anglistica, Beppe Grillo, ho una teoria

Lord Grillo ha detto stop

C’è chi dice che siamo alla barbarie. C’è chi ribatte che ci siamo sempre stati. Una delle tendenze più interessanti del blablà mediatico-parlamentare degli ultimi giorni è il tentativo di trovare antecedenti nobili alle scemenze che diciamo o facciamo: ad esempio “Boia chi molla” dovrebbe cambiare del tutto sapore se invece di essere stata pronunciato da un qualunque fascista fosse un motto della Repubblica Partenopea del 1799 – anche se probabilmente non è vero. Il turpiloquio in parlamento diventa accettabile se si riesce a dimostrare che anche Sandro Pertini ha chiamato ai suoi tempi “carogna” e “porco” un presidente di Senato: e tuttavia la fondazione che porta il suo nome nega che sia successo… ma Vito Crimi conferma di avere trovato la citazione in un libro di parolacce parlamentari. Nel frattempo Beppe Grillo è già oltre: ieri salutava i lettori nella sua homepage con un discorso del… 20 aprile 1653. È la celebre sfuriata con cui Oliver Cromwell sciolse quel che restava del parlamento inglese. Direttamente dal sito di Beppe, un documento sempre attuale:

“È tempo per me di fare qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo fa: mettere fine alla vostra permanenza in questo posto, che avete disonorato disprezzandone tutte le virtù e profanato con ogni vizio; siete un gruppo fazioso, nemici del buon governo, banda di miserabili mercenari; scambiereste il vostro Paese con Esaù per un piatto di lenticchie; come Giuda, tradireste il vostro Dio per pochi spiccioli. Avete conservato almeno una virtù? C’è almeno un vizio che non avete preso? Il mio cavallo crede più di voi; l’oro è il vostro Dio; chi fra voi non baratterebbe la propria coscienza in cambio di soldi? È rimasto qualcuno a cui almeno interessa il bene del Commonwealth? Voi, sporche prostitute, non avete forse profanato questo sacro luogo, trasformato il tempio del Signore in una tana di lupi con immorali principi e atti malvagi? Siete diventati intollerabilmente odiosi per un’intera nazione; il popolo vi aveva scelto per riparare le ingiustizie, siete voi ora l’ingiustizia! Basta! Portate via la vostra chincaglieria luccicante e chiudete le porte a chiave. In nome di Dio, andatevene!”

Come quasi tutti i discorsi memorabili, è una ricostruzione a posteriori: non esistono trascrizioni, e a detta dei testimoni, Cromwell parlava a braccio. Secondo alcuni storici fu persino meno diplomatico di così: definì Henry Vane il Giovane un ciarlatano (“jugler”), Henry Martin e Sir Peter Wentworth due magnaccia (“whoremasters”), Thomas Chaloner un ubriacone “drunkard”. Non siamo ai livelli dello pseudo-Pertini, ma è pur sempre l’Inghilterra della rivoluzione puritana.

Peraltro a quel punto Cromwell avrebbe potuto dire o fare quel che voleva: i parlamentari stavano davvero lasciando i loro seggi, non perché colpiti al cuore dalle furenti parole del Beppegrillo del Seicento, (continua sull’Unità, H1t#217ma perché nel momento in cui Cromwell si era alzato per interrompere la seduta un plotone di moschettieri era entrato nella sala e li stava circondando. In effetti quella che può sembrare la nobile tirata di un cittadino oppresso da un parlamento corrotto e impresentabile, è viceversa il primo proclama di un dittatore militare insofferente nei confronti di un’assemblea che aveva già purgato l’assemblea di metà degli eletti, e che ancora non riusciva a controllare. Henry Vane stava per far passare una riforma elettorale che avrebbe ridisegnato in modo razionale i distretti e avrebbe reso possibile una consultazione realmente repubblicana. Cromwell non sembrava interessato (“Henry Vane, Henry Vane! Dio mi liberi da Henry Vane!”): irruppe nel parlamento coi moschettieri e invitò i rappresentanti a lasciare il posto a “uomini più onesti”.

Gli “uomini più onesti” si riunirono il quattro luglio. Non ci fu nemmeno bisogno di elezioni: ogni congregazione religiosa mandò una lista di uomini di fiducia al Consiglio di Stato, che si riservò la facoltà di sceglierli. Tra loro c’erano anche i Cinque Corone, o Quintomonarchisti, una corrente fondamentalista che riteneva l’apocalisse imminente. Gesù sarebbe tornato nel 1666, ed era necessario fargli trovare un’Inghilterra perfettamente cristiana. Cromwell, che si riteneva in contatto diretto con Dio, non era del tutto insensibile al messaggio dei quintomonarchisti (ma forse semplicemente si barcamenava tra le correnti come tutti i politici), e salutò l’alba del nuovo parlamento come il “giorno del potere di Gesù Cristo”. Tempo tre mesi e anche questo parlamento di invasati gli venne comunque a noia: tanto da fargli ammettere in privato che ai pazzi di adesso preferiva i servi di prima. Comunque riusciva a manovrarli quanto bastava perché fossero loro stessi a implorarlo di scioglierli: cosa che fece in dicembre; e il Commonwealth inglese finì lì. In italiano suona come “bene comune”; i latini la chiamavano Res Publica. Cromwell era indeciso se farsi incoronare re, e succedere a Carlo I a cui aveva fatto tagliare la testa nel 1649. Un brutto precedente. Alla fine si contentò della carica di Lord Protettore a vita. Convocò e sciolse altri tre parlamenti, e morì cinque anni più tardi: non prima di aver nominato successore il suo primogenito incapace. A quel punto, se doveva essere monarchia, tanto valeva tenersi l’originale (purché fornisse precise garanzie): nel 1660, sette anni dopo il famoso discorso, Londra salutava il ritorno del sovrano legittimo, Carlo II. Costui per vendicare il padre si contentò di alcune teste, tra le quali quella del povero Henry Vale; anche Oliver Cromwell fu decapitato post mortem. Nel 1666 Gesù Cristo non si fece vedere; in compenso a Londra ci fu la peste e il Grande Incendio.
Tutto questo non è che abbia molto a che vedere con Beppe Grillo; lui ha solo citato un brano famoso, copiato e incollato su internet milioni di volte; presente in centinaia di siti e blog diversi, in centinaia di date diverse, ma quasi sempre salutato come “straordinariamente attuale”. Il fatto che lo abbia pronunciato un dittatore feroce, l’imperialista che estese il dominio inglese su Scozia e Irlanda, è a portata di clic; e forse dovrebbe anche far parte del bagaglio culturale di ogni lettore italiano di media cultura. D’altro canto non ha veramente importanza chi fosse e perché parlasse così. Era arrabbiato; ce l’aveva con un parlamento che non si sbrigava a fare quel che voleva lui, ovvero sciogliersi: e questo è tutto quel che importa sapere. Ci vediamo nel 1666. http://leonardo.blogspot.com
anglistica, Bibbia, santi, traduzioni

Perdere la testa per una ragazzina

Paperina questa cose non le fa più da un pezzo.

29 agosto – San Giovanni decollato (1-30 ca.)

Giovanni Battista è l’unico santo di cui festeggiamo sia il compleanno (24 giugno) che il martirio (oggi). Io per la verità da bambino pensavo che il Giovanni Decollato fosse un santo omonimo che avevano ammazzato buttandolo dalla finestra.

Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima: la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le “fonti” sono i vangeli e l’ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest’ultimo dovrebbe essere un po’ più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo – così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz’altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po’ casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come “un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo”. Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.

Un’eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.

Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l’ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un’ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. “Non ti è lecito tenerla”. E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po’ incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L’endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l’Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell’imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.

Miley Cirus scostati, questo è un lavoro per Brigid Mary Bazlen.
Miley Cirus, scostati,
questo è un lavoro per Brigid M. Bazlen.

Però è difficile fidarsi di Marco e Matteo. Sono pur sempre vangeli, ovvero resoconti della vita di Gesù. È normale che cerchino di presentare Giovanni come il precursore di Gesù, e non come il suo rivale. Eppure è possibile persino tra le righe degli evangelisti immaginare almeno un momento in cui i battezzati dovettero scegliere: con l’uno o con l’altro. O Giovanni o Gesù. Non dicevano proprio le stesse cose. I discepoli di Giovanni digiunavano, quelli di Gesù no; Giovanni si lascia andare a commenti pericolosi sulla famiglia reale, Gesù cerca di non fare politica (ma poi finisce comunque nei guai). Forse Giovanni era stato il maestro di Gesù (è lui a battezzarlo), ma poi quest’ultimo aveva preso una strada sua, e l’incarcerazione di Giovanni lo mise nella condizione di ereditare un po’ del credito del predicatore rivale, che davvero in questo senso gli aveva aperto la strada. Eppure anche in carcere Giovanni continuò a diffidare del cugino (Luca li considera cugini: ma in nessun altro testo sembrano manifestare alcun tipo di familiarità), mandando i suoi discepoli a chiedere a Gesù se davvero è il Messia. Gesù non si limita a rispondere “sì”, ma invita i giovanniani a verificare di persona: come si riconosce un Messia? Cosa dice il profeta Isaia al riguardo? I ciechi recuperano la vista? Fatto. Gli storpi camminano? Fatto. I lebbrosi guariscono? Questo a dire il vero in Isaia non c’è, ma crepi l’avarizia. Eccetera eccetera: i sordi odono, i morti resuscitano…”

“E gli schiavi?”
“Eh?”
(continua…)

anglistica, santi

Tell me More

Non pensarci troppo, amico Thomas (è il film del 1966, tratto dal dramma di Bolt).
6 luglio – Thomas More (1478-1535), politico, utopista, persecutore dei protestanti, perseguitato dagli anglicani.

The Sixteenth Century is the Century of the Common Man. (He puts down the jug) Like all the other centuries. And that’s my proposition. (Robert Bolt, A Man For All Seasons, I).

Thomas More, a dire il vero, la Chiesa cattolica lo festeggia il 22 giugno, che è la data in cui fu tagliata la testa al suo amico, il vescovo John Fisher. Per disfarsi della sua Thomas dovette aspettare il 6 luglio. In questa giornata, dal 1980, lo celebrano gli anglicani, con sinistra ironia: fu proprio il fondatore della Chiesa anglicana, Enrico VIII, a chiedere e ottenere da una corte compiacente la testa di Fisher e di More: e proprio perché i due rifiutavano di riconoscerlo come un’autorità religiosa superiore al papa di Roma. Vi immaginate una cosa del genere nel calendario cattolico romano? Non so, un 17 febbraio festa di San Giordano Bruno martire?

Ma gli inglesi sono così. Sanno ammirare anche gli avversari – poi, se serve, li ammazzano. Però un posto nel calendario lo tengono anche per loro. Fair play. Thomas More visse sulla sua pelle le contraddizioni del Rinascimento, e ne morì: dopo aver teorizzato nella sua Utopia la tolleranza religiosa (ma anche la giornata lavorativa di sei ore, il comunismo, la decrescita felice, il controllo delle nascite, l’eutanasia) quando in Inghilterra cominciarono ad arrivare i protestanti veri fece di tutto, da Cancelliere del Re, per reprimerli, bruciandone i libri quando non riusciva a bruciarne i diffusori. È una contraddizione che fa discutere da cinque secoli. Cosa trasformò More da umanista a inquisitore? Stava invecchiando? O è il potere che ti logora, nel momento in cui lo erediti e all’improvviso lo status quo non ti sembra poi così male? Tante chiavi di lettura sono state proposte, ma quella che aggiungo qui è sicuramente inedita, perché coinvolge Beppe Grillo. Voi cosa ne pensate di Beppe Grillo?

quattro stagioni
Se Thomas More fosse una pizza, sarebbe…
AH AH AH CHE SPASSO LA RUBRICA DEI SANTI
DEL POST.

Io fino a qualche anno fa non lo trovavo così male. Non avrei mai votato per lui, ma il fatto che riempisse le piazza non mi dava fastidio. Mi sembrava che desse voce a gente che non ne aveva, magari in modo un po’ volgare (“Vaffanculo!”), ma in certi casi necessario. Poi però Grillo ha fatto il venti per cento, e ho cambiato idea. Ha stravolto l’assetto politico – il che avrebbe potuto essere un bene – ma alla fine il nuovo equilibrio che ne è derivato è molto meno decente del precedente. Ha fatto molto, molto più danno che utile. E mi ha trasformato in una persona peggiore. Sul serio. Sono diventato di destra, grazie a Grillo. Non sopporto più i movimenti di piazza, da quando li organizza Grillo. La “democrazia diretta”, che sulla carta e soprattutto sul web poteva sembrarmi un’idea interessante, da quando la professa Grillo mi pare una favola per grulli. Non credo più nell’attacco alla Casta, da quando lo dirige Grillo. La politica come volontariato: qualche anno fa ci avrei creduto, ma Grillo coi suoi scontrini e i suoi assegnoni è riuscito a convincermi che i politici vanno pagati bene, anzi benissimo. Persino i pannelli solari comincio a guardarli con insofferenza – insomma, un sacco di cose (quasi tutte “di sinistra”) che prima di Grillo esistevano soltanto sul piano teorico, quasi utopie, da quando c’è Grillo sono diventate proposte pratiche, il più delle volte pasticci inguardabili. E forse ho capito cosa successe a Thomas More quando conobbe Lutero. (Continua…)

Americana, anglistica, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, provincia

Pimp My Francis Scott Fitzgerald

Ciao, sono tornato. Cioè, non me ne sono mai
veramente andato via

Il grande Gatsby 3d (Baz Luhrmann, 2013)

Giulietta Capuleti, se proprio volete la verità, non si è mica uccisa. Nel director’s cut inedito ha dato retta ai genitori, si è sposata il suo pezzo grosso di Verona Beach e adesso ha tre bambini, un conto offshore e una terza abbondante mastoplatica – sta già cominciando a stirarsi le rughe. Anche Romeo non si è ucciso, ha solo messo un po’ di chili. Ha fatto la guerra, il giro del mondo in barca a vela, un semestre a Oxford e tante altre cose, non tutte legali. Ma è ancora lui, è il Romeo di Baz Luhrmann: si innamora al volo, e ogni volta è per sempre. Tanto carino e ombroso, eppur gioviale e alla mano, però ogni tanto gli scappa la pazienza e capisci che potrebbe ammazzare qualcuno. Ha sicuramente ammazzato qualcuno. Probabilmente il modo migliore per apprezzare il Grande Gatsby 3D è prenderlo per il sequel di quel vecchio Romeo+Juliet che ci fece conoscere sia Luhrmann che Di Caprio. Eravamo tutti molto più giovani, tranne il testo di Shakespeare. Quello era già stato condito in tutte le salse, Bernstein ci aveva già musicato West Side Story, cosa ci si poteva aspettare di più? Lo abbiamo scoperto allora, cosa aspettarci da Luhrmann: più tutto. Il cielo stellato a Luhrmann non basta, lui nel firmamento come minimo ci vuole la nebulosa di Andromeda ingrandita un milione di volte. Non c’è un pedale che abbia mai premuto con cautela, lui sa solo schiacciare a tavoletta: più luce, più colore, più melodramma, più baraccone, più canzoni, più buffoneria, più divismo, ma anche più aderenza al testo. Luhrmann lo tradiva meno di Zeffirelli, con la sua Verona toscaneggiante e le sue calzamaglie improbabili. Perché in fondo poi cos’è Romeo e Giulietta se non una storia di tamarri che si sfottono fino alle estreme conseguenze, e allora forse è giusto affidarsi a Luhrmann che è il più tamarro di tutti. Non che Zeffirelli sia la damina inglese che vorrebbe essere, eh; ma Luhrmann è di più. Più grosso. Più luccicante, più rumoroso. Luhrmann è uno che ti pimpa di brutto, Baz, mi è piaciuto come hai pimpato Shakespeare, perché non ti cimenti con qualche capolavoro della letteratura americana del Novecento? Non tirarti indietro, Baz, pimpami Francis Scott Fitzgerald!

Sempre il solito, dolce sensibile e ogni tanto
ammazza qualcuno.

Il Grande Gatsby è un film che va visto in 3d, mai mi sarei immaginato di scrivere una cosa del genere. Ma forse non avevo mai visto un vero 3d. Quello di Luhrmann fa impallidire Iron Man: niente oggetti lanciati al pubblico, ma una girandola di fondali di cartone – all’inizio sembra un film di animazione – come un libro pop-up. Il Grande Gatsby 3d è, in effetti, un libro pop-up, come quelli che si comprano ai bambini che non sanno ancora leggere per stupirli con i personaggi di cartone che spuntano fuori dalla pagina appena la apri. Fitzgerald scrive: “automobile”, Luhrmann te la fa spuntare dallo schermo, lucida come un giocattolino appena uscito dal negozio. Scrive “luce verde”, e lui ti mostra la luce verde, cinque, sei, venticinque volte, nessun bambino analfabeta deve perdersi la pregnanza della metafora. Anche l’insegna con gli occhiali, si è capito cosa rappresentano gli occhiali? Volete che ve la mostri un’altra volta? Non c’è problema (continua su +eventi!)

anglistica, santi

L’isola deserpizzata


San Patrizio (385-481) – Patrono d’Irlanda, scacciatore di serpenti.

In Irlanda non ci sono serpenti. L’unico è l’orbettino, che in realtà non è un vero serpente, è una lucertola che col tempo ha perso le zampe – come potrebbe succedervi se non muovete il culo dal divano per alcuni milioni di anni. E anche lui comunque non era stato avvistato fino al 1970, secondo gli esperti è stato portato qui via nave. Non si vede in che altro modo i serpenti potrebbero arrivare in Irlanda dopo l’ultima glaciazione, del resto. Però in Scozia ci sono, in Irlanda no: tra le due terre nel punto più stretto ci sono appena 35 km di mare. Per cui secondo alcuni è stato San Patrizio, che i serpenti avevano infastidito mentre meditava. Posò il bastone a terra ed essi strisciarono in mare ad annegarsi (o a evolversi in serpenti di mare).

Secondo alcuni la leggenda parla di serpenti ma allude ai druidi: Patrizio, che forse si chiamava Palladio (o forse erano due evangelizzatori diversi, non si saprà mai con certezza) li cacciò dall’isola con relativa facilità. L’Irlanda, da quel che ho capito, è l’unica terra cattolica senza martiri – anche se alcuni, per darsi un contegno, sostengono che Patrizio fu martirizzato (almeno lui) il 17 marzo. Nella sua Confessione, una delle cose più noiose che ho letto (e io leggo storie di Santi, rendetevi conto), Patrizio ammette di avere avuto qualche grana coi locali. A un certo punto lo fermarono in un bosco.

“Quel giorno avevano una gran voglia di uccidermi, “ma non era ancora venuto il tempo” [cf. Giona 7,20-30], e tutto ciò che ci trovarono nei bagagli ce lo presero, e mi incatenarono perfino, ma dopo quattordici giorni il Signore mi liberò dalle loro mani e tutto ciò che era nostro ci fu restituito, «per opera di Dio» [1 Pt 2,13] e di «amici fidati»”.

Patrizio si esprime copia-incollando citazioni bibliche. Anche Agostino, suo contemporaneo, fa così; era lo stile del tempo; però Agostino era anche un grande scrittore, mentre Patrizio, per sua ammissione, un “peccator rusticissimus”, uno che a scrivere non ha mai veramente imparato, ma non essendo un italiano del XXI secolo la cosa non lo inorgogliva, anzi, lo riempiva di vergogna. Senz’altro ausilio che qualche vecchio tomo della Vulgata da usare anche come vocabolario, Patrizio non è che riesca a spiegarsi molto bene. Potrebbe trattarsi di una persecuzione ordita da qualche druido invidioso del successo dell’evangelizzatore, ma anche di un banalissimo sequestro di persona: gli “amici fidati” potrebbero essere guerrieri cristiani pronti a liberare il loro leader, ma anche più prosaicamente i compagni di Patrizio venuti a pagare un riscatto. Patrizio era ricco, forse il segreto del suo successo con le anime fu tutto qui: evangelizzò l’Irlanda comprandosela. Fu un ottimo affare per tutti, non gli costò neppure tantissimo. Quanto? Per spiegarcelo, Patrizio usa un’unità di misura che ci dice molte cose, la “persona”. Coi soldi spesi per beneficiare le autorità delle varie regioni, nelle frequenti visite, Patrizio riteneva

di aver distribuito loro una somma non inferiore al prezzo di quindici persone, per far sì che possiate godere di me e io sempre godere» di voi «in Dio» [cf. Lettera di San Paolo a Filemone]..


I vecchi romanzieri russi tradurrebbero “quindici anime”, noi oggi diciamo “15 schiavi” e inorridiamo, ma era il quinto secolo, la compravendita di esseri umani era una cosa normalissima; era successo allo stesso Patrizio (al secolo Maewyin Succat, dicono) di essere rapito a 16 anni e trattenuto in schiavitù per sei. Ecco perché, malgrado fosse di famiglia benestante e cattolica (prete il nonno, diacono il padre) non ebbe un’istruzione all’altezza: negli anni in cui i compagni ci davano dentro col rosa rosae Maewyin pascolava ovini per il suo padrone in quell’isola dimenticata da tutti e quindi in teoria pure da Dio. Lui veniva dall’isola più grande, non si sa bene se dall’Inghilterra o dalla Scozia, ammesso che la divisione avesse un senso ai suoi tempi. È il tempo degli Scoti e dei Pitti, quest’ultimi famosi per l’abitudine a dipingersi il corpo con disegni favolosi e forse anche qualche serpente annodato. Solo con le sue pecore, in quell’isola fuori dal mondo, Maewyn riscopre la fede nel Dio dei suoi padri, che fino a quel momento aveva snobbato. Cristo fu forse l’amico immaginario che lo aiutò a non impazzire – fino al giorno in cui lo condusse a una nave che faceva la traversata (continua… sul Post)

anglistica, cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo

Come Jackson ha ucciso il mio Tolkien (con tanto amore)

Giovedì è uscito Lo Hobbit: un viaggio inaspettato, di Peter Jackson. Jackson è il regista neozelandese che più o meno dieci anni fa è riuscito nell’impresa impossibile di trasformare in cinema Il Signore degli Anelli, la trilogia fantasy di J. R. R. Tolkien. Una cosa che o la ami o la odi, e se la odi hai già smesso di leggere alla seconda riga e quindi non c’è bisogno di spiegarti che Lo Hobbit è un romanzo che racconta fatti precedenti alla trilogia, scritto da Tolkien vent’anni prima in uno stile molto diverso. Per farla breve: mentre Il Signore degli Anelli è una saga finto-celtica composta a tavolino da un affermato professore di inglese medievale, Lo Hobbit è una favola scritta da un papà per i suoi bambini. Così, anche se alcuni personaggi sono gli stessi (il mago Gandalf, il mostriciattolo Gollum), il mondo in cui si muovono ha tutt’altra consistenza.

Mettiamola così: quando leggi lo Hobbit, a qualsiasi età, torni come un bambino davanti a un grande libro di fiabe con nani e draghi, e Gandalf ti sembra un grande mago onnipotente; se riapri Il Signore degli Anelli ridiventi per un attimo adolescente, ma sul serio: se non sei lesto a chiuderlo ti rispuntano i brufoli e coi brufoli si rifanno vive certe ossessioni da nerd come imparare l’alfabeto runico e la cronologia della Terza Era, mentre lo stesso Gandalf ti sembra un mago, sì, potentissimo, non c’è dubbio, però in certi tratti piuttosto discutibile, e poi cos’è questa storia che vuol sempre aver ragione lui, certe decisioni andrebbero prese all’unanimità, Occupy Terra di Mezzo! Sarebbe interessante verificare se Jackson, il cui profondo amore per Tolkien e le sue creature è fuori discussione, sia riuscito a rispettare questo approccio diverso: da quello che ho letto, e soprattutto dai trailer, mi pare di no. La semplice scelta di dividere lo Hobbit in tre parti, e di farne insomma una saga della stessa durata del Signore degli Anelli, mi sembra che tradisca il proposito di dare al pubblico, e soprattutto agli adolescenti brufolosi, ciò che gli adolescenti brufolosi vogliono, e cioè saghe, saghe, saghe. Però questi sono pregiudizi: per verificarli dovrei come minimo andare al cinema e dare un’occhiata, ma (il pezzo continua su +eventi! Sarà un grande 2013, almeno a Cuneo e provincia).

anglistica, musica

Now I’ve said too much

Perdendo religioni

Prometto che non vi annoierò – stavolta – con ricordi che sicuramente non sono più interessanti dei vostri. Colgo soltanto l’occasione per condividere un curioso fenomeno sul quale rifletto da tempo, senza aver mai trovato il coraggio di scriverci sopra tre o trecento righe. Ma oggi è un giorno particolare, è il primo giorno senza REM da trent’anni a questa parte, e i REM erano uno dei gruppi americani più popolari in Italia. Ora, mi dispiace dover sempre generalizzare; purtroppo non esistono statistiche e fonti attendibili per questo genere di dati, e così uno naviga a vista, pensando di galleggiare sulla contemporaneità, mentre magari ha in mente solo la sua classe di liceo. Però secondo voi qual è la canzone dei REM più famosa? La più programmata in radio? Quella – avete presente? – che più facilmente rischia di passare inosservata quando te la ritrovi in sottofondo su una pubblicità di pellicce in un canale privato, perché ormai è parte del paesaggio e ha perso ogni sapore, ogni referenzialità originale, come l’immagine della Gioconda su una tazza di caffè? Qual è quella canzone dei REM che nessuno ascolta più, perché ormai è veramente consumata dall’uso e dall’abuso, come Imagine dopo che l’adottarono i Tories della Thatcher; il pezzo che neanche sparandocelo in cuffia a massimo volume riusciremmo a sentire davvero, con quel groppo al gola e quella gioia di ballare storpi allo Spirity di Ponte Motta all’aria fresca delle tre del mattino, scusate, avevo detto niente ricordi? Qual è la canzone dei REM che conosciamo veramente tutti e non ascoltiamo più? Magari mi sbaglio.

Ma secondo me è Losing my religion.

E non ha senso. Cioè, è veramente un mistero. Io non sono un fanatico dei REM, massimo rispetto, ma li ho sempre trovati un po’ legnosi, americani: professionali ma un po’ troppo seriali, in trent’anni devono avere fatto il doppio di album degli U2. Che in tutto questo tempo abbiano scritto centinaia di volte più o meno la stessa canzone lo trovavo inevitabile, era già un problema con le prime cassettine che mi facevo prestare da Gianluca, ma è un po’ come prendersela perché Andy Wharol aveva una fissa con le conserve. In realtà ho proprio smesso di seguirli, non saprei dire quando, più o meno una trentina di videoclip fa. Però sono pronto a mettere una mano sul fuoco sul fatto che abbiano scritto quaranta, cinquanta canzoni migliori di Losing my religion, prima e dopo Losing my religion. E più orecchiabili, più (non so se si dica ancora) “commerciali”. Perché LMR non era neanche così commerciale: un pezzo in minore con un mandolino e senza un vero ritornello, io nei panni del discografico mi sarei preoccupato.

Non so se abbia venduto più di Everybody Hurts. Non so se sia passata in radio più volte di Orange Crush. Di sicuro Ligabue non ha sentito l’impellente necessità di coverizzarla – anche se sono fermamente convinto che non sarebbe stato lo stesso Ligabue, senza LMR. E sono abbastanza sicuro di aver ascoltato Michael Stipe cantare That’s me in the spotlight come sottofondo di qualche spogliarello di telefonista erotica, in un qualsiasi momento dei profondi anni ’90. Quando già LMR era stata masticata e rimasticata fino a perdere ogni ricordo di sapore. Va bene. Ma perché proprio Losing My Religion? In quel periodo i REM ci stavano provando sul serio, a diventare mainstream. Avevano scritto cose talmente orecchiabili da risultare scandalose per i fan del tempo (molto più refrattari ai compromessi di quelli di adesso). Avevano fatto Stand, che per capirci è un giro di do. Nello stesso disco di LMR era stata sparsa abbondante melassa, in particolare in quel duetto imbarazzante con la cantante dei B52’s, (che poi in realtà a me è sempre piaciuto, ammazzatemi) Shiny Happy People. Tutte quelle hit potenziali restarono potenziali, e i REM sfondarono con un brano in la minore quasi senza ritornello, registrato in un giorno, impreziosito da un mandolino scolastico (per ammissione di Peter Buck, che stava ancora imparando a tenerlo in mano), e io ancora oggi mi domando il perché. Fu il video immaginifico e un po’ pretenzioso? In realtà era una fase di stanca per i clip, qui da noi: Dee Jay Television aveva chiuso, Videomusic era in crisi e MTV ancora al di là dell’orizzonte. E allora, insomma, cos’è che ci prese così tanto? Non ci crederete mai, ma io ho una teoria.

La prendo un po’ alla lontana. A voi piace cantare? Anche le canzoni in inglese? A me piace. Certo, c’è sempre il problema delle parole. Specie con le canzoni della nostra prima adolescenza, che magari amiamo di più, ma a quel tempo non sapevamo l’inglese e quindi non le abbiamo veramente imparate. Se le ripeschiamo dalla memoria profonda, ci vengono in mente costruzioni insensate, parole inventate, tutto un borborigmo che riproduceva i suoni che sentivamo. Donseva preffor minau: sevi fordemor ninaffe.

Più in alto, nel carotaggio della nostra memoria, troviamo le canzoni che abbiamo amato in un periodo relativamente più recente, quando eravamo già abbastanza grandi per conoscere un po’ di inglese, ma avevamo ancora amore e memoria da investire sulle canzoni. Quelle le cantiamo quasi senza vergogna. Magari non ricordiamo tutte le parole; sicuramente ogni tanto prendiamo cantonate imbarazzanti ma chissenefrega, mica passa la Soncini. Ecco, secondo voi qual è la prima di queste canzoni? Ognuno ovviamente ha la sua. Young teacher, the subject of schoolgirl fantasy. One man come in the name of love. Relax, don’t do it. I was born in the USA.

Però, se allarghiamo il campione, se sovrapponiamo migliaia di esperienze, se cerchiamo di individuare la prima canzone in lingua inglese che abbiamo cantato in coro, assieme, conoscendo le parole o credendo di conoscerle, anche equivocando il significato, forse, chissà, scopriremmo che questa canzone è Losing My Religion. Che non è orecchiabile, non è divertente, non è neanche particolarmente commovente: è poco più di una lagna, ma ha un testo semplice che è messo in evidenza.

Ovviamente è un testo che non abbiamo mai davvero capito. Per anni siamo stati convinti che parlasse di religione. Ecco, quel che mi affascina del successo italiano (ma anche mondiale, forse) di LMR, è che è basato sul fraintendimento. “Losing my religion” è un’espressione che a quanto pare significa perdere la calma, la ragione, ma noi non lo sapevamo (e il video faceva tutto il possibile per mantenere l’equivoco). Eravamo sicuri che Stipe avesse perso la sua religione, che ce lo stesse raccontando, e la cosa ci risuonava dentro, toccava le corde giuste. Sono convinto che Ligabue lo abbia capito, anche solo a livello preconscio: non si doveva per forza cantare di birrerie e amori sfortunati, anche la religione poteva vendere dischi. Bastava affrontarla in controluce, come una cosa che bisogna lasciarsi alle spalle per diventare grandi. Stavamo appunto diventando grandi e avevamo sempre meno voglia di alzarci presto alla domenica: volevamo perdere la nostra religione e Stipe ci mostrava una via elegante. Con qualche etto di eleganza in meno, cantando Libera nos a malo, tre mesi dopo Ligabue avrebbe inaugurato il suo filone anti-Dio, abbastanza prolifico ma del tutto assente dal primo disco. Magari era solo Zeitgeist, ogni tanto ci sono periodi in cui tutti si mettono a cantare che Dio è morto. Poi passa. Ma no, a noi non è mai veramente passata. Losing my religion non è mai stata una gran canzone. Non era la più bella di quel disco, né di quel gruppo, né di quell’anno. Ma forse è stata la prima canzone che abbiamo avuto l’impressione di capire, senza bisogno di consultare le infedeli edizioni Arcana. E non importa che in realtà non avessimo capito nulla, e che quella risata misteriosa non provenisse nelle intenzioni dell’autore da un Dio distratto e indifferente. L’importante è che abbiamo avuto l’impressione di farcela, di capire: forse potevamo davvero imparare quella lingua arcana e maledetta che a scuola dopo anni di dialoghetti ci era rimasta intimamente aliena. Varrebbe la pena di essere riconoscenti a Stipe e soci anche solo per questo.

anglistica, ho una teoria, Veltroni

Walter lo scrivano

Insomma, Veltroni ha scritto un’altra lettera alla Repubblica. E voi non l’avete letta. E io invece sì. E indovinate un po’, cita Olof Palme, il Sessantotto, Berlinguer e… no, stranamente Don Milani stavolta non c’è. C’è però un racconto di Herman Melville, indovinate quale dai, indovinate.

Complimenti. Avete vinto un link a Cosa c’è che non va con Veltroni? (H1t#88), che si legge e si commenta sull’Unita.it

Ma Walter Veltroni se lo fila più nessuno? A parte i massimi quotidiani nazionali, che continuano impietosi a pubblicare tutte le sue lunghe lettere, come Repubblica oggi, ormai senza neanche mettere a posto le virgole e – quel che è peggio – senza moderare i commenti. Col risultato che tutti tranne forse Veltroni si possono aspettare, ovvero che in capo a mezza giornata l’ennesima orazione riformista si ritrovi sprofondata in un mare di pernacchie, di “vattene in Africa” ormai stucchevoli ma non del tutto campati in aria. D’accordo, la maggior parte dei lettori i commenti nemmeno li legge. Ma almeno Veltroni dovrebbe darci un’occhiata, dal momento che è da più di un annetto che sembra sondare il bacino di quotidiani e internet alla ricerca di uno spazio dove rilanciarsi: giusto per capire le dimensioni dei buchi nell’acqua che invece i suoi interventi producono.

Cosa c’è che non funziona nella comunicazione di Veltroni? Un po’ tutto, verrebbe da dire: perfino quegli spazi messi prima delle virgole, che nessun redattore professionista lascerebbe in un testo da pubblicare su un quotidiano, e che a livello subliminale suggeriscono la solitudine di un uomo politico che un tempo aveva senz’altro uno staff che gli desse un’occhiata alla punteggiatura, e oggi evidentemente no. Il tono paternalistico per cui ogni tensione mondiale – dalla crisi dei mercati europei agli scontri di Londra – deve sempre essere causato dall’egoismo di un monello globale che non sa dire “noi”, che sa dire solo “no”, che insomma non vuole ascoltare il predicozzo del buon Walter che gli spiega di fare il bravo e pensare agli altri: un approccio non proprio ideale per il lettore di quotidiano, che assume un aspetto suicida quando Veltroni cerca di trasferirlo in un ambiente radicalmente egalitario come Facebook, dove il suo accorato invito ai pacifisti italiani a essere bravi e coerenti e scendere in piazza contro Gheddafi ottenne meno apprezzamenti della risposta di uno sfigato chiunque (il sottoscritto). Che altro? L’irriducibile pulsione al ma-anche, per cui un pezzo che sembra salvare, degli ultimi vent’anni di centrosinistra, solo l’esperienza di Prodi, deve comunque concludersi con un inno ai patriarchi del PCI, sia mai che si possa fondare la sinistra di domani senza ricordarsi di onorare Occhetto e Berlinguer…
Ma soprattutto, una certa ripetitività, che sconfina nel comico involontario, per cui dopo averne lette una mezza dozzina ormai la prossima letterina veltroniana potremmo scriverla noi: è sufficiente ricordarsi, in presenza di qualsiasi rivolgimento sociale, di citare il Sessantotto, giusto per ribadire che comunque era diverso, perché allora si voleva “cambiare il mondo”… anche se poi alcuni si sbagliarono e diventarono terroristi cattivi, insomma, tutta una Storia d’Italia ridotta ai minimi termini di una fiction Rai che a questo punto credo irriti per primo chi il Sessantotto lo ha vissuto davvero, e si ricorda che le cose erano un filo più complesse. Invece, quando si parla di riformismo, bisogna sempre ricordarsi di citare Olof Palme, come se poi l’esempio di questo Palme potesse risultare utile al lettore medio. Il che non è, insomma, qualcuno prima o poi dovrebbe spiegare a Veltroni che la maggior parte dei lettori del suo bacino di riferimento non si ricorda chi sia, il buon Palme, se non un pallino privato di Walter Veltroni.

Il fatto è che certe ripetizioni veltroniane ormai più che distrazioni sembrano ossessioni, non facilmente spiegabili e persino un po’ inquietanti. Faccio un altro esempio: ogni volta che qualcuno, nella sua prosa, dice “no”, Veltroni sembra costretto a soggiungere che lo fa “come Bartleby lo scrivano”, il protagonista di quel famoso racconto di Melville che poi, secondo me, in Italia così famoso non è. Voglio dire che se parli di Renzo e Lucia, su un quotidiano, tutti i tuoi lettori non faticheranno a ricordarsi che si tratta di due fidanzati con qualche difficoltà a concludere; se parli di metamorfosi kafkiana, alla maggior parte non sfuggirà che si tratta dello strano caso di un uomo che si risveglia trasformato in scarafaggio. Ma se parli di Bartleby, ecco, a quel punto non credo che la maggioranza abbia ben chiaro a cosa ti stai riferendo. A questo punto di potrebbe ipotizzare che Veltroni stia cercando i suoi nuovi interlocutori tra gli appassionati di letteratura americana, o i fans di Baricco, che sono comunque un bacino cospicuo. Il fatto è che anche questi non disprezzabili conoscitori di Melville, ogni volta che Veltroni lo cita, non riescono comunque a capire dove voglia andare a parare.

Due anni fa per esempio per Veltroni Bartleby era D’Alema, perché diceva sempre di no. E già in quel caso c’era qualcosa di maldestro nel riferimento letterario: per quanto ci si sforzasse si faticava a immaginare i baffetti di D’Alema sul volto inespressivo dello scrivano che si lascia morire di inedia in prigione perché preferirebbe non mangiare. Nella lettera di oggi, per contro, il riferimento scatta davanti ai “pochi, coraggiosi, docenti italiani che si sottrassero al giuramento di fedeltà al fascismo e risposero, come Bartleby lo scrivano ,”Preferirei di no””. Superfluo notare che non risposero proprio così. Ma anche stavolta, quel Bartleby esattamente cosa c’entra? Chiunque abbia letto il racconto sa che non si tratta di un eroe; tra i critici che si sono cimentati con l’enigma c’è chi lo considera un’incarnazione dell’alienazione, della depressione, perfino del blocco dello scrittore. Il modo in cui oppone il suo rifiuto prima al datore di lavoro, e poi progressivamente al mondo non sembra avere molto di politico; poi naturalmente la politica si può attaccare a qualsiasi cosa, ma l’impressione è che Veltroni più che operare dei riferimenti efficaci a opere letterarie condivise si impigli troppo spesso nelle reminiscenze private delle sue tante passioni (cinema jazz figurine romanzi).

Al punto che uno smette di pensare a cosa Veltroni vorrebbe dagli italiani per domandarsi cos’è che Veltroni nasconde, nella sua testa, sotto il feticcio di Bartleby. Forse un’irrazionale pulsione a restare nella sua posizione, come il copista nel suo studio su Wall Street, quando ormai il suo capo lo ha licenziato e persino l’azienda si è trasferita. Magari Veltroni non se ne rende conto, ma se c’è un Bartleby in Italia oggi, probabilmente è proprio quel personaggio che si ostina a ricopiare la storia del Sessantotto e degli anni di piombo, a dettare manifesti riformisti a destra e manca, a ringraziare Di Vittorio e Berlinguer. Fuori il più della gente lo ignora; chi ancora lo nota gli domanda con stanca malizia se non è il caso di andare in Africa. Lui evidentemente preferisce di no. http://leonardo.blogspot.com

anglistica, coccodrilli, tv

Non ci incarteremo il pesce

Beniamino Placido nella sua vita ha scritto moltissimo, come tutti i giornalisti del resto. Però a differenza di tante firme prestigiose del giornalismo italiano (a fine ’80 Placido era un’istituzione), non ci lascia molti libri. Se poi per “libro” s’intende “mattone cartonato con firma prestigiosa, da presentare nei talk e farci soldi soldi soldi”, Beniamino Placido non ci lascia proprio niente, e sì che avrebbe potuto: con poco sforzo e ottima resa. Invece no. I pochi libri pubblicati sono divertimenti – uno si chiama proprio così, “Tre divertimenti”, e riprende una serie di parodie che aveva buttato giù per l’inserto culturale di Repubblica. Cosucce a margine, perché Placido non si considerava uno scrittore di libri. I libri a volte restano, e forse lui di restare non aveva tutta questa voglia (che è una delle molle che ti spinge a firmare cartonati, o la Divina Commedia). Preferiva stare sul giornale, che oggi c’è e domani è buono per incartare il pesce. Immagine sua. Non saprei dire da dove l’ho presa (non ho una sola pagina di Placido in casa), ma è sua. Probabilmente il quaranta per cento di quello che butto fuori è roba sua.

Io comunque non sono del tutto d’accordo. Anche il giornalismo, si capisce, mica tutto, ma il buon giornalismo può durare. Oggi poi c’è l’archivio di Repubblica on line, e con un piccolo sforzo posso andare a trovare il primo pezzo di Placido che ho letto. Eccolo qui.
Potrebbe essere stato scritto ieri, o perlomeno fino a tre giorni fa, quando hanno rinnovato la convenzione alla sempre-in-punto-di-morte Radio Radicale. C’è una notazione di psicologia delle masse che sembra scritta apposta per descrivere Internet e i Social Network, salvo che era il 1986 e i radicali si erano limitati a liberare il microfono per qualche ora. C’è tutto Placido nel modo in cui è costruito il pezzo: lo vedi che guarda alla finestra, uffa, potrei andare a Radio Radicale, ma fa caldo… poi servono dieci lire per l’ascensore, ma dove le trovo dieci lire… un dettaglio di colore, le dieci lire, che tre capoversi dopo ricompare ed è diventato la metafora del valore della vita, del tutto e del niente, ma quanto era bravo Beniamino Placido? E quanto ci manca? A me, tantissimo.

Se n’è andato, senza neanche lasciarmi libri da leggere. Ma sul serio poteva pensare di sparire così? Di non aver lasciato ai suoi lettori segni indelebili, a vent’anni di distanza – insomma, Mister Trionfo dell’Oblio, spiegami questa: come faccio a ricordarmi ancora bene il titolo di un pezzo letto a tredici anni, su un pezzo di giornale che qualcuno mezz’ora dopo buttò via … che cos’è questo, come facciamo a chiamarlo ancora “giornalismo”? e allora cos’è, “letteratura”? Filosofia, poesia, sia quel che sia, signori eredi di Beniamino Placido, vi rincrescerebbe far pubblicare un’antologia di “A parer mio” in volume? Lo so che parla per lo più di trasmissioni dimenticate e personaggi evaporati, eppure sono disposto a scommettere che molte di quelle pagine funzionano ancora. Poi chissà, non è detto: quante volte abbiamo provato a rivedere un vecchio telefilm e siamo rimasti delusi. Però l’effetto che ci faceva aprire il giornale alla pagina spettacoli, e trovarci quel rettangolino d’intelligenza, è una cosa che ci porteremo dentro ancora per molto tempo.

Noi che guardavamo la tv e studiavamo i libri, ed eravamo convinti che fossero due dimensioni incommensurabili, senza niente da dirsi: e poi leggevamo Placido che le metteva in contatto, ed era l’emisfero destro del nostro cervello che scopriva il sinistro, finalmente. Se metteva Nietzsche e Boncompagni nello stesso pezzo, Placido non lo faceva per provocare, o per sembrare pop, ma con la naturalezza dello studioso che si è scelto un campo di ricerca interessante (la tv) e non disdegna di usare gli strumenti più raffinati che conosce. L’umanità lo incuriosiva, e la tv gli serviva a volte da microscopio, a volte da cannocchiale. Ma era una curiosità filosofica, non aveva nulla di morboso. Placido non si sarebbe fatto ipnotizzare dalla finta umanità di Uomini e Donne, o del Grande Fratello. C’è un suo pezzo, che non riesco a trovare, in cui si ritrova a parlare del “bingo”, ovvero (come non avrebbe mai omesso di spiegare, per rispetto ai lettori) della tombola inglese. Racconta di un suo soggiorno in Inghilterra, trascorso nelle nobili stanze di una qualche prestigiosa università, a studiare autori immortali; e di come un giorno gli fosse capitato di sbagliare il percorso tra la stazione e la biblioteca – o forse aveva voluto semplicemente cambiare strada, per curiosità. E di essersi trovato in un’Inghilterra totalmente diversa, parcheggi grigi tra case cadenti, e un locale dove i nativi giocavano a bingo, “tra pessimi odori” (la notazione olfattiva era quasi un suo marchio di fabbrica). L’Inghilterra era anche quello, scriveva, e scriveva di aver viaggiato a lungo anche per scoprire quello, e di non volersene dimenticare. Tutto lì: nessuna pretesa di nobilitare il bingo, di trovarci l’espressione dell’umanità della working class… balle: il bingo è imbarbarimento. Stava a noi decidere di farne a meno, scegliendo con più cura i nostri percorsi. E magari poi produrre una televisione più biblioteca che bingo, o almeno provarci. Lui tra l’altro fece ottimi tentativi, anche quelli da rivedere (non soltanto la trasmissione con Montanelli, un po’ tarda, che purtroppo è l’unica che si trova su Youtube. Le cose che fece su Mussolini o Manzoni erano dirompenti: o forse sono io che me le ricordo così).

Detto questo, sapeva anche provocare, Beniamino Placido. Tanti suoi pezzi fiorivano come sbuffi di repressa cattiveria. Ho trovato questo contro l’”anarchinfantilista” Piperno, abbastanza ingiusto col senno del poi. Ma c’è di meglio: una prefazione all’Eneide in cui lui scrive una cosa fantastica: di aver letto l’Eneide. Ma non da ragazzo al liceo, no: lui al liceo aveva fatto finto, come tutti. Perché al liceo, spiegava, non t’insegnano il latino: al più ti fanno credere di averlo imparato, e magari di aver letto l’Eneide. Non che ti capiti mai più di prenderla in mano e verificare… a meno che tu non sia Beniamino Placido. Lui ci aveva provato, vocabolario in mano, in un’estate. E confessava di aver sofferto tantissimo, e che insomma, forse l’istruzione classica italiana aveva qualcosa che non andava. Mentre prefazionava l’Eneide: come non volergli bene?

Un’altra pagina fantastica è quella in cui ricorda il suo maestro di letteratura inglese, Mario Praz. E si scaglia contro le persone – e non sono giocatori di bingo, ma docenti universitari con nomi e cognomi – che portano avanti la leggenda dell’Anglista innominabile, poiché jettatore. Un mito che in ambito accademico fa impallidire quello di Mia Martini nello showbiz (anche perché un po’ di superstizione, agli operatori dello showbiz, gliela potresti perfino perdonare: ma agli universitari?) Placido ricorda di avergli stretto la mano prima di un volo intercontinentale, e di essere ancora tra noi per raccontarlo. E poi, in poche frasi ci regala un ricordo di Praz che è commovente. Tanto commovente che verso la fine forse Placido si tradisce. Quando scrive: “Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna”. Per fortuna? Quindi l’oblio non è sempre auspicabile, è così? E allora abbiamo il diritto di ricordare anche te, Beniamino Placido, per quello che sei stato? Un grande studioso, tra i primi nel suo campo, un piacevolissimo scrittore? Dateci un suo libro, qualcosa che possiamo tenere vicino a noi. Lo spazio si trova – c’è sempre qualche vecchio cartonato che si può buttare via.

anglistica, autoreferenziali, coccodrilli, cultura, leggere

Graven by a fool!

Now that I am dead I must submit to an epitaph

Un buon motivo per morire in agosto è che non succede molto altro e c’è più spazio sui giornali per celebrarti – non importa che i giornalisti siano in ferie, basta recuperare i coccodrilli, aggiornare le date… detto questo, forse sulla prima pagina di Repubblica di mercoledì 19 agosto Fernanda Pivano si sarebbe meritata un titolo più in alto: d’accordo, non sopra le elezioni afgane, e forse nemmeno al livello degli shorts di Mrs Obama. Sicuramente più in alto del burkini di Verona, ma cosi è la vita. No, la morte.

Quello che però trovo davvero discutibile – nel senso di meritevole di una discussione, non necessariamente polemica – è il titolo: È morta la Pivano ci regalò Spoon River. Più in piccolo: La scrittrice aveva 92 anni scoprì la beat-generation. Le epigrafi sono sempre insoddisfacenti, si sa; ma questa mi ha sinceramente incuriosito al punto che aprirei un dibattito. Ovvero: dovendo riassumere in una misera frasetta la carriera di un’intellettuale che ha scoperto e tradotto la fetta più consistente di letteratura americana del ‘900, da Hemingway a Scott Fitzgerald a Pound su fino a Kerouac e Dylan, e ancora su, su, su fino a Bukowski o McInerney, voi scegliereste proprio quel vecchio tetro libro di versi sciolti, Spoon River? Non Addio alle armi? Nemmeno Tenera è la notte? No, ma neanche Sulla strada? Ah, ipocriti lettori.

Miei simili, fratelli. Giù la maschera: voi non avete veramente letto Allen Ginsberg, e neanch’io. Nessuno che io sappia ha mai seriamente affrontato Corso e Ferlinghetti, sempre citati uno dopo l’altro col rischio di confonderli prima o poi con quei due anarchici finiti sulla sedia. I veri poeti beat sono sempre stati più tradotti che letti, come tutti i poeti del resto. Persino Dylan: non ne trovi poi così tanti che si pongano il problema (cruciale) di cosa stia cantando Dylan. Ma Hemingway o Kerouac li abbiamo letti tutti. Anche troppo. E troppo presto, sicuramente. Ora mi chiedo: Spoon River regge il confronto? Non dico in termini di valore, per carità, ma di ricezione del pubblico. Hemingway lo riconoscono tutti: quanti di voi hanno riconosciuto Edgard Lee Masters nella fotina qua sopra? E il suo libro, tradotto di nascosto da una liceale nel ’43, scoperto in un cassetto dal suo insegnante, il prof. Pavese, e prontamente spedito alla Giulio Einaudi Editore: il suo libro, quanti lo avranno in casa? E di questi, quanti avranno provato a leggerlo?

Io in questo caso non faccio testo. Il mio Spoon River è qui, davanti a me. È sopravvissuto a tre traslochi, ma non è invecchiato nella maniera dignitosa dei libri degli adulti. Per fare un esempio, lungo il taglio delle pagine c’è una macchia… arancione. Un pennarello carioca. La dedica a pagina 3 mi conferma quello a cui fatico a credere: è un regalo della mamma, per il mio dodicesimo compleanno. Edizione col testo a fronte, così avrei migliorato il mio inglese. Mamma, e poi lamentati. Hai rischiarato la mia preadolescenza coi fuochi fatui del libro più sepolcrale mai scritto – 244 poesie, 248 morti, ogni volta che giri una pagina crepa almeno un personaggio, mi chiesi spesso perché non ne avessero tratto un film. Già, perché? Una trama così irresistibile. Frank Drummer vuole imparare l’Enciclopedia a memoria, ma muore. Washington McNeely siede sotto il cedro finché muore. Cassius Hueffer muore e gli sbagliano l’epitaffio – beh, forse un film no, ma una miniserie…

Si veniva su così, in provincia, appoggiandosi a quello che si trovava in giro, senza preoccuparsi più di tanto se era o no adatto a noi – l’importante era che fosse cultura, roba seria: e poi col tempo saremmo diventati seri anche noi. Quando, mesi dopo, fondai con mio cugino la mia prima band, l’idea di scrivere testi in inglese era parzialmente minata dalla quasi totale incapacità di formulare concetti più complessi di La Penna È Sulla Tavola. Ricordo quindi intense sessioni creative davanti al Garzanti tascabile e all’Antologia di Spoon River. I morti di Spoon mi insegnarono come si coniugano i tempi al passato e al futuro. E mentre cercavo “la poesia di quello che dice Una serpe ha fatto il nido nel mio cuore” per copiare di pacca il sintagma, mi rileggevo i duecento destini tristi di questi americani qualunque che nemmeno sapevo di che secolo fossero, senz’altro un secolo in bianco e nero, ma a parte questo non era difficile immaginarli sotto le pagliette e nei fustagni dei miei nonni, gente qualunque che si lascia morire in un paesino di provincia. La macchia di pennarello data senz’altro da quel periodo.

Oggi non saprei se consigliare a qualcuno l’antologia di Spoon River. A qualcuno, intendo, che non sia un dodicenne un po’ fuori dal mondo disposto a mandar giù un volume di duecento pagine e duecento e più morti, dando per scontato che ne capirà il venti per cento, e quel venti per cento non se lo scorderà per tutto il resto della vita. Ci si formava con quel che si trovava in giro, la roba dimenticata sulle mensole dei genitori, centinaia di pagine buttate giù di nascosto sperando in qualche scena di sesso ogni tanto.

Quante volte poi mi sono detto: Hai tessuto il tuo sudario! Io sedevo sotto il cedro! E perché mi torturi coi fogli e coi piccoli appunti? Vidi che anch’io ero una buona macchina che la vita non aveva adoperato. Tutto questo, ci tengo a dirlo, non è merito mio. Io cos’ero a dodici anni, se non una macchinetta, non molto più complessa del mio registratorino panasonic col tasto rec arancione. Pronto a ingozzarmi di qualsiasi cosa mi spacciassero per Cultura e Poesia, per Vita e per Morte – potenzialmente, un bimbominchia. Nel senso che se dall’altra parte del meccanismo ci fossero stati i manga, o Harry Potter, o Twilight, avrei buttato giù quintalate di manga, HP, Twilight.

Ma dall’altra parte del meccanismo c’era ancora gente come Fernanda Pivano. In senso lato, c’era l’Einaudi. Una specie di grande famiglia di gente coltissima, ma a portata di edicola, che si interessava di te da quando nascevi. Cominciavano con Gianni Rodari, proseguivano con le antologie scolastiche curate da Calvino. Tu a nove anni chiedevi alla nonna per regalo Huckleberry Finn, perché avevi visto il cartone in tv, e lei ubbidiente sotto l’albero di Natale ti faceva trovare uno Struzzo Einaudi con una prefazione tostissima in cui si parlava di Bildungsroman e si seminavano interrogativi velenosi (se lo schiavo Jim vuole la libertà, perché non attraversa semplicemente il Mississippi, invece di andare sempre più a sud?) Qualche anno dopo un prof di musica ti prestava dischi di Dylan e per capirci qualcosa, a chi dovevi riferirti? Alla Pivano: come ritrovare in un negozio di dischi una vecchia zia che fino a quel momento avevi incrociato soltanto al cimitero. Di questo passo arrivavi alle superiori non dico con una cultura, ma con un’idea di cosa la cultura fosse: libri e autori che dialogano tra loro – il più delle volte è un dialogo tra sordi, come i morti di Spoon River, ma in mezzo ci siamo noi, siamo noi che portiamo i messaggi tra un sordo e l’altro, noi che vorremmo urlare al reverendo Wiley che si è sbagliato, che non doveva affatto “salvare i Bliss dal divorzio”. Preachers and judges! Non sanno niente della vita, a dodici anni era già chiaro. Perché un preadolescente non dovrebbe capirlo? E’ la vita, è la morte: non sono mica concetti complessi.

Più tardi ci sarebbe stata l’età della ribellione, e il suo Kerouac; l’età di farsi una cultura sul serio coi suoi Hemingway e i suoi Scott Fitzgerald; e così via. Ma quella è adolescenza, faccio fatica a riconoscerla e persino a ricordarla. Forse davvero gli unici libri sono quelli che mandiamo giù fino a tredici anni, senza capirli. Uomini e donne di domani, vi porterete con voi Harry Potter per tutta la vita. Speriamo che vi faccia bene.

Io rimpiango la Pivano, non da ieri: non per nostalgia; oppure sì, per nostalgia, ma certo non di Ginsberg e dei suoi mantra. Nostalgia di un progetto culturale che oggi, a riassumerlo, suona pura eresia: siccome gli italiani leggono poco, facciamogli leggere soltanto cose di assoluta qualità. A tutte le età. E vediamo cosa succede. Ok, non è successo un granché. Ma io ho letto Spoon River, tradotto da Fernanda Pivano. Non è escluso che abbia fatto di me una persona migliore.

anglistica, cinema, fumetti

Se Pagliacci non ridesse più

Chi guarda Watchmen

Credo che esistano due tipi di capolavoro. Il primo è quello che rimane: magari nei primi tempi si fa fatica a distinguerlo dal sottobosco in cui è cresciuto; poi con gli anni e i secoli tutto intorno il paesaggio si semplifica e il capolavoro resta lì, un monumento nel deserto. Se devo fare un esempio – visto che siamo in giorni di celebrazioni kubrickiane2001 Odissea nello Spazio mi sembra una capolavoro di questo tipo: ammesso e concesso che qualcuno abbia potuto confonderlo nel 1969 per un qualsiasi film di astronavi, quello che lascia sbalordito lo spettatore oggi e continuerà a sbalordirlo per molti anni è la sensazione di trovarsi di fronte a un manufatto unico, spuntato un po’ dal nulla, e senza epigoni di sorta; il che storicamente non è vero, 2001 scatenò una ridda di pseudo-sequel e influenzò pesantemente anche l’immaginario cinematografico e televisivo (vedi Space 1999): ma tutte queste cose difficilmente resteranno (soprattutto Spazio 1999 è destinato a essere inghiottito dal pietoso Oblio); 2001 invece resterà, una specie di monolito venuto dal nulla e che al nulla torna. Questo è un primo tipo di capolavoro.

Poi ci sono i capolavori che scompaiono nel sottobosco che hanno contribuito a far fermentare: quei dischi cosiddetti “seminali” conosciuti solo da qualche addetto ai lavori, che al giorno d’oggi suonano esattamente come migliaia di altri dischi – salvo che sono usciti dodici mesi prima. Il loro ruolo è stato fondamentale, ma per apprezzarli bisogna avere un sesto senso che non tutti hanno; il senso della storia, del tempo, la quarta dimensione in cui l’assolo di Tom Verlaine suona davvero meglio degli altri perché la sua chitarra suonava già così nel 1974! Al che qualcuno risponderà chi se ne frega, basta che suoni quella certa frequenza e quelle note, e l’esperienza estetica dovrebbe essere identica; tanto più che tu non sei al CBGB nel 1974, ma in casa tua davanti a un impianto stereo, e quindi questo tuo cosiddetto “senso della storia” puzza un tantinello di feticismo. Senza dubbio.

In realtà tutto questo non vi interessa un granché, voi volevate soltanto sapere se vale la pena andare a vedere Watchmen. No, naturalmente, non vale mai la pena di andare a vedere un adattamento cinematografico di qualcosa che per voi è un capolavoro. Come faccio a sapere che Watchmen per voi è un capolavoro? Che io sappia, non c’è nessuno che sia riuscito a leggerlo fino alla fine che non lo reputi tale. Gli altri, che non apprezzano i fumetti di giustizieri in costumi colorati, o non apprezzano i fumetti tout court, hanno già smesso di leggere. Siete rimasti solo voi, capito? Quindi, la risposta è no: non vale la pena. D’altro canto lo vedrete lo stesso, no? Come se aveste possibilità di scelta. Non siete che burattini, e anch’io: al massimo sono un burattino che vede qualche filo in più.

Chi conosce Watchmen sa che non aveva nessuna possibilità di essere reso al meglio sul grande schermo. La storia è troppo lunga e troppo intimamente fumettistica; e negli ultimi anni abbiamo avuto fin troppe occasioni per accorgerci che brutto effetto facciano le graphic novel d’azione in tre dimensioni. Banalmente: Wolverine che salta sui tetti a pagoda e in pochi graffi ammazza centinaia di sicari della Mano, sulla tavola di Miller, crea un gradevole effetto grafico, con vaghe reminiscenze nell’arte nipponica bla-bla. Ma se prendi una scena del genere e provi a farla recitare da attori veri, in Sin City o persino Kill Bill 1, ti trovi davanti a una scena che è pacchiana in modo imbarazzante, e non hai nemmeno a confortarti l’amico gay con l’alibi del camp sempre pronto, perché a lui questa roba non piace. In questo caso saltare dalle due alle tre dimensioni significa passare dal paginone di Playboy alla bambola gonfiabile: a qualcuno potrà piacere, ma no, non è un progresso.

D’altro canto, chi conosce Watchmen non vuole veramente vedere qualcosa di cinematograficamente superiore a Watchmen: rifletteteci bene, sarebbe un’offesa. Se andrete a vedere un film del genere (e ci andrete, dai), non è per conoscere una storia che avete appena finito di rileggere, ma per celebrare un capolavoro che vuol dire molto per voi, e poco per tante persone da cui volete distinguervi. Se amate Watchmen amate un certo tipo di fumetto; se amate quel certo tipo di fumetto siete intimamente convinti che la graphic novel sia arte, forse l’unica vera arte, quella in cui basta saper maneggiare la matita per farci provare la sensazione della fine del mondo. Il cinema, coi suoi prodigiosi effetti digitali, non potrà restituirci l’emozione intellettuale che ci siamo costruiti da soli, legando una vignetta all’altra; nessuna scena d’azione avrà mai l’eleganza del paginone centrale di Infernale Simmetria. Voi andrete a vedere Watchmen per il gusto sadico di vedere Hollywood che dilapida denari per ottenere con costosi effetti speciali quello che Gibbons rendeva (meglio) con qualche tratto d’inchiostro di china. Un regista geniale, provvisto di pensiero laterale, avrebbe reciso il nodo gordiano e stravolto la storia, ma noi non volevamo veramente questo: volevamo un regista che cercasse di fare il suo compitino in modo dignitoso, sicché alla fine potessimo uscire ripetendo, soddisfatti, che il fumetto, beh, il fumetto è un’altra cosa. Missione compiuta, ma resta un dubbio: chi non conosceva Watchmen, come lo troverà?

http://player.ordienetworks.com/flash/fodplayer.swf

Ho la sensazione che non lo troverà un granché; e non per colpa del regista, che il suo compitino lo ha svolto sforbiciando la storia con affetto e perfino una certa eleganza. Perché Watchmen, temo, è uno di quei capolavori che col tempo lentamente scompaiono. Supereroi in contesti realistici? Uomini in costume come maniaci assassini o con disturbi sessuali? Intreccio polimorfo e congegnato come un meccanismo a orologeria? La trama come seduta analitica, dove sarà il matto a guarire lo strizzacervelli dalla sua mania di sorridere al mondo? Mostri tentacolari talmente smisurati che non si possono vedere in una sola inquadratura? Episodi decentrati su tutti i personaggi, con flash-back continui e svolte nodali riprese da più punti di vista? Episoldio-coccodrillo con lo stesso personaggio visto in periodi diversi dai punti di vista degli altri personaggi? Un’organizzazione illuminata che cerca di salvare l’umanità da sé stessa? I mass-media sfruttati un po’ come narratore onnisciente, un po’ come coro greco? E sento già qualcuno che sbadiglia: ancora questa roba? Ma come, è moneta corrente ormai. Sui fumetti, in tv, al cinema, non si fa altro da anni. Precisamente. Tanto più sembra incredibile che sia stato Alan Moore a inventare tutto questo, e lo pagavano solo per scrivere un fumetto di uomini in mantello: dodici episodi, neanche 400 tavole, una quantità di invenzioni impressionanti (i meravigliosi titoli d’apertura suggeriscono che Moore abbia inventato perfino il forrest-gumpismo, la riduzione del Novecento a un canone di Personaggi Illustri e Fatti Celebri). Watchmen lo conoscono relativamente in pochi, e quei pochi per apprezzarlo devono sempre più far ricorso a quel famoso Senso della Storia: ormai la battuta “Anche Hitler era vegetariano” la sanno fare anche i comici italiani, ma è di Rorschach, è sua originale. La spilletta con lo Smile ha fatto il suo tempo, ma Watchmen era in edicola due anni prima della Summer of love. E così via. A volte, quando mi sento a corto di idee, penso a come si deve sentire Moore in momenti simili. Io posso pur sempre copiare, chiunque può copiare da Moore, ma cosa accadrà quando lui non riuscirà più a inventarsi niente? Quando il clown Pagliacci non troverà più niente da ridere?

Conclusione: voi ci andrete, è già scritto forse nel vostro dna. Comprare il biglietto sarà come comprare quell’action figure da collezione che poi se ne starebbe a prendere polvere su una mensola per il resto della vostra sgocciolante giovinezza. Ma fate un favore al vostro amico che non sa chi sono i Watchmen: lasciatelo a casa. Lui non si merita l’ennesimo action movie di personaggi un po’ mostruosi un po’ ridicoli che salvano il mondo, in un modo appena un po’ meno ortodosso del solito. Tutto quello che potete fare per lui è prestargli Watchmen, quello vero, ma probabilmente non lo leggerà.
Non gli piacciono i fumetti, tutto qui.

anglistica

– tassinari, vergogna nazionale

I tassinari avevano rotto – già nel Mille e novecento ventotto:

Vi era acqua sporca nei rigagnoli e negli interstizi del selciato; una nebbia paludosa che proveniva dalla Campagna, un sudore di culture esauste corrompeva l’aria del mattino. Un quartetto d’autisti di piazza con gli occhi sprofondati nelle occhiaie scure lo circondò. Ne respinse ruvidamente uno che gli parlava insistentemente in faccia

— Quanto a Hôtel Quirinal?
— Cento lire.

Sei dollari. Scosse il capo e offrì trenta lire, che era il doppio della tariffa di allora, ma si strinsero nelle spalle e se ne andarono.

— Trentacinque lire e mance, — disse con fermezza.

— Cento lire.

Sbottò in inglese: — Per ottocento metri? Mi porterete per quaranta lire.

— Oh, no.

Era molto stanco. Aprì lo sportello di un taxi ed entrò.

— Hôtel Quirinal! – disse al conducente che restava ostinatamente fuori dallo sportello. – Smettila di far quella smorfia e portami al Quirinal.

— Ah, no.

Dick scese; accanto alla porta del Bombonieri qualcuno stava litigando con gli autisti, qualcuno che ora cercava di spiegare il loro atteggiamento a Dick. Di nuovo uno di loro gli si avvicinò insistendo e gesticolando e Dick lo respinse.

— Voglio andare all’Hôtel Quirinal.

— Dice che vuole cento lire, — spiegò l’interprete.

— Capisco. Gli darò cinquanta lire. Andiamo —. Questo all’autista insistente che si era avvicinato di nuovo. L’autista lo guardò e sputò con disprezzo.
L’ardente impazienza di tutta la serata invase Dick e si rivestì in un lampo di violenza, la risorsa onorata e tradizionale della sua terra; si fece avanti e colpì l’autista in faccia.

Gli saltarono tutti addosso minacciandolo, agitando le braccia, cercando, senza riuscirci, di afferrarlo: con la schiena contro il muro Dick picchiava alla rinfusa ridendo un poco, e per qualche minuto la lotta per burla, una faccenda di spintoni sventati e di colpi ovattati, attenti, oscillò su e giù davanti alla porta. Poi Dick inciampò e cadde; fu colpito, ma lottò per alzarsi lottando fra braccia che improvvisamente si aprirono. Udì una nuova voce e una nuova discussione, ma si appoggiò al muro ansante e furioso per la mancanza di dignità della sua posizione.

Vide che non vi era simpatia per lui, ma non riusciva a credere di avere torto.
Stavano andando al posto di polizia per sistemare la faccenda. Qualcuno gli raccolse il cappello e glielo porse, e sorretto leggermente per un braccio svoltò l’angolo con gli autisti ed entrò in una caserma squallida dove alcuni carabinieri stavano sotto un’unica luce fioca.

Al tavolo sedeva un capitano, al quale l’individuo ufficioso che aveva interrotto la zuffa parlò a lungo in italiano, indicando ogni tanto Dick e lasciandosi interrompere dagli autisti che lanciarono brevi esplosioni di invettive e di rinuncia. Il capitano incominciò a fare cenni impazienti col capo. Alzò la mano e il discorso dalle teste d’Idra terminò con qualche esclamazione di chiusura. Poi si rivolse a Dick.

— Spick italiano? – chiese.

— No.

— Spick français?

— Oui, — disse Dick, illuminandosi.

— Alors. Écoute. Va au Quirinal. Espèce d’endormi. Ècoutez: vous êtez saoûl. Payez ce que le chaffeur demande. Comprenez—vous?

Dick scosse il capo.

— Non, je ne veux pas.

— Come?

— Je payerai quarante lires. C’est bien assez.

Il capitano si alzò.

— Écoute, — gridò violentemente. – Vous êtes saoûl. Vous avez battu le caffeur. Comme ci, comme ça —. Percosse nervosamente l’aria con la mano destra. – C’est bien que je vous donne la liberté. Payez ce qu’il a dit: cento lire. Va au Quirinal.

Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte; nella traduzione di Fernanda Pivano.

anglistica, Barthes, realities, tv

– even better than the real thing

L’isola che c’era, o forse no

Quello che è successo con J.T. Leroy, o con James Frey, non è una novità (in breve: si è scoperto che le tragiche esperienze di vita raccontate nei loro libri di successo sono in parte o totalmente false: addirittura l’ermafrodito Leroy non esiste: nelle interviste era interpretato da una ragazza).

Non del tutto una novità, dicevo. Non sono sicuro che nel Settecento gli inglesi comprassero le Avventure di Robinson Crusoe come un romanzo d’invenzione. Parecchi ci sarebbero rimasti male, scoprendo che si trattava soltanto delle invenzioni di un tal Daniel Defoe, ex mercante di vini, bancarottiere.
Quei lettori non compravano fantasia. Compravano le memorie di un “vero” naufrago su un isola deserta. Peccato che i racconti dei “veri” naufraghi sulle isole deserte non andassero oltre le cinquanta paginette. Perché la vita di un “vero” naufrago del Settecento, probabilmente, era un incubo. La più parte impazziva e basta. Un olandese a Sant’Elena arrivò a disseppellire la bara di un compagno per usarla come imbarcazione. Defoe non aveva mai messo il naso fuori dalla Gran Bretagna, ma aveva una merce rara sul mercato: la fantasia. È stato uno dei primi autori di best-seller – come tale, snobbato da gran parte dei suoi contemporanei scrittori.

La letteratura ha un suo pubblico affezionato: chiamiamolo “zoccolo duro”. Lo zoccolo gradisce le novità, ma su alcuni paletti non transige. Uno di questi è il cosiddetto patto finzionale: io lettore accetto, per tutta la durata della mia lettura, di fingere che quello che mi dici tu scrittore è vero. Non a caso è chiamata anche sospensione della credulità: puoi trasformare una ninfa in alloro e un uomo in scarafaggio, mettermi davanti paesi, isole, mondi immaginari, e io ti crederò – solo finché non chiuderò il libro. C’è qualcosa di rassicurante – e forse di regressivo – in tutto questo: il lettore in sostanza promette di stare zitto e buono per tutta la durata della favola. Si tende a pensare che chiunque sia dotato di una media istruzione e abbia tempo di leggere ami la narrativa; in realtà non è così. C’è gente a cui il patto finzionale semplicemente non piace. E infatti anche le biografie hanno sempre avuto un pubblico di tutto rispetto. Notare: gli autori di biografie stipulano coi loro lettori un accordo che è l’opposto del patto funzionale: io apprezzerò una biografia nella misura in cui mi dimostrerai che non è fiction.

Ecco, se cominciamo a usare l’inglese, le cose diventano più chiare: tutto si gioca tra fiction e reality. Sì, proprio come in tv: accanto a uno zoccolo duro che tradizionalmente apprezza le storie dei professionisti della fantasia, è cresciuto negli ultimi anni un pubblico che vuole situazioni sempre più “reali”. Curiosamente, i due generi si danno ancora oggi battaglia sullo stesso campo di Defoe: L’isola dei famosi contro Lost. Ma naturalmente, sin dai tempi di Dafoe (che s’ispirò all’avventura di un naufrago vero) fiction e reality sono due astrazioni. Molto spesso noi crediamo di comprare fiction, e invece stiamo cercando reality: vale per tutti i testi di ventenni veri o presunti, da Porci con le Ali a Melissa P. Ciò che cerchiamo, tradizionalmente, in libri del genere, sono informazioni reali sugli usi e costumi della razza dei giovani: dove si trovano, come comunicano, se si riproducono o no. Pazienza se non sono scritti bene: l’importante è che raccontino qualcosa che (da qualche parte nel mondo) sta succedendo veramente.
Allo stesso tempo, gran parte del reality in commercio è pura fiction: vedi appunto JT Leroy. Sapere che non è mai esistito trasforma la sua biografia in qualcosa di diverso – che probabilmente piacerà meno.

Ma da un punto di vista politico cos’è peggio, la fiction o il reality? Se da una parte abbiamo un pubblico che se ne starà zitto e buono per tutta la durata dello spettacolo (ma alla fine potrebbe anche alzarsi e decidere di fare la rivoluzione; di solito però non succede), dall’altra abbiamo – oltre a un sospetto di voyeurismo – la più grande impostura della modernità: la Naturalezza, o Autenticità, o Spontaneità. Lo sanno bene i concorrenti televisivi, costretti a sforzi immani per simulare quella “spontaneità” che il pubblico richiede.

La Naturalezza (qui ci vorrebbe Barthes, siete fortunati che non l’ho in casa) è la fregatura ideologica per eccellenza. La Società nasconde i suoi rapporti di forza dietro la maschera della Natura.
(La società dovrebbe essere quella cosa che tutti possiamo e vogliamo cambiare in meglio; la natura è il mondo mitico, aspro e selvaggio, che nessuno si permette di toccare, a cui tutti aspireremmo segretamente a tornare).
Libri come quelli di JT o di Frey, che potrebbero apparire documenti di protesta, funzionano in realtà come reportages turistici dai mondi della perversione, della follia, dell’ambiguità sessuale, della dipendenza.
Il lettore-tipo di reality non vuole cambiare le cose: le osserva a una distanza ragionevole, si tiene aggiornato – e quando scopre che gli hanno venduto della fiction giustamente s’incazza. Se il libro gli è davvero piaciuto, potrete persino sentirlo sostenere che “comunque quello che non è successo a JT sarà senz’altro successo a qualcun altro”: in una frase del genere emerge tutto il cinismo dell’appassionato di reality, che si ritrova a dover sperare che qualcuno sia stato veramente violentato come JT, per salvare la propria esperienza di lettura. Un turista del dolore ‘autentico’ non ha il minimo interesse alla sistematica riduzione del dolore sulla terra: viceversa ha qualche interesse che il dolore continui, si replichi, si perfezioni, si rinnovi: e ogni tanto qualche superstite la scampi e scriva un libro.

Già, perché un’altra cosa hanno in comune Robinson Crusoe, JT e Frey: il mito del superstite. Tutti e tre hanno patito grandi tribolazioni, ne sono scampati, e possono fare soldi a palate raccontandoceli. Se la Natura è un mondo aspro e selvaggio (ma avventuroso, e inconfessabilmente bello), la Società è quel salotto simpatico che ricompensa generosamente chi ha saputo trasformare le sue esperienze in un racconto glorioso. Devo già averlo letto da qualche parte: JT è l’ultima incarnazione del Sogno Americano. Il ragazzo/a che a furia di dolori e sacrifici s’innalza dalla strada all’empireo degli scrittori. Scoprire che questa puntata del Sogno è stata realizzata da una bella signora ricca in un lussuoso appartamento di San Francisco procura ai nemici dell’Autentico un sordo brivido di soddisfazione.

Rimane il caro vecchio interrogativo: che fare? Se i seguaci della fiction sono bambini educati che non disturberanno la proiezione, e i maniaci del reality sadici voyeur senza il minimo interesse a migliorare il mondo, esiste una terza via? Quesito interessante, pensateci nel week-end.

(Ciao Vale, se passi di qui)

anglistica, apocalittici e integrati, come stare soli, Franzen

Quella che segue è la recensione di un libro, scritta per una rivista che tanto non comprerete.
Il libro è piuttosto bello.
La recensione non è un granché.
(Era senz’altro meglio quella di Pincio, che il Manifesto pubblicò quest’estate: ma il Manifesto, si sa, non ha pietà per il suo archivio).

JONATHAN FRANZEN, Come stare soli, Einaudi, Torino, 2003 (How to be alone, 2002; traduzione di Silvia Pareschi).

Questo libro vuole essere, in parte, la testimonianza del passaggio da un isolamento rabbioso e spaventato a un’accettazione – persino una celebrazione – dell’essere lettore e scrittore. Non che oggi manchino i motivi per essere arrabbiati e spaventati. (dall’Introduzione).

Da apocalittico a (parzialmente) integrato: è la traiettoria dell’intellettuale contemporaneo tracciata da Jonathan Franzen in questa sua scelta di saggi, comparsi su riviste tra il 1994 e il 2001 e raccolti in volume nel 2002. Una traiettoria che il lettore dei suoi romanzi troverà in qualche modo familiare: l’intellettuale Franzen la condivide con alcuni dei suoi personaggi romanzeschi più riusciti. In mezzo al guado, la palude della depressione, motivo esistenziale sul quale l’autore ritorna esplicitamente in più occasioni.

All’inizio degli anni Novanta Franzen sperimenta sulla sua pelle la crisi del progetto artistico su cui ha impostato la sua carriera sin dall’inizio (“Quando finii il college, nel 1981, non ero al corrente della morte del romanzo sociale”). I suoi primi due romanzi, pur riscotendo un discreto successo di critica e di pubblico, non suscitano nessuna reazione a parte “un’altra pagella di buoni voti da parte dei critici […] una discreta quantità di denaro; e il silenzio dell’irrilevanza”. Le statistiche sul calo dei lettori di narrativa, il trionfo della cultura dell’immagine, l’avvento dei profeti “cybervisionari” con le loro previsioni su un futuro interamente digitale: tutto sembra congiurare contro l’antica professione del romanziere. Più in profondità, l’opulenta società americana degli anni Novanta sembra non aspettarsi più nulla dalla narrativa e dall’arte.

Immaginiamo che l’esistenza umana sia definita da un Dolore. […] Se consideriamo la religione e l’arte come i metodi storicamente preferiti per venire a patti con questo Dolore, che ne è dell’arte quando i nostri sistemi tecnologici ed economici e persino le nostre religioni commercializzate sono ormai abbastanza sofisticati da collocare ognuno di noi al centro del proprio universo di scelte e gratificazioni?

La società non ha bisogno di letteratura, ma di narcotici: e ne produce in abbondanza, “sotto forma di Tv, cultura popolare e oggetti di ogni tipo”. Ciò che rende particolarmente efficace la descrizione dei “narcotici” è che l’autore non nasconde di averne fatto uso a più riprese, e di sentirne ancora il bisogno: è il caso, per esempio, della televisione. Come nella miglior tradizione apocalittica, l’apparecchio televisivo è considerato un oggetto diabolico, ma il rapporto che l’autore intrattiene col “vecchio aggeggio ingombrante” nascosto letteralmente nell’armadio, rasenta il grottesco.

Mi chiedo se possa esistere un’immagine più tetra della codipendenza delle centinaia di ore che ho passato con un pezzo di filo di rame tagliente stretto fra indice e pollice per migliorare la qualità dell’immagine del mio televisore.

Può darsi che le pagine apocalittiche di Franzen – quelle in cui l’autore indaga sulla sua depressione, e ne fornisce le coordinate storiche e sociali – siano le più intense: ma nei saggi in cui compaiono sono già rielaborate sotto un nuovo punto di vista. Esemplare sotto questo aspetto la sorte del saggio Perché scrivere romanzi, che ai tempi dalla sua apparizione su “Harper’s” nel 1996 col titolo Forse sognare era stato considerato (per un malinteso) un manifesto del romanzo sociale, da cui Franzen stava piuttosto prendendo congedo: rileggendolo sei anni dopo, l’autore si rende conto che

nei cinque anni trascorsi da quando avevo scritto il saggio, ero riuscito a dimenticare che a quell’epoca ero un individuo molto arrabbiato e con la testa piena di teorie. Il fatto che gli americani guardino tantissima Tv e leggano poco Henry James mi provocava un’angoscia apocalittica.

La “fuga di uno scrittore in crisi dalla prigione dei suoi pensieri rabbiosi” comincia con una scoperta fondamentale: la solitudine. Contattato da una studiosa di scienze sociali che sta conducendo una rigorosa ricerca scientifica sul “pubblico della narrativa seria in America”, l’autore scopre di appartenere sin dall’infanzia a una tipologia di lettore ben definita: l’isolato sociale, che sin dall’infanzia vive la sua esperienza di lettura come dialogo con un “essenziale mondo immaginario”. Questo mondo essenziale non è un rifugio, tutt’altro: nella opere narrative questi lettori riconoscono una sensazione d’imprevedibilità che è un tratto distintivo della loro esistenza (si tratta spesso di migranti, o persone che vivono comunque una realtà molto diversa da quella dei genitori). La buona narrativa descrive i conflitti rifuggendo le facili soluzioni, e tornando sempre sui “problemi fondamentali”.

In fondo, è sempre il vecchio tema del dialogo coi classici: ma Frenzen lo vive come una scoperta liberatoria.

Come potevo non sentirmi estraniato? Io ero un lettore. La mia essenza mi aspettava da sempre, e adesso mi dava il benvenuto. D’improvviso mi accorsi di quanto fossi ansioso di costruire e abitare un mondo immaginario.

Solo ora, deponendo parzialmente le ambizioni del suo progetto di romanzo sociale, Franzen può riscoprire il piacere di leggere e di scrivere dei personaggi e dei luoghi che ama. Il suo terzo romanzo, arenatosi da tempo sotto il peso “del mio presunto dovere nei confronti di una chimerica cultura di massa”, si rimette in moto: si tratta naturalmente di The Corrections, che uscirà nel 2001 (Le correzioni, Einaudi, 2002).

Che cos’è esattamente la solitudine di Franzen? Non sembra avere molto a che vedere con torri d’avorio o ritorni al privato. L’intellettuale non rinuncia a indagare la società in cui vive e a pronunciare sentenze anche molto critiche. Non rinuncia nemmeno, se invitato, a comparire in un talk show televisivo (perlomeno ci prova, com’è testimoniato dal bel  racconto autobiografico Ci vediamo a St Louis, dove una troupe televisiva costringe l’autore a tornare nei luoghi dei suoi lutti familiari). Ma la scoperta di appartenere a una comunità extratemporale di lettori e scrittori lo riconcilia coi suoi contemporanei. Non è più costretto a fare concorrenza (una ben misera concorrenza) alla cultura di massa: in fondo l’elitarismo della letteratura è sempre esistito, anche se “si era fugacemente eclissato nel periodo d’oro del romanzo”.

 Così il “sublime sdegno” dei tempi di Forse sognare lascia il posto a un tono più bonario nei confronti di una realtà nella quale l’intellettuale progressivamente accetta di vivere, rinunciando a molti eccessi ideologici. Molti saggi raccolti nel volume testimoniano questo mutato atteggiamento. Raccontando la malattia del padre, in quella che è quasi un’appendice alle pagine più autobiografiche delle Correzioni, Franzen ammette di aver rifiutato dapprima l’idea dell’Alzheimer (“mi sembrava un altro aspetto della medicalizzazione dell’esperienza umana”) nel tentativo di salvare un’individualità annullata dalla casistica medica

…mi dispiace vedere il significato personale staccarsi da certi errori di mio padre, come confondere la moglie con la suocera, una cosa che allora mi parve bizzarra e misteriosa e dalla quale racimolai ogni sorta di nuove e importanti intuizioni sul matrimonio dei miei genitori. A quanto pare, il mio senso della personalità individuale era illusorio.

Se nel suo ultimo romanzo Franzen aveva descritto impietosamente l’involuzione liberista della società attraverso lo smantellamento di una compagnia ferroviaria privata, in Lettere smarrite l’argomento è capovolto: si tratta di dar conto del crollo sistemico di una grande azienda pubblica, il servizio postale di Chicago, travolto dalla burocrazia, dalla corruzione e dall’ipocrisia del politically correct. Perfino il vero nemico numero uno della società americana, il “Grande Tabacco”, è affrontato da Franzen con insospettabile tolleranza in Setacciare le ceneri: fumatore pentito ma non redento, Franzen si scopre in un qualche modo solidale con le aziende fornitrici di sigarette, capri espiatori del risentimento popolare, e comunque colpevoli di aver “venduto l’anima ai consulenti legali” (il saggio documenta come la strategia suicida di negare la nocività del fumo fosse una scelta portata fino in fondo dagli avvocati dei produttori). In Unità di controllo Franzen documenta in presa diretta i paradossi di uno dei più fiorenti business americani: l’amministrazione carceraria. Da una parte del muro, i giovani “neri e latini” obbligati a svolgere “per un dollaro l’ora o anche meno, i lavori umili che da liberi si rifiutavano di svolgere per il minimo salariale”; dall’altra parte, gli abitanti della cittadina che ha deciso di ospitare un carcere di massimo rigore, illusi e poi frustrati da una struttura che promette sicurezza ma non dà occupazione.

 In altri saggi il nucleo tematico della solitudine diventa riflessione sul concetto (problematico) di privacy: ma anche in questo caso, e in un momento in cui le libertà personali sembrano messe a dura prova dalla pervasività della tecnologia, Franzen spiazza il lettore invertendo i termini della questione: non è la privacy che manca agli statunitensi, anzi: nell’era dei forum elettronici e dell’esplosione dei quartieri residenziali la verità è che “siamo sommersi dalla privacy”. Quello che invece va scomparendo è uno spazio pubblico, “dove ogni cittadino è il benvenuto e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata”. Perciò, paradossalmente, il caso Clinton-Lewinsky, esploso nell’“ultimo grande, poderoso bastione della vita pubblica americana” è l’unica, e definitiva violazione della privacy, mentre l’espansione suburbana ha causato la fine delle “buone maniere”, dei “comportamenti adulti che si imparano meglio in luoghi pubblici come i marciapiedi”. Ma nonostante le spinte centrifughe, la grande città polifunzionale resiste, e rimane il luogo ideale dove imparare a stare soli. È qui che lo scrittore-lettore Franzen decide di restare. A costo di ridursi a razzolare nei rifiuti, come al termine di uno dei pezzi più autobiografici e divertenti, Materiale di recupero. Qui l’arte della riparazione dei vecchi utensili (una macchina da scrivere, una poltrona, un vecchio computer) diventa, più che  una sfida al “tecnoconsumismo”, ma una vera e propria metafora della pratica letteraria.

L’obsolescenza è il prodotto principale della nostra passione nazionale per la tecnologia, e io sono ormai convinto che l’obsolescenza non sia un male ma una meraviglia: non la perdizione, ma la salvezza. Più il progresso tecnologico diventa precipitoso, più cresce il volume dei detriti obsoleti. E i detriti non sono soltanto materiali. Sono anche una religione arrabbiata, la rinascita di ideologie controculturali, i nuovi disoccupati, gli eterni disadattati. Tutto ciò garantisce che gli scrittori non saranno mai soli. L’ineluttabile obsolescenza è il nostro patrimonio.

(La versione on line di Forse sognare l’ho trovata grazie a FaM).

anglistica, Dante, il cliccatore, italianistica, poesia, traduzioni

Let’s go to Hell, boys
Buon principio di quaresima a tutti. Sì, oggi è il mercoledì delle ceneri e cercherò di essere in tema.
Venerdì scorso si parlava dei classici italiani all’estero. Mi è venuta in mente una cosa da mostrare.

“THROUGH ME ONE’S LET INTO THE CITY OF SORROW,
THROUGH ME ONE’S LET INTO EVERLASTING PAIN,
THROUGH ME ONE JOINS THE THRONGS THAT LOST THEIR MORROW.

JUSTICE MOV’D MY HIGH MAKER, NOT DISDAIN;
BY DIVINE POWER WAS I MADE, AND BY
SUPERNAL WISDOM AND FIRST LOVE SOV’REIGN.

NO THINGS WERE MADE, ERE CREATED WAS I,
IF NOT ETERNAL, AND ETERNAL I LAST:
LAY DOWN ALL HOPE, YE WHO STEP IN, AND CRY”.

My eyes upon these dark-hu’d words ran fast
That high above a door were hewn in writ;
So “Hard” I said “on me their sense is cast”.

Può piacere o non piacere (a me piace), ma credo sia comunque facilmente riconoscibile. È il principio del terzo canto dell’Inferno, tradotto in inglese. Fin qui nulla di straordinario. La traduzione rispetta però tutti i vincoli metrici dell’originale: la rima è concatenata e il verso è il pentametro giambico (il verso inglese più simile all”endecasillabo dantesco). E già questo sarebbe un exploit notevole. Infine: il folle (italiano) che ha fatto questo non si è limitato a quattro quartine, ma ha tradotto l’intera Commedia, Hell, Purgatory e Paradise, tutto.
È un’altra incredibile produzione wordtheque! Non ci contattano soltanto pazzi pericolosi, ma anche pazzi a loro modo ammirevoli, come questo ingegner Fanelli di Firenze, ex maestranza Enel, autore di svariate pubblicazioni di idraulica, che nel tempo libero si diletta di architettura, computer graphics, e traduce Dante verso per verso. Senza gridare al miracolo, come tanti autori di romanzi di sicuro successo.
The power of Dante’s language, dichiara, is so irresistible that sometimes, somehow, it can suddenly shine through this opaque screen. When it does, it gives the rash craftsman an exhilarating thrill. I hope that these few shafts of light can also break through to some of the readers (if any).
Io non ho la competenza né il tempo per verificare se l’inglese di Fanelli funzioni, ma mi piace pensare di sì. Tanta pazienza e modestia meritano menzione. Fate girare la notizia. Avete amici anglofoni che vorrebbero leggere Dante? Creiamo un piccolo caso net-editoriale… Let’s go down, boys, let’s go hell!

anglistica, cultura, preti parlanti, ragazzini, rap, razzismi, traduzioni

“Perché – si chiede monsignor Frisina – presentare con tanta leggerezza e facilità personaggi così negativi come Eminem, che incitano alla violenza contro i genitori, all’odio razziale, alla trasgressione? È un problema della Rai, ma anche le tv private non possono sottrarsi alla grave responsabilità di essere più attente ai contenuti dei programmi”. Don Sciortino, si chiede, a sua volta, “perché Sanremo va a cercarsi grane con un personaggio simile solo per inseguire una discutibile audience? È grave.

Ma è poi così scandaloso Eminem?
Può anche darsi che inciti “alla violenza contro i genitori, all’odio razziale, alla trasgressione”. In inglese. E a noi italiani cosa resta? Un vago abbaiare anglofono su basi ben confezionate, in una manciata di video simpatici. E un’immagine di orgoglio razziale, questa sì preoccupante: vedete, anche un bianco può fare il rap (Eminem non è un tipo qualunque: è il bianco qualunque).
Ma qualcuno si è veramente preoccupato di tradurre i testi di Eminem? I ragazzini vegliano la notte compulsando il booklet del CD con a fianco l’Hazon Garzanti? Ma dai.
Io da piccolo ero andato a ripescarmi The End dei Doors, dove c’è quel verso che dice “Father – yes son? – I want to kill you”. Ma era un inglese molto basico, come si vede. Invece non riuscirò mai a capire chi ascolta rap inglese in Italia. Bisogna avere una conoscenza della lingua, e perfino della cultura, molto approfondite, per capirci qualcosa.
Altrimenti, si simula. Ci si affeziona a qualcosa perché ci hanno detto che è bello. Ci si scandalizza, perché ci hanno detto che è scandaloso. Ama, odia, scandalizzati, consuma, crepa. Che lo facciano i ragazzini, passi. Ma anche i vescovi. Tirando fuori anche quello che è successo a Novi Ligure. Per carità d’Iddio.