene del tutto del suo più invadente parassita e della sua più chiassosa e petulante invenzione, i voli di linea?

A dire il vero un modo per risolvere la questione con tutti i crismi scientifici c’era: bastava fermare tutti gli aerei a reazione del continente nordamericano per un paio di giorni e misurare la temperatura media, e vedere se il mercurio nella colonnina saliva o scendeva, anche solo di un quarto di grado. Già, una cosa da niente. Bastava aspettare una sollevazione sindacale di dimensioni continentali, estesa a tutte le compagnie del mondo, inclusi i charter bielorussi battenti bandiera paraguagia. Oppure. Oppure un allarme terroristico, ma terroristico veramente, una cosa talm spaventosa da bloccare tutti i boing e i concorde negli hangar per tre giorni. Il che appunto avvenne, l’Undici Nove dell’Uno, il giorno in cui iniziarono anche i miei guai. I nostri guai.

Ora, non vorrei che qlcuno capitando qui pensasse che io aderisco a qlla teoria del complotto secondo cui i terroristi islamici erano in realtà pilotati dall’infame e potentissima lobby dei Meteoallarmisti, che vedevano catastrofi climatiche dappertutto, che finanziavano film catastrofici a Hollywood e che in seguito fecero la pelle a quel bravo scrittore usastro, come si chiamava, qllo che fu lessato durante la piena dell’Hudson – che insomma, i Meteoallarmisti tenevano così tanto a quell’esperimento da finanziare l’abbattimento di due grattacieli non bellissimi ma pieni zeppi di cittadini usastri, soltanto per avere tre giorni di traffico aereo quasi nullo su tutto il continente in modo da calcolare con calma se le scie c’entravano sì o no con le variazioni di clima. Ah, beh, scusate, no. C’è un limite anche alla dietrologia più paranoide.

In realtà si trattò solo di un classico esempio di eterogenesi dei fini. O dei mezzi. Gli Islamici ce l’avevano con l’Occidente per via di una serie di discrepanze nei libri sacri, da cui una millenaria storia di luoghi di culto contesi e un conseguente scontro di civiltà – storie vecchie e anche abbastanza incomprensibili, col senno del poi. Non avrebbero mai pensato di cambiare la storia dell’Occidente nel modo in cui la cambiarono: dando cioè agli usastri la possibilità di valutare gli effetti delle scie dei jet sul clima. Effetti spettacolari, si seppe poi.

Non si trattava di un quarto di grado, infatti. E neanche di mezzo. Un grado secco, invece. Un grado tondo in più, senza le scie. Una sciocchezza se stai prendendo il sole in terrazza – un passo da gigante se il pianeta sta bollendo e tu stai cercando un modo per raffreddarlo appena un po’. Con buona pace dei meteoallarmisti, quei frignoni. Qlle checche.

Naturalm, c’era la possibilità che l’esperimento non dicesse la verità: magari erano intervenuti fattori sconosciuti ecc.. Il metodo sperimentale non è infallibile, come già sapeva Galileo, che consigliava di ripeterli parecchio, gli esperimenti. Galileo però aveva a che fare con cannocchiali e pendoli, non col traffico aereo dell’area NAFTA. Le condizioni dell’Undici Nove dell’Uno non si sono più ripetute (grazie al cielo, vien da dire), e quindi per ora siamo fermi alle conclusioni provvisorie dell’Unico Esperimento. E cioè, sappiamo che forse, dico forse, la coltre dei motori a reazione è in grado di schermare il continente nordamericano di almeno un grado tondo, genuino, scala Celsius. Una magra consolazione, visto che lo schermo non impedisce affatto alla temperatura di aumentare altrove – per esempio nel bel mezzo degli oceani – di modo da creare spaventosi uragani che poi vanno a impattare comunq sulle coste del Nordamerica, fregandosene assai, loro, delle scie degli aeroplani.

Il risultato dell’Unico Esperimento, tuttavia, aveva il grosso pregio (per il Congresso Usastro, almeno) di essere in controtendenza rispetto ad alcune opinioni un po’ troppo diffuse, come quella – mai veram dimostrata – che facesse caldo, sempre più caldo, e che magari c’entrassero per qlcosa gli umani, con la loro abitudine a liberare carbonio nell’atmosfera. Anch’io, ricordo di aver condiviso per molte torride estati qst’idea, che più che un’idea era un consolante luogo comune… [continua, spero con una certa regolarità]

11/9, cultura, giornalisti, Oriana Fallaci, scontro di civiltà

Ancora Fallaci.
Mi dispiace infierire su un’anziana signora, ma sono fatto così (è la mia “cultura”).

Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l’ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un’immensa e disgustosa macchia di sudiciume.

Gli italiani, questi sanguinari:
basta che qualche centinaio di somali occupa Piazza del Duomo a Firenze per tre mesi, ed ecco che una simpatica vecchietta si trasforma in minacciosa stragista piromane (e anche un po’ mitomane).

Voglio dire, se i palestinesi dovessero reagire tutti così – è da cinquant’anni che gli occupano piazze, strade, campi, tutto…

…Ecco: vedi? Ho scritto un’altra volta «perdio»…

Non è mica grave. Si può anche cancellare. (È quella freccetta in alto a destra, vedi?)

…Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m’accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta?
Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m’ha imposto per secoli incominciando dall’Inquisizione che m’ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d’accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. ..

Una nonna bruciata sul rogo? Quanti anni fa, esattamente, signora?
È proprio vero: la nostra cosiddetta civiltà, la nostra cosiddetta ‘cultura’, è costruita in buona parte da cose che non conosciamo affatto.

La Fallaci non ha mai letto il Corano. Ma neanche la Bibbia, un testo molto più sanguinario (che pure dovrebbe piacerle, con tutto quel sangue e quelle battaglie…) Posta davanti all’effigie di una Madonna o di un Santo, Oriana avrebbe grosse difficoltà a riconoscere il Santo, o a spiegare cosa rappresentino quelle stelline intorno al capo della Madonna. Ma siccome da bambina ha sentito picchiare le campane; siccome in qualche gita fuori porta è passata davanti a un monastero o un convento, ecco improvvisamente che la signora Fallaci si scopre ‘intrisa’ di cultura cattolica.

Secondo me, quella delle ‘culture’ che si respirano da bambini, senza bisogno di leggere una parola o di mandare a memoria un precetto, è una stronzata. Pura e semplice. (Più di ‘culture’, sarebbe il caso di chiamarle ‘ignoranze’).

I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano…

È così, signora? Allora lei ha 1400 anni? Tutto sommato li porta bene.

Ma allora come la mettiamo con la storia dell’Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente?[…]
Anche questo sta nel Corano.

Sicura? Secondo me sta nella Bibbia. Può darsi che stia in tutti e due. Ma che figure, signora, che figure che ci fa fare…

I buoni musulmani il Corano lo conoscono per forza (questo getta una strana luce sugli “studenti” Talebani, molti dei quali sarebbero analfabeti). Anche i cristiani dovrebbero, anche se la Chiesa cattolica non ha mai insistito molto sulla lettura delle Scritture. Se vuole partire alle crociate, è meglio che la signora si documenti un po’. Scoprirebbe che il Corano impone rispetto per cristiani ed ebrei.

L’affetto di Oriana per le immaginette, per le suorine, per la sua cappelletta privata che ogni tanto va a spolverare, per quanto toccante, non fa di lei una zelante cristiana. Sconsigliamole di giocare, come un’apprendista streghina, allo “scontro di civiltà”: queste supposte civiltà ormai sono spettri, ma quando si destano sono ancora pericolosi.

Se vuole convertirsi, immagino che sappia già a che portone di convento bussare (là magari le insegneranno un po’ di educazione, a tenere la testa bassa, ad amare i poveri, a non nominare il nome di Dio invano).

Se invece vuole restare quello che è, una fiera laica con tante idee spregiudicate, sia laica fino in fondo. Quei volti “distorti, cattivi”, che le guastano il panorama di Firenze non sono dei musulmani: sono dei poveri. Non vengono in Italia per distruggerle “la Torre di Pisa o di Giotto”, ma perché qui ci sono soldi. E perché sono poveri, malgrado abbiano più petrolio di noi? Domanda interessante. È colpa del Corano? No, non credo. È più probabilmente responsabilità di classi dirigenti corrotte e strategie geopolitiche spregiudicate. I Talebani, oltre a essere fanatici religiosi, sono raffinatori e commercianti di droga, un bene di consumo soprattutto in occidente. I Talebani hanno guadagnato il potere in Afghanistan anche grazie all’appoggio degli “iuessei”. Questi sono fatti. Si leggono sui giornali. Quelli seri.

11/9, Berlusconi, giornalisti, Oriana Fallaci, scontro di civiltà

La civiltà dei brontoloni (e i suoi amici)

Va bene, se ne avessimo mai avuto il dubbio ora lo sappiamo: viviamo in un Paese di irresponsabili.

Siamo la sesta o la settima potenza mondiale, siamo membri NATO e mandiamo i nostri rappresentati alle cene del G8. Siamo anche un plausibile obiettivo del più forsennato terrorismo islamico. Ci si aspetterebbe dai nostri rappresentanti, dai nostri intellettuali, un invito all’unità e alla calma. Parole rassicuranti, che magari non rassicurano nessuno, ma sono necessarie in momenti come questi.

E invece no. Il nostro Presidente del Consiglio coglie l’occasione per lanciare la guerra delle civiltà, e nel frattempo si adopera per far votare in Parlamento una normativa sulle rogatorie internazionali che è come un invito a tutti i terroristi del mondo a venire a riciclare denaro in Italia.
Certo, la stessa normativa annulla probabilmente le prove di qualche processo che vede imputato lo stesso Presidente o alcuni suoi colleghi di Partito e Azienda – ma questa è solo una “singolare coincidenza”, no?

Tutto questo in una settimana in cui il Parlamento, forse, dovrebbe esser chiuso (non si legifera la settimana prima di un referendum).
E gli italiani? Il ‘popolo’? Una volta si chiamava ‘maggioranza silenziosa’. Una maggioranza vagamente brontolona, che oggi può sfogarsi ad alta voce sul sito di Forza Italia: dobbiamo vergognarci di essere occidentali? (Vedi anche qui).
Di questa maggioranza (che non sempre brilla per dialettica e competenze) Berlusconi è corso a farsi scudo dopo aver gettato il sasso. “In fondo”, dice lui, “ho detto quello che pensano tutti”. E la maggioranza, in coro: “finalmente Uno che ha il coraggio di dire quello che pensiamo tutti”.

Finiti i tempi in cui ci aspettavamo dai nostri rappresentanti democratici qualche cosa in più. Li volevamo più preparati di noi, più saggi, più preparati… in una parola: più responsabili.
Berlusconi no. Lui è proprio come noi: se siamo irresponsabili, perché lui dovrebbe essere da meno? Se tutti noi cerchiamo di fare i furbi coi nostri risparmi, perché non dovrebbe averlo fatto anche lui? Se un magrebino che spaccia fumo sotto casa nostra ci dà fastidio, perché non dovrebbe infastidire anche lui? Siamo nella più perfetta democrazia.

Che altro fa la maggioranza brontolona, insofferente, irresponsabile? Va in copisteria a fotocopiarsi l’articolo fiume di Oriana Fallaci, dove finalmente un intellettuale italiano ha il coraggio di dire a chiare parole Quello Che Tutti Pensano: che i musulmani sono sporchi, incivili e puzzolenti. Tutti, da Arafat al mio vicino di casa.

Ce ne ha messo, il Corriere, per trovare un intellettuale disposto a un’operazione di questo genere. Ha dovuto rianimare un’ex corrispondente di guerra piuttosto rintronata dagli anni e in evidente – e imbarazzante – stato confusionale. Le ha dato tutto lo spazio che ha ritenuto giusto con un’operazione sfacciata, cinica, alla Ciprì & Maresco: l’idiota in prima pagina. Non ci ha risparmiato gli insulti, le reiterazioni che qualsiasi editor avrebbe soppresso, per il bene nostro e suo. No.

Vergogna, signori del Corriere. Se avete fiutato l’aria e volete arruolarvi alla nuova Crociata, fate pure: non siete più irresponsabili di tanti. Ma fatelo a viso aperto, con le vostre armate ordinarie: non c’è un Panebianco, un Sartori disposto a dire a chiare parole quanto schifo ci fa l’Islam? Dovete mettere in piazza un’anziana signora con tutti i suoi problemi? Vergogna.

Io personalmente ho la mia teoria sulla parola civiltà: le civiltà non esistono. Di sicuro non oggi, e chi ne parla è un ignorante. Nei prossimi giorni cercherò di dimostrarlo (virus permettendo).
Però c’è un altro uso della parola: ‘civiltà’: è anche l’arte di stare al mondo, in maniera educata e responsabile. Di questa educazione e di questa civiltà ci sono ben poche tracce negli ultimi discorsi di Berlusconi, ancor meno nei deliri della signora Fallaci, nessuno nell’atteggiamento del direttore del Corriere, che ha mandato la povera signora a schiantarsi sull’opinione pubblica come un kamikaze. Veramente, veramente incivile.