Leonardo

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Dante a scuola non è obbligatorio

Il dirigente di una scuola media trevigiana ha esentato due studenti musulmani dallo studio della Divina Commedia. In una riga, la notizia è questa. Sembra inventata apposta per discuterne, a lungo, e invano, in attesa di qualche altro spunto altrettanto pruriginoso. Quel che segue è un tentativo di segnalare i rami secchi della discussione, quelli che non porteranno da nessuna parte e che, se potessi farlo, andrei personalmente a segare ovunque spunteranno, sui media e sulle piattaforme sociali. 

– La scuola media (secondaria di primo grado) è un luogo che tutti crediamo di conoscere e che invece nessuno sa com’è fatta. Non lo so nemmeno io che ci lavoro dentro, per via che ogni scuola riflette una situazione molto particolare, che cambia in fretta. Faccio fatica a capire cosa succede in altri corsi della mia stessa scuola, per cui non credo di poter farmi facilmente un’idea di quale sia la situazione che ha portato in un altro quartiere di un’altra città un dirigente a porsi il problema, a confrontarsi coi genitori e a prendere una determinata decisione. Prima di esprimere un giudizio dovrei come minimo parlarne con lui, sentire il suo parere – e possibilmente anche quello di altri osservatori diretti. I giornalisti dovrebbero fare questo, secondo me: andare a cercare insegnanti, studenti, genitori in grado di restituirci almeno un pezzo del contesto; invece salta fuori che dal tavolino di casa devono aizzare le vostre paure e suggerirvi che l’occidente è minacciato da fanatici che non vogliono leggere l’Inferno di Dante (e in compenso a quanto pare leggeranno qualche pagina in più del Decameron, non esattamente un testo di propaganda islamica). 

– Una parte del contesto che ci sfugge, e che è cruciale, è il grado di alfabetizzazione degli studenti in questione. Ai giornalisti sembra sufficiente ricordare che sono musulmani, come se tutti gli studenti musulmani italiani (centinaia di migliaia) arrivassero allo stesso livello di conoscenza della lingua italiana nel medesimo momento: e invece no, abbiamo musulmani nati in Italia e perfettamente integrati già alla scuola primaria, abbiamo altri musulmani nati in Italia ma che non parlano italiano in casa, e altri appena arrivati che non parlano nemmeno la stessa lingua di altri musulmani nella stessa classe. L’Inferno è scritto in un italiano del Duecento che crea difficoltà anche agli italofoni laureati. Certo, puoi sostituirlo con una parafrasi. Se proprio t’interessa il contenuto, più della forma. Ma è da qualche secolo che abbiamo deciso esattamente il contrario: se togli il contenuto dalla forma, ti restano le elucubrazioni bassomedievali di un tizio che vagheggiava un Impero universale, che riteneva giusto che i non credenti fossero torturati per l’eternità, il cui poema consiste in una colossale lista dei Buoni e Cattivi stilata da lui, con tanto di premi per i buoni e torture per i Cattivi. Se proprio insisti a insegnare la Commedia a un ragazzino che non sa ancora bene l’italiano, devi semplificare di molto il messaggio, fino al punto che il messaggio potrebbe ridursi davvero a questo: se t’innamori vai all’inferno, se sei musulmano vai all’inferno, se mangi i tuoi figli vai all’inferno. A quel punto meglio leggere Boccaccio, davvero. O Baricco, e non lo dico da estimatore.

– Quello che ha fatto, il dirigente aveva tutto il diritto di farlo. Dante alle medie non è obbligatorio; mi domando se lo sia mai stato. Ricorderemo ai lettori increduli, per l’ennesima volta, che “i programmi scolastici” non esistono; ove per “programmi scolastici” si voglia intendere un canone di testi e autori obbligatori nella scuola dell’obbligo. Non è che un canone italiano non esista, e non abbia contorni perfino troppo definiti (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, eccetera): ma non si è imposto per legge o circolare ministeriale. In caso contrario immaginatevi cosa starebbe succedendo oggi, con questo governo. 

– Non solo è possibile completare serenamente il primo ciclo di istruzione senza aver mai aperto una pagina di Dante, ma non è affatto escluso che sia meglio così: perlomeno se lo chiedi a un insegnante del secondo ciclo, in nove casi su dieci ti scongiurerà di lasciar perdere Dante, lasciar perdere Manzoni e tutta la Storia della letteratura; che insomma sarebbe meglio che a dodici anni i ragazzi imparassero l’italiano su testi più adatti alla loro età. È un punto di vista che sostanzialmente condivido, anche se poi nelle mie classi di solito apro Dante, persino Petrarca, persino Ariosto – ma sempre sentendomi un po’ in colpa, come l’insegnante che preferisce parlare delle proprie passioni che delle cose che più appassionerebbero i ragazzi. Diciamo che per un’ora alla settimana preferisco parlare di cose che conosco e che frequento bene, piuttosto di cose che i ragazzi farebbero meglio a scoprire da soli. Diciamo anche che mi fido di me, della mia capacità di introdurre Dante senza correre il rischio che qualche ragazzino trattenga le informazioni sbagliate e racconti in casa che la terra è al centro dell’universo, e ancora più al centro c’è Lucifero che divora i peccatori. E che forse mi sbaglio, perché di ragazzini ne ho avuti tanti e mica tutti li ho capiti, mica tutti potevano capire me.

– Malgrado l’infosfera faccia il possibile per convincerci che ogni notizia sia davvero “nuova”, per tenerci in un eterno presente in cui il nostro stile di vita è perennemente minacciato, perennemente sul punto di cedere a un’improvvisa avanzata islamica e/o woke, noi dell’opportunità di studiare Dante discutiamo da decenni e non sto esagerando: ho in archivio un pezzo del 2012, scritto meglio di questo perché era per l’Unita.it. Piccola curiosità: a quel tempo a sollecitare la discussione era Gherush 92, un “Comitato per i diritti umani” di evidente ispirazione ebraica: e infatti in quel caso la Commedia era definita un testo antisemita. Invece qualche mese fa, durante la campagna femminista #unite #rompiamoilsilenzio, due scrittrici pensarono che fosse il caso di denunciare “il sessismo, i pregiudizi di genere” nei manuali di Storia della letteratura, ma anche nella Storia della letteratura tout court, Commedia inclusa. Un intervento che al tempo mi lasciò perplesso, se non altro perché a ogni capoverso le stesse autrici sembravano pregare di non essere prese troppo sul serio: “Certo” scrivevano proprio dopo aver accusato Dante di sessismo, “la realtà dei testi e del loro contesto sarebbe più complicata di così, ma quello che rimane…” ecco, il problema è sempre questo: io posso anche provare a introdurre la Commedia ai dodicenni come l’oggetto complesso che è, ma cosa rimane?

– Ogni volta che qualcuno vi stuzzica un senso di indignazione minacciando la cancellazione della Commedia, fate questo test: trovate irritante un musulmano che non vuole studiare Dante? E se fossero gli ebrei di Gherush 92, vi irriterebbe ugualmente? E se fosse un collettivo di femministe? Il test potrebbe aiutarvi a capire il vostro contesto: cosa sareste disposti a rinunciare pur di salvare il fondamentale studio di Dante? Nel 90% dei casi temo si tratti della convivenza con la comunità islamica, una delle minoranze numericamente più importanti in Italia, che non ha rappresentanza giuridica e fiscale, i cui membri vengono trattati da ospiti temporanei benché spesso siano cresciuti qui e la Costituzione preveda che abbiano gli stessi diritti di Ernesto Galli della Loggia che crede che difendere l’Occidente e lo sterminio di Gaza sia la stessa cosa. Perché non abbiamo un simile fanatico musulmano a scrivere fanatismi analoghi su un’altra colonnina dello stesso quotidiano? Lo so che è una domanda retorica, ma vi rendete conto che un musulmano avrebbe lo stesso diritto costituzionale di GdL di intrattenerci con analoghe scemenze, che magari intercetterebbero un pubblico più vasto dei liberaloidi fulminati sulla via di Gerusalemme? Ce la fate ad accettare che i musulmani non sono ospiti ingrati; che hanno lo stesso diritto di vivere qui che avete voi, e che ci resteranno? 

– Chi parla di cancel culture, nel 90% dei casi esagera. Non siamo negli USA, non stiamo togliendo Dante dalle biblioteche scolastiche – e anche negli USA, non stanno tutti togliendo Mark Twain dalle biblioteche scolastiche. Chi sollecita a turno queste discussioni non vuole cancellare: vuole modificare il contesto che per amor di polemica finge di ignorare. Gerush 92 non voleva impedirci di studiare Dante, ma chiedeva al ministero di “inserire i necessari commenti e chiarimenti”, come se nei manuali non ci fossero già: in controluce si stava proponendo come autorità in grado di suggerire questi “commenti”: stava lottando per conquistare una visibilità e un’autorità. Le femministe non smettono di ricordarci che non vogliono cancellare Dante o Ariosto: ma vogliono dettare le condizioni; non solo denunciare il contesto, ma metterci sopra una bandierina. “La cancel culture si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l’obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l’obiettivo”.

– L’unico ramo probabilmente non secco di questa discussione è la domanda che lascia in sospeso. I musulmani non vogliono leggere Dante? Ok, non è che abbiano tutti i torti. Gli ebrei trovano Dante antisemita? Eh, dagli torto. Le femministe lo trovano discutibile? Hanno decine di motivi per farlo. E noi? Perché pensiamo che valga ancora la pena di leggerlo, a scuola e altrove? Io risposte qua e là ne ho già date: ovviamente riguardano me, e al massimo i miei poveri studenti. Ognuno deve trovare le sue. 

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Il popolo più intelligente (che fine ha fatto)

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un determinista geografico – perlomeno nel senso che credo che la geografia determini il modo in cui stiamo al mondo. L’ho sempre pensata così, quindi all’inizio non era che un pregiudizio: ma in seguito non ho trovato che conferme. 

Ad esempio: c’era una volta, ma neanche tantissimo tempo fa, un popolo che per una lunga e complicata serie di problemi era stato costretto a spargersi per il mondo, e inevitabilmente a mescolarsi con gli altri popoli; pur conservando con una certa ostinazione i riti e le leggende di una cultura millenaria. Ebbene, è probabile che questo popolo nei secoli avesse sviluppato una caratteristica peculiare: un’intelligenza media… sopra la media. Possiamo dimostrarlo? No, ma abbiamo molti indizi: il grande numero di intellettuali di spicco, alcuni dei quali diedero letteralmente vita a intere branche della scienza e della filosofia; la quantità di personalità ascese ai livelli più alti della scena politica e finanziaria senza diritto di nascita, o anche banalmente il numero di premi Nobel conferiti. Non bastava nascere in seno a quel popolo per essere più intelligenti, ma in un qualche modo aiutava. Il perché non è chiaro, e ci dà anche un certo fastidio domandarcelo. Si ha sempre paura di fare un discorso razzista.

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Sarebbe senz’altro un discorso razzista, se considerassimo quel popolo una razza (i nazisti lo facevano); ma siccome nel frattempo abbiamo concluso che le razze non esistono, e in particolare non potrebbe esisterne una che si mescoli nei secoli con le altre che incontra sulla strada, l’ipotesi razziale è facilmente archiviata. Più difficile risulta scartare del tutto un’ipotesi genetico-evolutiva, ovvero una tendenza tipica di quella specifica cultura a premiare gli individui più intelligenti, quelli che imparavano a leggere e a calcolare con meno sforzo; magari erano considerati elementi importanti della comunità e stimolati a sposarsi tra loro e ad avere famiglie numerose; laddove in altre culture individui con le stesse predisposizioni venivano persino disincentivati a figliare, mediante l’istituzione di caste di intellettuali celibi (vedi il cattolicesimo). Un altro stimolo poteva venire dall’appartenere, ovunque nel mondo, a una minoranza quasi costantemente minacciata e angariata; il lavoro intellettuale poteva apparire ai membri di questa comunità una via di fuga dai ghetti fisici e virtuali. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e probabilmente è meglio così – a un dittatore distopico potrebbe venire in mente di istituire un ghetto anche solo per verificare l’ipotesi.

Va bene, direte voi, e il determinismo geografico cosa c’entra? Parliamo di uno dei popoli meno geograficamente determinati del mondo! Ecco, appunto. Erano mediamente più intelligenti, erano spesso perseguitati (forse anche per questo motivo), erano sparsi per tre e più continenti. A un certo punto qualcuno di loro ha pensato, e non sembrava una cattiva idea: ma se ce ne tornassimo tutti nello stesso posto? Non necessariamente quello da cui provenivano i nostri antenati duemila anni fa – oppure no, aspetta, tutto sommato la terra costa lì meno che altrove, andiamo proprio lì. Ecco. Che idea potente. Milioni di persone mediamente più intelligenti degli altri, concentrate nello stesso piccolo spicchio di terra. Cosa avrebbero potuto fare, cosa avrebbero potuto diventare? Una civiltà da fare impallidire l’Atene di Pericle; ebbene, dopo qualche generazione oso dire di no. 

Sarò persino più brutale. Sono andati a vivere nel deserto, sono già diventati predoni. La geografia è un destino. Lo dico senza la minima soddisfazione, perché se invece fossero riusciti a farlo fiorire davvero, quel deserto, sarebbe stata una buona notizia per tutti. Ma per farlo fiorire serve banalmente l’acqua; per avere l’acqua bisogna prenderla ai palestinesi, e il resto della storia lo sapete. Dopodiché certo, Israele continua a essere un Paese culturalmente rilevante, con università importanti e intellettuali di spicco. Sarebbe anche il minimo, coi soldi che arrivano dagli USA ogni anno. Ma se andiamo a vedere un po’ più da vicino, ecco, nelle università gli studenti prendono a sassate i professori dissidenti. I grandi intellettuali hanno una certa età, i più giovani sembrano meno interessanti e più faziosi: esattamente come in Italia, ma perché avrebbe dovuto finire come in Italia?

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C’erano tutte le premesse perché Israele diventasse un faro per l’occidente e il mondo; appunto, c’erano tutte le premesse tranne la geografia: si vede che la geografia è l’unica condizione necessaria. Prendi il popolo più intelligente del mondo, schiaffalo su una strisciolina di terra con poche risorse, in mezzo ad altri popoli ostili, e guarda quanto ci mette a sviluppare un nazionalismo fanatico, e a devolversi anima e corpo a un militarismo spietato. La più giovane delle nazioni occidentali a costituirsi tale è anche il più grande argomento contro il concetto di nazione. E noi che una volta ci misuravamo con scrittori e intellettuali di straordinario acume, ci ritroviamo a leggere il fondo di una tale Dina Porat, “consulente accademica del centro Vad Yashem e professoressa emerita dell’università di Tel Aviv”. 

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Parliamo di un temino sconfortante, che in futuro magari sarà usato come pietra di paragone per stabilire la degenerazione dell’intelligenza media nel Ventunesimo secolo, probabilmente a causa della concentrazione di polveri sottili. Attenzione, non sto dicendo che la professoressa sia stupida – mai mi permetterei, non la conosco – ma è decisamente stupido il discorso che sceglie di fare: tarato per lettori incapaci di discorsi complessi, che poi saremmo noi che lo leggiamo. La professoressa ci spiega per prima cosa che la mentalità israeliana è per sua natura occidentale. A riprova di ciò cita… niente, assolutamente niente, l’occidentalità degli israeliani è autoevidente, eventuali prove ci affaticherebbero. Il fatto che gli israeliani stiano combattendo una lotta tribale contro altre fazioni tribali, a dispetto di ogni logica strategica ed economica, non deve distrarci. Se anche si stanno facendo terra bruciata intorno, lo fanno con una mentalità occidentale che “pensa seguendo linee logiche, calcola le proprie mosse in base al profitto e mira al benessere di cittadini e nazioni”, capito? Noi occidentali siamo così, il romanticismo lo avrà elaborato qualche altra cultura. “La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti…” No, aspetta.

Chiedo al lettore, se è arrivato fin qui, un piccolo sforzo. Chiuda gli occhi. Pensi a Lutero. Ad Agostino di Ippona. A Paolo di Tarso. E poi rilegga.

La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti.

Per scrivere qualcosa del genere (e per pubblicarlo sul quotidiano che un tempo era Repubblica), bisogna essere o molto in buona fede, o molto in malafede. Non sta a me determinarlo, ma o la professoressa Porat ignora completamente il pensiero cristiano – il che denoterebbe un tragico abbassamento degli standard qualitativi delle istituzioni accademiche che rappresenta – oppure pensa che ce la beviamo, in fondo figurati se li studiamo davvero, quei Luteri e quegli Agostini.

https://platform.twitter.com/widgets.jsCi sta blandendo, proprio come un accorto mercante beduino blandisce il cliente frescone. Ed eccoci davanti al paradosso del bugiardo: se la prof.sa Porat ci sta prendendo in giro, non è “fondamentalmente onesta”, e quindi non è così occidentale come vorrebbe sembrare, anzi starebbe facendo prova di astuzia levantina… oppure no, è perfettamente occidentale, tranne che la cultura occidentale non è così logica e consequenziale come lei sostiene che sia: magari mira davvero al “benessere di cittadini e nazioni”, ma nel farlo non si preoccupa di dire bugie e causare il malessere di altri cittadini, altre nazioni. Non saprei. Mi sembra tutto così avvilente. Forse la Fallaci era scesa così in basso, ma era anziana, era malata ed era il Corriere, ventidue anni fa. Da tanti errori dovremmo avere capito qualcosa e invece no, siamo ancora allo stereotipo dell’occidentale onesto che non capisce il beduino astuto e malvagio. Tranne che anche questa propaganda di basso livello intellettuale cosa ormai l’abbiamo delocalizzata, la facciamo scrivere direttamente ai beduini.  

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Quando i leader e gli opinion maker israeliani e occidentali pensano all’Islam e ai musulmani lo fanno sulla base del proprio modo di pensare e delle proprie convinzioni, e non su una profonda e attenta conoscenza della mentalità e delle convinzioni dei musulmani. Credono ciò che vorrebbero fosse vero. Questo è il motivo per cui di fronte ai fatti del sette ottobre Israele si è trovata impreparata…

Ah, ecco, questo è il motivo. Pensi che ingenui, professoressa; noi credevamo che il governo israeliano si fosse trovato impreparato perché incompetente, assorbito dalle beghe interne, e non del tutto ostile all’eventualità che qualche miliziano producesse un casus belli prima delle elezioni USA del 2024. Mentre invece ora è tutto chiaro: non se l’aspettavano perché erano occidentali, cioè un po’ cristiani, cioè un po’ ingenui, incapaci di concepire la malvagità del nemico. Inoltre la terza guerra mondiale è in pratica già scoppiata, perché Hamas è un emissario dell’Iran, che “ha stretto un’alleanza con Russia e Cina. I tre Paesi sono ferventemente anti-americani e anti-occidentali, e quindi ostili ad Israele e agli ebrei”. Quante volte ci è capitato di dircelo in questi anni: chi aspetta i barbari, molto spesso non sa di esserlo. La professoressa è convinta di fare un discorso “occidentale”: razionale, cartesiano, utilitaristico. Laddove sotto una paginetta del genere l’Occidente è morto, o quantomeno riavvolto fino al secolo XI: qualcuno dal balcone ci sta chiamando alle crociate, i cristiani sono buoni e i mori sono cattivi. Certo che questi discorsi si leggevano anche vent’anni fa. Su Libero, sul Giornale. Oggi arrivano su Repubblica, e infiammano quel che resta di una borghesia che, nello spicchio che intravedo da Twitter, mi sembra completamente sconvolta dagli eventi: hanno investito molta emotività su fronti che non stanno reggendo. L’Ucraina è un baluardo dell’Occidente – salvo che il fronte cede; Israele è un baluardo dell’Occidente – peccato che stia commettendo crimini contro l’umanità. Ormai vedo professori cattedratici buttarsi su Milei, il quale per quel che ci è dato da capire ha una concezione dell’economia tanto facilona quanto facilone è l’approccio della Porat al conflitto israelopalestinese. Stiamo diventando tutti scemi? Sono le polveri sottili? O la semplificazione intellettuale e linguistica è quel che avviene quando comincia una guerra, e la guerra è appunto già cominciata?

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Tre cappuccini in Etiopia

3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo

Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce “Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo” del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei santi si legge ciò:

“Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo”.

Il… sempre presente estremismo arabo? 

È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest’ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di “estremismo arabo” si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché “estremismo arabo” è proprio un’espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché… né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale

Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar

A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell’omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va. 

All’inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall’ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l’Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l’impero del Negus non è dietro l’angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope. 

Nessun “estremista arabo” li ostacola, ma giunti all’altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com’era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l’ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata. 

Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un’esperienza missionaria non fortunata nell’isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano. 

A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove si per qualche tempo tirano a campare curando i malati. Liberat improvvisa anche un’attività di orafo: ma la loro permanenza in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un’altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest’ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un’opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l’ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c’entrano molto.

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Un’africana in Veneto

8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)

Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall’Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all’antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l’attenzione di fedeli e curiosi (“Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!“) In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto. 

Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz’altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome (“Fortunata”), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l’ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia. 

La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un’altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l’Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l’unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento. 

Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d’istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.

Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt’Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c’è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po’ l’effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l’esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l’ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell’impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l’italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l’otto febbraio del 1947. 

Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: “Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?”

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Inginocchiarsi per chi, per cosa

Le foto sono strumenti potenti, ma non dicono necessariamente la verità. Le foto che immortalarono il podio olimpico dei 200 metri all’Olimpiade del 1968 mostrano due atleti neri col braccio alzato e il pugno chiuso – anche se non sappiamo ancora quanto il gesto costerà a entrambi, intuiamo di trovarci davanti a un gesto forte di protesta. A rendere l’immagine così potente è soprattutto il contrasto col terzo atleta, bianco e apparentemente indifferente: è lui a creare l’asimmetria necessaria. Il bianco guarda avanti, i neri protestano. Per innalzare quelle mani guantate serve così tanta forza di volontà che a Tommie Smith e John Carlos non ne resta per alzare la testa: sanno di essere vittime sacrificali ma fanno quel che è giusto fare, e poi sia quel che sia. Dopo aver visto queste foto è facile provare un moto d’odio per Peter Norman, il velocista australiano medaglia d’argento che guarda avanti e pare inconsapevole. È inevitabile ma è anche un errore: Norman non solo simpatizzava coi due colleghi e collaborò alla loro protesta (pagando anch’egli un prezzo alto); ma fu proprio lui a suggerire a Smith e Carlos di alzare in quel modo i pugni che, se ci fate caso, sono complementari: uno alza il destro e uno il sinistro.

John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).
John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).

In effetti l’idea originaria era di alzare insieme pugni destri e sinistri, in una posa che avrebbe potuto essere scambiata per quella dell’atleta trionfante: a rendere esplicita la protesta nei confronti del segregazionismo USA sarebbero stati i guanti neri – oltre alla coccarda del movimento che promuoveva la protesta, l’Olympic Project for Human Rights. Carlos però si era scordato i guanti al villaggio olimpico. Fu Norman a suggerire a Smith di prestargli uno dei suoi: forse da australiano gli sfuggiva l’ostilità del pubblico mainstream americano nei confronti della gestualità del pugno chiuso, da decenni associata all’antagonismo di sinistra. Quello che invece Norman colse al volo è che mostrare i pugni spettava solo ai due colleghi: la loro protesta era giusta, ma era la loro protesta. Un pugno bianco e non guantato l’avrebbe soltanto annacquata. Norman si accontentò di indossare la coccarda dell’Olympic Project: tanto gli bastò per essere squalificato dalla federazione australiana. Ma perché mi sono messo a raccontare di un episodio di protesta sportiva di più mezzo secolo fa?

Molti lettori potrebbero averlo già capito (in fondo sono lettori del Post). Magari l’intento è confrontare le epiche e iconiche proteste del passato – quando alzare un pugno ti costava la carriera – con la situazione presente in cui ogni azione diventa immediatamente standardizzata e pigra, al punto che agli Europei non si capisce nemmeno più se il gesto veramente politico sia inginocchiarsi o no. Ecco, sì, forse volevo scrivere un pezzo del genere, ma come la metto con Colin Kaepernick? Come faccio a definire ‘pigro’ il gesto che ha inventato e che gli è costato una carriera professionistica nel football americano, non nel 1968 ma dal 2017 in poi? Quando Kaepernick smise di alzarsi durante l’inno nazionale Trump si era appena insediato alla Casa Bianca e i media stavano documentando una inquietante recrudescenza degli episodi di violenza delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini afroamericani (chi ricollega il gesto al più tardo assassinio di George Floyd sta già facendo della mitologia). In una prima fase Kaepernick rimaneva semplicemente seduto: un gesto di rottura molto forte nei confronti di una ritualità particolarmente consolidata negli USA, dove vige tuttora un rispetto religioso per simboli unificanti come l’Inno e la Bandiera. Ai giornalisti che glielo domandarono rispose senza mezzi termini: “Non mi alzerò per mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime la gente nera e la gente di colore. Per me questo è più importante del football, e sarebbe egoista da parte mia guardare da un’altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente stipendiata che uccide e la passa liscia”. In seguito, dopo una serie di discussione con colleghi e veterani, Kaepernick decise di non restare seduto durante l’inno, ma di inginocchiarsi.

Il gesto nasce quindi da un compromesso: Kaepernick non intendeva offendere chi serve con orgoglio la sua nazione, ma continuava a far presente che questo orgoglio non poteva condividerlo. Così codificato, il gesto cominciò a essere imitato da alcuni colleghi, ma soprattutto divenne un’ossessione per Trump, che a più riprese chiese il licenziamento per chi lo praticava. Kaepernick probabilmente passerà alla Storia, proprio come Carlos e Smith: nel frattempo però ha smesso di giocare; nessuna squadra l’ha più cercato. Protestare è ancora un gesto rischioso, quando la causa è controversa e il pubblico non è pronto – ovvero, in tutti i casi in cui protestare ha veramente senso. Ecco, forse ora è chiaro dove sto andando a parare: quello che è nato negli USA all’interno di un movimento preciso (Black Lives Matter) con richieste precise (eliminare la violenza poliziesca soprattutto nei confronti della comunità afroamericana), forse in Europa è arrivato un po’ di rimbalzo, più che per emulazione che per una reale esigenza sociale. Sto veramente arrivando lì? Perché non è molto lontano da quel che potrebbero dichiarare Orban e Salvini sull’argomento. Faccio ancora in tempo a correggere un po’ la rotta?

A quanto pare i primi a inginocchiarsi in Europa sono stati i calciatori della Premier League – come sempre la Gran Bretagna è il filtro da cui ci arriva la cultura americana, un filtro tutt’altro che neutro. Inginocchiarsi su un campo di calcio inglese è un gesto irrituale, ma senza quella punta di blasfemia e vilipendio che veniva percepita sugli spalti degli stadi americani; la pratica si ispira esplicitamente al movimento Black Lives Matter, ma spostando l’obiettivo verso un più generico antirazzismo. Se è comunque abbastanza chiaro per cosa si stiano inginocchiando i calciatori inglesi, è un po’ più difficile capire contro chi. Il bersaglio polemico non sembra più l’autorità costituita e le sue forze di polizia; in molti casi sembra che l’avversario sia il pubblico, le frange di tifosi che in effetti talvolta reagiscono fischiando. È uno scenario molto più vicino a quello degli spettatori italiani: la tensione tra squadre sempre più meticce e tifosi sempre più identitari o razzisti. A ogni contestazione, il sindacato dei calciatori professionisti ribadisce che i suoi iscritti continueranno a inginocchiarsi e che il pubblico questa cosa la deve accettare; insomma inginocchiarsi è un modo di chiedere al pubblico: da che parte stai? Anche in questo caso dietro al successo di un gesto di protesta c’è una negoziazione: inginocchiarsi è un gesto semplice, non rovina lo spettacolo e crea senz’altro meno tensioni e strascichi di altri (pensate ai casi in cui un calciatore o un’intera squadra reagisce ai cori razzisti ritirandosi dal campo e incorrendo in una squalifica).

Più che un gesto di protesta, in Europa l’inchino diventa un gesto identitario: appoggiare il ginocchio significa dichiarare rapidamente il proprio antirazzismo. Ed eccoci agli Europei, dove – contrariamente a quello che si sente in giro – nessun organo ufficiale ha chiesto ai calciatori di inginocchiarsi. I calciatori inglesi hanno fatto sapere che lo avrebbero fatto, gli scozzesi hanno scelto di farlo in occasione di Inghilterra-Scozia; altre nazionali sono andate in ordine sparso; la UEFA si è limitata a chiedere rispetto per chi decideva di inginocchiarsi. Nel frattempo però l’argomento ha raggiunto le prime pagine, forse perché la fase a gironi non è così eccitante (se a Cristiano Ronaldo basta spostare una bottiglietta per far discutere un paio di giorni). Con un’inversione tipica delle guerre culturali contemporanee, la scelta identitaria è diventata quella di non inginocchiarsi: persino Orban ha dedicato un po’ del suo tempo a spiegare perché i calciatori ungheresi non sono tenuti a farlo. In effetti chi si inginocchia sta ancora protestando, o si sta limitando a citare in favore di videocamera un gesto ormai estrapolato dal contesto originario? La forza del movimento Black Lives Matter risiedeva anche nel modo in cui circoscriveva la sua protesta. Non un generico antirazzismo, ma le Vite dei Neri Contano: uno slogan che non a caso gli avversari hanno cercato di scimmiottare per depotenziarlo, con lo slogan All Lives Matter. La standardizzazione dell’inchino pre-partita corre forse lo stesso rischio: chi si inchina rischia di non sapere perché lo fa. Senz’altro non per chiedere il taglio dei fondi alla polizia americana, come chiedono gli attivisti BLM: e allora per cosa? Se è un gesto che si limita a definire un’identità, il rischio è che si trasformi in una ritualità vuota, l’ennesima pratica di virtue signaling un po’ fine a sé stessa; col non trascurabile effetto collaterale di far emergere, per contrasto le posizioni di chi rivendica a voce alta il rifiuto dell’inchino, l’insofferenza per un antirazzismo imposto dall’alto più con la pressione mediatica che con la forza degli argomenti.

Spero di non essere frainteso (ma è inevitabile): sono contento se molti calciatori si sentono antirazzisti e vogliono testimoniarlo sul campo; ovviamente preferirei che avessero obiettivi chiari e non un generico antirazzismo d’importazione, visto che anche in Italia c’è molto da fare (pensate se qualche calciatore italiano s’inginocchiasse per le vittime delle forze dell’ordine italiane o per le vittime del razzismo italiano: pensate che scandalo vero sarebbe). Mi dispiace che tutto debba sempre essere importato acriticamente dall’America, non perché gli americani non abbiano ottimi motivi per protestare come protestano, ma perché sono motivi che non capiamo e comunque non sono i nostri. Ho la sensazione che l’inchino in Italia venga percepito come il blackface, cioè una cosa che non si è capito come funziona tranne che se ti sbagli tutto il resto del mondo ti dà del razzista e quindi anche chi non capisce prima o poi si adegua – laddove capire sarebbe sempre la cosa più importante. Trovo controproducente la pressione mediatica che sospinge giornalisti e politici a etichettare come razzisti i calciatori che rimangono in piedi e che magari semplicemente hanno le idee confuse (anche i calciatori a volte possono averle confuse). I gesti di protesta dovrebbero fare scalpore e generare emulazione, come successe a Carlos, Smith e a Kaepernick; se invece diventano divisivi, rischiamo che un sacco di gente si ritrovi sul lato dei razzisti semplicemente perché erano in piedi quando abbiamo fatto le squadre. Quando vedo un gruppo di calciatori un po’ in ginocchio e un po’ no, cerco di combattere l’impulso a dividerli in buoni e cattivi; lo stesso impulso che mi faceva odiare Peter Norman, quando ancora non conoscevo la sua storia e l’equilibrio con cui seppe stare dalla parte dei giusti senza togliere loro l’onore della ribalta.

 

(Quasi dimenticavo: oggi 23 giugno ricorre la festa dei 1003 Santi Martiri di Nicomedia, che si presentarono davanti all’imperatore Diocleziano per testimoniare la loro fede, e Diocleziano li fece ammazzare tutti e 1003. Giusto per ribadire che protestare è sempre stato pericoloso. Chi non rischia qualcosa non sta protestando davvero. Vale per tutti noi, in ginocchio o dritti in piedi).

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Facce nere e teste dure

Ogni tanto mi riviene voglia di scrivere un pezzo sulla blackface – poi mi trattengo, mi dico: aspetta l’occasione all’altezza. Non farti stimolare dall’ultima scemenza. Il problema è che la blackface è una scemenza, per definizione – o la fai consapevolmente, e allora sei scemo, oppure ci caschi senza saperlo, e allora ormai sei scemo lo stesso. Poi ci sono certi choc culturali impensabili prima dei Social Network, ad esempio Diet Prada che scopre le caramelle tabù. Ma il più delle volte si tratta semplicemente di un equivoco idiota a proposito di un idiota che non capisce un equivoco, e qui non credo ci sia bisogno di spiegare a che Ministro dell’Interno sto pensando.

Dettaglio imbarazzante: quando si parla di Blackface provo sempre una punta di immotivato orgoglio. Credo di essere stato uno dei primi ad averne parlato in Italia in un dibattito mainstream, o forse non era proprio mainstream ma insomma era sul Post, e io non ero un sociologo o un antropologo ma semplicemente un blogger. È successo qualche anno fa: sembrano secoli. La cosa più buffa, o comunque interessante, è che non evocai il concetto di Blackface per spiegarlo, ma perché mi serviva un esempio di come funzionava il modello della tolleranza in Nordamerica, e perché il nostro è completamente diverso. Cioè nel 2015 se mi capitava di parlare di Blackface era per spiegare quanto diversi da noi fossero gli americani, e in che modo la loro diversità (che non capivamo) avrebbe potuto fornirci un esempio diverso per capire la situazione in cui ci eravamo cacciati con… le vignette su Maometto. Ve le ricordate le vignette su Maometto? Una volta non si parlava d’altro, giuro. Fino all’anno scorso su questo blog c’erano più pezzi sulle vignette antimaomettane che sulle canzoni dei Beatles, l’avreste detto mai.
Un’immagine di Tom e Jerry censurata dai network tv USA. 
(La prima volta che la usai per corredare un pezzo, trovavo la cosa piuttosto assurda: adesso no, non faccio più nessuna fatica a capire quanto quei labbroni e quelle treccine possano risultare offensivi). 

Faccio un breve riassunto per chi è nato nel frattempo: negli anni Zero si sviluppò un dibattito giornalistico sull’opportunità o no di disegnare il profeta dell’Islam, e in particolare in vignette satiriche. Questo in una situazione in cui la comunità islamica (sempre più importante in Europa) insisteva abbastanza compattamente sul fatto che raffigurare il volto di Maometto, anche in situazioni non satiriche, fosse blasfemo e offensivo. Il che portò alcuni difensori della libertà di parola e di stampa su posizioni islamofobe, e molti islamofobi a diventare improvvisamente difensori della libertà di parola e di stampa. Fu insomma una delle occasioni in cui prese forma, anche in Europa, quel blocco libertario di destra che negli USA è poi diventata la base del consenso di Trump. Dal canto loro gli integralisti islamici non persero l’occasione per accreditare l’immagine più oscurantista della loro religione: la rivista satirica Charlie Hebdo fu vittima di due attentati; nel secondo la redazione fu massacrata. Ovviamente la stampa europea rispose ribadendo il principio della libertà di stampa e di espressione, mentre dagli USA arrivavano reazioni molto più sfumate: non era affatto impossibile, dall’altra parte dell’Atlantico affermare che i vignettisti francesi se la fossero cercata. Un approccio del genere – cercavo di spiegare – dipendeva dal modo in cui in Nordamerica le minoranze avevano lottato per trovare un modus vivendi, anzi convivendi. E a questo punto mi veniva spontaneo fare l’esempio del Blackface, in quanto tabù arbitrario, imposto da una minoranza e accettato come tale:

Quella che spesso chiamiamo “l’ossessione del politically correct” (incoraggiati in questo dagli stessi americani, che per primi ne vedono i parossismi), è una mentalità che muove da secoli di continue rinegoziazioni tra tribù (wasp, cattolici, afroamericani, latinos). Negli USA, come noto, tingersi il volto di nero per fingersi afroamericano è considerato un gesto razzista, non necessariamente sanzionabile ma universalmente esecrato. Le ragioni per cui si è arrivati alla codifica di questa specie di tabù sono complesse a affascinanti, ma interessano fino a un certo punto: l’importante è che a un certo punto una comunità etnica definita ha isolato un simbolo (il blackface) e ha piantato un paletto: questa cosa ci offende. Magari non sarà vietata dalla legge, ma se voi ci offendete noi boicotteremo i vostri prodotti, i vostri programmi, e non voteremo per voi.

Col senno del poi forse davo troppo per scontato che qui da noi si sapesse di cosa stavo parlando; negli anni successivi ho perso il conto (giuro, ho perso il conto) degli episodi in cui qualche vip italiano è cascato nel tranello. Tre o quattro volte anche solo Dolce e Gabbana. Oggi forse ormai si è capito cos’è la blackface, ma ho il sospetto che si sia soltanto ingrandito un equivoco. Sempre più persone hanno capito che si tratta di una situazione che è percepita come offensiva da una minoranza. Quel che sfugge, e continua a sfuggire, è l’aspetto arbitrario del fenomeno. Non è che la blackface non abbia una storia (così come il divieto di raffigurare il volto del Profeta), ma il motivo per cui è diventata un tabù è che una comunità ha scelto di individuarla come tale, puntando una bandiera su un terreno semiotico e avvertendo le altre comunità: da qui non arretreremo. La tolleranza americana è la prosecuzione della guerra razziale sul campo delle immagini e dei simboli: ogni tabù è una prova di forza. Il fatto che qualche italiano si stia vergognando per i fotomontaggi di un ministro degli Esteri molto abbronzato può sembrare un equivoco, anzi lo è, ma è anche la dimostrazione che la comunità afroamericana è riuscita a esportare i suoi tabù persino in uno dei Paesi europei dove si capisce meno l’inglese. Sarei tentato di usare il vecchio termine “imperialismo culturale”, non fosse per un dubbio: ma se sono così forti, gli afroamericani, com’è che non riescono a impedire di farsi sparare per strada? (Magari continua).

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Esdra e l’invenzione d’Israele

13 luglio – Esdra (V secolo a.C.), sacerdote.

[2014]. I mormoni che nel 1846 fuggirono dall’Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l’imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all’altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un’altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi – tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l’ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un’invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
Trent’anni di lobbying per ottenere una provincia autonoma,
e appena arrivate qui vi accoppiate con le indigene. È sconfortante.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest’ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l’inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell’impero Babilonese, sembra sensibile all’argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l’Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro sottoscrive l’editto, chissà se ci avrà pensato più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di suggellare tante altre tavolette o papiri che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent’anni…

L’Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l’esodo dall’Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l’immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c’è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall’empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.

Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un’impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all’esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo “io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele” è significativamente consonante con l’assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze – timore che riflette lo stato d’animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 

Esdra porta con sé un’ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch’essa, una lunga fortuna: la purezza etnica. La prima cosa che fa quando arriva è stracciarsi le vesti in segno di protesta: i capifamiglia gli hanno appena accennato il problema dei matrimoni misti.

Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello, mi sono strappato i capelli e i peli della barba e mi sono seduto costernato. Quanti tremavano per i giudizi del Dio d’Israele su questa infedeltà dei rimpatriati, si radunarono presso di me.

Matrimonio Israele
È tuttora una questione spinosa.

Esdra rimane seduto e costernato diverse ore, fino al sacrificio serale. Poi cade in ginocchio e prorompe: “Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo” e bla bla bla, insomma stava andando tutto bene, e che mi fanno? Cominciano a sposarsi con le donne del luogo. Ora non dico che vadano sterminate – come c’è pur scritto che avremmo fatto un millennio fa in quel rotolo che abbiamo messo assieme a Babilonia – ma sposarle, farci i figli… l’assimilazione culturale… e nel giro di due o tre secoli finisce che mangiamo maiale pure noi, e poi come faranno gli archeologi del Duemila a capire se in tale insediamento ci stavano i canaaniti o gli israeliti? [sul serio, l’unica differenza spesso sta nei resti di ossa di maiale].

Ma ora, che dire, Dio nostro, dopo questo? Poiché abbiamo abbandonato i tuoi comandi che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: Il paese di cui voi andate a prendere il possesso è un paese immondo, per l’immondezza dei popoli indigeni, per le nefandezze di cui l’hanno colmato da un capo all’altro con le loro impurità. Per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni del paese e lasciare un’eredità ai vostri figli per sempre…

Va avanti così per molti altri versetti, ma insomma il senso è chiaro. Mentre piange e si dispera, intorno a lui si forma un crocchio di fedeli che cerca di consolarlo. Alla fine uno di loro (Secania, figlio di Iechiel) prende la parola: dai Esdra, possiamo ancora salvarci. Che ne dici se divorziamo tutti quanti in una volta, e rimandiamo le nostre mogli infedeli ai loro genitori? E i figli? Anche i figli naturalmente. Al che Esdra, snif, si calma un po’: dite che è possibile? Massì, Esdra, che ci vuole. Un bel divorzio collettivo, magari per ogni moglie offriamo anche un ariete in sacrificio. E va bene, mi avete convinto. Ma d’ora in poi guai a chi sgarra.”Con Ezra”, spiega ancora Liverani, “si conclude l’elaborazione della Legge, si chiude anche l’elaborazione storiografica, cessano di agire i profeti, il sacerdozio di Gerusalemme ha pieni poteri”.

Lo Utah dei mormoni, l’Etiopia dei rastafariani, la Guyana di Jim Jones. Tutte queste terre promesse, senza Esdra, ci sarebbero state? Probabilmente sì; è difficile immaginare che un oscuro sacerdote ebraico-babilonese a cavallo tra sesto e quinti secolo a.C. sia la causa di tutto. Più probabilmente è solo il primo sintomo di qualcosa che ci portiamo dentro: il retaggio di millenni di nomadismo, una propensione ancestrale ad andarcene da qualche parte dove finalmente saremo soli, saremo puri, saremo noi. Poi ci arriviamo e c’è sempre qualcun altro.

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Il juke-box dell’indignazione (appunti)

In questi giorni si parla di nuovo di statue giuste e ingiuste. Se ne parlerà ancora magari per una mezza giornata, poi ci annoieremo e non se ne parlerà più per qualche mese o un anno: finché ci accorgeremo che in qualche altro Paese le buttano giù. Allora ci rimetteremo anche noi a parlarne, senza nessun motivo che non sia che appunto, ne parlano altrove: c’è un hashtag che arriva da New York, c’è un video su Instagram che viene dalla California, e quello di cui discutiamo dipende soprattutto da questo. Per certi versi siamo più succubi del dibattito americano oggi che venti o trent’anni fa.

Lo trovo buffo perché gli USA per tanti versi mi sembrano molto più lontani oggi che venti o trent’anni fa. Il primo esempio che mi viene è la musica: chi segue le classifiche dei brani più venduti e ascoltati sa che quella italiana da qualche anno è quasi completamente autarchica. Dei divi pop americani e inglesi sentiamo ancora parlare molto sui media ma le loro canzoni le ascoltiamo sempre meno – soprattutto i più giovani. C’entra anche il fatto che le canzoni sono sempre meno originali da un punto di vista musicale e sempre più parlate, il che porta non solo gli italiani a preferire il prodotto realizzato nella lingua madre, per quanto ricalcato sui modelli americani. Il che significa anche: rispetto a vent’anni fa magari li copiamo di più ma li capiamo di meno. E anche chi l’inglese in teoria lo sa, lo legge, lo ascolta sottotitolato nelle serie in streaming – non può a volta fare a meno di domandarsi se quel che succede a noi ha un senso o è solo un calco troppo letterale di cose che non capiamo del tutto. 

Ad esempio: negli USA un crimine di polizia risveglia il movimento Black Lives Matter, e noi improvvisamente cominciamo a inginocchiarci per la minoranza afroamericana – per carità tutto giusto, ma non potremmo cominciare dalle nostre minoranze, quelle che restano più spesso vittima del nostro razzismo e dei crimini delle nostre forze di polizia? Domanda abbastanza retorica, scusate. Poi scopriamo che negli USA i manifestanti se la prendono con una statua di uno schiavista o di un esploratore e improvvisamente anche noi ci rimettiamo a discutere di una statua – col piccolo problema che statue di schiavisti non ne abbiamo. Ne abbiamo anche poche dei fascisti (del periodo c’è rimasta più architettura che statuaria, e quella è più problematica da rimuovere). E quindi?

E quindi tiriamo fuori il solito Montanelli. Sul quale non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto un anno fa, salvo che nel frattempo Severgnini mi ha convinto: quella statua va proprio abbattuta. Non che io abbia letto tutto il pezzo di Severgnini eh? Mi dispiace, dev’esserci un paywall. Mi è bastato il boato delle reazioni, e in generale non apprezzo questa cosa di mandar fuori Severgnini a minimizzare crimini di guerra, manco fosse la Fallaci in stadio terminale: non credo che sarà ricordata come una pagina gloriosa del giornalismo italiano: facciamo che almeno sia l’ultima, buttiamo via il bronzo e non pensiamoci più. Altrimenti tra dieci mesi, un anno, saremo di nuovo lì, sapete? E la prossima volta chi immoleranno? Galli della Loggia? Panebianco? Tiratela giù, date retta. Mettiamola così: o tirate giù una statua che sta diventando un’autocelebrazione insensata del giornalismo italiano (che nessuno a parte i giornalisti italiani sentono la necessità di celebrare), o almeno tirate giù quei paywall che tra un po’ nessuno vorrà darsi la pena di scavalcare legalmente.

Rimane il fastidio per una questione che si ripresenta a ondate, e le ondate partono sempre da quel posto oltreatlantico la cui musica ci interessa sempre meno, ma l’indignazione, ehi, con l’indignazione stiamo negli anni ’50, è come se avessimo i juke-box coi dischi d’importazione: questa settimana vogliono tutti indignarsi per lo schiavismo, qualche tempo fa non si parlava che di abusi sessuali ecc. ecc. Ora non vorrei frainteso (ma so che è inevitabile): sono tutte questioni gravi di cui è sacrosanto parlare, però sarebbe bello che l’agenda ce la scrivessimo da soli, con le nostre scadenze e le nostre necessità, senza andare a rimorchio di hashtag, senza complessi di inferiorità per una civiltà che non è la nostra, e a volte semplicemente non capiamo.

Che è poi il principale guaio con gli americani: siamo così abituati a vederli sugli schermi che li troviamo familiari – molto più di cinesi, indiani, ma persino tedeschi – salvo che è una falsa familiarità. Ad esempio, quando parlano di statue, loro fanno riferimento a un paesaggio urbano e a un modello sociale molto diverso dal nostro. Loro hanno davvero migliaia di statue che rappresentano schiavisti o altre figure controverse. E le hanno perché la loro società nasce dall’incontro/scontro tra diverse comunità che in momenti diversi hanno deciso hobbesianamente di venire a patti invece di ammazzarsi. Lungi dal rappresentare una “storia condivisa”, i loro monumenti sono una prosecuzione della guerra civile con altri mezzi. Così i bianchi del sud innalzano statue ai condottieri sconfitti della Confederazione, i nativi americani conservano il sogno di un Crazy Horse Memorial che superi in altezza il Monte Rushmore, e gli italoamericani si erano scelti Colombo. È una guerra fredda civile che si è estesa anche al linguaggio: il “politically correct” non è un codice imposto da una casta di altezzosi intellettuali, ma un protocollo di armistizio perpetuamente in discussione: una minoranza chiede che una parola sia considerata inaccettabile, le altre comunità decidono di accettare la cosa e il protocollo viene aggiornato. Il dibattito non passa per il dipartimento linguistica perché è una questione politica, appunto, non linguistica.

È il concetto nordamericano di tolleranza: almeno chi si riempiva la bocca di Tocqueville ai tempi dell’Esportazione della Democrazia dovrebbe averne notato le differenze rispetto a quello dell’Europa continentale – dove vige, tutto sommato, la logica giacobina per cui chi vince una rivoluzione si prende tutto lo spazio monumentale, abbatte tutto quello che non riesce a riconvertire e fa spazio per monumenti nuovi, mentre chi perde sta fermo un giro e aspetta la rivoluzione successiva. (L’ho chiamata “giacobina” ma forse è una logica più antica, se la Chiesa a un certo punto riconvertì pure il Colosseo). Questo non significa che non abbiamo monumenti discutibili, ma ne abbiamo molti meno e la loro funzione identitaria è più sfumata. Per contro, vivendo intorno a centri urbani di origine medievale, siamo forse ossessionati dalla durata, e ci basta un secchio di vernice su una statua per paventare una damnatio memoriae. Non credo che Montanelli verrà dimenticato se gli tirano giù la statua, anche se confesso di provare una certa nostalgia per quando era un essere vivente che si poteva criticare per le sue opinioni e non un feticcio da condannare per crimini di guerra di mezzo secolo prima ripescati da un dossierino. Poi ripeto: credo che sarebbe utile distinguere la pedofilia (che è un orientamento sessuale) dalla mentalità razzista e criminale dei membri dell’esercito coloniale italiano. Ma sembra sia una distinzione troppo raffinata per l’internet, pare che non sia il momento per i sottili distinguo, bisogna tutti indignarsi e abbattere statue. Potrei anche accettarlo, eh? I movimenti alla fine sono così, spontanei e sommari.

Poi dopodomani in America qualcuno libera un campo di concentramento di visoni, e alè, tutti spontaneamente e sommariamente a liberare i visoni. E se non ne abbiamo? Cessate la caccia alle nutrie! come abbiamo potuto tollerare fino a ieri questa barbara usanza?

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Still I Rise

You may write me down in history
With your bitter, twisted lies,
You may trod me in the very dirt
But still, like dust, I’ll rise.

Does my sassiness upset you?
Why are you beset with gloom?
’Cause I walk like I’ve got oil wells
Pumping in my living room.

Just like moons and like suns,
With the certainty of tides,
Just like hopes springing high,
Still I’ll rise.

Did you want to see me broken?
Bowed head and lowered eyes?
Shoulders falling down like teardrops,
Weakened by my soulful cries?

Does my haughtiness offend you?
Don’t you take it awful hard
’Cause I laugh like I’ve got gold mines
Diggin’ in my own backyard.

You may shoot me with your words,
You may cut me with your eyes,
You may kill me with your hatefulness,
But still, like air, I’ll rise.

Does my sexiness upset you?
Does it come as a surprise
That I dance like I’ve got diamonds
At the meeting of my thighs?

Out of the huts of history’s shame
I rise
Up from a past that’s rooted in pain
I rise
I’m a black ocean, leaping and wide,
Welling and swelling I bear in the tide.

Leaving behind nights of terror and fear
I rise
Into a daybreak that’s wondrously clear
I rise
Bringing the gifts that my ancestors gave,
I am the dream and the hope of the slave.
I rise
I rise
I rise.

[Ho sempre trovato buffo che il capolavoro di Ben Harper fosse una canzone in cui non suona la chitarra. Nemmeno le parole sono sue, ma di una poetessa che è un personaggio abbastanza incredibile, Maya Angelou. In altri casi quando una cosa mi piace molto provo a tradurla; qui oltre alla famosa questione dell’appropriazione culturale c’è proprio lo scoglio di quel verbo, rise, che in inglese suona spontaneo sia che si tratti di polvere scossa da uno straccio sia di un popolo che si ribella. Qualsiasi equivalente italiano mi suona falso o letterario, un bel problema: ma non il problema di cui si parla qui].

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Superuomini scandinavi sempre nostri superiori

Non ho molto tempo per scrivere in questi giorni, e anche se l’avessi nessuno mi pubblicherebbe pezzi su uno degli argomenti che mi sta intrigando di più, ovvero la Svezia. Quel fenomeno tutto particolare per cui nel momento in cui gli svedesi stanno raggiungendo il record continentale dei contagi, c’è ancora qualche italiano sulla mia bacheca social che dice che loro hanno capito tutto, avremmo dovuto fare come loro sin dall’inizio, ecc. ecc. (Per contro nessuno propone di imitare greci e portoghesi, che pure fino a questo momento sembrano aver scampato meglio a un rischio peggiore).


Ovviamente all’inizio nessuno sapeva come sarebbe andata a finire, e tutto sommato bisogna essere grati agli svedesi per aver fatto da gruppo di controllo per l’intero continente: mentre gli altri Paesi – compresi i confinanti nordici – adottavano  misure di blocco, loro si sono assunti le loro responsabilità, sono andati per la loro strada e soltanto grazie al loro sacrificio adesso (solo adesso) possiamo confrontare i loro numeri con quelli sensibilmente più bassi di danesi e norvegesi e desumere con qualche sicurezza che la strada presa dagli svedesi non era migliore di quella presa da tutti gli altri. Il problema è che non lo facciamo (non lo fanno neanche loro, a quanto pare) e continuiamo a credere in questo mito dei Superuomini Svedesi nostri Superiori. 


Su questo mito, che riguarda non solo gli svedesi ma tutti gli scandinavi (e i finnici) avevo provato a scrivere un pezzo mesi fa, in un periodo in cui erano rispuntati contemporaneamente due o tre tormentoni intramontabili, ad es. l’eccellenza della scuola finlandese o il mercato del lavoro danese. Proprio mentre ci lavoravo uscì un numero di Internazionale coi finnici in copertina. Alla fine il pezzo fu rifiutato perché, in effetti, non era coerente con la linea della testata, ovvero: è da anni che raccontiamo la Scandinavia come il paradiso liberal-socialista-anarchico in terra, mò tu che cazzo vuoi, nonnino. Che è un punto di vista che rispetto, eh? Io al vostro posto mi sarei mandato a cagare anche prima. Comunque il pezzo è qui, non parla di epidemia perché erano i primissimi giorni del lockdown, credo, e in Scandinavia nessuno pensava che il virus sarebbe potuto arrivare, quello screanzato.  

Se anche tu passi un po’ di tempo su internet cercando di farti un’idea del mondo che ti circonda, sai che è solo questione di ore. Prima o poi succederà, e non potrai farci niente. Arriverà sotto forma di video o di link a un pezzo di Internazionale. Te lo avrà inviato un amico, o un perfetto sconosciuto. Più tempo passi on line, più crescono le possibilità che qualcuno senta la necessità di ricordarti che gli scandinavi e i finlandesi esistono, e sono migliori di te.

Sei una donna? Le donne svedesi hanno sconfitto la rape culture. Sei un insegnante? I finlandesi hanno le migliori scuole del mondo  (i finlandesi non sono esattamente scandinavi, ma di solito sono inclusi nel pacchetto).  Sei un siciliano e non ne puoi più dei traghetti? Danesi e svedesi in quattro anni hanno costruito un ponte che è lungo cinque volte lo stretto di Messina! E così via. Il nostro mercato del lavoro non funziona, dovremmo fare come la Danimarca. L’ambiente, gli islandesi sì che lo rispettano. I norvegesi, loro sì che hanno uno stato sociale. E hai visto quante donne nel governo finlandese! Eccetera eccetera eccetera.

A volte cerchi di resistere. Leggi un pezzo di un vicesindaco di Helsinki che dopo aver visitato Roma ha scoperto il segreto per risolvere il problema del traffico: ingrandire i marciapiedi! Leggi commenti di romani estasiati, ah, i finlandesi, se solo ci invadessero. Pensi: mio dio, ma cosa sto leggendo? Roma fa quasi tre milioni di abitanti, su sette colli e più; Helsinki è grande come Bologna ma senza le colline. Come si fa a paragonare due città del genere, che senso ha. Quanto al ponte Øresund tra Svezia e Danimarca, per carità: è bellissimo, ma la campata più lunga non è neanche di cinquecento metri: quella del ponte di Messina dovrebbe arrivare a tremila metri, nessun altro ponte al mondo ci si è nemmeno avvicinato, fin qui. Non è merito degli ingegneri scandinavi se sui loro fondali puoi piantare piloni di cemento mentre tra Scilla e Cariddi non si può.

E quanto alle donne svedesi, continuano a denunciare più violenze degli altri popoli europei, e non è sicuro che lo facciano perché abbiano più fiducia nella legge e nei giudici (su questo almeno gli studiosi non concordano). Il fatto che sempre più incarichi di governo ricadano sulle donne è un buon segnale, ma non significa che in generale per le donne scandinave sia facile far carriera: per ora non c’è una nazione nordica dove la percentuale di imprenditrici superi l’8% (la media dell’UE si attesta intorno al 20%). Ma proprio mentre stai cercando questi dati, qualcuno ti manda un link: leggi questo pezzo! gli scandinavi hanno risolto il problema del bullismo, hanno inventato un sistema innovativo! Leggi il pezzo. Il “sistema innovativo” è molto simile a quello che usano nella scuola dei tuoi figli – il che alla fine non dovrebbe sorprendere: molte tecniche nate nei Paesi scandinavi sono state adottate già da anni in altri anche da noi. Sul bullismo, in particolare, gli scandinavi sono stati all’avanguardia perché gli studenti tendevano a suicidarsi con più frequenza, e in generale la percentuale dei suicidi continua a essere importante (anche se il “record svedese dei suicidi” è un vecchio luogo comune smentito dai numeri). Il punto è che qualsiasi cosa facciano i nordici per noi è eccezionale, e quindi se tendono a togliersi più spesso la vita, subito decidiamo che devono essere i recordmen mondiali di suicidio.

È sempre stato così, da che ti ricordi. Non c’è mai stata un’internet che non ti ricordasse periodicamente quanto i Superuomini Scandinavi Siano nostri Superiori. Dodici anni fa, nei giorni ruggenti in cui su beppegrillo.it si diffondevano leggende come la biowashball o la propulsione a olio di colza, gli islandesi erano già l’Ultima Thule del grillismo, il popolo eroico che aveva deciso di non pagare i propri debiti alle banche internazionali assetate di sangue. Ovviamente era una bufala, ma già molto indicativa. Proprio come a Nord si incrociano Oriente e Occidente, così la leggenda dell’eroico popolo nordico che resisteva al sordido potere dei bancari attirava lettori da destra e da sinistra. Già allora la maggior parte sembrava voler ignorare che gli islandesi fossero in tutto poco  più di trecentomila, meno degli italiani residenti nel comune di Firenze, e che quindi anche i loro debiti alla fine non dovessero ammontare a gran cosa. Invece no, se ci stavano riuscendo loro, anche noi saremmo riusciti a non restituire il nostro colossale debito pubblico. E però in economia le dimensioni contano. Qualcuno si sognerebbe mai di proporre la Repubblica di San Marino come modello? Ok, l’Islanda è un po’ più popolata di San Marino. Dieci volte di più. L’Italia, dal suo canto, è duecento volte più popolosa dell’Islanda.

Se grillini e rossobruni guardavano all’Islanda, anche i liberaldemocratici sentivano il richiamo dei fiordi. Erano gli anni in cui brillava l’astro di Pietro Ichino, il giuslavorista del Partito Democratico che proponeva per il mercato del lavoro italiano un modello danese da lui definito “Flexsicurity”. Lui stesso ammetteva che l’Italia non poteva diventare la Danimarca in un giorno, anche a causa del “difetto di risorse pubbliche destinabili ai servizi nel mercato del lavoro”, insomma questa minore disponibilità dei contribuenti italiani, rispetto ai danesi, a pagare le tasse: ciononostante credeva necessario provarci. Inasprendo la pressione fiscale? Ah ah, no.

Per Ichino la priorità era rendere più facili i licenziamenti: quel che il governo Renzi ottenne con il Jobs Act. In seguito non siamo diventati la Danimarca (per ora sono aumentati quasi soltanto i lavori a termine), ma lo stesso Ichino avvertiva che ci sarebbero voluti comunque molti anni, se non “decenni” (sarebbero serviti anche ammortizzatori di cui quel parlamento non fece in tempo a occuparsi, come succede più o meno ogni volta che in Italia si riforma lo statuto dei lavoratori). Rimane curioso l’esempio di un Paese che decide, come l’Italia di Renzi, di riformare il proprio mercato del lavoro prendendo esempio da un altro Paese diversissimo per cultura e per dimensioni: i danesi sono un po’ di più degli islandesi (cinque milioni), ma comunque molto meno di noi. Può darsi davvero che alla fine le dimensioni non contino, ma insomma quando cerchiamo modelli per migliorare l’Italia, anche solo in Europa c’è l’imbarazzo della scelta: sono quasi tutti migliori di noi in qualche cosa, avrebbero quasi tutti qualcosa da insegnarci. Perché ci fissati tanto sui nordici, per quanto marginali, e piccoli, e diversissimi da noi per cultura, clima, paesaggio?

Gli scandinavi non sono imperialisti come gli americani o i russi, non ci hanno deportato un bisnonno come i tedeschi, anzi i finlandesi i tedeschi li hanno respinti, dopo aver respinto i sovietici (si sono anche alleati, a turno, sia coi primi sia coi secondi, ma chi siamo noi per giudicarli). Insomma non ci fanno paura, gli scandinavi. Non sono neanche troppo vicini, come i francesi, e questo forse ci rende più semplice invidiarli. L’invidia non essendo altro che un meccanismo emotivo che ci consente di migliorare noi stessi, regolandoci sugli esempi forniti da chi ci sta intorno. Certo, se diamo troppe occhiate a chi ci sta vicino rischiamo di apparire nervosi e innestare un circolo vizioso di diffidenza. Invece nessuno se la prende se dal fondo dell’aula ogni tanto diamo un’occhiata all’alunna alta e bionda in prima fila. È lontana, inaccessibile, magari a sedercisi più vicino scopriresti che ha anche lei i suoi problemi (alcolismo in famiglia, violenze domestiche, manie suicidarie), ma perché dovresti? Per te è solo un obiettivo a cui tendere. Ok.

Mentre pensi a questa cosa, ti arriva una notifica. Un tuo collega vuole farti vedere come sono fighissime le classi finlandesi. Altro che le nostre aride lezioni frontali. È un video di due minuti, si vedono studenti fare quello che gli pare in ogni angolo dell’aula, ce n’è un paio appollaiati sugli scaffali. Pensi: speriamo che gli scaffali siano bullonati alla parete, in Italia è previsto dalla legge e non puoi metterli nei corridoi. E guarda quanti spigoli, da noi sarebbe vietato. Due ragazzi seduti su uno scaffale è un aneddoto, ma decine di ragazzi tutti i giorni in tutte le scuole è un concreto rischio per la sicurezza, da noi prima o poi qualche dirigente finirebbe a processo. Certo, magari da loro non è zona sismica, e poi hanno tutto lo spazio che vogliono, nessun problema con le vie di fuga… Ma insomma, la prova che le scuole finlandesi sono fantastiche è che i ragazzi possono sedersi sugli scaffali in barba a elementari norme di sicurezza e buon senso? Caraffe di acqua bollente vicino ad attrezzi ginnici elettrici, e spigoli, spigoli vivi dappertutto. Cioè magari hanno davvero le scuole migliori del mondo i finlandesi, ma non lo dimostra un video del genere. In effetti, cosa lo dimostra?

Ecco, qui entriamo in un terreno lacustre e accidentato. Posto che paragonare sistemi scolastici molto diversi è sempre discutibile, diciamo che l’idea dell’eccellenza finlandese nasce vent’anni fa con la prima pubblicazione delle prove Ocse-Pisa. In quel momento fu davvero una sorpresa perché nessuno se l’aspettava. Da lì in poi abbiamo deciso che i finlandesi avevano capito qualcosa che avremmo assolutamente dovuto imitare, anche se non era chiaro cosa. Non era chiaro agli stessi finlandesi, che invece di sedersi sugli allori hanno continuato a sperimentare cose nuove, senza preoccuparsi troppo di calare in classifica. Che è infatti quel che è successo di lì a poco. A quel punto il dibattito sulla scuola finlandese è diventato un caos in cui anche chi la critica parte da posizioni completamente diverse: c’è chi accusa i finlandesi di fare “teaching to the test”, ovvero di ridurre la didattica a una serie di espedienti che ti consentono di andare molto bene nei test, ma che non stimolano la creatività e non consentono lo sviluppo di autentiche competenze (e tuttavia, come s’è visto, i finlandesi non vanno più così bene coi test). C’è chi invece sostiene che i risultati ottimi di vent’anni fa non erano causati dai nuovi sistemi didattici, ma dal buon livello del sistema tradizionale precedente, basato sulle lezioni frontali impartite da insegnanti che nella società finlandese godevano e godono di una indisputabile autorevolezza. L’eccellenza della scuola finlandese sarebbe un grande fraintendimento: era molto migliore quand’era tradizionale, poi ha voluto cambiare insistendo molto sulla responsabilità individuale degli studenti e i risultati dei test hanno registrato un calo non drammatico, ma sensibile e immediato.

Insomma quando diciamo che vorremmo una scuola più finlandese, cosa intendiamo? Una scuola che vince le gare internazionali di matematica, o quella dove i ragazzi sono liberi di sedersi sugli scaffali? Non è chiaro e forse non è nemmeno così importante. Anche la scuola finlandese attrae ammiratori da sinistra e da destra. I primi non possono che essere conquistati da un sistema educativo super-inclusivo ed egualitario (e quasi completamente pubblico), che è poi lo specchio di una società egualitaria che crede nell’importanza dell’istruzione e la finanzia in modo cospicuo. Che faccia lezioni frontali o teaching to the test, o assista semplicemente i ragazzi cercando di evitare che si spezzino il collo contro gli scaffali, il docente finlandese è ancora percepito come un perno della società, che lo riverisce e lo paga adeguatamente, e questo è l’essenziale.

D’altro canto chi osserva il video non può impedirsi di notare che in quell’aula sono tutti bianchi, bianchissimi. Perché il carattere egualitario della società finlandese è anche dovuto alla sua omogeneità etnica e culturale. Il 90% della popolazione è di lingua suomi; il 5% svedese: gli immigrati dal sud del mondo sono quantificabili in decine di migliaia, il che deve rendere oggettivamente meno difficile la vita quotidiana di un insegnante statale finlandese.

Venticinque secoli fa, gli antichi Greci già favoleggiavano di una terra Iperborea al di là dei ghiacci dell’Oceano, dove aveva vissuto e forse viveva ancora un popolo perfetto e felice. L’idea che la civiltà arrivasse da nord ebbe poi un certo successo soprattutto a partire dall’Ottocento: fu ripresa da Nietzsche, e in Italia dal “superfascista” Julius Evola. Per quanto sia antica, è comunque una bufala, tanto quanto la storia degli islandesi che non pagano i debiti. I nordici non sono necessariamente migliori (né peggiori) di noi. La loro cultura si è modulata per adattarsi a un ambiente piuttosto diverso dal nostro: è giusto ammirarli, ma non tutto quello che è buono per loro potrà essere mai buono per noi. Noi siamo mediterranei: siamo più numerosi, viviamo letteralmente su un ponte sottile di terra tra il Nord e il Sud del mondo. Da sempre siamo esposti alle migrazioni e a tutto quello che portano di buono, di cattivo e in generale di complicato. La coesione sociale nordica ce la possiamo sognare: semplicemente non è una cosa che si adatti all’ambiente dove viviamo. Possiamo continuare ad ammirare la ragazza alta e bionda in prima fila: possiamo anche provare a parlarle e magari scoprire che lei è curiosa della nostra cultura quanto noi siamo attratti dalla sua. Non c’è niente di male in tutto questo, anzi, è uno dei motivi per cui abbiamo fatto l’Unione Europea. Ma pensare di poter diventare come lei, semplicemente copiando qualche suo gesto o l’acconciatura, sembra il modo migliore di renderci ridicoli. Anche ai suoi occhi.

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Aisha o Silvia Romano è libera e voi no

– type type type
– Pronto in tavola.
– Un momento (type type type)
– Stai litigando su internet, vero?
– Sì ma non è come pensi (type type type)
– Ma non ti sei rotto i coglioni del coronavirus e delle mascherine e di tutto il…
– Noooo oggi è diverso, non capisci, oggi litighiamo perché hanno liberato una cooperante in ostaggio e lei è tornata velata.
– E quindi?
– Mi fa sentire così giovane, per un attimo è come se tutto questo non fosse…
– Va’ a lavarti le mani.
– …che un brutto sogno e ci fosse ancora l’Isis che vuole conquistarci, anzi Al Qaeda, e un palazzetto pieno per vedere gli Strokes o i Libertines e…
– Va’ a lavarti le mani.

La gente è libera di professare quel che vuole, il che molto spesso fa impazzire chi si professa liberale, curioso paradosso. Silvia Romano è stata liberata, siamo tutti contenti (non è vero, c’è chi mastica amaro). Silvia Romano afferma, lascia capire di essersi convertita all’Islam – ovvero alla seconda religione più professata in Italia, con più di un milione di pacifici credenti che in mezzo secolo non hanno mostrato complessivamente particolari inclinazioni alla violenza o al terrorismo: questo per alcuni è intollerabile, è un segno che il terrorismo starebbe vincendo.

E finché la scrive il nonno scemo questa cosa, possiamo anche sospettare che non abbia più la possibilità di scendere in strada e di vedere normali persone, alcune con un velo e altre no, che in questi giorni sono in fila come le altre (o forse un po’ meno perché è Ramadan): ci sono in tutte le città d’Italia e soprattutto in quelle più ricche e produttive, quindi è anche un po’ colpa del povero nonno scemo che non si guarda intorno, ma pazienza. Lo dicono però anche i nipotini sui social ed è una cosa triste: lo scrive quel che resta di Repubblica ed è una cosa avvilente. Questa cosa per cui in Italia quando si parla di religione la gente (a sinistra, a destra, al cesso) non sappia più letteralmente cos’è, come funziona, in che termini vada rispettata, se e quando si possa distinguere dal plagio – non so, mi sembra un nuovo tipo di analfabetismo e non abbiamo nemmeno risolto quello vecchio. D’altro canto quando Facci diceva odio l’Islam un sacco di gente aveva questa necessità fisica di spiegarti che beh, è un’opinione come un’altra, l’odio religioso. C’è questo fenomeno strano per cui l’odio razziale ormai fanno fatica a gridarlo ad alta voce pure i neonazi, mentre l’odio religioso è una cosa che si porta in società.

Ho una notizia per tutti voi liberali che ci spiegate quotidianamente che le religioni sono cose odiose, alcune magari più di altre e quindi a volte si può anche provare a farsi finanziare dai credenti dalle altre per spalare un po’ di merda sulle une: non siete liberali. Sapete perché in Italia non c’è una vera cultura liberale? Chiedo eh, io non lo so. Ma appena vi ascolto ne sono sicuro. Siete casi disperati, a volte per farvi un po’ notare la povertà di pensieri e spirito vi si dà dei fascisti ma è un’offesa pure per loro che uno straccio di riflessione sul fatto religioso l’avevano pur fatta. C’è una ragazza che durante una lunga prigionia si è convertita a una religione e per voi ciò è un fatto grave. Che si fa? Boh probabilmente l’ipotesi è chiuderla in una stanza finché confessa di non essere stata plagiata e non si riconverte alla religione scelta dai suoi genitori.

Non ce la potete fare, né ha molto senso cercare di spiegarvelo. Però almeno questo vi vorrei in un qualche modo comunicare: la guerra che siete convinti di dover combattere, la state perdendo: non perché il nemico sia particolarmente pericoloso, ma perché lo state aiutando voi, con tutto il vostro panico omioddio una ragazza si è messa un velo in testa siamo perduti. Persone un po’ più coscienziose non esiterebbero a liquidare l’indumento per quello che in effetti è – un indumento – e depotenziarne totalmente il messaggio. Cosa che fa chiunque viva a contatto con gente normale che a scuola e nei locali pubblici si copre la testa senza che la cosa dopo un po’ appaia più come uno sventolar bandiere. Cosa che succede già in tante città italiane che i giornalisti non conoscono.

Ma voi non siete coscienziosi: viceversa, avete una disperata necessità di dare a un indumento la stessa interpretazione che dà Al Shabab, perché volete esattamente diffondere lo stesso messaggio di Al Shabab: l’Islam sta vincendo aiuto aiuto. Cioè in pratica siete la quinta colonna dell’Islam integralista, bravi, battetevi pure un cinque e correte in edicola a comprare la broda pisciata del nonno scemo.

Su una cosa vorrei darvi ragione: è vero che convertirsi non è solo un fatto privato, per esempio se mi converto – son lì lì per farlo – sarà anche indubbiamente per starvi sui coglioni, il che è un fatto sociale. Mi vergogno di sentirvi parlare nella mia stessa lingua, santo dio, non potreste mugugnare e basta che tanto il senso è quello.

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Divi Udertii apotheosis

Di Uderzo potrei parlare per mesi e non escludo di farlo in un momento più tranquillo. Era il più grande. Ha regnato per un quarto di secolo in una regione impossibile, tra l’iperrealismo e la caricatura. Disegnava gli accampamenti romani più realistici e li riempiva di nanerottoli col nasone, nessuno riusciva a passare dal grottesco al classico con tanta disinvoltura.

È un tipo di arte che siamo sempre meno in grado di apprezzare, la caricatura soprattutto: non so quanto in patria si sia già attivato un movimento per definirlo un razzista, tutti i caricaturisti in un certo senso lo erano e Uderzo non si è mai tirato indietro fino alla fine: in particolare il suo ultimo Asterix trasudava di una xenofobia lungamente negata e repressa.

Bisognerà spiegare ai ragazzini che all’inizio della storia quei nasoni e quelle pance, quei distillati di un’arte grafica secolare, esprimevano sotto i costumi di scena le speranze di un’Europa del dopoguerra in cui i popoli cominciavano timidamente a presentarsi gli uni gli altri (ed erano popoli di mezza età, panciuti e sdentati, proprio come quelli usciti dal conflitto mondiale): ma forse non basterà, forse non riusciremo a farci capire, forse di Asterix rimarrà solo il guscio vuoto, come Mickey Mouse che degli anni della Depressione non conserva nemmeno più la coda. Mi dispiacerebbe però.

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Alla fiera dell’est, per 2 ¥

“…”
“Resisti”.
“Non ce la faccio”.
“Invece sì”.
“Sei un adulto”.
“Ma è troppo…”
“Una persona rispettabile”.
“Mi scappa”.
“Hai una dignità”.
“LO SAPETE PERCHÉ ZAIA HA PAURA CHE GLI MANGINO I TOPI???”
“Me ne vado addio”.
“PERCHÉ POI NON SA COME INGRASSARE IL GATTO AHAHAH”.
“Non ci siamo mai conosciuti”.

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Benedetto el Negher (di Sicilia)

San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)

[2016]. Brot negher, torna all’infer’n. Immaginate la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell’Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli prendono i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori…

Il ritratto (anonimo) più credibile.

Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. Insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora. L’eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: “Ma di chi sono questi buoi?”
“Della mia famiglia”.
“Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?”
“Li ho comprati io”.
“Due buoi? Con che soldi?”
“Avevo dei risparmi”.
“E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?”
“Non ascoltavo”.

Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da suscitare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato – l’ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l’invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li considereremmo nemmeno lumbard in senso stretto: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non capivano una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio Lunaria). Per dire non credo proprio che oggi si dica “negher” in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.

“Senti, perché non ti disfai di questi buoi?”
“Ma sono miei”.
“Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri”.
“I miei sono poveri”.
“A maggior ragione”.
“E poi che faccio?”
“Vieni con me”.
“A fare il frate?”
“Molto meglio che fare il pastore. E poi cos’hai da perdere?”
“Due buoi!”
“Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi”.
“E perché non dovrebbero…”
“Perché sei un negher!”

(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).

“Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s’è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare…”
“Un frate negro?”
“Un santo”.
“Un santo negro?”
“E quelli vanno forte”.
“I santi negri?”
“Fidati di me. Vendi quei buoi”.

Antonio l’Etiope,
il nero d’AvolaAHAHAH
CHE SPASSO
LA RUBRICA DEI
SANTI DEL POST.

Anche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d’ebano “Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio“. Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito “schiavo negro“. Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull’altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così… poi ci sono le madonne nere, tipiche dell’iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell’arrivo degli arabi. Finché a un certo punto non arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c’è il Beato Antonio l’Etiope, detto anche Catagerò d’Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che “etiope” poteva semplicemente significare “nero ma cristiano”: il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l’incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio.

Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci: voi quand’è che avete visto un nero per la prima volta? I vostri figli se li trovano all’asilo e non fanno nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in tv per più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi – salvo quell’accento un po’ esotico, già: lombardo.

Otto anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi. Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana.

Da superiore a sguattero: però la prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù (Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato, come a Martin de Porres l’infermeria. Tra i suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un nero.

cuiaba
Qui siamo a Cuiabà, in Mato Grosso

Benedetto lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe (bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno sono il re e la regina del Congo, ma anche San Benedetto e la Madonna del Rosario.

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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.

La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.

Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici… (continua su TheVision).

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Parlo di teologia, io?

10 gennaio – San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

[2016].


Anche oggi c’è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che discutere di argomenti inediti od originali. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che d’un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando: la città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi… venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Tu chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono disquisendo sulla natura del Generato e dell’Ingenerato; vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l’acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla…

Padri cappadoci, Nissa è (forse) quello con la barba lunga.

Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano meme, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti – no, non l’ultimo – neanche il terzultimo – forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l’argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell’invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l’esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po’ liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell’incompetenza popolare… sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell’Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l’errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell’orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un’occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l’aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell’invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto.  L’altro Gregorio – non quello di Nissa – fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po’ in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell’incredulità di una saga fantasy – pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato “creato” o “generato” dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d’altro. Ma, ecco, di che parliamo? 

A quel tempo ero una specie di marxista, a mio modo ovviamente – in sostanza credevo che gli uomini si potessero dividere soltanto in classi sociali. Questa era l’unica classificazione che avesse un senso economico, e quindi l’unica che avesse un vero senso. Tutti gli altri insiemi – i cosiddetti “popoli”, le cosiddette “religioni” – erano fenomeni sovrastrutturali. Non è che non esistessero, ma venivano elaborati dagli uomini a mo’ di paravento, sovrastruttura, per occultare la ripartizione fondamentale, quella tra profittatori, aspiranti profittatori e lavoratori. Tutte queste cose non so se Marx le abbia mai scritte davvero, avrei più difficoltà a spulciare il Kapital che la Patrologia, però ci credevo e forse ci credo un po’ persino adesso. Dunque diffidavo della versione di San Gregorio, perché davvero, che può interessare a un cambiavalute della Generazione del Figlio? Però da altri accenni si capiva che gli ariani erano la fazione più popolare (lo stesso Ario, racconta Filostorgio, una volta cacciato dalle chiese ufficiali, si era messo a comporre i suoi sermoni sulla musica delle canzonacce dei marinai e dei mulattieri). I niceni invece avevano già quella sfumatura benpensante che li identificava come organici della borghesia – e i Costantini giocavano a metterli gli uni contro gli altri, appoggiando ora questa ora quella fazione, per strategia o per capriccio.

Due secoli più tardi sarebbe successa la stessa cosa coi tifosi delle due più importanti scuderie delle corse di bighe, gli Azzurri e i Verdi. I primi erano i popolari (ma appoggiati dall’imperatore Giustiniano), i secondi aristocratici e monofisiti. Entrambi giravano coi coltellacci legati alla gamba, e si pettinavano all’Unna, lasciandosi crescere le creste per spaventare gli avversari. Vedi come lo stesso fenomeno (una guerra tra bande di delinquenti per le strade di una metropoli) si può leggere in tre modi: (1) guerra di tifosi: è il modo più superficiale, come se qualcuno fosse davvero disposto a morire per i colori di una squadra; (2) guerra di religione, monofisiti contro ortodossi; (3) lotta di classe. A me ovviamente interessava solo il terzo piano, quello di cui nessuno vuole mai parlare. Fanno tutti una gran confusione, parlano di bighe o quadrighe o di natura divina e umana del Figlio, perché non vogliono parlare di salari e di libertà degli schiavi… Però alla fine Azzurri e Verdi si stancarono di ammazzarsi per il sollazzo del Cesare, gli assediarono il palazzo contiguo al Circolo e chiesero le dimissioni del prefetto del pretorio, ritenuto responsabile dell’iniqua tassazione. (Le ottennero, ma in seguito Giustiniano, consigliato dalla moglie Teodora, riuscì a dividerli e li sterminò).

(Milletrecento anni più tardi, in una difficile città di mare dall’altra parte dell’Europa, ci si rimise ad ammazzare tra “verdi” e “azzurri”. I primi tifavano il Celtic Glasgow, erano immigrati irlandesi e cristiani cattolici. I secondi sostenevano i Rangers, ostentavano lealtà alle maestà britanniche e fedeltà alla chiesa protestante. Risse da ubriachi, guerre di religione, indipendentismo e identità celtica: dipende anche da storia vuol leggere la gente il mattino dopo).

Seduta di autocritica maoista in Bobocandia (“O Marx O Lenin O Mao Mao”).

Nello stesso periodo in cui studiavo i padri cappadoci, avevo messo le mani su certi vecchi fumetti di un francese geniale e irregolare, Gérard Lauzier. La sua prima storia era ambientata in un’ex colonia francese di fantasia tra jungla e savana. Gli abitanti della savana erano diventati il Fronte Bobocalandese di Liberazione – trotskisti – mentre la tribù della giungla si era convertita al marxismo-leninismo di marca cinese, fondando il Fronte di Liberazione Bobocalandese. Dopo il tramonto conducevano lunghe sessioni di autocoscienza politica davanti al fuoco, cantando O Lenin O Mao O Mao al suono dei tamburi. Negli anni Settanta Lauzier passava per un autore di destra, e in effetti disegnava ancora gli africani coi labbroni e i dentoni. Si rifiutava a vedere il progresso nella decolonizzazione: era tutta una farsa, una tribù resta una tribù anche se coi fucili le vendi il libretto rosso. Il libro è fuori commercio in Italia, trovarlo è stato più difficile che rintracciare la citazione giusta nella patrologia.

Mi capita spesso di ripensare alla vignetta della tribù marxista, ultimamente, e ai venditori di tappeti di Gregorio di Nazianzo, pardon, Nissa. Sono contento che è finito Natale, quest’anno più del solito. Al mercato, in piazza, in sala insegnanti, per un mese non s’è parlato che di identità cristiana, e soprattutto di presepe. Chiedevi il prezzo del pane, ti rispondevano presepe. Domandavi che fine aveva fatto la programmazione monodisciplinare, ti mettevano al corrente del grosso rischio che stavamo passando di non poter più sentire le zampogne a causa degli immigrati musulmani. L’Amaca di Michele Serra appesa dappertutto. Il punto di riferimento del ceto medio riflessivo progressista che verso la fine del 2015, fidandosi di qualche notizia distorta, si è convinto che i musulmani ci stessero togliendo il presepe. Il presepe. Tra due secoli qualcuno ritroverà un fondo di Michele Serra nel fondo di una valigia, leggerà e si domanderà nella sua lingua sconosciuta: ma sul serio? Parlavano di questo all’inizio del millennio? Di presepe? Non del riscaldamento globale, dell’instabilità economica europea o delle migrazioni nel mediterraneo; parlavano del presepe? Era così tanto importante per loro? O c’era dietro qualcos’altro che non volevano dirci. Cioè: cosa intendeva davvero questo Serra per “presepe”?

Poi i sauditi hanno ammazzato un imam – i sauditi ammazzano chi vogliono più o meno come l’Isis, e più o meno per gli stessi motivi, ma sono nostri alleati, quindi è ok – salvo che per una settimana è stato tutto un fiorire di esperti di teologia islamica. Ci hanno spiegato che tutte le tensioni del Medio Oriente – tutte – si possono spiegare con la religione, l’eterna rivalità tra sunniti e sciiti. Perché, credevate che fosse il petrolio? I sauditi che lottano per imporre una supremazia regionale, che l’Iran gli contende? La Russia che reagisce all’accerchiamento Nato? Le irrisolte questioni curde e palestinesi? No. «Braccia rubate al mercato o al cantiere», avrebbe detto il nostro Gregorio, ci hanno avvertito che tutto dipende da uno scisma di mille anni fa. E infine si è scoperto che a Colonia a capodanno c’erano un sacco di maschi molesti, e i redattori hanno subito deciso che si trattava di stranieri, anzi immigrati, probabilmente clandestini, magari islamici e Bruno Vespa ha twittato:

Le nostre donne. Forse siamo sempre stati così, forse la novità è che Internet ha moltiplicato gli specchi per guardarci. Io una volta pensavo che Bruno Vespa fosse organico a una determinata classe sociale che imponeva la sua visione dei fatti a tarda sera su Rai 1. Ultimamente lo vedo più come uno stregone che balla al ritmo del tamtam, cantando parole che non conosce, “religione”, “valori”, “cultura”. Ma quel che vuole dire è quello che i capotribù hanno sempre detto in questi casi: straniero vuole venire e rubarci le donne.

Forse i posteri saranno più indulgenti. Spulciando un enorme archivio troveranno l’amaca di Serra o i tweet di Vespa, e capiranno che “presepe”, “religione”, “valori”, “bande di immigrati”, in realtà volevano dire una sola cosa: abbiamo paura. Il mondo cambia troppo alla svelta, un sacco di gente arriva qua e mette in discussione tutto quello in cui abbiamo sempre creduto – comprese quelle cose in cui non credevamo di credere davvero (il presepe?) ma erano insomma parte di un paesaggio. Difendo il mio presepe dai musulmani, quarant’anni fa difendevo la mia famiglia dai cosacchi. La mia quarta sponda dagli inglesi. La mia Patria dallo Straniero. Il mio Dio dall’infedele. La mia bandiera, qualsiasi colore abbia, perché è proprio questo il punto: non importa il colore. Non importa il Dio, non importa la Patria, né la famiglia né il presepe. Sono valori arbitrari che fissiamo di volta in volta. L’importante è l’aggettivo: mio. Tracciamo una linea qualsiasi e guai a chi la oltrepassa. Sul serio non moriremmo per il colore di una squadra? Non è l’unica cosa per cui moriamo, alla fine dei conti?

Gregorio nacque in Cappadocia, che oggi è lo zoccolo duro della Turchia rurale e islamica, ma nel suo secolo produceva santi cristiani e padri della Chiesa a un ritmo impressionante. Gregorio può vantare in calendario una nonna, Santa Macrina l’Anziana; due fratelli (San Basilio Magno e San Pietro di Sebaste) e una sorella (Macrina la Giovane). Lui si venera il 10 gennaio.

via Blogger http://bit.ly/2RixcGE

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L’annosa questione del razzismo di Tolkien

Make Middlearth Great Again

Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz’altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli “Orchi”. È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un’opera di propaganda, e l’ha smontata in quanto tale. Ma l’operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un’opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l’accusa salta fuori, e c’è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l’ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.

Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d’attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l’aveva mai sentita. E poi c’è un’altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po’ razzista. Veramente poco, per un inglese dell’ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l’argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell’Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l’anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po’ troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L’ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un’intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui “alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri”. L’affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l’ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d’Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

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Niente di nuovo dal fronte del Natale

Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l’infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all’aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l’anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus

Dal Fronte per ora questo è tutto: un po’ poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe “obbligatorio”. Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che “chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore“. Insomma l’artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L’impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c’è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l’impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c’è chi addobba l’albero, c’è chi compra i regali, c’è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – “War On Christmas” la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l’augurio “Merry Christmas” dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista “Happy Holidays”, buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l’Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d’innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l’esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell’Europa Centrale dev’essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant’anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un’invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l’anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c’è la capacità di riconoscere al volo un’immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c’è l’abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d’inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l’anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l’imperatore Aureliano introdusse nel 274… (Continua su TheVision).

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Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l’hanno coi musulmani, con l’Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l’Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po’ perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c’è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c’è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore “L’Europa è Cristiana, non Musulmana”?

E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch’essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po’ da loro, un po’ dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev’essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell’Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev’essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?

Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po’ il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l’hanno un po’ d’orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell’ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell’ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.

D’altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata “completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista”, contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto “melting pop” che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono “autoctoni”, cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po’ di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l’aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su “Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista”: è anche un riconoscibilissimo dipendente dell’azienda, e Mediaset tra l’altro è in una fase delicata. L’approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l’Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s’intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal “contenuto razzista” del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di “razzismo” per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).

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Salvini (non guarda più nessuno in faccia)

Salvini chiude i porti ai poveracci,
Salvini ha già aumentato i morti in mare.
Salvini dà il permesso di sparare;
Salvini ride e sfoggia gli avambracci.

Salvini ai ricchi toglie tasse e lacci,
e anche a Bruxelles non devono seccare:
che lui fa tutto quello che gli pare.
Salvini è il capo, l’hai capito? Stacci.

Ormai non guarda più nessuno in faccia:
anche allo specchio passerebbe dietro
la notte, quando deve andare a letto.

Non è che si vergogni, o si dispiaccia;
arriccia forse il naso e dice al vetro:
“Ma guarda questi stronzi, chi hanno eletto”.

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Fuori dall’Italia i libri sacri anticostituzionali, dai

Giura sul Vangelo, sfoggia un rosario: ma chi è questo nuovo integralista cattolico che avanza da destra? L’ex comunista padano, Matteo Salvini in un comizio a Milano ha giurato di “applicare davvero la Costituzione rispettando gli insegnamenti del Vangelo”. Un libro sacro e una costituzione laica possono andare d’accordo? Tutto sommato sì. È Salvini che non sembra c’entrare molto con entrambi: ce lo vedete nel Vangelo, a scacciare con la ruspa il Buon Samaritano? O tra gli apostoli a polemizzare con Gesù Cristo che rifiuta di prendere una posizione coerente contro l’Unione Europea del tempo, l’Impero Romano? Quanto alla Costituzione, basta aprirla a pagina uno: l’articolo 8 dice che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge, ok, che problema c’è? C’è che appena una settimana fa Salvini, a “Speciale Fatti e Misfatti” (TgCom24), ha dichiarato che una volta al governo metterà “lo stop”, “il veto”, a “ogni presenza islamica organizzata, regolare o abusiva in Italia”. Insomma, se vince Salvini i musulmani non potranno né organizzarsi né nascondersi: dovranno levare le tende? Sono quasi due milioni, di cui trecentomila cittadini italiani: è difficile pensare che il leader leghista stia parlando sul serio. Il suo punto di vista merita comunque di essere discusso, se non altro perché è condiviso da una parte della popolazione ormai maggioritaria: “L’Islam è incompatibile con i nostri valori e la nostra cultura,” afferma. “L’Islam applicato alla lettera, il Corano applicato alla lettera […] sono atti di violenza”. Il che peraltro è vero.

Momenti di preghiera nelle città di Torino, Milano e Roma

Esatto, ho appena dato ragione a Matteo Salvini.
Applicare il Corano alla lettera sarebbe senz’altro un atto di violenza. Basta leggere qualche versetto, per esempio quelli sulla condizione femminile. È un libro che comincia con Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (GE 3,16). In un’altra sura si legge: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato: per causa sua tutti moriamo” (SI 25,24); “se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (SI 25,26). Non è certo tra queste pagine che troveremo anche la minima ispirazione all’emancipazione femminile: (“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”) (SI 25,21).

Persino nella preghiera comune le donne sono ghettizzate: “Non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in pubblico” (CO I 14,34-35). Da queste pagine nasce anche il barbaro costume del velo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Allah; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli” (CO I 11,5-10). Il profeta: non concede “a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (TI I 2,12-15).




Se, malgrado tanta modestia e tante barriere, un uomo riuscisse comunque a vederla e a desiderarla, il consiglio del Profeta è dei più drastici: “Vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi organi, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna” (MT 5,28-29). Che altro dire? Il Dio del Corano è un Dio della guerra (“Non sono venuto a metter la pace, ma la spada”), determinato a portare la sua jihad fin dentro all’istituzione famigliare (“Sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera”). Un libro del genere, se applicato alla lettera, non può che ispirare atti di violenza e di prevaricazione.
Quindi Salvini ha ragione. Bastano anche solo i versetti che ho citato per dimostrarlo.

Salvo che… (continua su TheVision)

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Marco Minniti ha visto un mostro


Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.

Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere… (continua su TheVision)

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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 


E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.


Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.

Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era esattamente un satanista e soprattutto non ha mai pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.
Charles Manson è un personaggio davvero esistito e nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre – così com’è davvero entrato in un riformatorio cattolico a 13 anni, per evaderne molto presto su un’auto rubata, e rientrarci poco dopo. Come raccontò ai giurati che lo condannarono, buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, dall’altro forse gli diede qualche elemento in più per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare quelle razziali (continua su TheVision).

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Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.


Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.


Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena – neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro – è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada – dove evidentemente non ha messo mai piede – e in particolare di… una scuola elementare?


Un passo indietro: a settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano… (ho scritto un pezzo sulla Cittadella su TheVision, perché Modena non ti molla mai).

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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l’Europa?

Dopo vent’anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.

Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:
“Hanno fermato gli scafisti, l’immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti “pirati” o “fascisti” ma oggi l’equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”
Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c’è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).

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La discriminazione religiosa che piace al Corriere

Come Ernesto Galli Della Loggia ha sconfitto l’Isis

A questo punto lo Ius Soli è andato. Finito. Un cadavere nel deserto. Persino iene e avvoltoi si stanno allontanando dalla carcassa, non c’è più niente da beccare. Soltanto un editorialista continua a tornare a intervalli regolari, sembra non darsi pace: Ernesto Galli della Loggia.

Sullo Ius Soli negli ultimi mesi ha scritto tantissimo, e più o meno le stesse cose: la cittadinanza è un bel diritto, ma ai bambini nati in famiglie musulmane non la possiamo dare perché… i musulmani ce l’hanno con noi. Questa cosa, che su Libero o sul Giornale si può sintetizzare in titoli semplici ed efficaci (ad es. “Bastardi islamici”), sul Corriere bisogna ancora articolarla in tortuosi ragionamenti che dovrebbero dare a GdL e al suo lettore la sensazione di essere un po’ più moderati mentre pensano, in sostanza, che questi islamici sono proprio dei gran bastardi. Ci vuole del realismo, spiega GdL. Come possiamo fingere di non vedere che “l’immigrazione islamica non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime”?

Eh?

No, sul serio, di cosa starà parlando? “Aspro contenzioso millenario”… avrà in mente le crociate? Forse è ancora quella roba che andava di moda ai tempi di Samuel Huntington: insomma per GdL c’è una “civiltà occidentale” e c’è una “civiltà islamica” e si fanno la guerra dalle sponde del Mediterraneo da più di mille anni. Il fatto che per la maggior parte di questi mille anni abbiano commerciato e intrattenuto rapporti diplomatici sarà irrilevante (anche il colonialismo, non rileva). A secoli di distanza, ancora oggi alcuni di questi Stati alimentano “sotterraneamente radicalismo e terrorismo… svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali»)”.

Link?

Perché, scusate, qui abbiamo un autorevole editorialista che ci sta informando di un fatto gravissimo: ci sono nazioni con cui abbiamo un contenzioso millenario che mirano a sovvertire il nostro paese alimentando il radicalismo e il terrorismo, aprendo moschee e “centri culturali”, con le virgolette. È una cosa molto preoccupante!

Ci farebbe un esempio?

GdL scrive su un giornale importante. Avrà ben letto da qualche parte che una nazione nemica dell’Italia sta infiltrandosi aprendo moschee e “centri culturali” – io, confesso, ho cercato un po’ ma non ho trovato niente a parte le solite cose, ovvero i finanziamenti dei sauditi e del Qatar. Peccato che dall’Arabia Saudita e dal Qatar non stiano arrivando in Italia molti immigrati; peccato (si fa per dire) che in Italia di tutti questi finanziamenti, effettivamente molto rilevanti in altri Paesi come UK e in Belgio, non arrivi tutto sommato che qualche briciola. Ma fingiamo per un attimo che i sauditi stiano finanziando centri culturali islamici in tutta la penisola, luoghi dove entri normale ed esci wahhabita. Come pensa di arginare GdL questo inquietante fenomeno?

Rendendo più difficile il conseguimento della cittadinanza italiana.

Geniale, no? Cos’ha consentito ai jihadisti francesi e belgi di commettere delle stragi nei loro Paesi? La carta d’identità. Niente carta d’identità, niente esplosivi, niente furgoni. Cospiri contro il Paese che ti ospita da quando sei nato? GdL ha un rimedio per te. Ti toglie la doppia cittadinanza.

Sul serio?

Sul serio. Sul Corriere GdL propone che gli immigrati da paesi islamici (non necessariamente islamici) possano ottenere la cittadinanza italiana solo se rinunciano a quella del Paese d’origine. A chi gli ha pur fatto presente la vaga componente discriminatoria della sua proposta (perché un italo-statunitense può avere due passaporti e un italo-senegalese no?), GdL ha ribadito che gli USA sono gli USA e il Senegal è il Senegal, il che è davvero inoppugnabile – e col Senegal evidentemente c’è quel contenzioso millenario, il Senegal notoriamente vuole infiltrarci costruendo moschee e centri culturali, se uno è realista queste cose le sa. GdL è un realista e quindi ha la soluzione: la detenzione? No. L’espulsione? No. Ma se vuoi diventare italiano ti stracciamo il passaporto senegalese. A quel punto, con un passaporto solo, l’infiltrazione diventerà più difficile. Uhm.

Inoltre GdL ritiene necessario che i genitori passino un test d’italiano. Questo a dire il vero c’era già nella legge impallinata al senato, ma a GdL non basta un genitore. Sono buoni tutti ad avere un genitore che parla italiano, eh no. GdL ne vuole due, e attenzione, ne vuole due soltanto per i musulmani (“La conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra”).  E gli orfani di padre o di madre? Probabilmente costituiscono una più grave minaccia alla nostra identità. GdL poi vuole che i servizi sociali controllino queste famiglie e facciano un rapporto alla prefettura. Tutte cose un po’ costose ma apparentemente non troppo incivili, che dovrebbero sancire la differenza tra i lettori di GdL e quelli che si eccitano quando Salvini urla “ruspa”.

Non fosse per quel piccolo dettaglio, ovvero…

Quello che GdL sta proponendo (una legge che preveda iter diversi a seconda se il soggetto è musulmano o no) si chiama discriminazione su base religiosa: è esplicitamente proibita dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Questo sarebbe sufficiente, in tempo di pace, per suggerire al professor GdL una pausa di riflessione: ci dispiace, ma i legislatori non possono riconoscere ad alcuni bambini un diritto e ad altri no a seconda del Dio che pregano i loro genitori. Cioè, professore, lo capisce che non può funzionare? Se sei cristiano facciamo un esame solo a papà e se sei musulmano anche alla mamma? Non si può – s’informi, studi, vedrà che proprio legalmente non si può.

D’altro canto, siamo in guerra, no? Ci sono venti nazioni che cospirano contro di noi aprendo ovunque centri culturali wahhabiti, no? (nazioni con cui intratteniamo a volte ottimi rapporti diplomatici, e a cui vendiamo tante cose, tra cui molte armi, ma sorvoliamo). In tempi di guerra servono misure eccezionali, va bene. Cosa può giustificare una misura eccezionale come la discriminazione su base religiosa? Il risultato. Quella che propone GdL è una riforma iniqua e probabilmente incostituzionale, ma se ottiene il risultato di sconfiggere il jihadismo, beh, allora…

No, scusate. Com’è che GdL vorrebbe sconfiggere il jihadismo? Con quale misura straordinaria?

Le ruspe? no, quelle sono di Salvini. E magari un milione di ruspe potrebbero anche funzionare, chi lo sa. I maiali al pascolo intorno alle moschee? Mi pare fosse Calderoli. Invece GdL propone di… rendere più difficile il conseguimento della cittadinanza da parte dei bambini di famiglia musulmana nati in Italia. Fermi tutti.

Mi sa che abbiamo sconfitto l’Isis.

No, sul serio: forse in Iraq, contro gli sforzi congiunti di truppe di terra americane, contingenti curdi e siriani e aviazione russa l’Isis può ancora opporre qualche resistenza, ma… in Italia, che speranze può avere contro il genio strategico e sociologico di Galli della Loggia? Sul tempo medio-lungo l’Isis è fottuta perché in Italia per gli immigrati di seconda generazione ci metteranno un po’ più di tempo a ottenere il passaporto.

Ecco il fondamentale tampone con cui GdL pensa di arginare l’integralismo islamico: le beghe burocratiche. Ma certo! E bisognava veramente essere dei poveri politicallycorrect per non capirlo! Un jihadista senegalese vorrebbe un passaporto: tu lo costringi a stracciare il suo documento senegalese; quello italiano però ci mette un po’ ad arrivare e così lui diventa apolide: a quel punto puoi star tranquillo, il jihadismo in lui è sconfitto.

Quando i padri di famiglia musulmani che lavorano in Italia e pagano le tasse in Italia si accorgeranno che i loro figli ci mettono più tempo a ottenere gli stessi diritti degli altri immigrati, sicuramente accantoneranno qualsiasi velleità jihadista! E i loro figli, i famosi migranti di seconda generazione? Quelli che più spesso in Francia e in Belgio hanno sentito il richiamo della jihad? Sarebbe proprio politicallycorrect pensare di dar loro la cittadinanza dopo un ciclo di studi, come ai loro coetanei figli di migranti non musulmani. Ma quando si accorgeranno che hanno meno diritti dei coetanei, e ne hanno meno proprio perché sono musulmani, ecco: sarà senz’altro quello il momento in cui gli passerà del tutto la voglia di fare la jihad – i ragazzini ragionano così, no? Quando si accorgono che sono vittima di un’ingiustizia, si calmano, ci ragionano, capiscono che è per il loro bene e non si fanno esplodere più nelle metropolitane. È così che ha sempre funzionato, no? Chi ha bisogno di una seria politica di prevenzione del jihadismo, quando sul Corriere c’è Galli della Loggia che ci risolve i problemi?

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Fa un po’ male, ma poi (il razzismo)

“Ma hai sentito la storia del mediatore culturale?”
“Come facevo a non sentirla? Sei colonne su Libero”.
“Ma come si fa a scrivere una cosa del genere?”
“Nel giorno in cui un missile nordcoreano ha attraversato lo spazio aereo giapponese”.
È un atto peggio ma solo all’inizio, dio mio”.

“E poi mezzo Texas sott’acqua, il vertice europeo sui migranti…”
“Ma come si fa a credere a una cosa del genere”.
“Eppure Libero aveva in prima pagina soltanto la stronzata di un mediatore culturale – in pratica il dipendente di una cooperativa – definito “capo musulmano“”.
“Cioè secondo te la notizia è che Libero ci faccia un titolo?”
“Non un titolo. Il titolo di apertura. A tutta pagina. Per la scemenza di un tizio su facebook. Che diventa miracolosamente la tesi di un capo musulmano“.
“Non è una semplice scemenza. Era una stronzata orribile, maschilista, portatrice di una visione arcaica…”
“Più che arcaica forse consolatoria”.
“Consolatoria?”
“L’idea che una donna non soffra durante lo stupro. Sembra un’autocensura. Non posso credere che qualcuno soffra per così tanto tempo, e così decido che non è vero, che non sta soffrendo. Più che da una cultura arcaica, credo che sia il risultato di uno choc culturale. Un maschilista puro perché dovrebbe preoccuparsi se la donna soffre o no?”
“Ti stai infilando in una fessura pericolosissima, te lo dico”.
“Ma no, è che quando incontro una nozione falsa, mi chiedo sempre da dove salta fuori. Oggi si tende a pensare che le fake news servano a mandare avanti un’agenda politica, o semplicemente ad attirare attenzione e clic. Ma le nozioni false le abbiamo sempre avute, prima della politica e prima dei clic. La maggior parte serviva a proteggerci”.
“A proteggerci?”
Dov’è il nonno? È andato in cielo“.
“Serviva a proteggerci?”
“Magari non funzionava, ma non te la raccontavano per altri motivi. Fa molto male? No, solo all’inizio, poi passa“.
“Stai cercando di giustificare…”
“Sto cercando di capire”.
“Non è che puoi passare la vita a cercare di capire gli ignoranti”.
“Ma è proprio quello che dovremmo…”
“No. Non funziona così. Anche perché gli ignoranti sono troppi. Non ce la faremmo mai. Devono essere loro a fare un passo avanti”.
“Ma che significa, non è mica un match noi contro loro. Siamo tutti ignoranti di qualcosa. Usiamo tutti qualche falsa nozione per proteggerci”.
“Fammi un esempio”.
“Ogni agosto, hai notato che a ogni fine di agosto esce una notizia ambientata sulla spiaggia che riassume il nostro approccio stagionale al problema dei migranti? Due anni fa, la foto di quel bambino siriano annegato sul bagnasciuga“.
“Non era una falsa nozione”.
“Era una foto tra tante, riassumeva un problema generale e complesso, simboleggiò una specie di svolta: la Merkel cambiò atteggiamento, tutti cambiarono atteggiamento – molti perlomeno – per un po’ prevalse la linea dell’accoglienza. L’anno scorso, sempre su una spiaggia, il ladro di bambini“.
“Me l’ero dimenticato”.
“Anche quella volta, paginone di Libero. Tutto rapidamente sgonfiatosi, non c’era stato nessun tentato furto di nessun bambino. Ma riassumeva l’aria che stava tirando. Quest’anno il capo musulmano che insegna su facebook la meccanica dello stupro”.
“Riassume la situazione?”
“Serve a difenderci”.
“Ma cosa stai dicendo?”
“Vuoi la notizia vera? Quella che non ha dato Libero, e che anche i giornali rispettabili sono un po’ restii a comunicare? Per risolvere la cosiddetta emergenza immigrazione, in due mesi abbiamo probabilmente lasciato annegare trentamila persone”.
“Forse un po’ meno…”

Dati fieramente elaborati dal Ministero degli Interni
Li aggiornano tutti i giorni!

“Non è stato difficile: abbiamo lasciato che la libera informazione criminalizzasse le ONG, e poi le abbiamo fatte sostituire da una banda di pirati che abbiamo deciso di chiamare guardia costiera libica“.
“Lo so”.
“Nel frattempo abbiamo preso accordi col capotribù che almeno a Tripoli ha preso il posto di Gheddafi, e che istituirà campi di concentramento disumani quanto quelli di Gheddafi. Anche se la Libia continua a essere un po’ instabile e quindi, in concerto con l’Unione Europe che plaude al nostro spirito di iniziativa, stiamo pianificando di finanziare campi di concentramento più a monte, nel Sahel”.
“So anche questo, ma…”
“In questo modo magari l’estate prossima i trentamila morti moriranno così tanto lontano, o lungo una una filiera talmente sviluppata e complessa, che non ce ne accorgeremo neppure, il che ci farà sentire meno assassini e forse farà vincere le elezioni contro i razzisti ignoranti, noi razzisti consapevoli e pianificatori”.
“Senti, ho capito, mi rendo conto che è terribile, ma non andrà così”.
“No?”
“Capisco che in questo momento tu possa sentirti…”
“Un po’ assassino?”
“Diciamo che siamo tutti colpevoli… di una situazione orribile che…”
“Che si poteva evitare”.
“Però non puoi esagerare. Non serve a niente esagerare”.
“Sto esagerando?”
“Trentamila morti ogni estate, per esempio. Non è vero”.
“È una stima”.
“È solo la sottrazione tra gli sbarcati dell’anno scorso e quelli di quest’anno. E può darsi che davvero l’unica causa della differenza, quest’anno, sia che sono annegati. Non c’erano più navi disposte a soccorrerli, e li abbiamo lasciati annegare”.
“Abbiamo fatto sì che fossero lasciati annegare”.
“È successo. Ma l’anno prossimo non saranno di nuovo trentamila”.
“Perché no?”
“Ma è una questione di buonsenso, insomma… quelli che partivano quest’anno, pensavano che sarebbe stato facile come l’anno scorso. Ma l’anno prossimo… ora che lo sanno… partiranno in meno”.
“Cioè la strage sarà servita da deterrente”.
“Purtroppo sì”.
“Ma come fai a saperlo?”
“È buonsenso”.
“O forse è un istinto autoprotettivo”.
“Cosa?”
“Mi stai dicendo che dopo un po’ smette di fare male”.
“Non capisco”.
“Il massacro. All’inizio fa male, ma dopo la gente si abitua e alla fine magari gode anche un po’”.
“Facciamo che non ti sento”.

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