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Un sostegno per Galli della Loggia

Gli ultimi articoli che Ernesto Galli della Loggia sta mandando al Corriere, sulla scuola italiana e in particolare sulla questione dell’inclusione, sono davvero una fotografia spietata di uno dei principali problemi del sistema educativo nazionale. 

Ovvero Ernesto Galli della Loggia. 

È un grosso problema. 

Che un personaggio così continui a scrivere pezzi su realtà che non conosce, inanellando strafalcioni; che il Corriere gliene pubblichi; che i lettori ne parlino come se si trattasse di cosa seria, ecco questo è un enorme problema culturale di cui non ci preoccupiamo abbastanza. Più in generale, un sistema educativo che produce tromboni del genere, che li alimenta, che li lascia prosperare in qualche cattedra, a contatto con giovani studenti e ricercatori di cui immaginiamo l’imbarazzo; un sistema educativo che a un certo punto non riesce a dire no, dai Ernesto basta, non è la tua cosa, sei patetico, qualche anno fa hai scritto che volevi la pedana in mezzo alle aule, non conosci nemmeno la normativa di sicurezza, abbi pietà di noi, abbi pietà di te stesso. 

In cosa stiamo sbagliando? Quali catene di errori didattici, pedagogici, di selezione del personale, hanno portato Ernesto Galli della Loggia a convincersi, e a convincere almeno la redazione del Corriere, di poter parlare di scuola con con cognizione di causa? Siamo stati troppo inclusivi con uno che non ce la poteva fare, o non lo siamo stati abbastanza? Magari non siamo riusciti a orientarlo verso il percorso più giusto, chi lo sa se in lui non covasse un valentissimo idraulico, o un fenomenale allevatore di capre nane tibetane. Non ce ne siamo accorti e ben ci sta, adesso ce lo troviamo a spiegare la scuola agli insegnanti. Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare fa i corsi di formazione agli insegnanti, chi non riesce a fare i corsi di formazione propone riforme scolastiche sul Corriere.

Ora penserete che esagero, ma è già da due articoli che parla di BES e non sa di cosa sta parlando. È convinto che sia “prevista per gli allievi con disabilità BES la presenza per un massimo di 18 ore settimanali – il monte ore di lavoro standard nella scuola – di un cosiddetto insegnante di sostegno“. Peccato che i BES non siano disabili; e che la normativa non preveda che siano affiancati da insegnanti di sostegno. Galli della Loggia confonde disabili e BES, ha letto un libro ma forse lo ha letto in fretta, è convinto che al massimo chi ha un insegnante di sostegno lo possa avere per 18 ore e indovinate: neanche questo è vero. Dopodiché ce ne sarebbe da discutere, su come cerchiamo di includere i disabili, i DSA, e i BES; su tutti gli errori che abbiamo fatto e che faremo; ma finché ne parla Galli della Loggia è come se impallasse l’obiettivo con lo spettacolo della sua insipienza. 

Questa capra nana tibetana si è persa un grande allevatore?

Da altre parti fanno in un modo diverso, dice GdL – e ottengono risultati migliori in termini di inclusività? Non lo sa, del resto capirlo è difficile anche per gli specialisti. Se c’è tutta questa inclusione, borbotta, perché aumentano i casi di “body shaming”? Mah, se avessi mai studiato sociologia potresti ipotizzare che ciò accada per il solito motivo per cui quando si fa sensibilizzazione su un reato, aumentano le denunce relative a quel reato. Quando da bambino tentavano di strofinarmi i testicoli su un palo io non sapevo che si trattasse di molestie e non denunciavo nessuno. Oggi ci sono denunce, ma nessuno nella mia scuola prova a strofinarti su un palo, non sanno neanche come si fa: e appena ci provano, gli spieghi che ai vigili la cosa interessa e che potrebbero parlarne ai loro genitori, e la smettono. Secondo me si sta meglio oggi, poi per carità servirebbero statistiche serie, io non le trovo. In Francia spendono molto più per queste cose, e malgrado questo ogni tanto una banlieue va a fuoco. In Italia mi aspettavo che succedesse verso il 2000, credevo che patissimo il solito ritardo verso un Paese che percepisco come più civile e organizzato, ma a quanto pare no. Non abbiamo il problema delle pistole come negli USA e nemmeno un grandissimo problema di coltelli come in UK. Non mi azzarderei a dire che siamo meno razzisti e più inclusivi, ma non siamo per ora la peggiore scuola che può capitare a chi ha problemi sociali, educativi o linguistici.

Galli della Loggia è convinto che il sistema non funzioni – il che potrebbe anche essere vero, è la famosa storia dell’orologio rotto, e come purtroppo è ormai di prammatica si lamenta perché qualcuno gli sta dando del nazista. Sarà successo, su internet a cercare bene qualcuno che ti dia del nazista lo trovi sempre (io poi ho qualche riserva sull’opportunità di spianare Gaza, immaginate, ormai son Mengele redivivo). Ma la maggior parte dei commentatori gli stanno semplicemente facendo notare che rinunciare all’inclusività, che era uno dei fiori all’occhiello del sistema educativo nazionale, non può che essere un progetto reazionario. Com’è evidente anche solo dal fatto che un opinionista di area liberale scriva di questi problemi per quattro fitte colonne e non tocchi neanche di striscio l’aspetto economico – come se non avesse capito, alla fine, che è un problema di soldi. O davvero non l’ha capito? Non ci credo. Non posso credere ai liberali che non parlano di economia. 

GdL nota che nella maggior parte dei casi l’insegnante di sostegno non ha “preparazione specifica” e non vede l’ora di accedere ad altre classi di concorso. Da ciò non si può che dedurre che la carriera dell’insegnante di sostegno è poco appetibile. E lo sarà finché non ci investiremo di più. Tutto qui. È veramente tutto qui. Magari non sei un nazista, ma almeno cerca di essere un liberale e scrivi: l’inclusività ha dei costi sociali che non ci vogliamo più permettere. Abbiamo altre priorità. Non da oggi, non da ieri. L’altro ieri, diciamo intorno al 2009, la scuola pubblica è stata macellata da un governo che doveva rastrellare fondi e che l’ha messa in ginocchio; e non si è più ripresa. La società che aveva espresso l’esigenza di una scuola inclusiva esiste ancora, anzi quell’esigenza la sente sempre di più; dislessia e discalculia vengono diagnosticate sempre più spesso, il che è un bene perché prima si rovinavano infanzie a casaccio; i ragazzi coi cognomi non italiani aumentano geometricamente e in certe realtà sono ormai la maggioranza; però i fondi per farla davvero, quella scuola inclusiva, quelli se li è bruciati Tremonti – e nessun governo successivo li ha recuperati. 

La scuola ormai si sta mangiando da sola, sta divorando i suoi organi ancora sani per far funzionare altri organi che non sempre servono a molto (ad es. l’Invalsi, che spende milioni ogni anno per dirci cose che ci dice già l’Ocse-Pisa). Prima o poi si arriverà a un punto di non ritorno e viene il sospetto che Galli della Loggia serva a questo: a pungolare il pachiderma per vedere se è ancora vivo o se altre specie necrofaghe possono cominciare a spolparlo. La scuola pubblica è stata ferita a morte; ha continuato ad andare avanti, per inerzia o per tigna; ma ora? Non ce la fa, garrisce l’avvoltoio, non ce la può fare. Che qualcuno lo prenda come un accigliato segnale d’allarme è abbastanza buffo. No, è il segnale che i privatizzatori del settore educativo possono farsi avanti, spolpare il personale e le competenze, e lasciare gli scarti a qualcuno che se ne occuperà a bassissimo costo. I bianchi borghesi avranno una scuola più pulita, magari con gli armadietti americani e i laboratori finlandesi; i poveracci con la pelle scura si radicalizzeranno un po’ più spesso come accade in altri Paesi che consideriamo più civili; i disabili e i problematici finiranno in qualche Cottolengo che riporterà al centro della vita sociale le istituzioni cattoliche. Amen.

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La coscienza di Zero

https://www.internazionale.it/reportage/zerocalcare/2023/11/03/zerocalcare-lucca-comics-fumetto

Credevo che la gente invidiasse a Zerocalcare il successo, invece no, quel che la fa impazzire è il fatto che abbia ancora una coscienza. C’è fior di professionisti là fuori che venderebbe la madre per una frazione della rinomanza che ZC si è conquistato, gente che davvero ogni mattina scrolla il telefono per controllare la quotazione della propria madre – hai visto mai – e invece del buon affare si ritrovano una luunga dichiarazione di Zerocalcare che, prevedibilmente, ci informa che gli dispiace tanto, non vuole giudicare nessuno, ma lui ha una coscienza. 

Questo è inammissibile!, soprattutto per noi che ci facciamo piacere tutto, che vogliamo giudicare tutti, e che non sappiamo neanche dove l’abbiamo messa quella roba lì, forse in soffitta come il ritratto di Dorian Grey, e non saliamo più a controllare, probabilmente è diventata un pazzo furioso che tira giù le travi a capocciate, non è escluso che un giorno ci crolli tutto addosso, maledetto Zerocalcare che questi problemi non li ha.

 

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Perché non riusciamo a odiare i palestinesi?

C’è una discussione che sarebbe saggio rimandare a tempi più tranquilli, ma non è detto che ce ne saranno più, così comincio adesso. Parto da una domanda meno retorica di quanto potrebbe sembrare: perché non odiamo i palestinesi? Noi italiani, intendo. Persino in un momento come questo, in cui la pubblicistica di sinistra è ormai ridotta al lumicino, e i quotidiani del fu ceto moderato e riflessivo sono tutti a disposizione di Israele – certo, non li legge più nessuno, ma in parte proprio perché ormai se la cantano e se la suonano, senza preoccuparsi troppo di intercettare le opinioni di un pubblico così meno filoisraeliano di loro. 

Il direttore di uno dei principali quotidiani italiani smentito dallo sgangherato strumento di fact-checking affidato alla peggiore comunità virtuale nella storia di Internet pic.twitter.com/2TNTrDsze6

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Poi c’è la stampa più becera, storicamente barcamenantesi tra antisemitismo e antislamismo, che dal 7 ottobre sembra decisamente aver optato per quest’ultimo. Almeno per quanto mi è dato di vedere (non è che mi soffermi molto). Ma quindi a questo punto chi potrebbe più intercedere per i palestinesi presso il pubblico italiano? Giusto qualche influencer che però se insiste rischia di essere malmenato. Eppure guardatevi intorno: abbiamo una stampa più filoisraeliana della stampa israeliana, opinionisti tv in servizio permanente che possono permettersi di accusare in serenità il segretario generale Onu di fiancheggiare Hamas, e malgrado tutto questo sforzo – che sarà anche costato parecchio denaro – gli italiani non odiano ancora i palestinesi: e parliamo di uno dei popoli più sfigati del mondo. Arabi di lingua, perlopiù musulmani di religione, insomma quel tipo di gente di cui siamo allenati da secoli a diffidare: ma ancora non li odiamo. Perché? 

Non hanno calciatori famosi, né ballerine o attrici disponibili a sposare i nostri; in effetti non hanno più niente, e quando avevano qualcosa erano limoni e olive e un po’ di luoghi santi, insomma se avessero uno Stato e un minimo di economia dovremmo persino temere la loro concorrenza: e invece di ringraziare chi quotidianamente si adopera per evitare questa possibilità, noi ci ostiniamo a parlare di pace, di Due Popoli Due Eccetera, a tentare di capire le ragioni di chi non ha più un soldo per permettersele. Così empatici, noi, è possibile? Perché diciamolo, di altri popoli ci frega poco o nulla. Qualcuno ha la minima idea ad esempio di cosa stia succedendo in Libia? È una terra più vicina a noi, geograficamente e storicamente. C’è la guerra anche lì, in teoria, ma non ci scalda un decimo di quanto ci attizzi la causa palestinese, la più persa di tutte. Da cui un sospetto: forse non è tanto la simpatia per i palestinesi, che alla fine chi li conosce, quanto la diffidenza per la retorica filoisraeliana, che più martella più ci lascia diffidenti. Può essere il motivo, mutatis mutandis, per cui di putinisti ce n’è più qui che altrove. 

È abbastanza singolare che in un contesto sempre più globalizzato, dove ormai la gente in tutto il mondo guarda gli stessi programmi coi sottotitoli, l’italosfera dimostri una sua identità, o almeno un’immunità a messaggi costruiti appositamente per essere ripresi e amplificati da qualsiasi pubblico – e invece no, in Italia non passano. Così come ascoltiamo sempre meno musica in altre lingue (Kanye West l’avrebbe riempito sul serio Campovolo?), capiamo sempre meno certi discorsi, pure semplicissimi. Un anno e più fa gli ucraini cominciarono a spiegarci che non potevano assolutamente negoziare con Putin perché questo avrebbe comportato cessioni territoriali: chi mai cederebbe terreno in cambio di pace? A dire il vero è successo tante volte a tante nazioni, ma agli ucraini sembrava scandalosa la sola idea. Ricordo una serie di messaggi, ripresi anche da qualche volonteroso megafono italiano, tutte variazioni sul concetto: voi che regione del vostro Paese cedereste? È chiaro che una domanda così, se la fai a un americano, è retorica; ma noi italiani abbiamo una storia diversa, regioni ne abbiamo già cedute parecchie (ringraziando di non doverne cedere di più), e soprattutto passiamo il tempo a sfotterci da regione a regione, da provincia a provincia, ognuno a una domanda così ha già pronta una risposta scherzosa, ma fino a un certo punto. Non puoi convincerci con messaggi così, non devi neanche provarci se non vuoi dimostrarci di non conoscere né la nostra storia né la nostra psicologia. D’altro canto gli ucraini sono una nazione giovane, l’inesperienza va messa in conto. 

Una regione sola? Non possiamo darne un paio?

Gli israeliani viceversa queste battaglie mediatiche le combattono da sempre, con un’indiscussa professionalità, e sin dall’inizio hanno deciso di impostare la campagna autunno-inverno sull’equivalenza tra Hamas e l’Isis. Opzione assolutamente comprensibile, quasi obbligata, che negli USA e in molti Paesi europei farà senz’altro breccia. In Italia c’è questo problema, che dell’Isis non frega quasi più nulla a nessuno. Vagamente ricordiamo che si trattava di una specie di califfato che per un po’ ha controllato certe zone desertiche poi riconquistate da potentati non molto più rispettabili, e non siamo del tutto sicuri (come in Libia) di non essere stati anche occasionalmente dalla stessa parte della barricata contro altri nemici, che in Medio Oriente si sa come vanno a finire tutte le guerre di civiltà (come vanno a finire? in guerriglie per il controllo di oasi e pozzi). 

Ai tempi “Isis” fu anche l’etichetta che si scelse di appioppare all’ultima storica ondata di attentati di matrice islamica in Europa, che a riguardare i pezzi scritti al tempo ci terrorizzarono parecchio: ma sono passati anni, abbiamo avuto altri problemi, e a differenza che in Francia o in Belgio nessun processo ha mantenuto un po’ di attenzione mediatica sugli attentatori perché, anche stavolta, nessun terrorista ha scelto l’Italia. Non è chiaro il perché, forse si tratta solo di fortuna, ma in questo caso è una fortuna incredibile, che dura da più di vent’anni: né Al Qaeda né l’Isis hanno mai considerato l’Italia come un campo di battaglia. Magari è tutto merito della nostra intelligence, ma consentitemi di diffidarne. Comunque sia, registro questo fenomeno: che all’ennesimo agit-prop filoisraeliano (non sempre consapevole di esserlo) che ti ripete che Hamas va trattato come l’Isis, l’italiano medio risponde: ok, ma come l’abbiamo trattato l’Isis? No, sul serio: lo abbiamo pagato? e nel caso, quanto? Perché da noi c’è questa idea, che un prezzo ci sia sempre. Non è un’idea giusta, ma neanche storicamente sbagliata. È senz’altro un’idea cinica, ma ormai si è capito che non siamo quel tipo di popolo che combatte fino all’ultimo uomo per un’idea. Meglio così, vista la nostra inclinazione per le idee sbagliate e perdenti.  

Può darsi che questa nostra riluttanza a odiare i palestinesi sia soltanto una resistenza del passato, come quando non volevamo andare nei fast-food perché era la fine della cucina italiana. Può darsi che dipenda da una serie di circostanze che stanno per sfumare: nei prossimi giorni, se il blocco di luce e acqua proseguirà, moriranno veramente molte persone e l’unico modo di resistere a questa informazione sarà autoconvincersi che non si tratta esattamente di persone, bensì “inhuman animals” o qualcosa del genere, in altri Paesi probabilmente sta già funzionando. Aggiungi che dicembre si sta avvicinando, e presto i nostri giornalisti scopriranno che nelle scuole di Gaza non fanno il presepe. Questo potrebbe essere il dettaglio cruciale. 

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Lo stato dei social (agosto 2023)

 Ok allora ricapitolando:

– Non fa affatto caldo, e anche se invece fa caldo comunque il riscaldamento globale non esiste, e se esiste comunque è colpa del sole, gli uomini non c’entrano niente, e se c’entrano comunque è responsabilità degli uomini cinesi, degli indiani, mica nostra, sono loro che devono fare qualcosa, e se fanno qualcosa comunque non è abbastanza, ecco perché fa caldo.

– Le auto elettriche, tu poveretto credi che non inquinino, perché non ti sei ancora chiesto da dove prendono l’elettricità, ebbene la prendono da centrali ottocentesche che vanno a carbone e i vagoni del carbone li spingono a mano i bambini ottocenteschi.

– Se spendi 50 euro di carta, poi qualcun altro spende sempre quei 50 euro di carta; invece se usi la diabolica carta di credito, le banche intascano commissioni su commissioni su commissioni che alla fine della giornata i 50 euro li hanno raccattati su loro, insomma è un complotto delle banche per farsi pagare i servizi, non usare la diabolica carta di credito, a proposito sono cento euro o centotrenta con fattura.

– La sinistra mondiale è in combutta con la Mattel, George Soros e Netflix per omosessualizzarci tutti, in tal modo si ridurrà la popolazione e verremo più facilmente invasi dai barbari, non è successa la stessa cosa con l’impero romano? ah no? perché a quel tempo ancora la Mattel non vendeva bambolotti di plastica, inoltre il diabolico colore rosa non era ancora stato inventato.

– I barbari se ne starebbero anche a casa loro, purtroppo Soros e altri agenti demoniaci pagano le ONG per andarli a prendere con il Pull Factor, che è una specie di pulmino del mare.

– Il covid ormai si è capito, ci sono gli studi di studiosi di fama internazionale, che è stato tutto un complotto della tachipirina ai danni del brufen, ovviamente sponsorizzato da Soros che non perde un’occasione per ridurre la popolazione eterosessuale. Per fortuna i portuali di Trieste, coadiuvati dai runner e col decisivo interessamento di Agamben, hanno sventato anche questo complotto, comunque i morti per il caldo di cui sentite parlare sono in realtà morti per i vaccini, siccome in realtà non fa caldo (vedi punto 1). 

– Gli ucraini non esistono, sono un’invenzione degli americani per mettere in difficoltà i valorosi russi, in realtà si tratta di nazisti che hanno bombardato ininterrottamente il Donbass dal 2010 in poi malgrado fosse un loro territorio, tanto che i russi si sono sentiti di dover intervenire, e in questo modo si sono trovati incastrati in questo guaio malgrado Putin sia un geniale leader e diplomatico e stratega.

– Greta Thurnberg è brutta e antipatica. Elly Schlein è antipatica e brutta. In generale tutte le donne che dicono qualcosa, se vai a vedere, sono brutte o lo diventeranno, e sempre antipatiche. Le donne dovrebbero essere più belle e simpatiche e disponibili nei nostri confronti, e invece ci tradiscono coi criptogheis che le portano a vedere i film della Mattel, e poi si lamentano del patriarcato, ma quale patriarcato, dov’è questo patriarcato quando abbiamo voglia di sc

– Malgrado tutti i punti di cui sopra si possano facilmente trovare tra i contenuti di qualche giornale di destra, e nei discorsi elettorali dei politici di destra, chi li sparge su facebook non è assolutamente di destra e quei giornali manco li legge, ci mancherebbe, chi dice queste cose è sempre un libertario “contro il coro” (che per una pura coincidenza è il sottotitolo del Giornale di Berlusconi) e nemico giurato del “mainstream”. L’ipotesi di trovarsi a vivere in una bolla in cui anche se non leggi il Giornale ormai stai leggendo soltanto gente che lo legge è assolutamente da scartare.

… direi che per ora è tutto, la retorica della destra sui social in sostanza è questa cosa qua. Di grilli commestibili improvvisamente non si sente più parlare, ma potrebbe semplicemente essere un effetto di saturazione. Altri complottismi (scie chimiche, Ufo) sono ancora un po’ borderline (ma stanno prendendo piede). Ponte sullo Stretto e Riapriamo le centrali nucleari sono argomenti meno condivisi, anche perché chi li spinge non è abbastanza trucido e continua a commissionare contenuti pseudotecnici, come se qui dentro ci fosse gente che si fa convincere dai dati.

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Ai vecchi non gli tocchi le statue

Concita De Gregorio ha esagerato, esageriamo tutti a volte, però è interessante dove l’ha fatto, come e perché. Si è rotta una statua, sono incidenti stupidi che capitano, ma ai lettori dei giornali sembra che le statue interessino in modo particolare, il mondo può anche sobbollire e squagliarsi ma le statue!, non gli devi toccare le statue. Probabilmente si specchiano nella loro rigidità

Ce lo siamo detto e stradetto, i giornali seri vendono poco, ormai li comprano solo i vecchi e i vecchi hanno gusti ben noti: vogliono sentirsi dire che sono stati i migliori, dopo di loro il diluvio, maledetti giovinastri e così via. In edicola ci sono giornalacci che questa cosa la fanno meglio, che strillano titoli sprizzanti odio, e presto o tardi anche il giornalismo cosiddetto serio ci si deve confrontare: l’odio senile tira, viceversa la serena compostezza della maturità te la tirano dietro, e quindi? E quindi dagli con l’odio senile, anche perché voglio dire, hanno fatto male a una statua, come si può sopportare questa cosa? Non sto suggerendo che dietro la De Gregorio ci sia un direttore senza scrupoli che chiede di più! Concita, di più! voglio vedere la bava che cola, facci Feltri, facci Facci, non sto dicendo questo. 

Sto dicendo che alla fine quando uno scrive di mestiere, se non ha 12 anni, il problema del pubblico se lo pone sempre: stai scrivendo ai vecchi, devi scrivere robe da vecchi; i vecchi preferiscono roba più biliare, tu ci metti la bile, al massimo il giorno dopo chiedi scusa. Il pezzo l’abbiamo letto tutti, ha fatto discutere, missione compiuta. 

Vi vedo però che storcete il naso.

Non dovreste. Tanto per cominciare, da quand’è che non comprate un giornale. Poi sì, il discorso sull’abilismo, lo capisco, come se improvvisamente avessimo smesso di darci dei cretini (termine che indicava una persona dal cervello più piccolo), degli scemi (termine che indicava una persona con un punto vuoto nel cervello), dei fessi (termine che indicava persone con una fessura del cervello). No, non abbiamo affatto smesso, anzi continueremo, perché il linguaggio orale viaggia sempre a cavallo dell’illecito, le censure esistono precisamente per il gusto di aggirarle o semplicemente violarle; però vorremmo che i giornalisti giocassero un gioco diverso, che ci stessero più attenti perché… perché? 

Vorremmo che pattugliassero una zona del discorso pubblico dove la gente si rispetta e non si offende, sì, ne avremmo bisogno. Avevamo anche sviluppato una serie di norme – niente di troppo rigido, questione di buonsenso – che aiutavano i professionisti a non perdere la brocca per strada, a non farsi sfuggire cose di cui si sarebbero pentiti appena in stampa, a evitare che un Facci definisse “fatta” una ragazza che ha denunciato una violenza, a evitare che una De Gregorio desse dei cerebrolesi a persone che ora potrebbero persino denunciarla (se non la denunciano i cerebrolesi per l’accostamento). 

Queste norme complessivamente andavano sotto il nome di … “politically correct”, state per dire. E invece no. All’inizio si chiamavano “educazione. Anzi, forse il momento in cui abbiamo perso la partita è stato quello in cui abbiamo cominciato a dire “politically correct” invece di “educato”. Se invece di chiedere scusa per non essere stato “correct” al professionista toccasse dire, scusate, sono stato proprio un maleducato, un cafone… sentite che suona diverso? Almeno a me suona molto diverso, ai giovani d’oggi chissà. Son talmente scemi.

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All’ombra dei lanzichenecchi in fiore

Non so se funziona anche fuori dai social, ma dentro quelli che frequento io si parla solo dell’avventura ferroviaria di Alain Elkann. Probabilmente andrà avanti così ancora per qualche giorno perché effettivamente da qualche parte doveva scoppiare quella bolla d’aria che è diventata Repubblica, e in generale i quotidiani ‘autorevoli’, e la cultura autopercepita che esprimono; poteva succedere in qualsiasi momento e con qualsiasi intervento, ma ha un senso che sia successo su un treno, mentre tutti partiamo per le vacanze, e a causa del padre del proprietario. È una storia insignificante, eppure dice tutto; ogni giorno si arricchisce di dettagli ancora meno significanti e ancora più eloquenti: il Comitato di redazione che prende le distanze, il Direttore che non pubblica la lettera del Comitato, il paginone culturale di due giorni dopo che ci spiega che Elkann è uno Scrittore, visto che non lo sapevamo, e il mio preferito fin qui è il tizio che esordisce scrivendo “vorrei fare il mestiere di critico che mi ha procurato una cattedra negli Stati Uniti”, perché è professore emerito all’Università della Pennsylvania, mentre sulla pagina di Wikipedia silenziosa scompare l’informazione che anche Alain Elkann collaborava con la stessa università. E così via. 

Mi piacerebbe anche capire perché Dall-e,
se gli chiedi un Renoir, ti dipinge un Cezanne.

Ma insomma ne stanno parlando tutti, quindi cosa aggiungere? No, è che tra tante variazioni sul tema non ho ancora trovato qualcuno che si ponga il problema: chi sarebbe, Marcel, in quello scompartimento?

Marcel sarebbe un ragazzo seduto due file più al centro, un po’ ubriaco perché qualcuno gli ha detto che un drink prima del viaggio ti risolve l’agorafobia ferroviaria, e allora ne ha presi due. A un certo punto ha scambiato sedile col suo amico Bloch (che continuava a prospettargli inverosimili avventure “al night”) perché nel variopinto afrore dello scompartimento ha captato una chiara nota di muffa che gli ricorda uno scantinato del Bois de Boulogne, e ha capito che proviene dalla borsa o dagli indumenti di lino stazzonato di quel signore un po’ fuori dal mondo che dal sedile su cui era prima appollaiato Bloch si può contemplare in tutto il suo appannato splendore. Ha le cuffiette perché finge di ascoltare una playlist di mauvaise musique, sperando che il tizio si lasci sfuggire una frase, un discorso, qualche considerazione sui bei tempi andati o sull’arte. Desidererebbe portarselo a casa, presentarlo alla nonna, ma sa che è una fantasia assurda – meno assurda è quella di vincere la timidezza, presentarsi con qualche pretesto, farsi introdurre in qualche atrio muscoso in cui vivrà con creature a lui simili che Marcel ora arderebbe dalla voglia d’incontrare – ma è anche vero che al Lido Hotel Bikini di Vieste ci stanno la Cicci e la Frenci e Bloch sostiene di potergliele presentare entro il tramonto.

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L’ultima foto autentica

Questa foto l’avete vista in questi giorni. È una foto vera (questa espressione, a rileggerla tra qualche settimana, avrà perso il suo residuo significato – cos’è una foto vera?) Più precisamente, è la foto scattata a una foto che sta appesa in una trattoria a Roma e che documenta una cena che è avvenuta veramente, credo nel 1982. L’anno che per gli italiani di un paio di generazioni rappresenta, e guardando la foto è difficile smentirli, il momento più alto della nostra civiltà. Non soltanto queste cinque persone erano vive, ma riuscivano a trovarsi al ristorante. Tutto questo grazie al quinto personaggio a destra, di gran lunga il meno famoso, ma anche l’unico che nel 1982 avrei riconosciuto al volo perché a quel tempo ero un bambino: non avevo mai letto un romanzo di Garcia Marquez, mai visto direi un film di Leone, ma assistito a un match di pugilato o guardato De Niro al cinema, ma Gianni Minà era un baffo televisivo che riconoscevo al volo. Faceva le interviste, aveva una specie di anti-Domenica-In su Rai2 che sembrava un programma più serio, adulti intervistati da adulti, ragione per cui i miei genitori lo preferivano. Non lo capivamo ma era una tv agli sgoccioli. Anche questa foto cattura un mondo al tramonto: Marquez ha già scritto tutto quello che vale la pena, Leone deve finire l’ultimo film e togliere il disturbo, Ali avrebbe dovuto smettere da pugilare già da un po’ (come i medici lo imploravano di fare), persino De Niro i film che valeva la pena di fare li ha già quasi fatti tutti. Minà avrebbe incontrato ancora tanti personaggi interessanti, ma è difficile non immaginare in questa foto un vertice della carriera, coincidente col momento in cui era uno dei volti più noti dei giornalisti Rai. 

Di lì a poco qualcosa si inceppò: Minà continuò a lavorare molto ma in tv il suo personaggio declinò. Non dev’essere per forza una questione di censura, come ho letto in questi giorni, dato che si trattò di un addio lunghissimo: fece pure in tempo a presentare la Domenica Sportiva ai tempi in cui era ancora un’istituzione. La tv stava diventando semplicemente più nazionalpopolare e Minà aveva un target diverso: poteva ancora funzionare quando si interessava a personaggi sportivi come Maradona: meno quando intervistava Sepulveda o Chico Buarque. Un mese fa abbiamo salutato un altro baffo televisivo, Maurizio Costanzo: a me pare che il successo del secondo spieghi come mai il primo a un certo punto in tv non si trovava più. In teoria ci sarebbe potuto essere spazio per entrambi i segmenti, proprio come nel 1981 Blitz era complementare alla Domenica In di Pippo Baudo. In pratica si è verificata questa cosa per cui abbiamo a un certo punto deciso che c’era un solo vero segmento e che Costanzo lo rappresentava degnamente, che la cultura era quella lì, perlomeno in tv: la filosofia era De Crescenzo, il teatro Carmelo Bene Contro Tutti, l’arte era Sgarbi, e resistere era inutile. Il disastro è stato tale che quando finalmente con Fazio c’è stato un tentativo di recuperare una nicchia, abbiamo scoperto con orrore che in tale nicchia ormai la musica colta era il pur simpatico Allevi, la letteratura era il pur simpatico Camilleri, e i personaggi del Blitz di Minà ormai si stagliavano all’orizzonte come resti ciclopici di un passato che non meriteremmo. Magari è solo l’effetto prospettico per cui tutti quelli più giovani dei tuoi genitori ti sembrano dei pirla, anche quando diventano bravi scrittori e cantanti e cineasti. Non posso escluderlo.

Questa foto, rivista in questi giorni, mi folgora per un altro motivo: non riesco più a prenderla sul serio. La trovo infatti mescolata ad altre immagini buffe e realistiche prodotte da algoritmi sempre più raffinati, che non sbagliano più nemmeno le dita delle mani come facevano fino a qualche settimana fa. Gli artisti continuano a domandarsi cosa succederà a loro – a parte che avremo molto meno bisogno dei loro servigi, ho la sensazione che continuino a porsi un problema soprattutto accademico: siamo ancora artisti? È ancora arte? Nel frattempo io registro come si sta modificando la mia percezione: non credo più alle foto, nemmeno a certe foto dove ci sono io. Nemmeno a questa, che razionalmente so essere “vera”, e allo stesso tempo so che non riuscirei più a convincere nessuno che lo è: dopotutto come faccio a sapere che quel pranzo ci fu davvero? Ne ho solo sentito parlare, qualcuno avrebbe potuto inventarsi la storia e fabbricare la foto già qualche anno fa. 

Già qualche anno fa, prima ancora che vedessimo al lavoro la tecnologia deepfake, ci domandavamo se questa non è l’ultima generazione degli attori hollywoodiani, visto che da qui in poi potremmo continuare a usare le loro facce all’infinito. Certo, ogni tanto fa persino piacere vedere qualche faccia nuova (ma non così tante – pensate alle saghe che si fanno a Hollywood: alla fine usiamo per lo più proprietà intellettuali ideate tra ’50 e ’80, con qualche supereroe e mostro che al massimo risale agli anni ’40). Ma anche le facce nuove, perché cercarle col casting ora che possiamo produrle con gli algoritmi? Ci sono interi settori che forse hanno già tutto l’archivio necessario ad andare avanti automaticamente da qui in poi, cambiando solo facce e dettagli – sto pensando per esempio alla pornografia, ma forse mi sbaglio (non ho mai capito che bisogno ha la gente di consumarne così tanta). 

Ora che possiamo avere nuovi combattimenti di Ali, ci servono davvero altri pugili? Possiamo chiedere a un’AI: raccontami un romanzo di Marquez con lo stile di Sergio Leone, farci un film e farlo interpretare da un giovane De Niro. Probabilmente il primo verrebbe una cazzata, ma alla lunga questa cosa prenderà piede e a quel punto cosa saremo diventati noi? Che tipo di spettatori? Non siamo già predisposti a questa svolta, in fondo il cinema di un Tarantino cos’è se non la profezia di un mondo in cui ogni immagine sullo schermo è una riproposizione di qualcosa già visto, processato e rimontato? Siamo sicuri che Tarantino non sia già un algoritmo, o che un algoritmo non potrebbe essere già più bravo di lui? 

Può darsi che in un primo momento reagiamo dicendo: grazie, no, ci piace il prodotto umano. Un po’ come negli anni ’80 ci intestardivamo a non ascoltare gruppi che suonavano con la batteria elettronica, finché non abbiamo ceduto; cederemo anche stavolta, giusto per non invecchiare stronzi in mezzo a giovani che questa differenza non la capiscono – ai posteri interesserà la differenza tra un De Niro vero e uno deepfake? Una vocina nella mia testa mi dice che un Marquez algoritmato potrebbe già essere più interessante di un Camilleri autentico. Se penso che Blitz sia stato un grande programma (idealizzando qualcosa che in realtà guardavo distrattamente mentre giocavo ai lego sul tappeto), che la tv italiana avrebbe dovuto proseguire da lì e non da Costanzo, quanto lontano è il momento in cui potrò avere un prodotto su misura per me, un palinsesto alternativo in cui Blitz prosegue fino al 2023 con Minà che intervista la Egonu e Roberto Bolaño anche se è morto, ma basta non dirlo all’algoritmo? Che limiti ci saranno, a parte la potenza di calcolo? Forse solo la potenza di calcolo: ma chi impedirà ai più ricchi tra noi di bruciare tutte le risorse terrestri in cambio di realtà virtuali dove succede esattamente quello che vorremmo guardare e ascoltare?

Magari poi tra miliardi di anni sbarcherà un’astronave di procioni e ci troverà tutti molto presi a guardare e ascoltare questi contenuti: cercheranno di interagire con noi, decifrando facilmente i nostri linguaggi, ehi salve siamo alieni da un altro braccio di questa galassia, abbiamo trovato un wormhole e così, ehi? Ma ci ascoltate? Siamo venuti da lontanissimo, insomma siamo un avvenimento, perché fate finta di niente? Ci metteranno un po’ a capire che gli esseri veramente umani non ci sono più, e che quel che rimane sono i simulacri di gente che guarda simulacri di storie prodotti da simulacri di artisti, ho già letto una storia così da qualche parte. Non importa nemmeno più dove, tra un po’ potrò chiedere a un algoritmo di riscrivermela meglio. 

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Carcere duro a chi ne vuol parlare

(Una modesta proposta)

Io non ho un’opinione forte sul regime carcerario previsto dal 41bis – il pezzo potrebbe finire qui, in effetti. Non ho un’opinione nemmeno così debole, diciamo che è oscillante e che dipende molto da chi mi fa la domanda. In linea di massima posso dire che oscilli tra il punto di vista A (“È tortura”) e il punto B (“abbiamo sconfitto Cosa Nostra, insomma è utile”). Su questa oscillazione traballa tutta la mia coscienza democratica, il dubbio di vivere in uno Stato che non sempre riesce a garantire i diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini. Mi consolo pensando che almeno non oscillo mai verso il punto C (“Se lo meritano”): lo lascio volentieri aa Meloni e ai suoi garzoni, che in questo caso stanno mostrando tutta l’impreparazione che avevamo largamente previsto.

A tal proposito, la linea del(la) presidente mi sembra la più vittimista possibile, il che non sorprende di certo: l’attacco frontale al PD ricorda quasi una certa strategia bannoniana di demonizzazione dell’avversario, che a ben vedere non è che abbia molto giovato alle destre negli Usa e nel mondo. I bannoniani hanno provato a descrivere una moderata come la Clinton in una satanista: nel medio-termine però è la destra bannoniana che si è trasformata in una specie di setta dai comportamenti ingestibili (l’attacco al Campidoglio). Cercare di vendere al proprio pubblico il PD, un partito di mediocri amministratori, come il braccio politico dell’insurrezionalismo anarchico, è una mossa talmente bannoniana che lascia perplessi, insomma è uno schema che fin qui non ha funzionato: e però, e però io sto in Emilia, uno dei pochi posti in cui il PD esiste ancora, puoi vedere gli iscritti in giro per la strada e nemmeno per un istante puoi credere che siano bombaroli; nella maggior parte del territorio ormai è una sigla abbastanza esotica, per cui non è detto che la demonizzazione non funzioni, o che il PD non dovrebbe immediatamente reagire con una prontezza di riflessi che purtroppo non ha (non ha nemmeno un organo di stampa: scommette sulla benevolenza di una classe imprenditoriale che l’ha abbandonato da mò).

Tornando al 41bis, e in particolare al punto A (“è tortura”), ammetto che dipenda molto dal mio temperamento: benché io ami relativamente la solitudine, devo assolutamente trovarmi qualcosa da fare, altrimenti credo di poter impazzire in pochi minuti. Poche cose mi ispirano più orrore dell’isolamento carcerario, e in particolare il pensiero che i reclusi non possano nemmeno leggere mi risulta intollerabile. Non solo ingiusto: intollerabile. Così ho questa proposta: chiunque sostenga di avere un’opinione forte sul 41bis, che passi almeno due settimane in una stanza sempre illuminata, senza libri e materiale audiovisivo e insomma nella stessa condizione in cui vivono per anni i carcerati al 41bis. Quindici giorni, e poi se proprio volete condividere la vostra opinione, vi ascolteremo. 

Con questo non m’illudo di cambiare idea a gente che è pagata per avere la più trucida possibile – sparo un nome a caso: Mario Giordano. Probabilmente anche dopo due settimane di carcere duro continuerebbe a dire o scrivere cazzate: ma almeno per due settimane non dovremmo sentire le sue cazzate, un vantaggio collaterale vedete che c’è, e io mi accontenterei. E poi chissà, magari uno o due li troviamo, che hanno la testa meno dura del carcere. 

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Prendi i Romanov, loro non disturbano

(Domenica scorsa avevo persino provato a vedere un tg1 perché avevo sentito dire che l’Ucraina stava vincendo la guerra e beh, mi sembrava una notizia abbastanza grossa ma evidentemente mi sbagliavo, la notizia grossa era che la regina d’Inghilterra era ancora morta, come del resto da tre giorni, c’era un reporter d’assalto che intervistava inglesi per strada che potevano confermarlo, continuava a essere morta e loro continuavano a dispiacersene, ottimo. Poi un breve aggiornamento sull’Ucraina dove effettivamente qualcosa sta succedendo ma non si è fatto in tempo a capire perché bisognava passare all’altro scoop ovvero c’è un ex calciatore che si è lasciato con una presentatrice e volano gli stracci, al che ho proprio detto: No senti piuttosto di quei due di cui sopra a Viterbo non è mai fregato niente a nessuno, piuttosto di quei due ricomincia pure a parlarmi della regina che è morta e la cosa incredibile è che il tg1 mi ha preso in parola e si è collegato di nuovo con la Gran Bretagna per uno scoop straordinario, la regina stava viaggiando in autostrada (quantunque morta, la scorrazzavano da qualche parte dell’Isola) e c’erano le riprese di elicottero, capite, in esclusiva, perché noi contribuenti non badiamo a spese e vogliamo assolutamente vedere la panoramica di un’autostrada scozzese con un catafalco scortato dalla polizia, grazie tg1 del tuo alto senso delle mie priorità, grazie ancora).

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I talk fanno schifo e nessuno li guarda davvero

1. Con gli anni ’90 il dibattito politico in Italia si sposta irreparabilmente dai quotidiani al palinsesto tv. I talk show diventano il luogo primario in cui l’opinione pubblica, in teoria, si esprime. In pratica diventa da subito una grande caciara. Un’apparente varietà di voci nasconde (neanche troppo bene) una semplificazione brutale sia degli oggetti del discorso sia dei soggetti che discutono. La tv del resto è ancora metà Stato e metà Mediaset, due entità che non per coincidenza cominceranno ciclicamente a sovrapporsi. Un fantasma di pluralità veniva nobilmente concesso ai telespettatori mediante quella pratica primorepubblicana conosciuta come “lottizzazione”. 

2. I talk sono un’arena in cui vince chi chiacchiera in modo più spigliato. L’approfondimento è un servizio di due o tre minuti; l’esperto deve semplificare e far sua la retorica degli imbonitori. A ogni tesi deve seguire un contraddittorio perché la sintassi del talk lo prevede, e se non si trova nessuno decente in grado di contraddire una tesi, lo si paga. Oppure se ne prende uno gratis, ma indecente.

3. I talk fanno schifo. Quelli fatti bene. Stanno al dibattito politico come il wrestling alla lotta libera. Le eventuali competenze degli invitati non si misurano sul campo, ma si esibiscono proprio come i muscoli dei wrestler. Chi vince e chi perde è già deciso in partenza, così come il premio partita per entrambi. Spesso i più bravi sono proprio i cattivi: farsi odiare è un’arte e non stupisce che gli ingaggi possano essere più alti. 

4. Nessuno li guarda davvero: il sospetto è che chi ne parla guardi perlopiù gli highlights ritagliati sui social, i clippini in cui l’Opinionista A “asfalta” l’Opinionista B (è wrestling, appunto). Sostutuendosi all’informazione e al dibattito, i talk hanno alienato milioni di persone nate e cresciute in un Paese in cui la politica era quella cosa lì, quella di cui si discuteva nei talk urlati e/o noiosi. Quando una deputata del M5S, all’indomani della vittoria elettorale del 2013, si ritrova a un tavolo con Pierluigi Bersani, il suo primo pensiero non è: sto discutendo a tu per tu con il rappresentante del primo partito italiano. Quando apre bocca, è per dire: “sembra di stare a Ballarò”. In quale altra dimensione potrebbe Bersani discutere con qualcuno? La deputata esprime la sua incredulità, per essere passata come Alice dall’altra parte dello specchio: e insieme il suo rifiuto per tutto ciò che, essendo televisivo, non può essere autentico.  

5. Il motivo per cui i canali tv hanno insistito sui talk è meramente economico: costano poco. Meno della fiction, meno dei reportage. La maggior parte degli ospiti partecipano gratis, per conquistarsi la famosa visibilità che in molti casi serve ad accreditarsi in talk più importanti, in una spirale di fama e di follia che ha convinto molte persone di essere statisti proprio nel momento in cui venivano esibiti come pupazzi. 

6. È più di un decennio che stiamo selezionando la classe dirigente coi talk: direi che non sta funzionando. Del resto già i Cinque Stelle nel 2013 erano una reazione alla politica-talk: al tempo dovevano solennemente giurare di non andare in tv (in seguito si lamentavano di non essere invitati). La fine politica di Monti comincia proprio con le sue comparsate televisive: Draghi se ne tiene ben lontano, e del resto un altro politico che è sempre andato pochissimo in tv e non si è mai fatto coinvolgere nei talk è Silvio Berlusconi.

7. Prendete due persone ugualmente istruite: uno guarda i talk tutte le sere, uno non li guarda mai. Il primo non risulterà in nessun modo più informato del secondo. Io non ho mai guardato un talk per più di dieci minuti in vita mia. Non capisco come una persona possa arrivare all’undicesimo senza addormentarsi. Il contenuto di un talk di due ore si può sintetizzare in un testo leggibile in cinque minuti. 

8. I talk sono diventati il paesaggio informativo: non li guardiamo ma diamo per scontato che ci siano e che li guardino gli altri. Questo in parte potrebbe spiegare come mai molta gente si consideri oppressa dalla politica e dai dibattiti da talk show benché persino in televisione ci sia un’abbondanza mai vista di contenuti alternativi. Tutte le culture anti-“mainstream” insistono molto sul concetto che occorre spegnere la tv: se chiedi a un adepto di che tv stia parlando, invariabilmente si tratta dei talk show. Ed è sempre un talk show che hanno guardato più di te. Il novax medio dice di non avere la tv in casa ma sa distinguere un virologo televisivo dall’altro, io non ho mai imparato ad abbinare nomi e facce.

9. Non esistono ricerche in merito e non saprei come farle, ma ho il forte sospetto che il pubblico dei talk show sia per lo più composto da spettatori che detestano i personaggi – così come del resto chi guarda i programmi di cronaca nera detesta gli assassini e li vorrebbe catturati e puniti. La maggior parte dei pupazzi è sulla ribalta per farsi detestare, e lo sanno: si comportano odiosamente perché in questo consiste l’ingaggio. 

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Sabato 2 ottobre assemblea sulla scuola a Modena (in presenza!)

DIG è questo incredibile festival internazionale del giornalismo investigativo che si fa a Modena dal 30 settembre (giovedì) fino a domenica tre ottobre, con reporter straordinari, non necessariamente Alberto Nerazzini ma tranquilli c’è anche lui che è uno dei fondatori. Tra le altre cose (il calendario è foltissimo, dateci un’occhiata) ci sarà un’Assemblea sulla scuola sabato 2 ottobre dalle 16:30 alle 19:00 con Christian Raimo, Federica Lucchesini, Cristiano Corsini, Paolo Landri, Vanessa Roghi (in collegamento) e… me. 

No, io non sarò in collegamento, sono quello che dovrebbe rappresentare il territorio, se tutto va bene sarò in presenza. (Non so se altrove a parte a scuola si usi questa espressione “essere in presenza”).

(Pensate come doveva suonare strana soltanto due anni fa, “essere in presenza”).

Si parlerà di tutto ciò che c’entra con la scuola, cioè di tutto. Venite anche voi se potete; se siete indecisi continuate a guardare il programma che davvero, è notevolissimo: e date un’occhiata anche a questa pagina. Grazie e a presto.

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I NoVax ci fanno comodo

Non è la prima volta che succede: abbiamo visto una minoranza protestare (gli antivaccinisti, in questo caso), li abbiamo visti fomentarsi a vicenda sui social; a volte abbiamo anche notato come tendessero a scambiarsi contenuti un po’ prefabbricati, veri e propri meme, messi in giro da professionisti della disinformazione che non possiamo credere in buona fede. Li abbiamo visti scendere nelle piazze vere, insomma prendere forma nella vita reale, e lì ci siamo preoccupati: ma oltre alla preoccupazione c’era una frustrazione più sorda, perché noi non siamo quel tipo di persone che dovrebbe inquietarsi per un corteo e invocare la repressione, insomma scoprirci dal lato sbagliato delle barricate ci deprime, stiamo proprio invecchiando, ma loro nel frattempo cominciavano a diventare violenti – per chi continuava a leggerli su internet non era affatto una sorpresa, insomma, c’è gente che da mesi vive in una dimensione allucinata in cui Bill Gates sta controllando il mondo e vuole decimare la popolazione, io se credessi veramente in cose del genere mi starei già facendo le bombe in casa – loro invece dicevano che avrebbero fermato i treni, il primo settembre, buffo, come il Mussolini socialista ai tempi della guerra di Libia (e come noi stessi ai tempi della seconda guerra del Golfo), ovviamente non ci riusciranno, ma cosa succederà poi? E poi? E poi…

L’immunità di gregge, in un raro scatto

E poi erano in quattro gatti, anzi in due. Due sfigati con la bandiera hanno avuto il loro giorno da leone, grazie soprattutto alla disciplina di tutte le pecorelle intorno, regolarmente vaccinate. Chi se lo poteva aspettare? Oddio sarebbe bastato chiedere a chi ha esperienza: un conto è manifestare il weekend, un conto presentarsi un martedì mattina. 

Ma insomma li avevamo sopravvalutati, questi NoVax? Certamente. Come tutti i movimenti prima di loro (tutti tranne il M5S, buffo). È un fenomeno abbastanza classico, il modo in cui ogni volta che fissiamo l’obiettivo su una minoranza, dopo un po’ ci dimentichiamo che l’obiettivo è una lente d’ingrandimento. Io ho meno scuse di tutti perché vent’anni fa ero un blogger, in un periodo in cui i blogger erano forse in tutto un centinaio ma a furia di parlarsi tra loro e di far parlare un po’ i media tutt’intorno si erano convinti di essere il futuro della comunicazione politica, del giornalismo e perché no, della letteratura. Era un po’ esagerato? Era molto esagerato: dopodiché in quel centinaio se vai a vedere c’è gente che oggi sta in parlamento, dirige giornali e ha scritto bei libri, insomma su internet cerchi sempre di trovare le cose prima che esplodano, e per farlo ti serve la lente d’ingrandimento, e dopo aver ingrandito tutto ti sembra tutto molto enorme. Questo non esclude che tu possa aver trovato qualcosa. I NoVax non fermeranno i treni. Forse alcuni di loro combineranno guai, ma in linea di massima non è che possiamo aspettarci una svolta terroristica da un gruppo di gente che ha paura di farsi una puntura. Possiamo dunque liquidarli come un gruppetto di sfigati? Non del tutto: nel gruppetto ribolle qualcosa che un giorno esploderà, spero solo metaforicamente. Quel giorno rimpiangeremo di non averli studiati meglio prima, cioè adesso. Adesso io però ho davvero poco tempo, butto giù solo due appunti.

Libero Quotidiano

I NoVax duri e puri sono ormai un fantoccio polemico. Li si inquadra quanto basta a mostrarli brutti, cattivi, fanatici. Si stigmatizza il loro egoismo antisociale; si sussurra che dovrebbero essere esclusi dal sistema sanitario nazionale – ovviamente è solo una provocazione, ma intanto qualcuno la mette per iscritto. Quando poi qualcuno di loro si ammala davvero, la notizia viene condivisa con malcelata soddisfazione. Tutto questo anche su quegli organi di stampa che fino a qualche settimana e mese fa li hanno irradiati di contenuti che mettevano in dubbio i vaccini – il caso più eclatante credo sia quello di Libero Quotidiano, passato nel giro di poche settimane dai deliri di Montagnier agli insulti allo stesso Montagnier. Ma alla fine anche alla stampa cosiddetta seria non dispiaceva affatto vendere qualche copia in più, in primavera, con un po’ di sano allarmismo su Astrazeneca. I NoVax insomma sono una creaturina allevata e vezzeggiata dal giornalismo, che in prima pagina qualche mostriciattolo deve pure esibirlo; e l’altro padrino senza scrupoli è la politica, e in particolare i partiti di destra fuori e dentro il governo, che ai NoVax continuano a fare l’occhiolino ma al primo fatto grave chiederanno leggi speciali per ristabilire l’ordine e la disciplina. 

Allarghiamo un po’ il quadro adesso che è il quarto paragrafo, tanto chi vuoi che legga fin qui. Su Repubblica c’è un pezzo che spiega in quali regioni italiane conviene trasferirsi in vista dei cambiamenti climatici; ci hanno messo un po’ ma ormai ci sono arrivati anche gli agenti immobiliari; insomma la civiltà liberaldemocratica è finita. Ha garantito per più di mezzo secolo un benessere crescente a centinaia di milioni di cittadini occidentali; per funzionare però doveva continuare a crescere e questo è fisicamente impossibile; ci abbiamo provato ma le risorse non si moltiplicano con la fantasia e il desiderio. Dobbiamo cambiare sistema ma le alternative sulla piazza sono per lo più totalitarismi. Ma soprattutto dobbiamo modificare il nostro stile di vita e questo è impossibile sul piano esistenziale: è peggio che toglierci il nostro dio, le nostre abitudini sono molto più sacre. I NoVax questa cosa l’hanno capita molto meglio di tanti liberali e democratici: alla fine il loro complottismo è una lente più nitida di tante altre ideologie più rispettabili. I NoVax rivogliono il mondo di prima, ma chi avrebbe il coraggio di dir loro apertamente che indietro non si torna, che la crisi è irreversibile e che se ne usciremo vivi, ne usciremo in un mondo molto diverso, sacrificando molto di quello che credevamo ci spettasse di diritto in quanto occidentali? Meglio imbottirli di minchiate, tenerli d’occhio, aspettare che i più facinorosi si agglutinino e poi quando scoppia la bolla additarli al pubblico ludibrio. Non penso che ci sia una regia occulta, è un meccanismo che si sta montando da solo. 

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A Gino Strada e chi lo infanga

I

L’altro giorno come sapete ci ha lasciato Gino Strada, fondatore di Emergency, punto di riferimento di quel movimento che dopo Genova rifiutava orgogliosamente qualsiasi leader, ma Strada lo avrebbe accettato di buon grado: lui però preferiva salvare il mondo un ferito alla volta e probabilmente aveva ragione (qualche anno più tardi qualche grillino lo voleva ancora al Quirinale, una traccia di quella continuità sotterranea tra noglobal e 5Stelle che imbarazza entrambi). Ma insomma è morto Strada, e molti che volevano ricordarlo su Facebook si sono trovati in calce al proprio ricordo un messaggio fotocopiato, stavo per dire ciclostilato, che accusava Strada di essere stato uno storico sprangatore di fascisti negli anni del movimento studentesco a Milano. Un comunicato del genere, costruito abbastanza ad arte (addirittura gli veniva attribuito un modello preciso di chiave inglese, la Hazet36 con cui era stato ucciso Sergio Ramelli), non poteva che provenire da qualche centrale neofascista e sarebbe anche interessante risalire a quale, ma stasera ho pochi giga e volevo soltanto confessare una cosa: io ci sono cascato. 

Cioè questa storia di Strada sprangatore, anzi capo degli sprangatori, non mi suonava nuova, l’avevo già sentita e la davo in qualche modo per scontata. Invece ho scoperto proprio in questa occasione che si trattava di diffamazione bella e buona, e che per aver sostenuto qualcosa del genere Gigi Moncalvo, da direttore della Padania, fu condannato da un tribunale a contribuire a Emergency per la cifra non trascurabile di euro 150.000. Così ho avuto conferma una volta di più che devo dubitare sempre di tutto, e soprattutto delle cose che ormai do per scontate e che invece mi sono entrate in testa solo per sentito dire. Inoltre dovrei essere sollevato, no? A un eroe della mia tarda giovinezza è stata tolta l’unica macchia di fango che qualche essere abietto era riuscito a schizzare. 

Invece sono un po’ deluso.

Cioè a questo giovane Strada picchia-fasci, nella mia testa, mi ero un poco affezionato. 

E non perché approvassi troppo l’abitudine, in effetti un po’ estrema, di trattare i fasci con quella violenza che è pur parte della loro mistica, insomma capisco che rompere teste con chiavi inglesi non è una bella cosa, nemmeno contestualizzando quel post Sessantotto milanese un po’ tribale eccetera. Ma insomma se togli questo dettaglio così controverso alla biografia di Strada, cosa ti resta? Potrebbe essere l’unica cosa discutibile commessa dal tizio: gliela dobbiamo proprio togliere? A parte questo ha fatto soltanto del bene, come un santo; ma anche gli autori delle vite sui santi si perdono sui dettagli piccanti della giovinezza, perché alla fine che santità sarebbe se uno nasce già perfetto? Mi piaceva immaginare dietro quel cipiglio un senso di colpa di un tizio che dopo aver spaccato la testa a qualcuno decideva di passare il resto della vita a riparare qualsiasi testa, senza più far caso alle idee che c’erano dentro, né al colore né alla bandiera. Ammettete che aveva un senso almeno narrativo. Problema mio, che ho bisogno di trovare difetti alle persone per ammirarle. Strada forse non ne aveva. 

II

Morire a Ferragosto è problematico, per gli italiani almeno. Quelli che hanno fatto qualcosa di buono, qualcosa che meriterebbe di essere ricordato, ma da chi? Una volta per questa cosa c’erano i giornali, ma a Ferragosto chi li scrive? Gli stessi di tutti gli altri giorni, ormai, ma sono ancora più svagati del solito, forse dettano dall’ombrellone e in redazione non c’è nessuno a correggere le sciocchezze più evidenti. Oppure in redazione c’è qualcuno che ha interesse ad aggiungere sciocchezze molto evidenti, non lo so, insomma giudicate dai risultati. Questo è l’incipit del coccodrillo di Maurizio Crippa sul Foglio. Qualcuno ha deciso che andasse in stampa così voglio dire, non è uno scherzo. Hanno deciso di cominciare un pezzo su Gino Strada così:

Cioè pensate che colpo di fortuna, che dono esclusivo, andarsene all’improvviso (in realtà Strada era malato da tempo) proprio quando la Stampa ti pubblica un pezzo. Che boh, forse è una cosa dei giornalisti, come morire sul palco per i musicisti o per gli attori. Qui però semplicemente l’editor era ubriaco, o disattento, o genuinamente convinto che qualche lettore possa comprendere un fetish dei giornalisti professionisti. Molto peggio è successo il 14 agosto sulla Repubblica, che ha affidato la pratica Strada a Pietro Colaprico, e questo è il risultato (o almeno l’incipit del risultato):

Faccio fatica a commentare. Colaprico non sa una cosa, ma decide ugualmente di scriverla perché il dato “va comunque registrato”: una mentalità da dossierista imprestato al giornalismo. Oppure Colaprico (o il suo editor) forse una cosa la sa, e apparentemente la “registra”: ma non ce la dice tutta, anzi non ci dice praticamente niente. C’era davvero il bisogno di dire e non dire che Strada faceva la spia, senza nemmeno riuscire a chiarire per chi? Non siamo su facebook, qui, in teoria ci sono professionisti al lavoro, già, ma appunto: professionisti di cosa? Più in là, nello stesso pezzo:

“Se sa resistere dove cadono le bombe, volano i proiettili e bisogna stare attenti a calunnie, dossier, rapporti torbidi con spie ed assassini, per i suoi nemici dipende dai rapporti che mantiene con le popolazioni, uno scambio in cui la cosa essenziale per Strada è curare senza chiedere i documenti e per gli altri, per lasciare l’ospedale in zona neutrale, chissà quale sia la cosa essenziale”.

Ecco, qui sembra davvero dettato dall’ombrellone: ma la volontà di adombrare la reputazione di Strada, quella no, quella è rimasta in un ufficio con l’aria condizionata e sembra abbastanza determinata a ottenere un risultato. Tutto questo, si noti bene, di fianco a un pezzo di Daniele Mastrogiacomo che racconta con una certa vividezza quanto si espose concretamente, Strada, quando si trattò di liberarlo (riscattarlo?) dai miliziani che lo avevano rapito. Un racconto da cui emerge abbastanza chiaramente quanto Strada per tenere aperto un ospedale neutrale in zona di guerra fosse costretto a barcamenarsi con qualsiasi criminale, e con “qualsiasi criminale” non escludo ovviamente gli agenti dei servizi occidentali. Ma che senso ha partire da questa ambiguità prevedibile e necessaria e trasformarla in una “doppia anima”? Che senso, a parte quello di cercare una pecca in Strada, a ogni costo? Forse anche alla Repubblica sentono che un santo ha bisogno anche di qualche difetto. Forse. Altre ipotesi stanotte le tengo per me, l’ho detto che ho pochi giga. 

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400 vittime di covid al giorno e voi scrivete che il rischio zero non esiste, siete criminali.

Quando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.

Ma ci si dovrebbe provare: tirare un grosso respiro e ricordare che si tratta di un’emergenza come non c’è mai stata da che siamo al mondo, qualcosa per cui nessuno era davvero preparato; che gran parte degli errori che si sono fatti erano inevitabili; e nondimeno è giusto segnalare chi li fa, specie se in cattiva fede. Alla maggior parte di chi incontriamo, che in cattiva fede non è. 

Per esempio, già da diversi mesi alcuni dei principali gruppi editoriali del Paese stanno esprimendo una forte voglia di riaprire, costi quel che costi (costerà vite umane). Per essere dei gruppi editoriali, bisogna dire che la esprimono male, con interventi mal editati e scomposti che finiscono per squalificare chi li produce e chi li cita sui social network. Al punto che io stesso, che non sarei quel granitico sostenitore del lockdown a oltranza che credete, alla fine non posso che radicalizzarmi nella convinzione che le scuole non siano affatto sicure: perché se ci fosse uno studio serio che dicesse il contrario, a questo punto ad esempio il Corriere lo avrebbe scovato, e pubblicato in prima pagina, e invece no; mese dopo mese continua a buttar fuori materiale di scarto. La ricerca che tutti citano in questi giorni, e che in un primo momento stavo prendendo seriamente anch’io, non è l’ennesima rifrittura di numeri che Sara Gandini credeva di aver trovato in novembre (e che scomposti per regione ci dicono tutt’altro); adesso è marzo, siamo alla terza ondata, le varianti si dimostrano più virulente anche tra i giovani, e il Corriere è ancora lì che s’affida alla Gandini. Questo come minimo significa che non riesce a trovare niente di meglio; in una situazione in cui davvero qualsiasi ricercatore che riuscisse a torturare i dati fino a dimostrare che le scuole sono sicure otterrebbe l’homepage nel giro di pochi minuti. Ma niente da fare. E però là fuori c’è fior di genitori che ci crede, in quel che dice la Gandini, perché sono ricerche peer-reviewed (ma veramente no), gente che crede alle pillole d’ottimismo, eccetera. 

In sostanza quel che fa il Corriere non è diverso da quello che facevano le Iene ai tempi di Vannoni, salvo che lo fanno in una situazione di emergenza nazionale: stanno apertamente fomentando con informazioni tendenziose una frustrazione sociale che è lì lì per diventare una rivolta civile: ve lo sareste aspettati anche solo un anno fa? che un governo a trazione M5S avrebbe tentato il possibile per proteggerci da una pandemia, mentre Repubblica e Corriere avrebbero diffuso fake news sulle scuole e sui vaccini?; che nel momento della crisi il partito della biowashball e dei chip sottopelle avrebbe mantenuto la barra un po’ meglio degli organi di stampa del ceto medio riflessivo? Pure è andata così, teniamocelo per detto. 

Non so se sia stato il gruppo della Gandini (un gruppo che neanche un anno fa negava la virulenza del virus) a coniare a un certo punto il nuovo slogan che vedo sempre più impugnato da chi vuole riaprire a ogni costo: “il rischio zero non esiste”. Che è insieme una banalità – chi ha mai preteso un rischio zero? – e un’enormità, nel momento in cui in Italia muoiono più di quattrocento persone al giorno. Un po’ come Baricco quando ravvedeva un “There Is No Alternative” quando l’alternativa si vede benissimo ed è: facciamo morire un po’ più gente, l’economia ne avrebbe bisogno. 

Qui vediamo invece Massimo Cacciari in una delle sue più riuscite interpretazioni dell’Uomo Anziano che Impreca al Cielo, mentre senza nessuna difficoltà si lascia mettere in bocca lo slogan da un operatore Mediaset: a riprova che si può essere tra i più brillanti intellettuali di una generazione e farsi suonare come trombette. Ai piani alti hanno fatto due conti e deciso che conviene che moriamo di più, e Cacciari è già in favore di videocamere pronto a spiegarci che morire per la patria bisogna, e sono abbastanza sicuro che nemmeno lo pagano, sarebbe volgare, lui un servizietto così te lo fa gratis, lo baratta con quella misera visibilità televisiva che alla sua età evidentemente lo solletica ancora, ma davvero ci si deve ritrovare così? A chiedere più morti pur di stare in favore di videocamera? Io davvero non

Quando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.

Con un piccolo sforzo possiamo capire che tutti i punti di vista sono ragionevoli. Io stesso, che qui sopra assumo il ruolo di difensore del lockdown e delle chiusure scolastiche, appena metto il piede fuori da questa stanza comincio ad avere qualche tentennamento; percorro il corridoio, e vengo invaso dai dubbi; arrivo alla camera dei bambini, e ho già abbracciato un’opinione completamente opposta. Questo per ribadire che trovo l’angoscia dei genitori perfettamente comprensibile; conosco la loro sofferenza, e anche il disagio degli studenti non mi è così alieno. Più in generale, lo so benissimo che l’economia sta affondando; casa mia non è un’isola, anzi. E tuttavia, in coscienza: se mi chiedete se la scuola dell’obbligo sia sicura, non posso rispondere che no; se mi chiedete se è vero che il contagio non passa dalla scuola o si limita a costeggiare la sala insegnanti, scrive il Corriere, la mia risposta per quel che mi è stato dato di osservare è no; se mi chiedete se davvero gli studenti siano bravissimi a mantenere mascherine sul naso, disciplinatissimi nel distanziamento, e tendenzialmente suicidi dopo un mese di didattica a distanza, anche qui la mia limitata risposta è: no, no, no. 
Questa è la mia coscienza; invece il mio mestiere è quello dell’insegnante e in quanto insegnante faccio parte di una catena di comando. Sono andato a scuola ininterrottamente da settembre a tutto febbraio; ho distribuito mascherine scrause (ho dovuto dar due carichi anche oggi, con la macchina, la mia); non ho fatto un giorno di ferie o malattie; appena mi ordineranno di tornare a scuola, ci tornerò – mi piacerebbe che l’ordine partisse da un ponderato studio dei dati a disposizione e non da una campagna mediatica cialtrona e assassina, ma ci tornerò lo stesso, perché è il mio mestiere e mi sono anche vaccinato. Anche per questo motivo, se proprio volete replicare a questo intervento cercate di non darmi del parassita o del fifone, perché per quanto possa capire il vostro punto di vista – quante altre volte vi capita di trovare un interlocutore pacifico come me, che tutta la violenza la sublima in parole e non verrà mai a trovarvi sotto casa per prendervi a ceffoni? – ciò non toglie che quei ceffoni su un piano teorico sarebbero assolutamente meritati. Invece io vi voglio bene (e non voglio che vi contagino), vostro L.

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Il giornalista italiano è lo scemo sull’aereo che grida: Moriremo tutti

Due giorni fa ho ricevuto una telefonata della mia medica di base, che con molta serenità e molto tatto mi avvisava di essere uno dei centomila e più vaccinati a cui era stata inoculata una dose di Astrazeneca del lotto sotto indagine in seguito ad alcuni decessi. Mi chiedeva se avessi avuto qualche sintomo: io in effetti avevo patito un mal di testa il mattino dopo, ma bisogna anche dire che era la settimana di Sanremo. 

Preso da qui. La “paura in Europa” che nei principali quotidiani europei non esiste.

Mi spiegava che a dispetto dell’allarmismo suscitato dai media, non c’era molto di cui aver paura, e mi ha fatto piacere, perché un po’ di paura ne avevo. Non per una trombosi che a quel punto sicuramente non avevo avuto (mi ero vaccinato una settimana prima), ma che il vaccino fosse difettoso e che quindi dovessi rifarlo; 

e dell’umore di mia madre che già da qualche giorno era in pensiero per me a causa dell’allarmismo sprigionato dalla tv; 

e per le migliaia di italiani (tra cui molti miei colleghi) vittima della stessa preoccupazione, che nel frattempo stavano decidendo di non vaccinarsi. 

Ancora più in generale, ero preoccupato di vivere in una nazione in cui giornali e telegiornali non conoscono più altro modello che non sia quello dei peggiori tabloid, e che in un’emergenza del genere insistono a recitare il ruolo del tizio sull’aereo che urla: moriremo tutti. 

(Particolarmente avvilente il destino del quotidiano che era Repubblica). 

Prima o poi finirà questa epidemia, perché le epidemie prima o poi finiscono – se la gente fosse incoraggiata a vaccinarsi finirebbe prima, e in altri Paesi moderni sarà così. Prima o poi finirà anche da noi: ma i giornalisti, quelli li avremo sempre. In teoria ne avremmo persino bisogno. Forse è ozioso continuare a domandarsi di chi è la colpa: un po’ di tutti, forse di Berlusconi più che di altri, ma non sarà il caso di cominciare a porsi il problema: cosa ce ne facciamo di una mediasfera così? Una cosa che ci dà più emozioni che informazioni, e anche le emozioni sono tutte cattive? Esiste una cura, un vaccino da somministrare a persone convinte di essere giornalisti e non pubblicitari alla giornata – oggi paga Johnson & Johnson, domani si vedrà? Con chi le sostituiamo? Eccetera. È un problema enorme, ma se non lo risolveremo staremo più male e moriremo di più.

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Il Buon Cognome

Io se devo essere sincero Mattia Feltri lo capisco, forse dovrei scrivergli una lettera di solidarietà, qualcosa del tipo, caro direttore Feltri:

probabilmente non mi conosce, sono uno che negli anni Zero aveva un blog, cioè sparava a salve sui giornalisti tesserati, era molto liberatorio. Ovviamente ho sparato tantissimo a suo padre, e negli ultimi anni sto iniziando a sparare a lei. Com’è normale che sia, e spero capisca che non c’è niente di personale. La gente è arrabbiata, la gente vuole sfogarsi ecc.

Se è inevitabile diventare tutti nostro padre, prima o poi, ciò si manifesta in modo ancora più drammatico in certe situazioni feudali come il giornalismo italiano. Ma di chi è la colpa? Certo non sua. Non possiamo scegliere i nostri genitori e non possiamo scegliere il posto in cui veniamo al mondo. Per esempio lei è cresciuto in un ambiente in cui la priorità dei quotidiani non è farsi leggere, ma imbarcare nelle redazioni più parenti ed eredi possibile. Ci sono quotidiani interi che si stampano quasi soltanto per sistemare da qualche parte figli, cugini, fidanzate, tutto un circuito parastatale di libero opinionismo, in attesa che qualche nonno o vecchio zio vada in pensione liberando un posto in un giornale vero; benché sia gente che spesso piuttosto di rinunciare a una colonnina si fa impagliare alla scrivania, con la macchina da scrivere e tutto. Non è il caso di suo padre, sempre molto arzillo, ma diciamocelo che certi fondi che leggiamo sono scritti da gente che è cerebralmente morta dieci, quindici anni fa. 

C’è gente (e non parlo di lei) che non sa letteralmente scrivere, proprio nel senso che non hanno capito ad es. dove vanno le virgole, i punti. Fossero nati figli di postini o architetti, prima o poi sarebbe stato diagnosticato loro un disturbo dell’apprendimento; invece gli è capitato in sorte un cognome, come dire? da giornalisti, e quindi non possono fare altro nella vita che i giornalisti: la punteggiatura si adeguerà. In mezzo a tutto questo, lei è nato Feltri: poi ha anche ottenuto un nome di battesimo, ma è un dettaglio. Giusto o sbagliato che sia, Feltri è il suo cognome, e non è che qualcuno possa offendere il suo cognome in casa sua. In un altro spazio e un altro tempo, forse, diremmo che le testate giornalistiche non sono “case”, ma organi che svolgono un servizio d’informazione; e che in una di queste testate dovrebbe essere concesso a “Mattia” Feltri di dimostrare indipendenza di giudizio nei confronti dell’imbarazzante “Vittorio” Feltri, e dalle sciocchezze che scrive. Ma in Italia no, in Italia una testata è un castello. Il signore ti ha lasciato entrare nel suo castello? Il minimo che ci si aspetta è che tu non lo metti in imbarazzo con gli ospiti: che non offendi il suo Buon Cognome. Le cose stanno così e stupisce che ci sia ancora qualcuno che non ha la delicatezza di capirlo. 

Confermo quanto scritto oggi dall’onorevole Boldrini su Facebook: ieri ha mandato uno scritto per HuffPost che conteneva un apprezzamento spiacevole su mio padre Vittorio. Ritengo sia libera di pensare e di scrivere su mio padre quello che vuole, ovunque, persino in Parlamento, luogo pubblico per eccellenza, tranne che sul giornale che dirigo. L’ho chiamata e le ho chiesto la cortesia di omettere il riferimento. Al suo rifiuto e alla sua minaccia, qualora il pezzo fosse stato ritirato, di renderne pubbliche le ragioni, a maggior ragione ho deciso di non pubblicarlo. Al pari di ogni direttore, ho facoltà di decidere che cosa va sul mio giornale e che cosa no. Se questa facoltà viene chiamata censura, non ha più nessun senso avere giornali e direttori.

Oltretutto l’onorevole Boldrini, come altri, su HuffPost cura il suo blog. Quindi è un’ospite. E gli ospiti, in casa d’altri, devono sapere come comportarsi.

Caro direttore Feltri, quando qualche giorno fa l’onorevole Boldrini ha cercato di pubblicare un brano che conteneva una critica a suo padre, ovvero al suo illustre Cognome, lei aveva due possibilità. Mostrare a un vasto pubblico che il feudalesimo è finito se lo vuoi; che a cinquant’anni in Italia si è liberi non dico di criticare il padre, ma di consentire che qualcun altro lo faccia. Insomma aveva la possibilità di reclamarlo, finalmente, questo cognome benedetto; di far girare il messaggio che da qui in poi il vero Feltri è lei: che in giro non c’è più un figlio promettente di tanto padre, ma un padre bollito di tanto figlio. Questa era la prima possibilità, e se si ragiona da un punto di vista commerciale, se si considera il segmento socio-economico e generazionale a cui si rivolge l’Huffington Post Italia, era anche l’unica. Ma lei ha scelto la seconda. 

Lei ha scelto di difendere suo padre, ovvero l’indifendibile, ed è una scelta che contiene tutta la cavalleria di questo mondo. Proprio perché sa in partenza che non c’è nessuna possibilità di difendere un cognome che il suo stesso padre sputtana nelle edicole di tutt’Italia con cadenza plurisettimanale: proprio perché sappiamo tutti che l’unico risultato non sarà parare i colpi, ma prenderli al suo posto. Contro il buon senso, contro la correttezza politica, contro qualsiasi logica che non sembri quella feudale del giornalismo italiano, lei ha scelto di stare con suo padre e io non posso impedirmi di capirla. Se è vero che non scegliamo i nostri padri, possiamo almeno scegliere di amarli e lei lo ha scelto. Direttore Mattia Feltri: potessimo scegliere i nostri padri, io non avrei scelto il suo su un milione; potessimo scegliere i figli, su di lei ci avrei fatto un pensiero.

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Schizogene e la sposa inventata

– Il dibattito su Indro Schizogene Montanelli, che si è trascinato per quasi un mese, ci ha lasciato pochi punti fermi e uno è lo stato necrotico del giornalismo italiano. Invece di discutere il contesto, di improvvisarsi storici o antropologi, i giornali riguardo a Montanelli avrebbero dovuto fare una sola cosa, molto semplice: andare a verificare la notizia. Magari non nel 2020, con tutti i problemi del lockdown; ma se ne parla già da un anno buono, il pubblico sembra interessato, e da Fiumicino partono voli per l’Africa orientale tutte le settimane: c’era il tempo e l’agio per mandare un reporter in Eritrea a controllare se risultasse un “Indro” nato nel 1938. Visto che è lo stesso Montanelli a raccontarci che Fatima (o Destà) aveva dato il suo nome al primo figlio. “Indro” è un nome strano in italiano, figurarsi in tigrino. Dovrebbe stare sull’ottantina: magari ha avuto figli, magari qualcosa hanno sentito raccontare della nonna. Ecco, una volta si pensava che i giornalisti dovessero fare questa cosa, la caccia alle notizie. Almeno provarci. Invece tra 2019 e 2020 siamo stati più di un anno a discutere una storia che ha una fonte sola: e questa fonte è lo stesso Montanelli, che ogni volta la raccontava un po’ diversa.  Prima si chiamava in un modo e aveva dodici anni, poi si chiamava in un altro modo e ne aveva quattordici, ecc. ecc. Finché qualcuno giustamente non si è domandato: ma non potrebbe essersi inventato tutto? E nessuno ha sentito la necessità di rispondere.

Ma pensa se davvero si è comprato la foto
 in un mercatino, e poi la mostrava ai colleghi
appesa accanto a quella delle altre mogli.

– Su Montanelli forse avevo ragione quando scrivevo: tiratene giù il monumento prima che il giornalismo italiano prenda la decisione di difenderlo a tutti i costi, prima che ne faccia il suo Fort Apache. Troppo tardi: e così ho potuto leggere e sentire cose straordinarie. Montanelli innamorato. Montanelli che voleva diventare abissino. Montanelli che va relativizzato perché anche nella Bibbia fanno i sacrifici umani (ma veramente no, nella Bibbia non li fanno; ma anche se li facessero, cosa c’entra la Bibbia col 1936… vabbe’). Montanelli giustificato così, Montanelli giustificato colà, neanche fosse un ricco vivo che vi tiene a libro paga, no: l’arte che avete imparato per tenervi a galla tra salotti e redazioni la state impiegando per relativizzare un tizio che se ne strafotteva e raccontava allegramente avventure africane vere o immaginate. E più ne parlavate, più ci confermavate l’unico fatto concreto: ovvero che il tizio si fosse affittato una ragazzina. Le vostre chiacchiere sfumano, e il fatto resta lì incontestato. Ma è questo sul serio il vostro mestiere?

– Di Montanelli forse ho avuto torto a fidarmi. Dettaglio imbarazzante: 19 anni fa, appena tornato da Genova, le pale degli elicotteri ancora nelle orecchie, mentre cerco di scrivere qualcosa di leggibile per le dieci persone che mi leggono e si stanno preoccupando, scopro che IM è appena morto e gli dedico il resoconto che sto scrivendo. Non sono mai stato tanto lontano dalle sue idee, che in quel momento non mi interessano minimamente. Della sposa bambina avevo già sentito parlare e mi sembrava un dettaglio lontanissimo nel tempo, impossibile da accostare all’anziano giornalista che faceva parte del mio paesaggio mediatico sin da quando ero bambino. L’unica cosa che mi muove in quel momento è l’immagine mentale del reporter con la macchina da scrivere sulle ginocchia, il mito del reporter che scrive mentre osserva e scrive solo quello che osserva. Precisamente il monumento che gli hanno fatto. E che al di là di ogni considerazione sugli abusi coloniali, probabilmente non si merita.

– Per me Montanelli era questo: un tizio con opinioni terribili ma un certo rispetto per la verità. Questa cosa m’interessava salvare: ho un approccio storico, m’interessano le testimonianze, non i moralismi. Se avesse avuto scrupoli morali, avrebbe cercato di occultare l’episodio: meno male che non li aveva, meno male che non hai mai pensato di chiedere scusa (come se chiedere scusa servisse a qualcosa) (sul serio, se avesse chiesto scusa 50 anni dopo la statua non gliel’imbrattereste lo stesso?) Finché non ho letto questo pezzo che mi ha messo in crisi. In effetti un tizio che ha raccontato di aver incontrato Adolf Hitler perché si era attardato a pisciare in un cespuglio potrebbe anche essersi inventato una sposa bambina. Perché? Per i motivi per cui i mitomani mitomaneggiano, e che cambiano col tempo: nel 1950 per vantarsi con gli amici, nel 1976 per trollare le femministe, nel 2000 perché ormai era troppo tardi per cambiare versione – come Enrico IV. Tutto plausibile, salvo i cortigiani che continuano a recitare a soggetto dopo vent’anni che il re è morto. E così continuiamo a discutere di una ragazza che magari nemmeno esiste, magari è una foto che IM si è comprato a un mercatino di Asmara. Oppure è esistita ed è la protagonista di un abuso coloniale, ma insomma, sarebbe utile saperlo. O no? Perché ho anche sentito dire questo, in questi giorni. Che alla fine non è necessario che Montanelli abbia abusato di una ragazzina: basta che se ne sia vantato. Non è che non abbia senso: alla fine anche una bugia può servirci a capire la psicologia di chi la racconta e di chi se la fa raccontare. Ma anche quella di chi ci casca, e a volte vuole cascarci.

– Di Montanelli ho sentito dire di tutto. Mi ha colpito la difficoltà di molti a contestualizzare non già le vicende di un graduato italiano nel 1936, ma i discorsi di un giornalista italiano nel 2000. Perché non chiedeva scusa? Perché le scuse non servono mai, e comunque riteneva di non aver fatto nulla di male. Perché ha cambiato l’età, che nel 1969 era 12 anni e nel 2000 diventa 14? Perché nel 2000 (anno 5 post Marcinelle) la pedofilia era diventata uno stigma sociale; sarebbe utile tenere conto che prima non lo era; a proposito, uno storico dovrebbe trovare interessante il fatto che racconti l’infibulazione, un dettaglio che nel 1969 avrebbe considerato ributtante o forse nemmeno conosceva. In ogni caso difficilmente nel 1976 o nel 2000 avrebbe potuto conoscere l’età precisa della ragazza africana dal momento che… non so, avete mai giocato con le figurine? Io da bambino avevo l’album Panini Espana 1982; non lo completai, ma scoprii nell’occasione che dei calciatori africani non veniva riportata la data di nascita. Non si sapeva. Nel 1982. Parliamo dei giocatori delle nazionali, non di abitanti della jungla. Può anche darsi che cinquant’anni prima Montanelli avesse accesso al certificato di nascita della sposa, ma è lecito dubitarne. Il vero discrimine in molte culture rurali (Italia compresa) è il menarca: prima si è bambini, dopo si è adulti, fine della questione. Montanelli insiste sul concetto, anche se ne parla col linguaggio di un giornalista del dopoguerra: non si abbassa a dire “mestruazioni”, si limita a scrivere cose come “in Africa a quell’età si è adulte” e si aspetta che lo capiamo.

– Invece Montanelli noi non lo capiamo più. Non capiamo più quello del 2000, figurarsi quello che affittava ragazzine o sosteneva di averlo fatto. Tra i tanti che si affannano a giudicarlo ho trovato notevoli coloro che invece di adoperare il loro personale metro morale del 2020, cercano di fabbricarsene uno vintage: ovvero desiderano dimostrare quanto Montanelli fosse considerabile un maniaco sessuale anche per i costumi e i codici dell’Italia fascista. Col risultato indiretto di rivalutare i costumi e i codici di siffatta Italia. Ho letto cose come: quello che Montanelli faceva in Africa, in Italia sarebbe stato reato! Già, e questo era il motivo per cui certe cose venivano promesse ai volontari in Africa: Faccetta nera, l’avete mai sentita? Scrivono: ma il madamato era esecrato anche dal generale, dal tale politico. Sì ma forse a questo punto vi sfugge il quadro: il tale generale e il tale politico erano contrari al madamato in quanto razzisti che intendevano stabilire un regime di segregazione. È un dato acquisito dagli storici che la propaganda di regime abbia attirato i volontari con un’esca sessuale, e dopo i primi matrimoni abbia virato direzione.

– Abbiamo bisogno di mostri, così come abbiamo bisogno di eroi. La statua in effetti si potrebbe togliere (o museificare), ma poi toccherebbe individuare qualche altro feticcio e scoperchiare cose più noiose (il Risorgimento?) L’esigenza di fare di Montanelli un mostro sottopone alcuni antifascisti a una tale torsione che finiscono per riabilitare il contesto; per dimostrare che Montanelli era un mostro anche per le leggi fasciste e per i costumi fascisti, e per i fascisti che passavano e osservavano. E così dopo un lungo giro si ritorna all’archetipo degli italiani brava gente. Per quel che interessa, io non credo in una Storia di eroi, né di mostri. L’eventuale Montanelli-mela-marcia interessa molto meno del sistema che ha permesso, ispirato e tollerato le sue eventuali mostruosità.

– Se però accettiamo che Montanelli invece di un mostro sia un mitomane, c’è da riscrivere un pezzetto di Storia d’Italia magari non cospicuo ma trasversale. Alcuni dettagli di quello che sappiamo cambiano significato. Com’è noto, Montanelli dopo l’otto settembre fu arrestato dai tedeschi e tradotto in una prigione a Gallarate – dove fucilarono quasi tutti i suoi vicini di cella – e poi a San Vittore, dove tra i prigionieri conobbe un giovanissimo Mike Bongiorno e il cosiddetto generale Della Rovere – in realtà un truffatore infiltrato dai nazisti. Anche a San Vittore dopo un po’ cominciarono le esecuzioni. A Fossoli finì fucilato anche il sedicente generale, su cui qualche anno dopo Montanelli scriverà un soggetto cinematografico per Rossellini (il ruolo sembrava tagliato addosso a Vittorio De Sica) e poi in un romanzo. Il generale Della Rovere è un prototipo dell’antieroe della commedia all’italiana, un imbroglione senza scrupoli che viene introdotto in una prigione per fare la spia, ma proprio grazie al suo istrionismo riesce a riscattarsi e dopo un’improvvisa alzata d’orgoglio muore da eroe come capiterà a Sordi e Gassman nella Grande Guerra. A questo punto però concedetemi il dubbio notturno: se il generale Della Rovere fosse un alter ego di Indro Montanelli? Se fosse lui l’imbroglione che teneva alto il morale dei prigionieri? Se nel romanzo Montanelli avesse esorcizzato il suo rimorso per essersi salvato la vita tradendo i compagni di prigionia, inventandosi un gemello buono che faceva tutto il contrario e moriva da eroe?

– La cancel culture (che per ora da noi è una più modesta imbratta-di-vernice-culture) si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l’obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l’obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l’oggettiva incidenza del ruolo di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede. Non è che prima di Twitter si lottasse diversamente. A chi si sente sotto assedio consiglierei di dare un’occhiata ai punti deboli del nemico; di confondere le acque, magari mandando un’ambasciata a stabilire qualche punto fermo, qualche convenzione tra belligeranti (ad esempio: fino a prova contraria si è innocenti). Ai giornalisti italiani non consiglio niente perché nulla più hanno da difendere – giusto un’altra serata a raccontarsi quanto erano bravi, quanto erano furbi, nell’attico di un quartiere abbandonato. Che Montanelli li abbia presi per il culo tutta la vita: che si sia fatto trattare da maestro mentre li stordiva di frottole, è una circostanza che troverei appropriata – una volta dimostrata.

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Il juke-box dell’indignazione (appunti)

In questi giorni si parla di nuovo di statue giuste e ingiuste. Se ne parlerà ancora magari per una mezza giornata, poi ci annoieremo e non se ne parlerà più per qualche mese o un anno: finché ci accorgeremo che in qualche altro Paese le buttano giù. Allora ci rimetteremo anche noi a parlarne, senza nessun motivo che non sia che appunto, ne parlano altrove: c’è un hashtag che arriva da New York, c’è un video su Instagram che viene dalla California, e quello di cui discutiamo dipende soprattutto da questo. Per certi versi siamo più succubi del dibattito americano oggi che venti o trent’anni fa.

Lo trovo buffo perché gli USA per tanti versi mi sembrano molto più lontani oggi che venti o trent’anni fa. Il primo esempio che mi viene è la musica: chi segue le classifiche dei brani più venduti e ascoltati sa che quella italiana da qualche anno è quasi completamente autarchica. Dei divi pop americani e inglesi sentiamo ancora parlare molto sui media ma le loro canzoni le ascoltiamo sempre meno – soprattutto i più giovani. C’entra anche il fatto che le canzoni sono sempre meno originali da un punto di vista musicale e sempre più parlate, il che porta non solo gli italiani a preferire il prodotto realizzato nella lingua madre, per quanto ricalcato sui modelli americani. Il che significa anche: rispetto a vent’anni fa magari li copiamo di più ma li capiamo di meno. E anche chi l’inglese in teoria lo sa, lo legge, lo ascolta sottotitolato nelle serie in streaming – non può a volta fare a meno di domandarsi se quel che succede a noi ha un senso o è solo un calco troppo letterale di cose che non capiamo del tutto. 

Ad esempio: negli USA un crimine di polizia risveglia il movimento Black Lives Matter, e noi improvvisamente cominciamo a inginocchiarci per la minoranza afroamericana – per carità tutto giusto, ma non potremmo cominciare dalle nostre minoranze, quelle che restano più spesso vittima del nostro razzismo e dei crimini delle nostre forze di polizia? Domanda abbastanza retorica, scusate. Poi scopriamo che negli USA i manifestanti se la prendono con una statua di uno schiavista o di un esploratore e improvvisamente anche noi ci rimettiamo a discutere di una statua – col piccolo problema che statue di schiavisti non ne abbiamo. Ne abbiamo anche poche dei fascisti (del periodo c’è rimasta più architettura che statuaria, e quella è più problematica da rimuovere). E quindi?

E quindi tiriamo fuori il solito Montanelli. Sul quale non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto un anno fa, salvo che nel frattempo Severgnini mi ha convinto: quella statua va proprio abbattuta. Non che io abbia letto tutto il pezzo di Severgnini eh? Mi dispiace, dev’esserci un paywall. Mi è bastato il boato delle reazioni, e in generale non apprezzo questa cosa di mandar fuori Severgnini a minimizzare crimini di guerra, manco fosse la Fallaci in stadio terminale: non credo che sarà ricordata come una pagina gloriosa del giornalismo italiano: facciamo che almeno sia l’ultima, buttiamo via il bronzo e non pensiamoci più. Altrimenti tra dieci mesi, un anno, saremo di nuovo lì, sapete? E la prossima volta chi immoleranno? Galli della Loggia? Panebianco? Tiratela giù, date retta. Mettiamola così: o tirate giù una statua che sta diventando un’autocelebrazione insensata del giornalismo italiano (che nessuno a parte i giornalisti italiani sentono la necessità di celebrare), o almeno tirate giù quei paywall che tra un po’ nessuno vorrà darsi la pena di scavalcare legalmente.

Rimane il fastidio per una questione che si ripresenta a ondate, e le ondate partono sempre da quel posto oltreatlantico la cui musica ci interessa sempre meno, ma l’indignazione, ehi, con l’indignazione stiamo negli anni ’50, è come se avessimo i juke-box coi dischi d’importazione: questa settimana vogliono tutti indignarsi per lo schiavismo, qualche tempo fa non si parlava che di abusi sessuali ecc. ecc. Ora non vorrei frainteso (ma so che è inevitabile): sono tutte questioni gravi di cui è sacrosanto parlare, però sarebbe bello che l’agenda ce la scrivessimo da soli, con le nostre scadenze e le nostre necessità, senza andare a rimorchio di hashtag, senza complessi di inferiorità per una civiltà che non è la nostra, e a volte semplicemente non capiamo.

Che è poi il principale guaio con gli americani: siamo così abituati a vederli sugli schermi che li troviamo familiari – molto più di cinesi, indiani, ma persino tedeschi – salvo che è una falsa familiarità. Ad esempio, quando parlano di statue, loro fanno riferimento a un paesaggio urbano e a un modello sociale molto diverso dal nostro. Loro hanno davvero migliaia di statue che rappresentano schiavisti o altre figure controverse. E le hanno perché la loro società nasce dall’incontro/scontro tra diverse comunità che in momenti diversi hanno deciso hobbesianamente di venire a patti invece di ammazzarsi. Lungi dal rappresentare una “storia condivisa”, i loro monumenti sono una prosecuzione della guerra civile con altri mezzi. Così i bianchi del sud innalzano statue ai condottieri sconfitti della Confederazione, i nativi americani conservano il sogno di un Crazy Horse Memorial che superi in altezza il Monte Rushmore, e gli italoamericani si erano scelti Colombo. È una guerra fredda civile che si è estesa anche al linguaggio: il “politically correct” non è un codice imposto da una casta di altezzosi intellettuali, ma un protocollo di armistizio perpetuamente in discussione: una minoranza chiede che una parola sia considerata inaccettabile, le altre comunità decidono di accettare la cosa e il protocollo viene aggiornato. Il dibattito non passa per il dipartimento linguistica perché è una questione politica, appunto, non linguistica.

È il concetto nordamericano di tolleranza: almeno chi si riempiva la bocca di Tocqueville ai tempi dell’Esportazione della Democrazia dovrebbe averne notato le differenze rispetto a quello dell’Europa continentale – dove vige, tutto sommato, la logica giacobina per cui chi vince una rivoluzione si prende tutto lo spazio monumentale, abbatte tutto quello che non riesce a riconvertire e fa spazio per monumenti nuovi, mentre chi perde sta fermo un giro e aspetta la rivoluzione successiva. (L’ho chiamata “giacobina” ma forse è una logica più antica, se la Chiesa a un certo punto riconvertì pure il Colosseo). Questo non significa che non abbiamo monumenti discutibili, ma ne abbiamo molti meno e la loro funzione identitaria è più sfumata. Per contro, vivendo intorno a centri urbani di origine medievale, siamo forse ossessionati dalla durata, e ci basta un secchio di vernice su una statua per paventare una damnatio memoriae. Non credo che Montanelli verrà dimenticato se gli tirano giù la statua, anche se confesso di provare una certa nostalgia per quando era un essere vivente che si poteva criticare per le sue opinioni e non un feticcio da condannare per crimini di guerra di mezzo secolo prima ripescati da un dossierino. Poi ripeto: credo che sarebbe utile distinguere la pedofilia (che è un orientamento sessuale) dalla mentalità razzista e criminale dei membri dell’esercito coloniale italiano. Ma sembra sia una distinzione troppo raffinata per l’internet, pare che non sia il momento per i sottili distinguo, bisogna tutti indignarsi e abbattere statue. Potrei anche accettarlo, eh? I movimenti alla fine sono così, spontanei e sommari.

Poi dopodomani in America qualcuno libera un campo di concentramento di visoni, e alè, tutti spontaneamente e sommariamente a liberare i visoni. E se non ne abbiamo? Cessate la caccia alle nutrie! come abbiamo potuto tollerare fino a ieri questa barbara usanza?

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Il coronavirus possiamo gestirlo, il burionismo forse no

  • Com’è sempre imprevedibile la vita. Pensavamo che la fine sarebbe giunta dai no-vax, pensavamo che alla prima pandemia la loro sfiducia nella scienza ci avrebbe perduto, e invece eccoci qua con l’economia in recessione perché tecnici ed esperti alla Burioni hanno ritenuto prudente, dopo una manciata di casi, stravolgere la vita degli abitanti di cinque regioni tra le più popolose e produttive. Dove si vede come alla fine governare sia una questione di priorità: per ora il coronavirus è sostanzialmente innocuo a bambini e preadolescenti, mentre rappresenta un rischio per gli anziani settantenni. Indovina in quale nazione il governo stima necessario chiudere le scuole onde scongiurare il più possibile che i giovinetti contraggano il virus e poi lo trasmettano ai pensionati. Sarà, non casualmente, la nazione con più pensionati e meno lauree. Tutto questo forse otterrà il risultato di arginare un paio di focolai infettivi, e poi? Nel frattempo il virus gira per il mondo, lunedì il coprifuoco sarà tolto e saremo di nuovo punto di partenza, arrivo e transito per migliaia di cittadini del mondo, infettivi e non. In quel momento forse rimpiangeremo di aver bruciato in dispositivi di controllo un po’ di risorse che si potevano destinare a potenziare i reparti di terapia intensiva. Questa più o meno è l’opinione di diversi esperti: col coronavirus bisognerà convivere, pensare di poterlo fermare ai confini è come credere di poter spalare l’acqua col forcone. Eppure ci sono motivi contingenti e non banali per cui il governo non ha dato retta a loro, per cui ha dato retta a chi proponeva quarantene e tamponi a tappeto, per cui ha dato retta a Burioni.
  • Ogni organismo è la risposta della vita a un determinato ambiente: Burioni è una creatura di Twitter. È in quell’habitat che si è evoluto, dimostrando notevoli capacità di adattamento. Il pesce palla sopravvive gonfiandosi, Burioni non reagisce in modo diversissimo: si tratta di ostentare aggressività. Senza i blastaggi, Burioni sarebbe rimasto uno tra i tanti cattedratici che twittano battutine a studenti e assistenti costretti a trovarle divertenti. Blastando è diventato un comunicatore e un influencer e non ha molto senso immaginare che smetta proprio ora. L’unico vero motivo per cui vince la sua linea, invece di quella di un’Ilaria Capua, è che Burioni morde (o per meglio dire mostra i denti: la violenza verbale dell’internet essendo più teatrale che pratica). Non si tratta di un approccio puramente istintivo, o meglio negli ultimi anni Burioni ha tentato in qualche modo di intellettualizzarlo, arrivando a citare uno o più studi che a suo avviso avrebbero dimostrato quanto l’approccio aggressivo risultasse efficace contro no-vax e in generale erogatori di fake news. D’altronde non dev’essere molto difficile trovare almeno un paper che giustifichi qualsiasi nostro atteggiamento sociale, e insomma Burioni si è almeno preoccupato di trovarne uno che spiegasse quel suo bullismo che tanti ammiratori e gregari gli ha procurato su Twitter (uso “gregario” nel senso che ha nella pedagogia dell’età evolutiva: l’aiutante/mandante del bullo). E così come a un certo punto il DDT è diventato più pericoloso dei parassiti che uccideva, oggi il burionismo sta iniziando a rivelare costi sociali forse non più sopportabili nel medio-lungo termine.
  • Oltre al Burioni comunicatore, esiste il Burioni epidemiologo. Sul piano professionale, Burioni è essenzialmente un tecnico con una visione estremamente settoriale, profonda ma limitata. C’è un problema, Burioni conosce la soluzione. Il fatto che questa soluzione possa costare alla collettività più del problema è già cosa che non gli compete, e anzi lo innervosisce (ed è un nervosismo apparentemente simile a quello di un altro competentissimo tecnico, Bagnai, ben disposto a mandarci in malora per dimostrare le sue tesi). Non ha nessun senso aspettarsi da tecnici settoriali una riflessione più ampia sui costi sociali di una settimana di quarantena. Non ci devono pensare loro: ci dovrebbe pensare una classe dirigente colta e competente. Non l’abbiamo.  
  • Non l’abbiamo. Il governo è debole, sotto lo scacco di un’opposizione che ritiene di avere il diritto di pompare qualsiasi allarmismo senza limiti di buon senso, decenza e logica: e siccome nessuno glielo contesta davvero, questo diritto, in pratica Salvini e compagnia ce l’hanno davvero. Possono lanciare giorno e notte le più criminali bugie, ma ehi, libertà di opinione. In parte è un gioco delle parti: l’opposizione dovrebbe alzare l’allarmismo, le forze di governo dovrebbero schiacciarlo energicamente dando prova di serenità e competenza. Ma, ecco, sta funzionando? Continuiamo a vedere in tv e sui social personaggi che sono più pericolosi del coronavirus: persone che dicono il falso per il solo scopo di impaurire e disorientare il prossimo, e pensiamo che abbiano tutto il diritto a stare lì e intascare stipendi e gettoni di presenza. Sono passati due anni da quando in qualche ufficietto o redazione qualcuno si inventò la bufala degli africani che avevano ucciso una ragazza tossicodipendente per mangiarla: chi ha inventato quella cosa (che fece vincere le elezioni a Salvini), chi l’ha scritta è ancora al suo posto e ci sta già dicendo che il virus è uscito dal laboratorio, o che ce lo porteranno i cinesi o gli africani. 
  • Aggiungi che il resto della stampa è in crisi terminale, e cavalca l’allarmismo come l’ultimo cavallo sopravvissuto alla battaglia: per cui qualche coda nei supermercati diventa, inevitabilmente, l’assalto ai forni. Il nostro sistema mediatico sembra davvero gestito dal pilota automatico di Airplane 2, quello che scandisce “Ok panic” mentre il pilota tenta di calmare i passeggeri. Tutto questo nel medio-lungo termine ci farà più danni del coronavirus, così come durante una scossa di terremoto il panico può danneggiare i fuggitivi molto più delle vibrazioni delle strutture.

  • Siccome non ci è concesso di rinunciare all’ottimismo, propongo di trattare tutta questa surreale vicenda come una forma di vaccino, in vista delle emergenze più serie che verranno da qui in poi. Perché anche se questo coronavirus non è la peste nera che i giornalisti temono (magari con la segreta speranza di sopravvivere a un’ecatombe di colleghi e concorrenti), non è affatto detto che lo sia il prossimo, o qualche altro antico virus o batterio riemergente dallo scioglimento dei ghiacci plurimillenari. Nel frattempo, com’è noto, stiamo finendo gli antibiotici. E in ogni caso il riscaldamento globale è una realtà con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni. Per cui sì, l’apocalisse è rimandata, ma adesso sappiamo che dobbiamo lavarci le mani venti secondi, e non precipitarci al pronto soccorso, tossire nelle maniche ecc. ecc.. Tutto questo potrebbe risultarci molto utile domani. Ma allo stesso tempo non si può nemmeno escludere che domani la signora con la falce venga per bussare alla nostra porta e la trovi spalancata, semplicemente perché nel 2020 abbiamo sprangato scuole e uffici per una settimana e poi ci siamo resi conto di aver buttato via tanti soldi per niente. E insomma si sa che gridare al lupo troppo spesso ha le sue controindicazioni.
  • Vorrei aggiungere che, per quello spicchio limitatissmo di Italia che posso vedere, il mio Paese non è in preda al panico, e nessuna sceneggiata su instagram mi farà cambiare idea su questo. Ho visto medici, studiosi, insegnanti, persino pazienti gestire questa emergenza con professionalità e garbo, senza perdere troppo tempo a domandarsi se avesse un senso l’emergenza in sé, dato che il loro mestiere consiste nel gestire i problemi, non nel farsi le domande. Lo stesso varrebbe anche per me, ma è da tre giorni che sono a casa, abbiate pazienza, come facevo a non scrivere qualcosa. Fatevi coraggio che siete grandi, lavatevi le mani e ci vediamo.

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I test Invalsi vanno presi sul serio (Aldo Grasso non lo fa)

Gentile dottor Aldo Grasso,

le scrivo ma non pretendo risposta, non credo nemmeno mi leggerà mai. Mi sembra comunque utile far notare che il suo ultimo, brevissimo intervento sull’Invalsi contiene in meno di duemila battute una densità impressionante di nozioni fuorvianti e/o false. Quel che è peggio, dottor Grasso, è che non credo che lei se ne sia reso conto. A monte ci sarebbe tutta una discussione da fare, sulla dimensione allucinata in cui vivete voi opinionisti dei quotidiani italiani, una specie di grotta in cui le ombre della realtà fattuale compaiono solo distorte in forma di fattoidi: quel tipo di news leggere che i giornali pompavano sulle colonnine delle homepage perché simpatiche e acchiappaclic ancorché irrilevanti. (Parlo al passato perché non vado più sulle homepage – dovrei? Per leggere cosa?)

Per farle un esempio: quando lei scrive “la verità è che la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni: presto sostituirà i voti con le faccine”, si riferisce al singolo caso di una scuola primaria di Modena in cui ai genitori, oltre alla pagella – c’è scritto persino nel titolo, oltre alla pagella – è stato consegnato un questionario di autovalutazione con le faccine. Tutto qui. Non è un sistema alternativo alla valutazione in decimi: è uno strumento in più offerto ai genitori e agli alunni. È necessario leggere molto velocemente non dico l’articolo, ma persino il titolo, per giungere alla conclusione che una scuola primaria abbia sostituito i voti alle faccine. È necessario uno sforzo di fantasia ancora più ardito per suggerire che quel che succede in una scuola di Modena stia per diventare la norma in tutte le scuole della Repubblica. Infine, è rivelatore di una prolungata disattenzione nei confronti del sistema educativo nazionale pensare che la valutazione in decimi stia per essere soppiantata, quando chiunque sia cresciuto e abbia avuto figli negli ultimi 50 anni può testimoniare il contrario: i voti in decimi nella scuola dell’obbligo si usano molto più oggi che quando eravamo studenti noi. Io, un signore coi capelli bianchi, ricordo bene di non essere stato valutato in decimi fino al liceo, passando per ben due esami in due scuole di Stato. Oggi invece i voti si danno in decimi persino ai bambini di sei anni. È meglio, è peggio? Se ne potrebbe discutere. Quel che proprio non si può fare, dottor Grasso, senza truffare i propri lettori, è estrapolare da un articolo una notizia falsa (non è vero che una scuola di Modena ha sostituito i voti con le faccine) ed esibirla come evidenza del fatto che “la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni”. Due bugie in due righe.

Tra tante cose a cui resiste la scuola italiana (dottor Grasso) c’è anche questa manifesta cattiva fede da parte di chi partecipa al dibattito sulla carta stampata. Qualche giorno fa lei ha appreso che la certificazione delle prove Invalsi era stata tolta da un documento definito come “curriculum degli studenti”, una di quelle importantissime cose destinate ad ammuffire in un cassetto, e ne ha dedotto che il governo intendeva “secretarne i risultati”. Ovviamente non è così: i risultati Invalsi continueranno a essere pubblicati, come ogni anno. E come ogni anno molti giornalisti non li leggeranno, ma preferiranno fraintenderli in toto come ha fatto lei, ostinando a riproporre la bufala estiva per cui “uno studente su tre in terza media ha problemi di comprensione del testo”: non è vero, l’abbiamo detto in tanti che non era vero, ma a quanto pare dire il vero è l’ultima delle priorità dei giornalisti che si occupano della scuola.

“Se una classe va male, a volte, il docente non è esente da demeriti”, scrive lei, e sembra fin troppo ragionevole, quando invece sta completamente fraintendendo il senso di una rilevazione statistica come la prova Invalsi, che non è stata mai concepita per dimostrare che “una classe” (o addirittura uno studente) va male: come ogni rilevazione statistica, ha un senso soltanto quando il campione è più esteso, e il campione delle prove Invalsi è il più esteso di tutti. Ci può servire al massimo a capire se una scuola ha risultati inferiori alle altre scuole del suo territorio; se un territorio ha problemi rispetto agli altri, eccetera. Usarla per giudicare il singolo individuo (o addirittura il suo singolo insegnante) non ha senso, perché per quanto possa essere “uno strumento moderno capace di radiografare la realtà”, una singola prova Invalsi non serve a niente. Cento, mille, un milione di prove Invalsi, qualcosa ce lo dicono. Una sola no, dottor Grasso, e guardi che non serve essere esperti di didattica per capirlo. Basta un po’ di buon senso, e qualche nozione di statistica.

Gentile dottor Grasso, io capisco benissimo che scrivere millecinquecento battute per un quotidiano significhi semplificare: lei però è andato oltre. Certo, discutere delle prove Invalsi non è facile. Chi le scrive ha avuto l’opportunità di osservarle abbastanza da vicino sin dalla loro introduzione, in qualità di somministratore, correttore, tecnico di laboratorio, eccetera. Col tempo ho cambiato idea su molte cose e anche al momento ho la sensazione di covare due opinioni contraddittorie. Le metto qui sotto anche se probabilmente non le interessano.

– La prima opinione è che, per quanto interessanti, i test Invalsi non valgono la spaventosa quantità di risorse che vi vengono destinate, e che quindi avevano ragione i Cinque Stelle (si renda conto, avevano ragione i Cinque Stelle): sarebbe meglio abolirli. Tanto ci dicono più o meno quello che ci dicono le indagini campione OcsePisa (e quando non lo dicono gli statistici decidono subito che è a causa del “cheating“, insomma l’indagine a tappeto deve conformarsi all’indagine a campione, e allora perché continuare a fare l’indagine a tappeto, a parte il motivo comunque degno che c’è bisogno di spenderci dei soldi e c’è chi ci campa da dieci anni?)

– La seconda opinione è che, se proprio non si possono abolire (e gli stessi Cinque Stelle non hanno fatto il minimo sforzo in tal senso; se ne sono strafregati, hanno lasciato per due anni il ministero a un leghista, mentre adesso la maggioranza è appesa a un tizio che è capacissimo di fare degli Invalsi un casus belli) insomma se proprio non si possono abolire, bisogna farli seriamente: e quando dico seriamente, dico che non solo vanno motivati gli insegnanti, ma soprattutto vanno motivati gli studenti. Altrimenti il quadro viene completamente falsato. Se tu spieghi allo studente che è una mera formalità che non serve alla sua valutazione, anzi (peggio!) soltanto alla valutazione del suo formatore (e quindi se mette le crocette a casaccio è il suo formatore che si ritrova nei guai!) tu non è che puoi lamentarti del fatto che i risultati siano deludenti. Quindi sì, l’Invalsi, se proprio dev’essere fatto, dovrebbe essere fatto seriamente e si deve trovare un modo di farlo pesare sulla valutazione dello studente, in tutti i passaggi. Volete la valutazione? Ok, ma occorre che tutti sappiano che non sarà un letto di rose: sarà ansiogena alle primarie, ansiogena alle secondarie, ansiogena sempre. Altrimenti questi per quattro ore ti piazzano crocette a caso e poi sulla base di queste crocette messe a caso qualche funzionario al ministero deciderà che la scuola X è meno buona della scuola Y, la provincia Z produce didattica meno qualitatevole della provincia W e altre agghiaccianti puttanate che tra vent’anni ci rideranno in faccia.

Se quindi fosse arrivato fin qui a leggere sarebbe sorpreso di sapere, dottor Grasso, che alla fine io non sarei affatto contrario all’inserimento della singola valutazione Invalsi sul “curriculum dello studente” o su qualsiasi altro foglio di carta destinato a infilarsi in un cassetto e a non dare più fastidio. Ma non perché credo che si tratti di “uno strumento moderno capace di radiografare la realtà” (mi domando se prima di scrivere questa cosa ne abbia mai simulato uno, giusto per farsi un’idea meno preconcetta). Per me si tratta soltanto di motivare in un qualche modo lo studente a mettere le crocette nel posto giusto, tutto qui. L’Invalsi non serve a valutare lui, questo dovrebbe essere chiaro a tutti, ma a valutare i suoi docenti (e nemmeno i singoli): ma se lui non lo prende seriamente, l’Invalsi non funziona e con quel che ci costa è davvero un peccato.

Certo, su milioni di studenti prima o poi ci sarà senz’altro quello che si suiciderà, probabilmente per problemi suoi che il giornalista di turno preferirà sintetizzare con un bel titolo acchiappaclic, del tipo “si lancia dalla finestra: aveva sbagliato l’Invalsi”. E a quel punto lei o il suo successore si ritroverà davanti l’incombenza di scrivere millecinquecento caratteri su quanto sia disumana la scuola moderna, con tutti questi test a crocette che pretendono di descrivere le nostre capacità e non ci perdonano nemmeno una debolezza. E vabbe’, la scuola italiana resisterà anche a questa cosa, la scuola italiana resiste a qualsiasi cosa. Coi miei più distinti saluti, e qualche scusa per averla tirata in ballo – i miei pensierini funzionano meglio se ci metto in mezzo una firma famosa e me la prendo con lui. Non me ne voglia, suo eccetera.

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Il mistero del vecchio Pansa

Nell’accingersi a scrivere un coccodrillo su Giampaolo Pansa, il suo collega giornalista correrà subito con la memoria al primo incontro col venerato maestro; non tarderà a esaltare l’eccellenza di uno stile che negli anni Settanta doveva risultare dirompente e antiretorico (se invece oggi suona stucchevole è appunto perché il maestro ha avuto troppi allievi, e tutti inferiori). Questo avranno scritto i giornalisti, alcuni li ho già letti – altri no, più o meno è la stessa zuppa, scusate.

Autoreferenziarsi

Scrivendo in morte di Giampaolo Pansa, lo studioso di Storia non potrà avere che una priorità: difendere la disciplina (e la categoria). Perché negli ultimi vent’anni Pansa ha fatto peggio che contribuire a diffondere la retorica del “sangue dei vinti”, un revisionismo ubriaco che equipara fascisti e antifascisti. Per condurre un’operazione del genere, Pansa doveva rinnegare qualcosa di più prezioso del suo progressismo: era necessario rinunciare alla sua professionalità di cronista e mandare al macero la sua laurea in Storia della Resistenza. Così ha fatto, spacciando libri di fiction per opere di divulgazione storiografica, mettendo in circolo monete false che alla lunga hanno reso impossibile uno scambio civile di opinioni. Fake news, Pansa non ha avuto bisogno di internet per recuperare ingigantire e diffondere fake news: il mercato editoriale si è prestato con entusiasmo. Questo scriveranno gli storici; alcuni li ho già letti, non ho molto di originale da aggiungere.

Quel che nessuno fin qui ha scritto (mi pare), l’unica cosa che veramente mi interesserebbe leggere, è la soluzione al mistero che Giampaolo Pansa impersonava da vent’anni. Magari è una soluzione banale – molte soluzioni lo sono, come i moventi in tanti gialli di Agatha Christie: un mutuo da pagare, una malattia, una ripicca fermentata negli anni. O era già tutto scritto nei suoi geni? È stata la stessa attitudine a chiamarsi ‘fuori dal coro’ a portarlo con gli anni a steccare sempre di più, a individuare un mercato per chi le stecche le apprezzava, a coltivarlo con determinazione industriale, negli anni in cui avrebbe potuto rilassarsi e pensare con soddisfazione alla sua lunga carriera?

Più in generale: perché in Italia i giornalisti invecchiano così male, e non smettono di scrivere mai? Al punto che i quotidiani nazionali sembrano diventati il bollettino di un gerontocomio: non li compriamo più per sapere che succede tra USA e Iran, anzi non li compriamo proprio; ma se lo facessimo sarebbe piuttosto per informarci sulla salute del tale giornalista, se è ancora spaventato per l’odore dei nigeriani che ha percepito da una panchina del parco, o se invece quell’altra prestigiosa firma ha ancora visto il Papa durante la pennichella. Forse Pansa aveva paura di invecchiare così, e ha deciso che sarebbe diventato un vecchio più interessante, quel tipo di vecchio stronzo. Forse era inevitabile, forse invecchiare equivale davvero a diventare la caricatura di sé stessi: nel suo caso, la caricatura di uno storico del Novecento e di un cronista del medesimo secolo. A volte dava quasi la sensazione di considerarlo un gioco: il vecchio stronzo contro tutti. Magari invecchiare è anche questo, smettere di prendere sul serio le cose; al punto che anche l’eventualità di essere tramandato ai posteri come un rivalutatore del fascismo ti fa ghignare, ah ah, fottetevi posteri. Più che piangere per un Pansa che se ne va, oggi mi sento triste per tutti i Galli della Loggia che ci toccheranno ancora per tanti, tanti anni. Quanti cartonati, quante opinioni già decrepite alla prima stesura che qualche sventurato stagista dovrà pure correggere, e qualche malcapitato possessore di librerie si ritroverà impacchettate sotto l’albero a Natale perché il suocero ha sentito dire che t’interessi di politica. Poi la gente si lamenta che i giovani non leggono. E meno male; anzi speriamo che leggano sempre meno.

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Il problema coi boomer: Mattia Feltri

Internet è così: sono bastati pochi giorni perché il tormentone “ok boomer” diventasse fastidioso. E allo stesso tempo è un meme che ha un senso e racconta davvero qualcosa di diffuso: l’insofferenza per una generazione che continua imperterrita a spiegare ai giovani un mondo che non esiste più, quel mondo che studiava a scuola e ammirava al Carosello. Facciamo un esempio? I quotidiani italiani, indovinate, sono pieni di esempi. Mattia Feltri, oggi:

A Bedonia, in provincia di Parma, gli studenti delle elementari e delle medie hanno ricevuto un’offerta allettante da Amazon: uno sconto su prodotti di cancelleria, zaini, strumenti musicali. Il sindaco non l’ha presa benissimo. Ha mandato una lettera ai ragazzi e, non potendo rilanciare sul prezzo, s’è giocato l’orgoglio di campanile: voi siete il futuro di Bedonia, comprate nei negozi del paese e lo salverete dalla multinazionale che, dietro la favola del progresso, sfrutta i nuovi schiavi (il succo è questo, la lettera è molto più garbata). 

State visualizzando la situazione? Bedonia, paesino della Val di Cento, a un’ora e mezza di strada da Parma o da La Spezia. Tremila abitanti. È lecito immaginare che esista una sola cartoleria, e che se l’indotto degli studenti venisse a cessare, chiuderebbe. Arriva Amazon e fa quello per cui è nata Amazon, ovvero dumping. Per portare zaini e cancelleria in Val di Cento, la cartoleria locale ha dei costi, Amazon li abbatte. Amazon è un prodotto della fase terminale del capitalismo: sradica i piccoli esercenti come erbacce. In attesa che la grande politica a Roma o a Bruxelles decida come tassarlo, la piccola politica è impotente. Il sindaco può solo fare un bel discorso autarchico, o come si dice oggi, sovranista.

Per carità, qui di Bismarck non se ne vedono, figuriamoci nella deliziosa Bedonia, ma era difficile mettere insieme un discorso più scalcinato e suicida. 

Un bel discorso che al giornalista boomer non piace, del resto egli è un professionista dei discorsi. Sentiamo quello che avrebbe prodotto lui.

Agli scolari, seduti ai banchi per edificare un domani da cui non siano travolti, toccherebbe invece dire: è in corso la quarta rivoluzione industriale, quella del digitale, dopo quelle del vapore, dell’elettricità e dell’informatica; le rivoluzioni destano spavento e provocano disoccupazione, e questa, più veloce, fa ancora più paura e genera ancora più diseguaglianze, ma dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti… 

Ok Mattia Feltri, dunque, da dove cominciare.

Diamo per scontato che tu abbia frequentato le migliori scuole nel miglior momento della storia del mondo: sul serio ne hai portato a casa la nozione che “dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti”? Ecco, vedi, questo è essere boomer. Pensare che la Storia sia solo un insieme di storie a lieto fine, dove il lieto fine era appunto la tua felicità. Più ricchezza per tutti, più diritti per tutti, Mattia Feltri, ma sei sicuro che per dire, Maria Antonietta fosse d’accordo? Più ricchezza per tutti, salvo che per i Borbone che ci hanno perso un po’ di teste.

E i latifondisti?
E i vandeani?
E i Romanov?
E i kulaki?

Allora, vedi, tendenzialmente una rivoluzione è una cosa violenta, che fa sì che una classe sociale prima esclusa dalla distribuzione della ricchezza, irrompa improvvisamente in scena e si prenda quello che le spetta, e a volta anche qualcosa in più. E in ogni rivoluzione, davvero, in ogni rivoluzione ci sono vincitori e vinti. Questa cosa a scuola ti è sfuggita e in parte è comprensibile, perché la storia di ogni rivoluzione la scrivono i vincitori, mentre le tesi dei vinti tendono a scomparire (a volte scompaiono anche i vinti, letteralmente). Questo tra l’altro è il motivo per cui lo studio della Storia è una pratica tutt’altro che banale: si tratta quasi sempre di demistificare chi la racconta. Lo abbiamo sempre fatto, in realtà, ma in alcuni periodi si è rivelato più difficile.

Ad esempio nel periodo in cui crescevi tu c’era questa idea, che il benessere perlomeno in Occidente fosse ormai un diritto acquisito e inalienabile; e che il progresso fosse inarrestabile. Le cose andavano bene, e quindi sarebbero andate sempre meglio: non solo, ma a quel punto leggendo i libri di Storia vi siete convinti che anche in passato funzionasse così, che anche il passato non fosse che un’inarrestabile sequenza di vittorie, excelsior! no, sul serio, i positivisti di fine Ottocento vi facevano un baffo. Se c’era una rivoluzione su un libro di Storia, di sicuro i vincitori eravamo noi. Avevamo vinto con Cromwell, con Washington, con Robespierre (ma anche con Napoleone), e anche tutte le rivoluzioni industriali comunque le avevamo vinte noi in quanto aspiranti imprenditori, o al limite consumatori. Solo la rivoluzione russa meritava un discorso a parte, perché i russi non facevano parte della trionfante Storia Occidentale. Ok, Mattia Feltri, e magari ne sei ancora convinto.

Ma pensi che un giovane di oggi possa lasciarsi convincere da te?

Allora ti spiego, qualsiasi leghista con la terza media – no, non c’è bisogno della Bestia di Salvini, non c’è bisogno dei social network e dei fondi russi – qualsiasi leghista poco acculturato, magari uno di quelli pittoreschi che andava a Pontida con le capigliature da pellerossa: qualsiasi leghista del genere ha capito il problema di Bedonia meglio di te. Magari non ha fatto le tue buone scuole, ma in scuole peggiori ha comunque capito che ogni rivoluzione ha vincitori e vinti, e noi non siamo sempre i primi.

Non siamo sempre i giacobini. A volte siamo i vandeani, magari non avremmo voluto, ma le Rivoluzioni non sono un gioco in cui puoi scegliere all’inizio da che parte stai. La rivoluzione americana non l’hanno vinta tutti. Gli inglesi per esempio l’hanno persa, e i pellerossa nel medio termine ancor di più. Se vivi a Bedonia, e la rivoluzione è Amazon, il pellerossa sei tu, e questa cosa l’aveva capita persino Umberto Bossi – anche lui un boomer, tecnicamente. Perché ce n’è anche di svegli.

Tu invece, caro Mattia Feltri, ai pellerosse della Val di Cento, cosa vorresti raccontare? Fammi indovinare: che resistere è inutile, un’illusione, e si salveranno soltanto scappando in città? Ma non mi dire.

…e resistere al mondo che cambia è un’illusione nella quale l’uomo si è spesso malamente impantanato; la politica dovrà fare il suo, ma voi studiate perché nei Paesi più tecnologicamente avanzati di disoccupazione ce n’è meno; studiate qui e poi andate in un’università a studiare l’interazione tra uomo e macchina, l’intelligenza artificiale, la robotica, il management, l’ingegneria, prendetevelo questo mondo, non scappate, prendetelo per il bavero e rendetelo migliore.

Studiate intelligenza artificiale, studiate robotica, e vincerete. Tutti? C’è posto per tutti nelle facoltà di ingegneria e robotica? Il senso stesso della robotica non è ridurre i compiti degli esseri umani? Il boomer sa benissimo che la sua ricetta, la “ricerca della felicità”, è un sentiero stretto che lascia indietro la maggior parte dei concorrenti. Ma non ha importanza: importa soltanto che chi arriva alla fine del talent show possa raccontare a tutti che ha vinto, e se ha vinto lui tutti possono seguirlo. I ragazzi se ne vadano tutti a studiare lontano: uno su cento ce la farà, gli altri falliranno ma non avranno spazio per lamentarsene sui giornali, qualcuno tornerà al paesino tra i monti e lo troverà disabitato, o occupato da immigrati più poveri, o nel caso migliore (migliore?) trasformato nel museo delle cere di sé stesso mediante Airbnb. Cosa dire.

Davvero, cosa dire a Mattia Feltri ancora convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Qualche argomento potrebbe fargli cambiare idea? In fondo per lui è stato davvero il migliore dei mondi: non cambierà idea. E non si sposterà da dov’è, e continuerà a spiegarci che per vincere basta impegnarsi. Ok.

Sul serio, che altro dirgli – ok boomer.

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Se hai iniziato da pagliaccio

Insomma Trump per una volta prova a dire una cosa intelligente (gli USA condividono con l’Italia l’eredità culturale millenaria della civiltà Romana), e tutti capiscono che abbia detto una cosa stupida (USA e italiani best friends forever dall’anno 0 avanti Cristo).

Mi ricorda quella volta che Donald Rumsfeld cercò di infilare una citazione raffinata (“there are unknown unknowns“) e tutti credevano che si fosse impappinato perché era il segretario di Stato di Bush, e Bush di solito si impappinava.

– (Mi ricorda anche un po’ quella volta che la Merkel e Sarkozy si fecero un timido sorriso mentre cercavano di passarsi il microfono, e tutti i giornalisti in sala capirono che stavano ridendo di Berlusconi).

– O quando tutti si sono convinti che Berlusconi avesse chiamato la Merkel “culona inchiavabile” e lui nemmeno ha smentito, anzi un po’ cominciava a crederci egli pure.

La morale: se hai successo come clown, è inutile che ti ingegni a studiare, a migliorare, a spiegare: la gente ti troverà lo stesso un clown. Salvini, per dire, l’ha capita.

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Renzi 1 – Salvini 1 – giornalisti 0

Anche se può essere ugualmente teso ed emozionante, un “duello” televisivo non è un vero duello; non è un match, non è una partita. La differenza sostanziale sta nel risultato: un duello è definito dal fatto che non possa che esserci un vincitore. Quando il vincitore non c’è, come in quel film di Ridley Scott, il duello non è davvero finito. Anche nello sport è quasi sempre così (il calcio è un’eccezione). I dibattiti televisivi non sono così, anche quando cercano di vendersi come “duelli”, come quello di ieri sera da Vespa. A proposito: secondo voi ha vinto Matteo Renzi o Matteo Salvini? È una domanda retorica, scusate, in realtà non m’importa così tanto del vostro parere. Suppongo che dipenda molto da quanto vi risulta simpatico uno dei due, o a quanto vi stiano antipatici entrambi. Ma il solo fatto che il giorno dopo se ne possa discutere (“chi ha vinto”?) dimostra che non stiamo parlando di un duello – che viceversa è la negazione di un dibattito. Fino a qualche decennio fa spesso serviva a terminarlo una volta per tutte: io dico che tu sei un farabutto, tu neghi l’affermazione, per decidere chi ha ragione ci si vede domattina dietro al convento dei carmelitani scalzi.

(Fermatevi per un attimo, gustatevi l’immagine dei due Mattei in manica di camicia, che si allontanano nella bruma con una pistola in mano, mentre su un lato Bruno Vespa conta i passi. Quello sarebbe stato un duello).

Invece in un dibattito televisivo possono vincere entrambi, anzi; il motivo per cui a volte due politici acconsentono a un “duello” è proprio che entrambi ritengono di poter ottenere qualcosa senza rimetterci molto (non sono mica politici per caso). È più o meno il caso del dibattito di ieri sera: entrambi avevano un’occasione per mettersi in mostra al loro pubblico di riferimento, ed entrambi hanno cercato di impiegarla al meglio. Entrambi ora possono pubblicare sui loro profili social qualche spezzone che dimostri in modo equivocabile ai loro fan che hanno ‘asfaltato’ l’avversario. Quanto a noi, possiamo anche assegnarci il ruolo di esperti di comunicazione (su internet è gratis), inforcare un monocolo immaginario e cercare di capire/spiegare chi dei due abbia fornito la prestazione migliore. Boh. Quasi quasi direi Renzi: ha rischiato di più, anche perché aveva meno da perdere. Ma a questo punto è chiaro che non stiamo più parlando di una competizione tra i due, quanto di una gara che ognuno stava ingaggiando con sé stesso, e con le aspettative che ormai il pubblico ha nei suoi confronti. Salvini da questo punto di vista ha giocato in difesa, recitando senza sbavature il ruolo di Matteo Salvini: ma non è quello che i suoi elettori pretendono da lui?

E quindi ci troveremmo di fronte a un esempio lampante di gioco win/win: entrambi vincono, entrambi ci guadagnano. E allora perché io spettatore mi sento defraudato? Mi aspettavo davvero che almeno uno stramazzasse al suolo? No, onestamente non ci speravo: queste cose non succedono, da Vespa poi. Però devo ammettere che per quanto basse fossero le mie aspettative, sono rimasto deluso, in alcuni momenti persino disgustato. Non tanto da Renzi e Salvini, che stavano facendo il loro mestiere. Forse nemmeno da Vespa, che si limitava a contare i minuti e a prevenire quei corpo-a-corpo che sul ring diventano anti-spettacolari. Quelli che mi hanno messo davvero in imbarazzo sono i “giornalisti”.

Lo scrivo tra virgolette perché la considero una citazione: a un certo punto Vespa ha annunciato che nella seconda parte del dibattito ci sarebbero stati i “giornalisti”. Voi li avete sentiti? Uno in effetti a un certo punto ha osato fare una domanda, ma è stata un’eccezione. Gli altri si sono fatti un’ora e mezza di diretta tv per niente e umanamente mi spiace per loro; immagino che sia faticoso rimanere per tanto tempo sotto i riflettori cercando di mantenere un’aria concentrata, contenere gli sbadigli eccetera. Poi spero che abbiano protestato, perché, insomma, che ci sono andati a fare? Già.

E allo stesso tempo, che ci aspettavamo da loro? Cosa avrebbero dovuto fare? Le domande. Quelle scomode, quelle che avrebbero dovuto mettere in difficoltà i due duellanti. Ma come Vespa ha prontamente capito, non ce n’è stato bisogno: i due le domande se le stavano già facendo tra loro e sembravano già abbastanza ‘scomode’. Un intervento terzo sarebbe stato ridondante. Renzi e Salvini non solo hanno vinto, ma hanno sconfitto i giornalisti, li hanno ammutoliti. Alla fine anche la loro tacita presenza ha avuto un senso: hanno rappresentato per un’ora e mezza la sconfitta del “giornalismo” da talk-show. Nessuno ha dato loro la parola perché nessuno ne sentiva il bisogno; i politici le domande se le sanno fare da soli.

Ora immagino un’obiezione: forse i giornalisti non dovrebbero semplicemente fare le domande, forse da loro ci aspettiamo qualcosa di più. Il fact-checking? Ho letto qualcuno proporre un fact-checking, magari approfittando dei break pubblicitari per appurare se quanto dicevano i due fosse vero o falso. Sono un po’ scettico. Il fact-checking è una cosa delicata: se lo fai in diretta rischi di commettere ulteriori errori davanti a due contendenti che non vedono l’ora di strumentalizzarli. Ma non credo nemmeno che avrebbero accettato un rischio del genere: un tizio super partes che a un certo punto del duello si mette tra i due e si mette a contare per filo e per segno tutte le affermazioni false? Non è così che funziona in tv, perlomeno da noi. Il fact checking si può fare sui giornali del giorno dopo: ecco una delle tante cose a cui i giornali possono ancora servire. Giusto.

E tuttavia.

E tuttavia, davvero possiamo permettere che i politici in televisione affermino tutto quello che vogliono senza che nessuno mai si alzi a chiedere, semplicemente: ma cosa sta dicendo costui? Anche questa è una domanda retorica: Porta a Porta funziona così, e funziona da così tanto tempo che ormai in Italia un’intera generazione, se cambiando canale inciampa in Via col vento, si domanda cosa sia questo film che ha rubato la sigla a Bruno Vespa. Ma in generale i talk italiani sono così. Se vuoi un politico, lo devi ascoltare e al massimo ogni tanto annuire. Se vuoi più azione puoi mandargli contro un altro politico, e a quel punto le domande se le faranno da soli, e anche al fact-checking dovranno pensarci loro. Non è un’iperbole, ieri a un certo punto Renzi ha deciso di interpretare il ruolo di fact-checker di Salvini, con risultati non sempre soddisfacenti: per più di una volta gli ha permesso di affermare serenamente che grazie a lui i morti annegati nel Mediterraneo sarebbero diminuiti. Ecco, quando parlavo di disgusto mi riferivo a cose del genere: possibile che nessuno in quel momento abbia osato chiedergli in che modo li stava contando, i morti annegati nel Mediterraneo? Ormai sappiamo che il famoso “pull factor” non esiste; sappiamo che non basta chiudere i porti (o dichiarare i porti “chiusi”) per evitare che la gente in Libia si imbarchi. Quindi Salvini è davvero convinto che basta mandare meno navi a contare meno morti annegati per risolvere il problema? Ovvio che no, ovvio che sta semplicemente prendendo in giro i suoi interlocutori. Davvero nessuno poteva farglielo presente, in quel momento, se Renzi in quel momento pensava ad altro o non voleva insistere? Davvero l’unico limite alle sparate di uno dei due contendenti dev’essere l’attenzione dell’altro? E se a entrambi conviene dichiarare il falso su un argomento?

La cosa più disgustosa è successa alla fine, e almeno su questo livello io posso dichiarare un vincitore: a disgustarmi di più è stato Matteo Salvini che ha chiuso il dibattito facendo con le mani il segno delle forbici, a indicare il trattamento che gli piacerebbe riservare nei confronti dei molestatori dei bambini. Dove il linguaggio verbale non poteva arrivare, il gesto è arrivato forte e chiaro e a quel punto non c’era comunque il tempo, né lo spazio, né l’opportunità di alzarsi e domandare: onorevole Salvini, ma a chi la vuole dare a bere? Lei non castra nessuno. Non ne ha il potere, non ne avrebbe la forza, le mancherebbe il coraggio. Tutto quello che ha osato fare è proporre in parlamento una cosa che dietro un nome minaccioso (“castrazione chimica”) nasconde una banale cura ormonale: una terapia che in teoria, solo in teoria, dovrebbe inibire gli atteggiamenti violenti dei maniaci sessuali. Niente forbici, onorevole Salvini, non siamo all’asilo e non ci vanno nemmeno i suoi elettori. Ecco, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli così. Non poteva essere il suo avversario, che doveva coprirsi e non poteva rischiare di passare davanti ai telespettatori assonnati come un difensore dei maledetti pedofili. Non poteva essere l’arbitro-presentatore. Avrebbero potuto essere i giornalisti, ma a quel punto forse si erano addormentati anche loro: e li capisco.

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Di minibot non vuol sentir parlare nemmeno Bagnai

(Avvertenza: questo post è talmente lungo che ne contiene uno di Bagnai).

“I AM THE CREATOR OF THE MINIBOTS:
LOOK ON MY WORKS, YE MIGHTY, AND DESPAIR!”
(Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away).

Ma la Lega i minibot li vuole davvero? Non sarà una di quelle tipiche cose leghiste che si danno in pasto al parco buoi in estate, come gli esami in dialetto, le bandiere regionali, i ministeri al Nord? L’ultimo intervento di Giorgetti sembrava autorizzare questa ipotesi. Poi Claudio Borghi (colui che su Twitter si fa chiamare “the Creator of the Minibots“) ha spiegato che in realtà Giorgetti non voleva completamente sconfessare e ridicolizzare la sua trovata da apprendista economista, eccetera. Va bene.

In questi casi di solito ci si racconta la favola dei falchi e delle colombe: la Lega è ormai un grande partito, e in un grande partito di solito c’è chi interpreta una visione delle cose più realista e moderata (Giorgetti? Tria?) e chi non ha la minima intenzione di seppellire l’ascia di guerra tanto sfoggiata in campagna elettorale: Claudio Borghi, senz’altro, magari Savona. E ovviamente Bagnai.

Ah, giusto, Bagnai. Perché se c’è un falco no-euro in Lega, questi è senz’altro lui. Quindi insomma, dei minibot cosa pensa?

Ecco, è bizzarro. Ne pensa pochissimo, non ne parla mai. Questo sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l’economista di punta della Lega, il più preparato e accademicamente titolato. Sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l’economista di riferimento dei falchi no-euro della Lega, perché Borghi  tutta quest’aura da economista esperto non ce l’ha mai avuta – è uno da talkshow, diciamo. Questa cosa che Bagnai non abbia mai scritto un solo post, mai un solo post sui minibot, sarebbe strana anche se Bagnai non fosse uno dei blogger più facondi d’Italia (e se ve lo dico io ci potete credere). Bagnai di euro e non euro parla da anni, e mentre ne parla riesce a infilarci dentro qualsiasi cosa, dalla teoria musicale barocca alle strisce giornaliere di Floyd Gottfredson, per cui è davvero molto curioso questo fatto che se scrivi “minibot” sul motore di ricerca del suo blog ti restituisca zero risultati. Insomma l’ultimo dibattito tra Giorgetti e Borghi dobbiamo immaginarcelo recitato alla presenza di un ingombrante convitato di pietra. Questa posizione alla lunga deve essere sembrata insostenibile anche allo stesso Bagnai, che finalmente lunedì ha deciso di chiarire la sua posizione sui minibot.

Ci ha messo 19.128 caratteri.

Che per lui non sono neanche tanti – e del resto seppellire le evidenze scomode sotto mucchi di parole divaganti è una tecnica non nuova su Goofynomics.blogspot.com. Siccome però qua fuori c’è anche gente che lavora, e poi fa anche molto caldo, insomma, ho deciso di venire incontro al pubblico lanciando un servizio di traduzione dal bagnaiese all’italiano, una nuova rubrica (spero molto saltuaria): Alberto Bagnai per chi non ha tempo. Nella casella sinistra troverete quindi l’originale, e in quella destra la mia molto sbrigativa versione. Riconosco che nel passaggio qualche sfumatura di significa potrebbe perdersi: del resto Bagnai è un universo.

BAGNAI


Rischierò di essere ripetitivo.

ITALIANO



Mi ripeto,

Esattamente come, nel tentativo più o meno riuscito di darvi qualche rudimento di analisi macroeconomica, ho scelto di insistere su pochi strumenti, snelli e solidi, fra cui il principale è l’analisi dei saldi settoriali (iniziando col primo e colsecondo post dedicati alla “Premiata armeria Hellas”, e proseguendo poi per numerosissimi altri post dove il metodo è stato applicato ai paesi più disparati, dalla “A” di Azerbaijan alla “S” diSlovenia), così, ora, per farvi capire come funziona la politica, devo fornirvi alcuni strumenti essenziali per interpretare i dati politici che vi vengono forniti dai mezzi di informazione.
Il più essenziale è semplicissimo da mandare a mente, e anche piuttosto agevole da comprendere nelle sue articolazioni principali, oltre a essere già stato espresso in modo molto più autorevole da tanti prima di me. Eppure, con mio grande rammarico e stupore, vedo che proprio non vi entra in testa! Ma io sono tenace, altrimenti non vi starei scrivendo da questa scrivania dopo l’incardinamento del decreto “crescita”, ma da un’altra scrivania dopo una lezione… sui saldi settoriali (!), e quindi insisto. Non potete, e quindi non dovreste, arrischiarvi in analisi politiche (né tanto meno in proclami o roboanti ultimatum secondo il modulo “Radames discolpati!” riportato in auge dagli “zerovirgolisti” di destra), non dovreste, ripeto, arrischiarvi in analisi politiche senza aver prima ben capito e interiorizzato un dato ovvio:
ma è colpa vostra: siete talmente rintronati che vi devo sempre spiegare tutto dall’inizio, comprese le ovvietà, come per esempio:
i giornali mentono.
i giornali mentono.
Voglio subito chiarire, a scanso di equivoci, che questo non è un giudizio soggettivo, nel duplice senso che (i) non è una mia valutazione soggettiva (è un dato di fatto, come vi ho non ampiamente dimostrato – avrei tonnellate di altri esempi!); e (ii) non è un giudizio sulle intenzioni soggettive dei giornalisti. Non sto assolutamente dicendo che i giornalisti siano “cattivih!” o che lavorino male: dire che i giornali mentono non significa assolutamente dire che i giornalisti siano mentitori. Parole diverse esprimono concetti diversi. Semplicemente, le dinamiche oggettive del loro lavoro conducononaturaliter i nostri amici giornalisti (che conosciamo e stimiamo) alla menzogna. Una menzogna che quindi, proprio in quanto determinata da fenomeni oggettivi, è molto più sistematica e pervasiva di quanto sarebbe se a causarla fosse (solo) una ipotetica mens rea, che ogni tanto potrebbe essere distolta da un suo ipotetico obiettivo di volontaria alterazione del dato.
Nessuna volontà soggettiva, per quanto ferrea, potrebbe ottenere un risultato così graniticamente uniforme e coerente. Non dobbiamo quindi voler male ai giornalisti, trattarli con asprezza, o rampognarli. Semplicemente, dobbiamo non comprare più i giornali, e cambiare canale all’apparire del notiziario (visto che non è l’apparir del vero di leopardiana memoria, ma quello del falso).
I motivi oggettivi cui alludo sono almeno di tre ordini, e due mi erano chiari anche prima di vivere dall’interno le dinamiche della vita parlamentare. Il terzo, che forse è il più devastante, mi è apparso con evidenza solo da dentro il palazzo (essere “dentro” un po’ di differenza la fa). Nell’ordine, direi: (i) subalternità al capitale; (ii) ignoranza e fretta (miscela esplosiva!); (iii) selezione avversa.
Non lo fanno neanche apposta, in un certo senso è la loro funzione.

La subalternità al capitale

Della subalternità al capitale ha parlato con tanta chiarezza Gramsci (come ho ricordato nel mio articolo su Micromega), per cui non credo di aver molto da aggiungere. La sua analisi, pubblicata sull’Avanti! nel 1916, la trovate qui a p. 21 sotto il titolo “I giornali e gli operai”, e il suo invito a boicottare la stampa borghese, pur se viziato da un ovvio conflitto di interessi (Gramsci scriveva per la concorrenza!), è ben argomentato e, con le dovute rettifiche alle categorie di classe utilizzate all’epoca, del tutto attuale. Il nocciolo è qui:
“Tutto ciò che [la stampa borghese, ndr] stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all’ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell’opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare… dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c’è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un’arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso.”
…e 103 anni dopo non credo che ci sia molto da aggiungere. Detto, ovviamente, sine ira et studio. Ma, fatte le debite proporzioni, pensare che oggi grandi industriali o grandi banchieri (gli unici che possono permettersi quei costosi giocattoli in perdita che sono i media) siano così solleciti delvostro interesse da fornirvi strumenti per promuoverlo a discapito del loro mi sembra sia un pochino ingenuo, ne converrete, come pure non occorrono i sensi di ragno di Spiderman per capire che c’è qualcosa che non va quando Landini parla come Giannino (o Giannini)…
Quindi i giornali vi mentono (rectius: vi forniscono una visione partigiana ed artefatta della realtà) perché espressione di interessi costituiti non necessariamente allineati ai vostri: se non siete almeno milionari, è fortemente probabile che ci sia un deciso disallineamento. Ma anche qui, insisto: il giornalista, poverino, non è colpevole, non può farci nulla. Sì, d’accordo, Upton Sinclair, ma non è così semplice. Non è un mero problema venale. Se fosse così, potremmo fare una colletta e corrompere i giornalisti perché dicano la verità! (A beneficio degli ultimi arrivati, chiarisco che non ci servono verità metafisiche: ci bastano verità tecniche, come quella che negli anni ’70 la disoccupazione era circa la metà di quella attuale…).
Il problema è più complesso perché corre ormai quasi un secolo (per l’esattezza, 99 anni) da quella conferenza di Bruxelles in cui, come ci racconta Clara Elisabetta Mattei nel suo The guardians of capitalism, gli esperti di economia si raccolsero per elaborare il messaggio, oggi diremmo il frame (nel senso di Lakoff) sul quale articolare il dibattito economico per riprendere il controllo della restless post-war civil society (inquieta società civile post-bellica). Un messaggio a noi ormai tristemente noto: quello dell’austerità. Di “Stato come una famiglia”, di “medicina che fa bene solo se è amara”, di “riparare il tetto quando il Sole splende – ma anche quando piove”, e consimili baggianate moralisteggianti è stata permeata, a botte di milioni e milioni spesi a fini propagandistici, la coscienza civile europea lungo tutto un secolo. Certo, fa specie vedere un giornalista che si crede “di sinistra” dimenticare Gramsci e allinearsi a Giannino (non a von Hayek: a Giannino!). Ma bisogna essere indulgenti: i mezzi dispiegati per frantumare le categorie logiche ed economiche con l’illogica emotiva e moralisteggiante ad uso del padrone di turno sono stati ingenti. Dove non riuscì Keynes, nonostante le sue indubbie qualità letterarie e una fastidiosa tendenza ad azzeccare le previsioni, non presumo di poter riuscire io, o per lo meno non subito, e certamente non da solo.
Ovviamente, il fatto che tutto fosse chiaro a Gramsci 103 anni fa rende inescusabili quei lettori “de sinistra” che ancora si abbeverano alle fonti delmainstream. Quelli “de destra”, porelli, in fondo sarebbero assenti giustificati. Ma ci sono altri due argomenti che voglio sottoporre loro, per dotarli di quel fondamentale presidio di igiene del dibattito che è la disinfezione dai media.
Lo diceva anche Gramsci [giornalista], eh, quindi a sinistra siamo coperti.

L’ignoranza (e la fretta)

Le dinamiche oggettive della produzione di notizie non sono di natura tale da condurre a ottimi risultati, e questo ce lo possiamo dire con sincerità (e con sincerità lo ammettono i giornalisti, che sono nostri amici – come la Germania, che a loro tanto piace…). Il rifiuto istintivo da parte dei lettori della qualità scadente e del discorso artefatto e internamente incoerente, qui tante volte espresso, trasforma i media in imprese in perdita. Chi ci lavora, pagato poco, col passare del tempo è pagato di meno, il che, in questo come in altri settori, non è un grande incentivo a lavorare bene, tanto più che alla fine uno può cavarsela col “copia e incolla” dei lanci di agenzia delle 17, aggiungendo qualcosa ad colorandum. Questo spiega perché di fatto quello che leggiamo è, con pochissime eccezioni, un “giornale unico”, scritto da chi apre i cancelli dell’informazione alimentando le agenzie, secondo il meccanismo descritto da Marcello Foa ne Gli stregoni della notizia.

E poi c’è un altro problemino.

Le dinamiche oggettive (anch’esse) che ci hanno condotto alla crisi più lunga e profonda della nostra storia (vi rinvio a un articolo in cui i dati non sono aggiornati, semplicemente per ricordare a me stesso che qui certi dati si facevano vedere quando nessuno ne parlava) determinano una conseguenza ovvia: l’economia sta prendendo sempre più il centro della scena. Un processo assistito dal fatto che l’Europa del Fogno (che non è un errore di battitura ma un errore politico) non è mai decollata, riducendosi, come era logico succedesse, ad una mera espressione economica. Ora, l’economia e il pianoforte hanno due cose in comune. La prima è che possono piacere o non piacere (c’è chi preferisce il clavicembalo, ad esempio). La seconda è che vanno studiati da piccoli. Quando sento pretenziosi laureati in laqualunque esternare saccenti in materia della quale nulla sanno, e nella quale si addentrano con la grazia (e l’inevitabile destino) di un toro Miura in un campo minato, mi viene da sorridere di compassione: rivedo certi miei studenti…

La situazione quindi è questa: persone che capiscono poco di una materia della quale non sanno niente vi dicono tutto quello che sapete.

(…si badi bene, sono ammirevoli: da niente a poco è tanta roba!…)

Cosa può andare storto?

A volta mentono per malizia, a volte per insipienza (a proposito: Foglio merda), comunque mentono, lo dice anche Marcello Foà [giornalista], per cui siamo coperti pure a destra.

Un esempio lo chiarirà, ma ad esso devo premettere due brevi parole per calarlo nel contesto.

Tutto questo preambolo per spiegarvi una cosa importante:

Nonostante che la proposta dei minibot sia stato lanciata da Claudio Borghi nel dibattito italiano sette anni fa al primo compleanno di questo blog, e nonostante che io abbia la massima stima per Claudio, come sapete il tema non mi ha mai ispirato particolarmente.

Io coi minibot non c’entro, chiaro? È roba di Claudio.

Se fate una ricerca del termine minibot su questo sito trovate solo interventi dei lettori, per lo più senza mia risposta. Non c’è un motivo particolare.

se me ne chiedete io manco vi rispondo, io di minibot non-ne-parlo, chiaro? È chiaro?

Non ricordo un intervento di Claudio sulla teoria dei saldi settoriali, il che non significa che non sia d’accordo con essa!

E non dirò mai niente di male su Claudio, ma insomma, io dei due sono quello che conosce la teoria dei saldi settoriali.

Certo è che io di quella roba non ne ho mai parlato.

Mentre lui è quello che si fa le foto coi bigliettoni colorati del Monopoli. Vi sfido a trovare un mio intervento su quella roba. Non ne parlo. Chiedete a Claudio.

 Ma se fate una ricerca con le parole chiave Bagnai e minibot trovate tutt’altro: dalCorriere (tanto nomini…) a Next al Post, passando (grazie a Dio) per una testata seria come Lercio (vi risparmio testate minori…) è tutto un chiamarmi in causa in modo più o meno esplicito, ma sempre piuttosto infondato (date le premesse che vi ho esposto).

Se vi è parso diversamente sui giornali, è perché (come dicevo più sopra) i giornali mentono. Fine.

Ora, caso vuole che i minibot siano da più di un anno nel contratto di governo, e il fatto che i media se ne accorgano solo oggi già la dice lunga, ma il tema non è questo. L’indecorosa gazzarra che sta tenendo banco da qualche ora sui media (e che fra poche ore sarà sostituita dalla successiva indecorosa e infondata gazzarra) è nata in questo modo qui:

Il travisamento che ha portato a tante dotte analisi si basa su una tecnica semplicissima: si fa una domanda assurda, e si riporta solo la risposta! Voglio solo attirare la vostra attenzione su un punto. In episodi come questi non c’è necessariamente malizia. A me sembra perfettamente possibile, e molto più probabile, che una domanda così dadaista sia potuta venire in mente al volenteroso operatore dei media per il motivo molto semplice che lui, di che cosa siano i minibot, non sa nulla! Che la cartolarizzazione di un debito dello Stato possa servire ad evitare la procedura di infrazione (intendendo quella per debito eccessivo: ovviamente, ce ne sono anche per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, ma il giornalista non si riferiva certo a queste ultime…) può venire in mente solo a chi non sappia di che cosa sta parlando.

Ed ecco un caso preclaro di come l’esplosivomix di ignoranza e fretta (con la solita porca vanagloria di fare lo “scuppone”) fa girare in tondo per due giorni il meraviglioso circo dei media. D’altra parte, se i circhi sono tondi, un motivo c’è…

Un altro caso di consimile dinamica la trovate, se interessa, qui.

Inutile dire che queste dinamiche che, soggettivamente o oggettivamente, tendono a creare un incidente all’interno della maggioranza (fra o nei partiti che la compongono) ci sono ormai note. A noi addetti ai lavori questo fenomeno è perfettamente chiaro, e così se con Alessandro ci siamo sentiti per il piacere di salutarci, anche Claudio e Giancarlo hanno chiarito l’episodio perché dovevano parlare di altro, certo non di una fanfaluca simile.
Io poi Claudio lo devo pur difendere, è chiaro, prima che passasse Claudio insegnavo a Pescara, mò sto a Palazzo Madama, voi non sentirete mai da me una parola cattiva su Claudio. Però per i minibot chiedete a lui.

E qui si arriva al terzo punto, la selezione avversa.

La selezione avversa

I meccanismi che vi ho descritto fin qui determinano due conseguenze piuttosto ovvie in chi come me esercita attività politica a un certo livello. La prima è che non crediamo minimamente a quello che ci dicono i giornali, al punto che, personalmente, nemmeno li leggo. Non mi interessa che cosa dicano di me perché so come lavorano, e quindi non mi interessa che cosa dicano degli altri, o facciano dire agli altri. La seconda è un po’ meno evidente a chi sta all’esterno, ma non meno gravida di conseguenze. Siccome sappiamo che qualsiasi cosa diremo sarà travisata o per esigenze di “linea editoriale” (l’ipotesi “Gramsci”, di cui questo è un caso), o per mera ignoranza (la storia dei minibot secondo me ricade in questa categoria), quelli di noi che hanno per le mani pratiche minimamente rilevanti ben si guardano dall’accostarsi ai giornalisti, cui rimane, come unico conforto, come unica speranza di arrivare un secondo prima del loro collega, la platea dei nostri colleghi che, per una serie di motivi, non hanno incarichi di rilievo. Ad esempio: i senatori eletti sono 315 e le Commissioni permanenti quattordici, il che comporta che 301 senatori eletti non saranno Presidenti di Commissione permanente, pur essendo magari più preparati di chi ci è capitato (io faccio una fatica bestiale a star dietro a tutto), e pur avendo, in certi casi, maggiori informazioni del Presidente su affari specifici (ad esempio, quando tocca a loro fare da relatori). Fatto sta, però, che a certe riunioni, per problemi meramente organizzativi, ci vanno solo certe persone, che un filo diretto col comando ce l’hanno solo alcuni, ecc., e i giornalisti, a causa del loro comportamente, in modo pressoché sistematico parleranno solo con gli altri. Quindi i “retroscena”, i “fonti parlamentari”, ecc., sono basati su notizie frammentarie provenienti da fonti non sempre vicinissime ai luoghi dove si esaminano i problemi e si stringono gli accordi politici. Ne conseguono analisi distorte non solo per i due motivi di cui sopra (le dinamiche di classe e quelle del processo produttivo), ma anche perché a causa delle due dinamiche di cui sopra i giornalisti si precludono l’accesso a materia prima sgrezzata: devono prendere quello che trovano, e ogni tanto cadono male. Non tutti hanno bisogno di visibilità: io, ad esempio, l’aborro, tant’è che voi vi lamentate perché non mi vedete abbastanza in tv. Altri magari ne hanno più bisogno, ma allora non necessariamente hanno notizie attendibili. Analisi ulteriormente distorte portano a una ulteriore ritrosia da parte di chi sa ad accostarsi a chi per un motivo o per l’altro falla. Restano solo fonti secondarie, e la conseguenza è un ulteriore scadimento.

Mario Sechi, che è intervenuto prima di me alla scuola GEM2019, mi dicono abbia analizzato in questi termini questo fenomeno, lamentandosene: “non si trovano più fonti parlamentari!”. Mario è una persona onesta e (a me) simpatica, anche se sono ideologicamente molto distante da lui. Non credo di dovergli chiarire il perché le fonti si prosciughino! A me piacerebbe, considerandolo un interlocutore intellettualmente stimolante proprio perché non la pensa come me, poter condividere con lui qualcosa di quello che posso condividere (perché nel mio lavoro non tutto si può e non tutto si deve condividere). Ma purtroppo, nonostante che lo stimi, come stimo pochi altri (che quindi non cito perché in una lista breve le omissioni involontarie sarebbe offese cocenti), devo privarmi del piacere di interloquire con lui perché tanto una delle tre porche dinamiche qui descritte alla fine entrerebbe in gioco, rovinando un rapporto che finora è stato, e spero continui comunque ad essere, cordiale.

Chi le cose le fa (come Giorgetti, per fare un esempio…) ha poco tempo per raccontarle, e chi, come me, avrebbe più tempo per comunicare, alla fine pensa che se tanto il giornalista deve mettergli in bocca parole non sue, forse può anche farlo senza la sua collaborazione!

Concludendo

Ecco: quello che vi ho detto oggi, e che “taggo” con la parola “propaganda” (un tema di cui qui ci siamo occupati estesamente) sta alla politica come l’aritmetica dei saldi settoriali sta alla macro. Interessi costituiti, ignoranza e selezione avversa (particolarmente forte in questa stagione politica) rendono, purtroppo, i media assolutamente inattendibili. Basta saperlo. Sapere poi quali sono le dinamiche che li rendono tali aiuta ad esercitare un’attenzione critica mirata. Occorre un filtro molto potente per isolare dal gran noise la poca informazione che porta.

Noi lo vediamo anche come un’opportunità. Alla fine, il nostro nemico spara da solo i fumogeni che gli impediscono di capire che cosa stiamo realmente facendo! Se provassimo noi, che siamo persone ingenue e sincere, a fuorviare i giornalisti per essere lasciati in pace sugli affari che ci stanno a cuore, non potremmo riuscirci tanto bene quanto ci riescono da se stessi (tutto l’affaire minibot è un caso di scuola meraviglioso)!

Voi, invece, dovete stare un pochino più attenti, almeno, se volete che i rapporti restino cordiali. Chi interloquisce su Twitter in modalità “Radames discolpati” perché Giorgetti ha detto e perché Molinari ha fatto fino a oggi è stato bloccato sporadicamente. Dopo questa ampia ed esaustiva spiegazione sarà bloccato sistematicamente. Vado su Twitter per informarmi e divertirmi. Il melodramma non è divertente, e chi non capisce cose semplici, come quelle che ho spiegato oggi, difficilmente sarà portatore di informazioni rilevanti.

…sempre tenendo conto che i giornali mentono. Tutti mentono. Mai fidarsi.

Pax et bonum.

La predica è finita, andate in pace.

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La gente allo specchio (potrebbe sembrare più stupida)

Ultimamente mi ci vuole parecchio a finire un pezzo e nel frattempo rischio di scordarmi perché lo avevo cominciato, per esempio questo nasceva come un’implorazione a Guia Soncini affinché mi riammettesse tra i suoi follower: mi ha infatti bloccato qualche giorno fa dopo uno scambio di cui si è già dimenticata, di cui tra un po’ mi dimenticherò anche io. Ma insomma già Twitter lo aprivo poco; senza di lei smetterò del tutto di andarci e se Trump dichiarerà la terza guerra mondiale sarò l’ultimo ad accorgermene. Scherzo ma per me sarà una perdita secca; per molto tempo la possibilità anche vaga che lei potesse capitare da queste parti mi ha impedito di pubblicare cose tremende, non solo dal punto di vista ortografico. Comunque è già notevole che non sia successo prima: lei blocca tutti, io ho la rispostina facile. Ed è giusto che sia successo su un argomento che davvero ci divide: si parlava del famoso social media manager dell’INPS, che qualche giorno fa sbroccò davanti a utenti che continuavano a fare le stesse domande senza leggere le risposte. Un personaggio in particolare forò l’attenzione e chissà, forse ce ne ricorderemo anche tra due settimane, quando avrò finito di scrivere questa cosa: su Facebook si faceva chiamare Candy Candy Forza Napoli e sulla foto-ritratto ostentava due orecchie di coniglio. Candy Candy eccetera si rifiutava di procurarsi uno Spid e io tentavo di spiegare che non aveva tutti i torti, lo Spid è un oggetto burocratico effettivamente complicato. Il fatto che alcuni riescano a ottenerne uno in dieci minuti non significa che per altri non sia un calvario. G.S. arrivava nella discussione da una posizione che è la tipica sua, e che mi permetto di sintetizzare così: la gente è stupida. Non è una questione di reddito o di ceto, la gente è stupida e basta. Si attaccano ai commenti, ripetono le stesse domande, pretendono che gli altri googlino per loro, sono irrecuperabili. Eccetera.

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Da qui si potrebbe partire per la solita riflessione esistenziale e politica: anche ammesso che la gente sia stupida, che senso ha aggredirla? Cosa rivela di noi questa particolare forma di arroganza? Il burionismo funziona davvero? È ancora un’opzione progressista o non ci conduce verso una china reazionaria e antidemocratica, bla bla, ne abbiamo già parlato e ognuno ha già riportato a casa la sua opinione.

Invece forse è mancato un discorso a monte, ovvero: perché mai dobbiamo ammettere che la gente sia stupida? Abbiamo tutte queste prove? Votano degli imbecilli, Di Maio e Salvini, ok: vent’anni fa votavano Bossi e Berlusconi; possiamo concedere una certa miopia in cabina elettorale, ma a parte questo? Si comportano da scemi su internet. Vero. Ma anche questo dettaglio non mi sembra decisivo.

Insomma io non ci credo, per me la gente non è così tanto stupida. Certo, su internet la sensazione è decisamente questa. E se non ci fosse internet ci sarebbero gli altri media, la tv, la radio, eppure resto scettico. Credo che si tratti in parte dell’effetto Svetonio. Svetonio è ovviamente Gaio Tranquillo, l’autore delle Vite di dodici Cesari, la prima grande collezione di gossip imperiali. Leggendo il suo libro (spassoso) si ha l’impressione che i Romani stessero sprofondando nel vizio e nella decadenza e invece no, il periodo descritto da Svetonio è quello in cui l’Impero conosce la massima stabilità e la massima espansione. Senz’altro poteva capitare che un Cesare sbroccasse e capitava anzi più spesso di quanto sarebbe stato ragionevole attendersi, ma questo non impediva alla macchina statale di funzionare. Con tutti i suoi difetti, quell’impero è durato qualche secolo in più della Repubblica italiana, che pure costituisce una macchina statale straordinariamente complessa e meno fragile di quanto vogliamo credere. Svetonio però non ci parla del funzionamento dell’esercito, dell’organizzazione del lavoro, o della cura delle strade, o di quant’altro stesse funzionando: gli interessavano soltanto i vizi dei Cesari e credo che ancora oggi internet e gli altri media funzionino soprattutto così: si soffermano sui nostri difetti, perché sono più interessanti e confortano il lettore. Ma nel frattempo la macchina funziona. Ha un sacco di pecche, e alcune sono sistemiche, ma funziona. Se davvero fossimo tutti stupidi come siamo su Facebook, nessun treno partirebbe più dalla stazione. Invece partono, e la maggior parte arriva in orario. Ogni mattina aprono i bar, le scuole, i negozi, e dentro è pieno di gente che su internet sembra deficiente; e invece un bar, una scuola, un negozio, lo sa aprire. Io no, loro sì.

12 CESARI VERAMENTE FOLLI!
Il settimo ti stupirà…

Mi capita sempre più spesso di rendermene conto – forse perché passo almeno metà giornata offline? Ogni persona che incontro mi sembra migliore di me, almeno in qualcosa. Suona il campanello, è l’idraulico: in un attimo capisce il mio problema, controlla con un paio di strumenti, cerca di spiegarmi qual è la soluzione, mi convince; è un bravo idraulico, un bravo professionista, sa conquistare il suo cliente, io al suo posto non sarei mai diventato così bravo. Su Facebook invece ha un avatar pirla che copia-incolla soltanto insulti alla Juve. Esco a comprare due cose in farmacia. La commessa è preparata, comprensiva, gentile, ha una laurea che io non sarei mai riuscito a conseguire; eppure su Instagram insiste a condividere autoscatti col becco a papera. Vado a lavorare. Non c’è un collega che non mi sembri migliore di me in qualcosa: una è più preparata, l’altro è più paziente, più metodico, più esperta, più diplomatico. Mi sembra di avere a che fare con consumati professionisti, non fosse per il baccano che fanno su Whatsapp. Ogni persona che incontro mi sembra migliore di me in qualcosa, offline. Online è diverso.

Online sembrano tutti ridicoli, inadeguati, appena arrivati e invece sono dieci anni che continuano a postare vecchie gif, vignette dei peanuts con testi abusivi, tramonti, buongiornissimi, caffè. Online mi basta scrivere due scemenze originali sul fatto del giorno per sovrastarli tutti ed è forse il motivo per cui ci sono arrivato non prima di tutti ma quasi, blogger della prima ora eccetera. Online mi trovo a tu per tu con giornalisti e scrittori e me la cavo, o almeno l’Online mi suggerisce questa sensazione. Pericolosissima.

Ma per fortuna non ci passo tutta la giornata. Non importa che vette notturne io possa raggiungere, ci sarà quasi sempre una sveglia alle 6:45 e una vita offline che mi metterà ogni giorno davanti ai miei limiti. Se non ci fosse probabilmente impazzirei. Mi radicalizzerei, come certi nerd che finiscono naturalmente assorbiti dall’Alt-Right, il collettore finale di tutti i solipsismi, di tutta l’insofferenza per la mediocrità del prossimo. Mi convincerei di essere l’unico Sveglio in un mondo di mediocri, normies e altre puttanate del genere. Per fortuna che c’è l’Offline.
Faccio un altro esempio

Che è anche uno dei tanti motivi per cui mi dispiace di essere stato bannato; questi piccoli momenti di verità che mi piaceva intravedere. Al netto dell’autoironia, per cui un Grande Romanzo magari no, nessuno lo pretendeva; ma un buon romanzo in questi anni avremmo anche potuto aspettarcelo; e se non è successo non sarà anche perché alla fine ci siamo incantati un po’ tutti a guardare i commentatori su facebook? Senza domandarci troppo cosa ci fosse poi di così rassicurante nella contemplazione della loro mediocrità. Alla fine bastava poco: un microscopio che ci mostrasse ogni giorno quanto erano miseri i nostri contemporanei. Ridicoli, incapaci, indegni del suffragio universale: non se lo meritavano nemmeno un romanzo, né Grande né piccolo. Anche perché per scriverlo servirebbe una minima dose di pietà per la commedia umana, e sui social la pietà è morta. Così niente romanzo, solo qualche stilettata ogni tanto. Comunque godibile, eh. Ma insomma mi dispiace che sia andata così. Anche perché credo che si sia trattato di un parziale equivoco: il microscopio non era semplicemente un microscopio, certi oggetti inquadrati in uno specchio possono sembrare più lontani di quanto non siano, e in generale può darsi che ci siamo fidati troppo dell’Online. Essendo il luogo a noi più congeniale.

Ma agli altri no. La maggior parte delle persone non dà il meglio di sé Online. Questo, mi rendo conto, può essere difficile da concepire in determinati contesti. Ci sono intere comunità di persone che senza l’interazione online non potrebbero lavorare e vivere; enormi bolle di individui che devono farsi cento scatti prima di trovare quello presentabile. Tutto assolutamente comprensibile, inevitabile; ma la maggior parte delle persone non vive lì. La maggior parte delle persone arriva sui social nei ritagli di tempo, ed è stanca o scazzata o ha solo voglia di condividere una coglionata tra amici. Il fatto che per alcuni sia una vetrina da allestire con cura non significa che per altri non continui a essere il lato interno dello sportello dell’armadietto dello spogliatoio in cui ti capita di condividere una battuta razzista per debolezza o stanchezza o genuina simpatia di chi te la sta raccontando, e non vuol dire che sei un razzista; al massimo che sei debole o sei stanco. Un sacco di gente migliore di me non sa comportarsi su facebook: e allora? Domattina la sveglia suonerà e continuerò ad aver bisogno di loro; più di quanto loro abbiano bisogno che io spieghi loro facebook. (Qualche cretino ovviamente c’è, ma molti meno di quanti appaiano).

Non so bene come finire questo pezzo. Scrivo cose su internet più o meno da vent’anni: ho sempre cercato di scriverle nel modo più chiaro possibile perché volevo che le leggesse più gente possibile. Evidentemente non ha funzionato; non sono stato abbastanza chiaro, abbastanza efficace, abbastanza bravo. Soprattutto, non sono stato abbastanza breve. Ogni tanto ci provo ancora perché non mi rassegno, né Online né Offline. Per me la gente non è stupida. Molto spesso ha priorità che non sono le mie, ideologie che non condivido, e in generale si fida poco: ha avuto brutte esperienze. A volte è stanca, quasi sempre è distratta, in molti casi ha dei casini che neanche ci immaginiamo. Ma non è stupida, e non ci conviene trattarla così. Tra i no vax ci sono medici laureati col massimo dei voti, e genitori più solleciti e attenti di me, non che ci voglia molto. Tra i terrapiattisti c’è chi sa spiegare i motivi per cui la terra sarebbe piatta molto meglio di quanto io sappia spiegare che è un geoide rotante. Sotto due orecchie di coniglio può nascondersi la migliore persona del mondo, o anche una persona mediocre quanto me, salvo che sa lavare le scale meglio di quanto non saprò mai fare, e il mondo ha più bisogno di scale pulite che delle mie spiegazioni su un blog.

Inoltre sanno quasi tutti cucinare, io in trent’anni non ho ancora ben capito come si gestisce un uovo nel tegamino. Così ogni volta che m’imbatto in qualcuno che mi sembra un cretino, Online od Offline, me lo immagino ai fornelli e questo mi aiuta a gestire la situazione. È un espediente che consiglio a chiunque abbia voglia di continuare a interagire con le persone, ma può darsi che non sia il vostro caso. Magari siete su internet in questo momento proprio perché le persone vi fanno un po’ schifo e avete bisogno di essere rassicurati in tal senso. Comprendo questa posizione ma non capisco perché vi siate ostinati a leggere fin qui, in realtà non avevamo molto da dirci, il pezzo comunque è finito.

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I babyboomers che odiano Greta (hanno i loro motivi)

[Questo pezzo è uscito su TheVision mercoledì]. I più famosi hater italiani di Greta Thunberg – qualcuno l’avrà già notato – sono tre babyboomers. Rita Pavone, che la trova un personaggio da film horror, è del 1945. Maria Giovanna Maglie che la metterebbe “sotto con la macchina” del 1952, come Giuliano Ferrara (“detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”). Il che significa tra l’altro che nel fatidico 1968 Ferrara e la Maglie avevano la stessa età che oggi ha Greta. Sono personaggi sopravvissuti egregiamente agli anni Sessanta, hanno assistito e a volte partecipato a mobilitazioni ben più radicali di quella promossa dalla sedicenne svedese. Altri detrattori della Thunberg li riconosci dalla mentalità compottarda (“cosa c’è dietro questa ragazzina?”) o ipercorrettista (“Se usa un bicchiere di plastica non può dare lezioni”). I babyboomers non ragionano così. In un certo senso non ragionano nemmeno. Il loro fastidio per il nuovo personaggio è qualcosa di incontrollabile: a malapena riescono a verbalizzarlo, e sì che due su tre vivono di parole.

La morale della favola è assai nota: si nasce incendiari, si muore pompieri. L’Italia è un Paese molto anziano, il dibattito pubblico è un giardinetto ostaggio di pensionati che borbottano e inveiscono contro i giovinastri rumorosi. I giovinastri stavolta non sono nemmeno particolarmente rumorosi – non spaccano neanche più le vetrine – ma i pensionati se la prendono lo stesso. Non dico che questa spiegazione non sia soddisfacente, ma vorrei proporne ugualmente una meno banale. Ferrara, la Maglie, la Pavone, hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell’Occidente. Il 1968 fu un episodio importante, ma se allarghiamo un po’ lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento della storia di una generazione; cui seguì la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato, l’edonismo degli anni Ottanta, eccetera. Se volessimo assegnare a una generazione un’ideologia… saremmo dei maledetti semplificatori; ma se davvero volessimo farlo, diremmo che la priorità dei babyboomers è stata la liberazione dell’individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata; negli anni Ottanta si esprimeva nel consumismo senza più freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui una ragazza svedese ci ricorda che non c’è futuro per chi non riesce a riciclare carta e plastica. Sono cose che fanno incazzare i babyboomers, non perché siano anziani – ok, ormai sono anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma è finito. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo, sì, potrebbe avere i giorni contati. Non è colpa di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando, eccetera eccetera. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. È inquietante perché da un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.

Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature”, non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui devono prepararsi a rinunciare. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui le nuove generazioni devono rassegnarsi a rinunciare (continua su TheVision).

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Il ragazzo a cui passai il Giornale

Su Facebook ogni dibattito viene a noia dopo poche ore, e questo mi libera; mi solleva dal peso di dover scrivere cosa penso, che ne so, di Montanelli. Due giorni fa forse, ma ormai non interesserebbe più ad alcuno; e comunque anche quell’alcuno avrebbe letto in questi giorni tre o quattro opinioni abbastanza simili. Che potrei aggiungere di interessante? Cosa è stato Montanelli per me? Una parte del paesaggio? Il nonno ex fascista che molti di noi non hanno realmente avuto, ma ci spettava comunque per contratto? Perché bene o male quello è stato. Mi viene in mente un mio amico, si fa per dire, non lo vedo da anni. Ecco, potrei raccontare questa cosa, e spero che nessuno ci si riconosca.

Risale all’anno in cui compravo almeno un giornale al giorno – ma a mia discolpa, era un anno in cui capitavano tantissime cose, il 1989? Più facilmente il 1990. E per quanto fossi un fanboy di Repubblica (merito meno di Scalfari che di Beniamino Placido) cercavo di comprarli un po’ tutti. Anche quelli che non mi piacevano – del resto, lo imparai così che non mi piacevano (ricordo ancora il mio choc culturale davanti a un normalissimo fondo del Corriere: ma qui parlano bene di Craxi! E basta! Cioè non c’è nessuna notizia, stanno soltanto parlando bene di Bettino Craxi? Ma si può fare, voglio dire, è legale questa cosa?)

Compravo la Stampa, compravo l’Unità; un giorno, è naturale, mi ritrovai in mano il Giornale. Proprio quel giorno invece di farmi un giro in Cittadella, alla fine delle lezioni, invece di andare a sfogliare per l’ennesima volta i 33giri in offerta al Discoclub, me ne rimasi lì sulla panchina di granito del binario 5. Il destino, che è uno stronzo, volle che proprio quel giorno mi trovasse col Giornale in mano un mio amico del paese, in una fase della vita in cui lui era un ragazzino timido, e io un po’ meno, e mi chiese: che giornale leggi? Mah niente dissi, sai, ogni giorno cerco di comprarne uno diverso…

“Questo proprio non l’ho mai visto”.

“Ma sì, è un giornale di Milano, uno spinoff del Corriere”, questo di sicuro non lo dissi, non sapevo cosa volesse dire spinoff. Conoscevo a grandi linee le circostanze della scissione, e soprattutto conoscevo Montanelli sin da bambino, perché il Giornalino pubblicava a puntate la Storia dei Romani e dei Greci e di certe nozioni non credo di essermi mai liberato. Una parte del paesaggio, appunto. Ma se era il 1990 facevo il terzo anno, forse il quarto? Ormai lo avevo capito che reazionario fosse Montanelli, ci litigavo già volentieri. Ci avrei messo comunque anni a capire che uno a volte le cose le legge proprio per incazzarsi, e che il successo di alcuni giornalisti e scrittori dipende dalla felicità con cui assolvono precisamente a questa funzione. Ma in quel momento per me era vitale che il mio amico capisse che quel che leggevo non lo condividevo, insomma, m’avesse beccato con Corna Vissute mi sarei sentito un po’ meno in imbarazzo.

“Quando hai finito me lo presti?”

Anche questa cosa non me la disse esattamente così – come si diceva a quei tempi passami-i-fogli-di-giornale-che-hai-già-letto? Perché è una cosa che si faceva. Comunque glielo passai tutto, che altro potevo fare? A quel tempo m’inteneriva. Al suo liceo era l’unico del paese, al paese era rimasto un po’ fuori dai giri, lo vedevo aggirarsi per il binario 5, troppo piccolo per provarci con le ragazze; aveva un modo di fare che titillava il mio senso di responsabilità. È esattamente questo il problema. Mi sento responsabile per quel che è successo. Il che è assurdo, ma nondimeno vero. Gli feci conoscere il Giornale di Montanelli, e lui cominciò a leggerlo tutti i giorni. Poi Montanelli se ne andò, ma la corriera ormai era partita. Tempo quattro anni e lo ritrovai berlusconiano duro. Nel frattempo era diventato anche più alto di me di una buona spanna, e un pilastro della comunità, una fidanzata carina e tutto quanto. Tutto questo succedeva in giorni lontani di un secolo scorso, ma non c’è una volta che non si riparli di Montanelli e in generale del Giornale che io non ripensi a lui, e non mi chieda se non è stata tutta colpa mia, e come sarebbe andata se quel giorno in stazione invece del Giornale mi avesse trovato con in mano il Manifesto.

Ecco un buon motivo, non ne avessi altri, per odiare Montanelli. E invece no, per qualche oscuro motivo lo sento mio complice. Non abbiamo vigilato, non siamo stati attenti; certi mostri sapevamo che avrebbero bussato a certe porte che dovevamo custodire sprangate e invece abbiamo lasciato una fessura, per curiosità. E per voglia di litigare. Sicuri che dal litigio saremo emersi trionfatori. Della sposa abissina ne sentii parlare soltanto qualche anno dopo, ai tempi in cui fondò la Voce e diventò un astro dell’antiberlusconismo nascente. Non riesco a credere che si sia trattata di una coincidenza. Montanelli aveva rotto coi colleghi di destra, i colleghi di destra erano iene da archivio: pescarono la cosa che avrebbe reso Montanelli più inviso al suo nuovo pubblico di sinistra. Prendetelo come sospetto di uno che si sta rincoglionendo; ma fino a un certo punto, se qualcuno tirava fuori Montanelli, qualcun altro rispondeva sì, vabbe’, Montanelli rappresenta un determinato milieu ecc. ecc. Da un certo punto in poi, la prima reazione diventò: Montanelli? Lo stupratore di una bambina abissina? In tutto questo riconosco lo stile della destra berlusconiana italiana, dei vari macchinisti del fango a cui mai nessuno scolpirà un monumento che pure mi piacerebbe personalmente profanare.

Ecco, così alla fine sono riuscito lo stesso a spiegare cosa penso di Montanelli, e la ragione del mio fastidio per il dibattito di questi giorni – che non è il fastidio per un monumento imbrattato, peraltro con un rosa gentile e lavabile – ma l’imbrattamento arriva dopo vent’anni in cui un personaggio veramente molto interessante, e criticabile, e criticato, si è progressivamente ridotto a uno stupratore di bambina. E il fastidio per non riuscire a spiegare questa cosa senza passare per uno che minimizza l’episodio. È chiaro che l’episodio è grave, anche una volta inserito in un contesto (la guerra di Etiopia) da cui Montanelli non ha mai voluto davvero prendere le distanze, come dal primo amore; dal fascismo sì, dal conservatorismo liberale del dopoguerra sì, da Berlusconi quasi subito; ma dal mito degli italiani buona gente che liberano i barbari abissini da sé stessi, mai. Oggi però l’epiteto “pedofilo” chiude ogni discussione, e invece la discussione è interessante; significa “mostro”, e Montanelli tutto era meno che un mostro che si aggirava per l’acrocoro etiopico a caccia di bambine. Era un ufficiale italiano impegnato in una guerra coloniale, che recepiva direttive dei superiori: il consiglio di trovarsi una “madam”, una sposa a tempo gli venne da un superiore che in questo modo sperava di prevenire i rapporti con le prostitute. Tutto questo più che sotto il capitolo “Pedofilia” non sarebbe il caso di inserirlo in quello, altrettanto interessante, “Crimini di guerra coloniale”? Ma tutto questo lo sappiamo anche grazie a Montanelli, che avrebbe avuto tutto il tempo e l’interesse per negare le circostanze e insabbiare le evidenze, e mai si è sognato di farlo; perché?

Probabilmente perché aveva voglia di litigare anche su questo, ed era abbastanza pieno di sé da immaginare che alla fine avrebbe vinto anche questo dibattito. “Pedofilo” oggi equivale a “tabù”, ma Montanelli tabù non ne ha mai avuti (o forse l’uso di armi chimiche in Etiopia). Da scrittore di libri di storia, sapeva come certe pagine di storia si scrivono, e che i posteri hanno sempre ragione; ma che proprio per questo è inutile blandirli. Ai posteri servono anche i mostri, e forse a Montanelli non dispiaceva diventarne uno. Il suo monumento, lui per primo l’ha imbrattato. C’è qualcosa di notevole in questo; non voglio dire ammirabile, ma insomma Indro Montanelli ai posteri continua a dire: vaffanculo, io sono così. Sono un uomo del mio tempo, che ha fatto alcune cose che voi trovate orribili e ai miei tempi erano normali. Non vi chiedo scusa, non capisco nemmeno a cosa vi servano le scuse di un vecchio o di un morto. E neanche voi, non dovete scusarmi: dovete giudicarmi. Nella Storia d’Italia a volumi a me forse spetta una mezza pagina: vedete voi cosa farci entrare e cosa no. Se alla fine ci sarà scritto “ha stuprato una bambina in Abissinia”, amen. Il punto non è se raccontarla così mi renda o non mi renda onore: io sono morto, chi se ne frega del mio onore. Il punto è: farà onore a voi?

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Renzi, la trattativa, il retroscena, la polpetta

“Questa è la storia di un governo mai nato, dell’altra strada che poteva prendere questa legislatura, dei protagonisti che hanno fatto nascere e morire, nel giro di una settimana, il governo Fico sostenuto da una maggioranza Cinque Stelle-Pd. È una storia di dominio (quasi) pubblico nei palazzi romani, ma che si tace appena si varca l’uscio e si cammina nel Paese reale, tra gli elettori e i militanti. Un po’ per il rimpianto di quel che avrebbe potuto essere la storia di questi ultimi dodici mesi, se non ci fosse stato il governo gialloverde. Un po’ perché nel frattempo il solco già enorme tra Pd e Cinque Stelle è diventato una voragine. Un po’ perché non tutti i protagonisti di questa vicenda l’hanno raccontata giusta, in quei giorni. Ecco perché questa è una storia senza nomi e cognomi, né virgolettati”.

Questo è un retroscena di Linkiesta e io non credo a una parola. Niente di personale, non credo mai a nessun retroscena, per principio. È un voto che ho fatto qualche anno fa ed è già impressionante il numero di puttanate da cui mi ha protetto. Per cui se prima potevo avere la vaga impressione che ci fosse stato, verso le idi del marzo scorso, una specie di abboccamento tra dirigenti del Pd e del M5S, ora ci credo già un po’ meno. I retroscena sono post-verità fabbricati a posteriori e l’ultima preoccupazione di chi li fabbrica è spiegare davvero cos’è successo ieri. Allora a cosa servono? A far succedere qualcos’altro domani.

Posso sbagliarmi, non sono un esperto, ma l’unico senso di questo retroscena è la campagna delle Primarie PD, che sta entrando nel vivo. Voi magari non ve ne eravate accorti, ma i  “protagonisti” che all’improvviso decidono di vuotare il sacco a un giornalista di Linkiesta probabilmente sì. Per una curiosa coincidenza, Renzi non è più il villain che mette i bastoni fra le ruote. Scopriamo oggi che almeno in un primo momento sarebbe stato tentato dal miraggio di approdare alla Farnesina in un eventuale governo Fico: girare il mondo, parlare in inglese a tutti. È un depistaggio verosimile, come tutti i depistaggi professionali. Il punto in cui la verosimiglianza cede è probabilmente quello che sta a cuore del depistatore, ovvero il cancelletto. In un momento tanto critico, Renzi avrebbe avuto paura del giudizio dei suoi stessi sostenitori più fedeli, che alle prime avvisaglie di un accordo col M5S avevano già messo in giro l’hashtag #SenzaDiMe. Insomma, Renzi che si fa dettare la linea da un cancelletto. La beviamo?

Che Renzi sembri in difficoltà, dal quattro dicembre e anche prima, è pacifico. Ma non al punto da confondere una cassa di risonanza, come Twitter, con un luogo reale di elaborazione e condivisione politica. Renzi non ha mai aspettato un cancelletto per prendere decisioni, anche e soprattutto quando erano decisioni che potevano disorientare la sua stessa base (ad esempio la scelta di succedere a Letta a Palazzo Chigi). I cancelletti arrivano dopo: li spingono i suoi sostenitori e riflettono il suo pensiero. E quando un pensiero non c’è, di sicuro non lo producono loro. Mi sembra impossibile che i renziani si siano messi a cinguettare #SenzaDiMe senza che Renzi gliel’abbia chiesto. Ma è esattamente quello che vuole dirci la talpa che ha raccontato questa storiella a Linkiesta: il renzismo come un mostro di Frankenstein che a un certo punto prende il controllo sul suo creatore; un Mr Hyde che a un certo punto lo soggioga e gli impedisce di prendere le decisioni più razionali.

Questo non è un retroscena contro Renzi, ma contro i renziani. Più nello specifico: mi sembra una polpetta sotterranea contro la mozione Giachetti. Io ovviamente non nutro per il personaggio nessuna simpatia; lo trovo anche un po’ inquietante, mi sembra il tizio che viene sempre mandato avanti quando c’è da perdere una battaglia, e Renzi ha questa cosa che per tutta una serie di motivi di battaglie ha deciso di perderne parecchie. Invece chi detta questa roba a Linkiesta sembra quasi aver paura che vinca: ecco, questo è piuttosto strano.

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