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Ranieri e la sindrome di Gerusalemme

17 giugno: San Ranieri di Pisa (1118-1160), un altro che a Gerusalemme ha perso un po’ la testa.

Cecco di Pietro

Gerusalemme è una città che fa impazzire la gente. Non è solo un modo di dire. Esiste una vera e propria sindrome attestata nella letteratura psichiatrica a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Colpisce i turisti, che nella stragrande maggioranza sono turisti religiosi (e forse sono predisposti a sperimentare un’esperienza perturbante). Nella forma più lieve si manifesta come un pensiero ossessivo nei confronti della città e della storia che rappresenta; in casi più gravi subentra il complesso del Messia, ovvero il turista si sente chiamato da Dio a una missione che può comportare atti vandalici (nel 1969 un australiano decise lì per lì di dare fuoco alla Moschea di Al Aqsa). C’è da dire che dopo una recrudescenza avvertita intorno al 2000, negli ultimi anni il fenomeno è stato relativamente ridimensionato, forse perché (ipotesi mia) è difficile sembrare pazzi arrivando in una città che sta già impazzendo di suo. Il cento di salute mentale Kfar Shaul  ha contato qualcosa come 1200 casi in un lasso di tredici anni (1980-1993), con 470 ricoveri (per lo più brevi). Considerato che nello stesso periodo Gerusalemme veniva visitata da più di tre milioni di turisti l’anno, si potrebbe anche concludere che la sindrome esiste solo perché ci aspettiamo che esista, come i miracoli a Lourdes: se metti tanti credenti nello stesso luogo, è statistico che qualcuno prima o poi in quel luogo cominci a vedere cose o a gridarne altre. In tutte le città qualcuno all’improvviso può mettersi a balbettare profezie, vestirsi di tuniche e proclamarsi il Messia, ma a Gerusalemme ci fanno più caso che altrove, anche se di solito una degenza di una settimana è sufficiente a risolvere il problema. Episodi del genere sono stati registrati in altre epoche: di uno avete senz’altro già sentito parlare (se ci riflettete). Altri sono stati descritti da un domenicano svizzero del XV secolo, Felix Fabri. E poi c’è il caso di San Ranieri Scacceri di Pisa.

A guardarla da lontano, l’agiografia di Ranieri sembra una bozza preparatoria di quella di Francesco d’Assisi: nasce 70 anni prima, fa impazzire i genitori con i suoi modi da ragazzaccio dissoluto (gli piace ballare e suonare la lira), tenta comunque di mettersi sulle orme del padre mercante, ma proprio a quel punto sente il richiamo della povertà, compie un viaggio in Terrasanta, si libera di tutti i suoi beni e diventa asceta e predicatore, venerato già in vita per i miracoli. Se il pauperismo di Francesco è l’espressione del disagio che cresce nel tessuto urbano proprio nei decenni in cui la civiltà comunale conosce un vero e proprio boom economico, non è così strano che nella repubblica marinara toscana sia comparso un simil-Francesco molto prima che in Umbria. 

Avvicinandoci un po’, cominciamo a notare le differenze: Ranieri viene convertito da un eremita di origina corsa, Alberto Leccapecora; non va in Terrasanta a convertire il sultano (nel 1135 Gerusalemme è ancora controllata dai Crociati), ma in viaggio di lavoro, con alcuni soci di una compagnia commerciale. Quando arriva però capisce che la povertà è la sua vocazione. Ma non si veste di bianco o di sacco, non si proclama il Messia: si limita a liquidare ai soci la sua quota nella compagnia e a smettere di mangiare cinque giorni alla settimana. In Terrasanta rimane per 13 anni, prima di tornare a Pisa dove si sarebbe stabilito con alcuni seguaci nel monastero urbano di San Vito, compiendo vari miracoli e benedicendo regolarmente l’acqua che gli portavano (da cui il soprannome di Ranieri dell’acqua). A San Vito sarebbe morto nel 1160. 

Negli anni successivi il suo culto sarebbe stato promosso soprattutto dal vescovo Benincasa, che era stato suo discepolo negli ultimi anni a San Vito, e che modificò pesantemente un’agiografia già esistente, trasformando Ranieri in uno straordinario esorcista. Benincasa era esponente della fazione ghibellina in rotta con il papa Alessandro III, e cercava nel culto del suo antico maestro una fonte di legittimità. Quando fu deposto, Ranieri perse ogni speranza di essere canonizzato ufficialmente da Alessandro, e anche in seguito non c’è mai stata una vera causa di beatificazione. In compenso a Pisa è considerato il santo patrono.

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L’ingegnosità del massacro

Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a fatti come questo: non solo che per liberare quattro ostaggi si siano uccise più di duecento persone, ma che un episodio del genere sia presentato come un successo. Un’ecatombe, in cui forse hanno trovato la morte altri ostaggi, Netanyahu deve vendercela come la dimostrazione che la sua strategia sta funzionando; e noi compriamo. Basta accendere la tv per scoprire che il rapporto tra duecento civili palestinesi e quattro ostaggi israeliani è perfettamente ok. Sono cresciuto negli ultimi decenni del secolo scorso, di guerre ne ho viste parecchie, per fortuna quasi tutte su un video. Un cinismo del genere, un disprezzo così esibito per le vite dei “nemici”, non me lo ricordo nemmeno nei giorni più oscuri della Guerra al Terrore. È un fatto nuovo, forse un’avvisaglia dei nuovi tempi che incombono, delle prossime guerre e delle prossime migrazioni e del razzismo che provocheranno, che stanno già provocando. Evidentemente non possiamo più permetterci di provare pietà per tutti; senz’altro non possiamo più provare pietà per i palestinesi. Così Netanyahu ci chiede di essere felici perché senza cedere a nessun compromesso è riuscito a liberarne quattro, e noi festeggiamo. Qualche mese fa era bastato un accordo temporaneo con Hamas per portarne a casa un centinaio, ma questo è meglio dimenticarselo. 

Da quel che ci è dato sapere, il commando che ha provato a liberare gli ostaggi israeliani è partito dal molo che gli USA avevano costruito per motivi umanitari, (la consegna di aiuti umanitari via nave, che ha funzionato poco e male). Lo stesso commando si sarebbe nascosto in un convoglio umanitario. Tutto questo, ci spiegano i commentatori israeliani, dimostra l’abilità dell’esercito israeliano, la sua irrefrenabile inventiva. Lo stesso Netanyahu in conferenza stampa ha lodato “l’ingegnosità e l’audacia” di Israele, e questo è persino buffo, dopo anni e anni in cui Netanyahu e colleghi non smettevano di lamentarsi del fatto che i combattenti palestinesi si mimetizzavano… tra i convogli umanitari e le strutture sanitarie. Questo non dovrebbe più stupirci: ormai abbiamo capito che la moralità di ogni azione dipende semplicemente dal sionismo di chi la compie. L’IDF è l’esercito più morale del mondo, quindi se camuffa un commando in un furgone umanitario, questa è “audacia”; se lo fanno i palestinesi è detestabile, slealissimo terrorismo. 

I quattro ostaggi, per ora, non hanno accennato a torture e molestie, e questo è in linea con quanto abbiamo appurato fin qui: non c’è una sola vittima delle torture e delle molestie dei miliziani palestinesi che sia sopravvissuta per parlarne in prima persona. Viceversa abbiamo testimonianze di palestinesi scarcerati dal campo di prigionia di Sde Teiman che affermano di essere stati sodomizzati. con bastoni e altri strumenti. 

Non so più dove ho letto che ogni accusa di un sionista è una confessione. Per mesi, mentre il conteggio delle vittime civili aumentava paurosamente, e le demolizioni rendevano chiara al mondo l’idea di un’operazione di pulizia etnica, hanno scelto di difendersi accusando i miliziani palestinesi di “stupro di massa”. Non hanno mai trovato le prove, ma intanto includevano lo stupro tra le pratiche con cui interrogano i prigionieri. Per anni hanno accusato i palestinesi di usare scuole, ospedali e strutture assistenziali dell’UNRWA come basi militari: anche qui, non sono mai riusciti a dimostrarlo, mentre invece abbiamo numerose testimonianze che ci dicono che il commando che ha liberato gli ultimi ostaggi era nascosto in un convoglio umanitario. Per mesi hanno abusato della nostra pazienza lamentandosi perché qualche studente cantava “From the river to the sea”, con evidente proposito genocida: e intanto sbandierano allegramente mappe e canzoni che prevedono l’annessione di tutti i Territori. Quando dico che a Gaza è in gioco la nostra umanità, mi riferisco a quell’enorme trappola in cui è caduta l’ideologia sionista: giustificare ogni errore, ogni crimine, postulando che il nemico prima o poi ne abbia fatto uno peggiore. Bastano pochi anni, lo abbiamo visto, per convincere la maggioranza di un popolo che qualsiasi nefandezza è giustificata, anzi necessaria. Abbiamo visto Israele cadere in questa trappola: che sia almeno monito per chi le sta intorno.   

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Sono sicuro che avete già condannato l’aggressione

Non posso davvero definirmi un estimatore di Gabriele “Chef Rubio” Rubini: in particolare ho sempre trovato il suo attivismo filopalestinese caricaturale e autolesionista. Detto questo, nessuno merita di essere pestato a sangue per le proprie idee; tutte le aggressioni si condannano, sempre. 

Non ho nessuna prova per sostenere che i picchiatori fossero filosionisti – come quelli un po’ inquietanti che abbiamo visto sfilare e lanciare bombe carta a Roma il 25 aprile, infamando la memoria e la bandiera dietro la quale si nascondevano – sono sicuro comunque che le comunità ebraiche abbiano già preso pubblicamente le distanze da un fatto così grave, dando così anche un messaggio importante a certi fiancheggiatori, anche loro più dannosi che utili alla causa che sostengono di difendere. Questo è almeno quello che farebbe qualsiasi persona intelligente, in una situazione del genere, e quindi non vedo l’ora di pubblicare qui sopra queste prese di distanza, queste ferme condanne. Appena le trovo. Ma ripeto, sono sicuro che ci sono. 

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Nel frattempo un educatore algerino che da dieci anni lavorava in un liceo privato a Roma ha ricevuto una visita dalla Digos che ne ha perquisito l’abitazione e lo ha rinchiuso presso il terribile CPR di Ponte Galeria (a proposito del quale consiglio a tutti l’ottimo reportage di Chiara Proietti d’Ambra per la trasmissione 100 minuti). Sembra di capire che verrà rimpatriato in Algeria, per quale motivo? Perché ha inneggiato a Hamas in una chat privata. Il che evidentemente viola una legge dello Stato italiano, anche se non si capisce bene chi l’abbia scritta. Forse nessuno, ma nei fatti funziona. In questi mesi ho visto sulle piattaforme che frequento gli sfoghi più diversi, compreso diverse esortazioni al genocidio, fatte da brave persone oneste e diciamolo, bianche, che nessun agente Digos andrà a perquisire, e che nessuno porterà in un recinto dove vengono sospesi i diritti umani e civili. Io nel mio piccolo, se provo a pubblicare su Fb un report sul genocidio a Gaza, steso da fior di giuristi, vengo un po’ penalizzato perché a quanto pare sto divulgando “Contenuti forti e violenti”. Ci resto un po’ male, ma poi penso che domani continuerò a svegliarmi nel mio letto, e che nessuno per ora mi aspetta fuori casa per sprangarmi, né devo temere bombardamenti, insomma sono talmente fortunato che dovrei vergognarmene.

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La stella a sei punte, e chi la fischia

Quel minimo non dico di saggezza, ma di astuzia che avrei dovuto metter da parte in tanti anni che scrivo in pubblico, mi suggerisce di aspettare che sia la sera di questo 25 per scrivere qualcosa; perché anche se tira un’aria tremenda, come non si sentiva da vent’anni, può persino darsi che non succeda niente. O se lungo un corteo succede qualcosa, e qualcuno in strada ci rimane, dipenderà molto da che bandiera portava. Qualcuno qui si ricorderà di Genova, e di quanto sarebbero state diverse le cose se invece di cadere il ragazzo fosse caduto il poliziotto. Dunque sarebbe meglio aspettare, che non c’è nessuna fretta alla fine. Sì.

2015

Scrivo comunque qualcosa. Che al 25 aprile molti vadano per litigare è cosa nota, più o meno dallo spaventoso diluvio del 1994 (prima una festa antifascista non dava così fastidio, o forse un certo fastidio sentiva da solo la necessità di contenersi). Col tempo è inevitabile che anche un certo tipo di provocazione diventi parte della celebrazione: ad esempio almeno a Milano i fischi alle bandiere della Brigata Ebraica sono ormai parte della liturgia. Mi sembra di avere già annoiato qualche lettore sull’argomento: la Brigata Ebraica non fu propriamente un gruppo partigiano, ma un’unità delle forze armate britanniche che combatté in Italia nel 1944/1945, composta da circa 5000 volontari dell’Organizzazione Sionista Mondiale, perlopiù provenienti dalla Palestina Mandataria. Non tantissimi, ma molte bande partigiane erano anche più piccole. Che senso ha fischiarli? In Italia in quegli anni combatterono indiani e brasiliani e non credo che nessuno fischierebbe una bandiera indiana o brasiliana; ma non credo nemmeno che nessuno senta la necessità di sventolarla. Chi porta in corteo quella bandiera (molto simile a quella di Israele, al punto che è inevitabile confonderla), vuole ribadire il concetto che il sionismo è una forza antifascista, e collaborò alla liberazione dal nazifascismo. Il che è legittimo. Chi fischia quelle bandiere sta obiettando al concetto: il che è sempre stato altrettanto legittimo, vista la situazione dei Territori Occupati; e lo è molto di più quest’anno, dopo la tragedia di Gaza. 

Tutto questo è ormai da anni un gioco delle parti: chi viene con la bandiera della Brigata (o con la bandiera di Israele) si aspetta di essere fischiato, e ci tiene che i fischi vengano il più possibile amplificati in tv, e forse è questo è un po’ più grave dei fischi: il modo in cui un’esperienza nobile come quella dei volontari sionisti contro il nazifascismo viene annualmente strumentalizzata da un po’ di gente che vuole semplicemente litigare il 25 aprile; questo perenne impugnare Israele e il sionismo come un pretesto per polemiche che con Israele c’entrano poco o niente, e che finirebbero per danneggiarne la reputazione, se Netanyahu gliene avesse lasciata una. Alcuni sono radicali e vabbe’, coi provocatori professionali è inutile discutere. Alcuni saranno ebrei e posso capire che la presenza sempre più massiccia di bandiere palestinesi li sgomenti. Ma questa è la situazione: ottant’anni fa il sionismo era un movimento che combatteva attivamente contro l’occupazione nazista, oggi è l’ideologia che ha trascinato Israele nella catastrofe morale di Gaza. 

In questi giorni chi non perde tempo a leggere i giornali italiani ha saputo che tutte ormai tutte le grandi nazioni europee (l’Italia no) hanno riaperto i finanziamenti all’UNRWA, visto che Israele non riesce in nessun modo a provare che si tratti di un’organizzazione terroristica; nel frattempo le stragi di civili proseguono, e l’IDF apre le fosse comuni alla ricerca dei cadaveri degli ostaggi che non ha mai dato l’impressione di rivolere vivi. Chi sventola una stella di David, oggi, volente o nolente, sta mettendo sotto il naso alla gente il simbolo di questo sionismo; non quello che diede il suo contributo contro la lotta nazifascista. I simboli non sono neutrali, una bandiera italiana nel 1848 non significava la stessa cosa che nel 1936 o nel 2024. Non è responsabilità di un comitato antisemita se oggi una bandiera israeliana, agli occhi di una discreta fetta della popolazione mondiale, rappresenta un governo e un esercito razzista e genocida. Una trappola è scattata, potremmo discutere a lungo su chi l’ha tesa a chi: ma è scattata, e oggi il sionismo è un’ideologia odiosa persino a diversi ebrei in tutto il mondo. E sarà così ancora per molto, per quanto tempo? Credo che dovremo attendere almeno una generazione: quella che oggi impugna le bandiere si è raccontata troppe bugie per poterle rinnegare. L’unica speranza è che non abbiano educato con troppa attenzione i loro figli.

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Israele uccide chi vuole, quando vuole, ovunque vuole; e dovremmo smetterla di farci domande

Sembra successo tutto in un giorno, che per qualche perverso motivo è stato il primo aprile 2024.

Fino a tutto il marzo di quest’anno potevamo ancora essere convinti che:

– I messaggeri fossero sacri. Lo sono da millenni; è un principio che nell’era contemporanea è stato formalizzato nella definizione di immunità diplomatica. Gli ambasciatori risiedono in sedi extraterritoriali che anche nelle fasi più cruente di una guerra o di un bombardamento non sono mai stati obiettivi militari. 

– I volontari delle ONG che portano aiuti nelle zone di guerra – col consenso delle forze belligeranti – fossero tutelati, prima ancora che da qualche codicillo internazionale, da un principio di buon senso e di umanità.

– I giornalisti avessero ogni diritto di documentare quello che avviene in un teatro di guerra. 

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Poi è arrivato il primo aprile, Netanyahu ha annunciato che Al Jazeera non avrà più diritto di operare in Israele (e nei territori che Israele evidentemente occupa, nel mentre che l’esercito israeliano bombardava una sede diplomatica iraniana a Damasco e prendeva di mira, uccidendoli, sette cooperatori internazionali a cui aveva dato il permesso di circolare nella Striscia di Gaza. E all’esercito di questa nazione che prende di mira i giornalisti, prende di mira i cooperatori internazionali, prende di mira i diplomatici, e non lo nega, anzi ormai lo rivendica come suo specifico diritto, l’amministrazione Biden venderà qualche altro jet di guerra di ultima generazione; armi forse un po’ esagerate finché l’obiettivo è desertificare la Striscia; ma la speranza ormai evidente è che scoppi presto una guerra diretta con l’Iran; del resto se bombardi un’ambasciata non è che serva un esperto decifratore di messaggi. E se sembra un po’ esagerato aggiungere che domani potrebbe accadere a voi, a me, a noi, a chiunque muova un dito a favore di qualcuno che Israele considera suo nemico, mettiamola semplicemente così: è già successo. L’IDF ha ucciso Saifeddin Issam Ayad Abutaha, ha ucciso Zomi Frankcom; ha ucciso Damian Sobol, Jacob Flickinger, John Chapman, Jim Henderson e James Kirby. Ha ucciso Rachel Corrie e centinaia di giornalisti: lo ha evidentemente fatto per avvertire noi e chiunque altro voglia mettere il naso nel massacro dei palestinesi, e questo avvertimento noi lo abbiamo ricevuto forte e chiaro; altrettanto forte e chiaro sentiamo la necessità di ritrasmetterlo, non per un sussulto di coraggio ma perché magari qualcuno intorno a noi non si è ancora reso conto, non si è ancora spaventato abbastanza. 

Tutto questo somiglia sempre più all’inizio di una fine. La fine di un certo diritto internazionale, come ci eravamo illusi che funzionasse perlomeno da Yalta in poi; un ordine internazionale basato sull’idea, forse illusoria, forse consolatoria – che le guerre fossero uno stato di eccezione, e che la pace fosse l’equilibrio a cui le nazioni cercavano di tendere. Che tutto ciò dovesse infrangersi, di tutti i luoghi al mondo, proprio a pochi chilometri da Gerusalemme, è un’evidenza carica di una sinistra ironia.
E allo stesso tempo tutto questo non sembra avere un vero senso storico; tutto intorno l’umanità si evolve vorticosamente, le stagioni e i paesaggi cambiano, miliardi di persone nascono e diventano adulte in un mondo che di Gerusalemme si infischia e se ne infischierà sempre più. Persino quello tra Nato e Ucraina, dal punto di vista di cinesi e indiani, è un conflitto poco più che regionale, tra vecchie superpotenze rancorose; chissà cosa ne pensano di quel vecchio contenzioso su una piccola città del Medio Oriente che si trascina ormai da duemila anni. 
Non è vero che stiamo impazzendo tutti per Gerusalemme: in primis sta succedendo agli americani, e non da ieri. Può darsi che Israele alla fine non sia che una concrezione esotica dei loro sogni, delle loro aspirazioni bibliche e messianiche; la conseguenza estrema di un certo modo di concepire la politica come prosecuzione della guerra tra comunità organizzate in gruppi di pressione. Tutto questo che a tanti anche in Europa sembrava un modello, da Tocqueville in poi (ma anche Tocqueville forse andava letto con più attenzione) a un certo punto ha prodotto Bush, ha prodotto Fox News, ha prodotto l’ultrasionismo contemporaneo, ha prodotto Trump. Può persino darsi che abbia prodotto la stessa guerra in Ucraina, che una diplomazia più saggia avrebbe potuto evitare? Non lo so. Quel che so è che è ingiusto prendersela con gli israeliani per quello che fanno, e che possono fare semplicemente perché qualcuno lo consente a loro e soltanto a loro: chi altro potrebbe sognare di prendere di mira ambasciate, volontari e giornalisti, e farla franca. Va a finire che davvero il vecchio Bob ci aveva azzeccato, con quella canzone neanche troppo ispirata: Israele è solo il bullo del quartiere. Dietro a ogni bullo – Bob questo non ce lo diceva – c’è un boss che lascia fare, finché un giorno forse si stancherà, o non si troverà invischiato in guai ben più grandi. Quel giorno, ammesso arrivi, non è stato lo scorso primo aprile.

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Tajani e il bambino nel forno

Stavo appunto riflettendo, senza molto costrutto, sul disastro di Gaza e a cosa posso paragonarlo, per cercare di spiegarlo a me stesso e agli altri; e a come, guardando i volti rapiti dei volontari israeliani che sembrano divertirsi un mondo mentre trasformano una città in un cumulo di macerie che nessuno forse avrà più la capacità di smaltire, mi sia affiorata alle labbra la parola: Pogrom. Un improvviso sussulto di violenza, nei confronti di una minoranza percepita come ostile; dove la diffidenza secolare improvvisamente viene portata a combustione: e la scintilla è molto spesso la propaganda. 

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Volantini che additano i nemici dello Zar o della Rivoluzione; leggende nere su bambini scomparsi, dati per sgozzati a scopo alimentare; uno potrebbe anche osservare che non c’era bisogno di raccontare cose del genere per sobillare gli israeliani contro Hamas; eppure le leggende sono state raccontate lo stesso, e qualche effetto lo hanno sortito. Stavo riflettendo su questo, e su quanto bisognerà insistere, in futuro, sulla nuvola di disinformazione che si abbatté su di noi nell’autunno 2023: storie incredibili e francamente poco plausibili, spacciate per vere da testate prestigiose e persone esperte e intelligenti. Ora che ormai nessuno le riprende, bisognerà ricordare che per settimane e mesi sono state ripetute con foga sempre maggiore, e hanno offerto a chi era sul campo una scusa e un’ispirazione per commettere crimini di guerra.

Sarà complicato dover riferire di leggende come quella del bambino cotto dai miliziani nel forno a micro-onde, pregando gli interlocutori di credere che è successo davvero – non che un bambino sia stato cotto dai miliziani, ma che fior di giornalisti opinionisti e ufficiali dell’esercito ci abbia voluto credere; e mentre penso a queste cose nell’altra stanza è rimasta accesa una tv, e sento il ministro Tajani spiegare a Bruno Vespa che i miliziani di Hamas hanno cotto un bambino nel forno. “Avrà visto le immagini”. Non sento Vespa rispondere, ma lo immagino annuire. Eppure le immagini non le ha viste nessuno. Non ci sono. È una storia messa in giro dai primi soccorritori, che però non hanno mai fornito prove.

Ora, questo è curioso. Continuo a imbattermi in persone che sostengono di avere “visto le immagini”. Su twitter più o meno un mese fa, una tizia aveva visto un miliziano estrarre il feto da una vittima sbudellata, benché l’episodio fosse stato denunciato come falso mesi prima dalla stessa stampa israeliana. Hanno filmato gli stupri! dicono. Lo hanno fatto per vantarsi, e li hanno visti tutti. Viene il sospetto che qualcosa, tra sette e otto ottobre, sia stato veramente trasmesso. Immagini di repertorio, o fiction spacciata per vera a un pubblico sotto choc. Ma forse semplicemente basta saper usare le parole giuste, mentre in primo piano scorrono fotogrammi che la memoria ricombina a suo piacimento. 

Sia come sia, ormai è primavera. L’Onu ha chiesto un Cessate il Fuoco e per la prima volta gli USA si sono astenuti. Ma ancora per il nostro Ministro degli esteri, Hamas è l’organizzazione che mette i bambini nel forno. C’è un repertorio di vecchie leggende e nuove fake news che ha convinto soldati e civili della necessità di sconfiggere un nemico disumano, a ogni costo. Ora che il disastro si è compiuto, dovranno continuare a crederci, o smettere di credere in sé stessi.  La seconda opzione è più difficile e dolorosa; la prima comporta una fuga dalla realtà che non può portare molto lontano.

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Ma quale antisemitismo, vergognatevi

C’è qualcosa di osceno nel voler commentare un massacro mentre accade, in presa diretta, e questo la maggior parte delle sere mi fa desistere. Ma poi leggo che invece Molinari è andato in un’università, a spiegare le solite tre idee sciocche che frigge per i suoi committenti da venti e più anni, e ha scoperto che gli studenti non avevano così voglia di ascoltarle; anzi che lo avrebbero contestato. Ha quindi insistito per parlare comunque? per difendere in pubblico, rischiosamente, idee per cui qualcun altro sta morendo in questi giorni? No, anche perché le sue idee consistono alla fine in questo: che tocchi agli altri morire, in Ucraina e a Gaza e chissà dove domani. E quindi, dando prova di perfetta coerenza, Maurizio Molinari se l’è data a gambe, lamentandosi perché qualche decina di studenti lo contestava. In seguito abbiamo scoperto – sul giornale diretto da Molinari – che si tratta di una recrudescenza antisemita, perché Maurizio Molinari è ebreo, non lo sapevate? No, per esempio io non lo sapevo. E adesso che lo so, spero di scordarmelo alla svelta. 

Tutto questo ha passato il segno, molto tempo fa. È in corso un massacro, in un Paese a cui siamo legati da stretti rapporti diplomatici ed economici. Questo ci fa sentire in parte responsabili, se non conniventi. Se questo ci allarma, se questo ci spaventa, è semplicemente perché siamo umani. Quando qualche giornalista cerca di spiegarci che va tutto bene, che non è proprio un massacro, oppure ormai sì, è un massacro ma non c’erano alternative; quando qualche propagandista viene a spiegarci la versione dei massacratori, peraltro senza particolare abilità (non parliamo esattamente di penne di prima scelta) non abbiamo nemmeno più lo spirito di ridergli in faccia. Non per questo lo staremo ad ascoltare. Lo contesteremo, non certo per antisemitismo, ma anche solo per pietà di noi stessi e del propagandista in questione, della sua conclamata mediocrità; della povertà di spirito di chi ha pensato che fosse adatto per quell’ingrato mestiere. Dite che è ebreo? Rispondiamo che non è interessante; lo giudichiamo per le sue idee e le sue idee non sono interessanti. Dite che siamo antisemiti? Dovreste vergognarvi di impugnare una parola del genere, e di banalizzarne così tanto l’uso e il senso. 

Qualche giorno fa un accademico israeliano ha spiegato su Twitter, con chiarezza e semplicità, che secondo lui a Gaza è in atto un genocidio. Se ci fosse andato lui, alla Federico II, immagino che gli studenti lo avrebbero accolto, e discusso volentieri le sue opinioni. Non perché Lee Mordechai sia meno ebreo di Molinari, ma perché le sue opinioni sono basate su quello che è successo negli scorsi mesi e anni a Gaza e dintorni; laddove le tesi di Molinari sono gli spin sempre più inerziali di un think tank di Washington che da vent’anni provoca soltanto disastri. 

Nella Striscia sono morte già trentamila persone, di cui un terzo minori: altre moriranno di fame, per concreta responsabilità dell’esercito israeliano che occupa e bombarda il territorio. Questa per i palestinesi è una catastrofe umanitaria, e per gli israeliani una catastrofe morale da cui il Paese non si risolleverà per almeno una generazione. Almeno credo, ma di questi tempi tutto è possibile, compreso che funzioni l’operazione di maquillage messa in mano a gente come… Molinari. Ma per convincere la maggior parte degli italiani che un genocidio non c’è stato, o c’è stato ma era inevitabile, e portato a termine con la massima moralità, occorrerà un’opera di repressione e propaganda talmente capillare che onestamente non riesco a immaginarla.

Non basterà chiudere TikTok (che secondo il povero Molinari è una “tecnologia più avanzata di quella occidentale”: ora davvero, ma con tutti gli intellettuali ebrei informati e intelligenti, dove l’avete pescato questo qui). Anche tutte le piattaforme sociali occidentali, compreso questa piattaforma dove sto scrivendo, dovrebbero essere sottoposta a censura; così come tutti i quotidiani, beh lì in effetti siamo a buon punto. E poi ovviamente le scuole e le università. Tutto in nome di uno strisciante antisemitismo, nel mentre che al governo c’è ‘na tizia che portava le borse a Giorgio Difesadellarazza Almirante. Dovreste veramente comprare tutti quelli che hanno un prezzo e mettere a tacere gli altri, e forse cinguettando nel vostro cortile sociale vi siete convinti che la cosa sia fattibile. Io non credo sia cosa alla portata delle vostre tasche e soprattutto delle vostre capacità, ma se la guerra continua molte cose impensabili diventeranno pensabili. Nel frattempo io continuerò a spernacchiarvi, dalla mia posizione qualsiasi, vincendo la repulsione, finché potrò: dopodiché amen.

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Il nemico è un insetto

 

Forse non c’è mai stato un video tanto chiaro, nel mostrarci il punto di vista dei giganti: il nemico non è che uno sciame di insetti, che qualche astrusa convenzione internazionale impedisce di schiacciare una buona volta. Sono troppi e non si arrendono, ma anche se si arrendessero sarebbero comunque troppi: non si sa dove metterli e qualcuno da fuori pretende pure di nutrirli. Ma portare aiuti ormai è impossibile, nel fazzoletto di terra che gli abbiamo lasciato sono troppo affamati, instabili, pericolosi, qualcuno dei nostri avrà pure sparato, ma non c’era alternativa. E ora coraggio, fateci pure la morale: ci siamo abituati, a espiare per tutti. 

Come se non fossimo semplicemente i primi a porsi il problema, come se un giorno non toccherà a voi inquadrare i vostri poveri dall’alto, e schiantare qualche folgore per ridurne le sofferenze. Certo che capiterà anche voi, non temete. Anzi speratelo, perché se voi o i vostri figli non saranno dalla parte giusta di questa foto, allora saranno le formichine; per cui coraggio, da che parte state? A chi sceglierà la parte giusta forniremo tutti i particolari, scritture millenarie e un corso di Storia accelerato su tutte le occasioni che noi eroicamente abbiamo colto e che i palestinesi hanno volontariamente scelto di perdere; per gli stomaci forti e le coscienze deboli c’è poi una galleria di orrori veri e presunti che potete rinfacciare a chiunque provi ancora per gli insettini qualche incomprensibile simpatia. Noi non possiamo. Qualcuno deve pure stare in alto a giudicare i poveri e i loro peccati; e abbiamo preferito essere noi. 

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Il popolo più intelligente (che fine ha fatto)

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un determinista geografico – perlomeno nel senso che credo che la geografia determini il modo in cui stiamo al mondo. L’ho sempre pensata così, quindi all’inizio non era che un pregiudizio: ma in seguito non ho trovato che conferme. 

Ad esempio: c’era una volta, ma neanche tantissimo tempo fa, un popolo che per una lunga e complicata serie di problemi era stato costretto a spargersi per il mondo, e inevitabilmente a mescolarsi con gli altri popoli; pur conservando con una certa ostinazione i riti e le leggende di una cultura millenaria. Ebbene, è probabile che questo popolo nei secoli avesse sviluppato una caratteristica peculiare: un’intelligenza media… sopra la media. Possiamo dimostrarlo? No, ma abbiamo molti indizi: il grande numero di intellettuali di spicco, alcuni dei quali diedero letteralmente vita a intere branche della scienza e della filosofia; la quantità di personalità ascese ai livelli più alti della scena politica e finanziaria senza diritto di nascita, o anche banalmente il numero di premi Nobel conferiti. Non bastava nascere in seno a quel popolo per essere più intelligenti, ma in un qualche modo aiutava. Il perché non è chiaro, e ci dà anche un certo fastidio domandarcelo. Si ha sempre paura di fare un discorso razzista.

Wikipedia

Sarebbe senz’altro un discorso razzista, se considerassimo quel popolo una razza (i nazisti lo facevano); ma siccome nel frattempo abbiamo concluso che le razze non esistono, e in particolare non potrebbe esisterne una che si mescoli nei secoli con le altre che incontra sulla strada, l’ipotesi razziale è facilmente archiviata. Più difficile risulta scartare del tutto un’ipotesi genetico-evolutiva, ovvero una tendenza tipica di quella specifica cultura a premiare gli individui più intelligenti, quelli che imparavano a leggere e a calcolare con meno sforzo; magari erano considerati elementi importanti della comunità e stimolati a sposarsi tra loro e ad avere famiglie numerose; laddove in altre culture individui con le stesse predisposizioni venivano persino disincentivati a figliare, mediante l’istituzione di caste di intellettuali celibi (vedi il cattolicesimo). Un altro stimolo poteva venire dall’appartenere, ovunque nel mondo, a una minoranza quasi costantemente minacciata e angariata; il lavoro intellettuale poteva apparire ai membri di questa comunità una via di fuga dai ghetti fisici e virtuali. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e probabilmente è meglio così – a un dittatore distopico potrebbe venire in mente di istituire un ghetto anche solo per verificare l’ipotesi.

Va bene, direte voi, e il determinismo geografico cosa c’entra? Parliamo di uno dei popoli meno geograficamente determinati del mondo! Ecco, appunto. Erano mediamente più intelligenti, erano spesso perseguitati (forse anche per questo motivo), erano sparsi per tre e più continenti. A un certo punto qualcuno di loro ha pensato, e non sembrava una cattiva idea: ma se ce ne tornassimo tutti nello stesso posto? Non necessariamente quello da cui provenivano i nostri antenati duemila anni fa – oppure no, aspetta, tutto sommato la terra costa lì meno che altrove, andiamo proprio lì. Ecco. Che idea potente. Milioni di persone mediamente più intelligenti degli altri, concentrate nello stesso piccolo spicchio di terra. Cosa avrebbero potuto fare, cosa avrebbero potuto diventare? Una civiltà da fare impallidire l’Atene di Pericle; ebbene, dopo qualche generazione oso dire di no. 

Sarò persino più brutale. Sono andati a vivere nel deserto, sono già diventati predoni. La geografia è un destino. Lo dico senza la minima soddisfazione, perché se invece fossero riusciti a farlo fiorire davvero, quel deserto, sarebbe stata una buona notizia per tutti. Ma per farlo fiorire serve banalmente l’acqua; per avere l’acqua bisogna prenderla ai palestinesi, e il resto della storia lo sapete. Dopodiché certo, Israele continua a essere un Paese culturalmente rilevante, con università importanti e intellettuali di spicco. Sarebbe anche il minimo, coi soldi che arrivano dagli USA ogni anno. Ma se andiamo a vedere un po’ più da vicino, ecco, nelle università gli studenti prendono a sassate i professori dissidenti. I grandi intellettuali hanno una certa età, i più giovani sembrano meno interessanti e più faziosi: esattamente come in Italia, ma perché avrebbe dovuto finire come in Italia?

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C’erano tutte le premesse perché Israele diventasse un faro per l’occidente e il mondo; appunto, c’erano tutte le premesse tranne la geografia: si vede che la geografia è l’unica condizione necessaria. Prendi il popolo più intelligente del mondo, schiaffalo su una strisciolina di terra con poche risorse, in mezzo ad altri popoli ostili, e guarda quanto ci mette a sviluppare un nazionalismo fanatico, e a devolversi anima e corpo a un militarismo spietato. La più giovane delle nazioni occidentali a costituirsi tale è anche il più grande argomento contro il concetto di nazione. E noi che una volta ci misuravamo con scrittori e intellettuali di straordinario acume, ci ritroviamo a leggere il fondo di una tale Dina Porat, “consulente accademica del centro Vad Yashem e professoressa emerita dell’università di Tel Aviv”. 

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Parliamo di un temino sconfortante, che in futuro magari sarà usato come pietra di paragone per stabilire la degenerazione dell’intelligenza media nel Ventunesimo secolo, probabilmente a causa della concentrazione di polveri sottili. Attenzione, non sto dicendo che la professoressa sia stupida – mai mi permetterei, non la conosco – ma è decisamente stupido il discorso che sceglie di fare: tarato per lettori incapaci di discorsi complessi, che poi saremmo noi che lo leggiamo. La professoressa ci spiega per prima cosa che la mentalità israeliana è per sua natura occidentale. A riprova di ciò cita… niente, assolutamente niente, l’occidentalità degli israeliani è autoevidente, eventuali prove ci affaticherebbero. Il fatto che gli israeliani stiano combattendo una lotta tribale contro altre fazioni tribali, a dispetto di ogni logica strategica ed economica, non deve distrarci. Se anche si stanno facendo terra bruciata intorno, lo fanno con una mentalità occidentale che “pensa seguendo linee logiche, calcola le proprie mosse in base al profitto e mira al benessere di cittadini e nazioni”, capito? Noi occidentali siamo così, il romanticismo lo avrà elaborato qualche altra cultura. “La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti…” No, aspetta.

Chiedo al lettore, se è arrivato fin qui, un piccolo sforzo. Chiuda gli occhi. Pensi a Lutero. Ad Agostino di Ippona. A Paolo di Tarso. E poi rilegga.

La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti.

Per scrivere qualcosa del genere (e per pubblicarlo sul quotidiano che un tempo era Repubblica), bisogna essere o molto in buona fede, o molto in malafede. Non sta a me determinarlo, ma o la professoressa Porat ignora completamente il pensiero cristiano – il che denoterebbe un tragico abbassamento degli standard qualitativi delle istituzioni accademiche che rappresenta – oppure pensa che ce la beviamo, in fondo figurati se li studiamo davvero, quei Luteri e quegli Agostini.

https://platform.twitter.com/widgets.jsCi sta blandendo, proprio come un accorto mercante beduino blandisce il cliente frescone. Ed eccoci davanti al paradosso del bugiardo: se la prof.sa Porat ci sta prendendo in giro, non è “fondamentalmente onesta”, e quindi non è così occidentale come vorrebbe sembrare, anzi starebbe facendo prova di astuzia levantina… oppure no, è perfettamente occidentale, tranne che la cultura occidentale non è così logica e consequenziale come lei sostiene che sia: magari mira davvero al “benessere di cittadini e nazioni”, ma nel farlo non si preoccupa di dire bugie e causare il malessere di altri cittadini, altre nazioni. Non saprei. Mi sembra tutto così avvilente. Forse la Fallaci era scesa così in basso, ma era anziana, era malata ed era il Corriere, ventidue anni fa. Da tanti errori dovremmo avere capito qualcosa e invece no, siamo ancora allo stereotipo dell’occidentale onesto che non capisce il beduino astuto e malvagio. Tranne che anche questa propaganda di basso livello intellettuale cosa ormai l’abbiamo delocalizzata, la facciamo scrivere direttamente ai beduini.  

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Quando i leader e gli opinion maker israeliani e occidentali pensano all’Islam e ai musulmani lo fanno sulla base del proprio modo di pensare e delle proprie convinzioni, e non su una profonda e attenta conoscenza della mentalità e delle convinzioni dei musulmani. Credono ciò che vorrebbero fosse vero. Questo è il motivo per cui di fronte ai fatti del sette ottobre Israele si è trovata impreparata…

Ah, ecco, questo è il motivo. Pensi che ingenui, professoressa; noi credevamo che il governo israeliano si fosse trovato impreparato perché incompetente, assorbito dalle beghe interne, e non del tutto ostile all’eventualità che qualche miliziano producesse un casus belli prima delle elezioni USA del 2024. Mentre invece ora è tutto chiaro: non se l’aspettavano perché erano occidentali, cioè un po’ cristiani, cioè un po’ ingenui, incapaci di concepire la malvagità del nemico. Inoltre la terza guerra mondiale è in pratica già scoppiata, perché Hamas è un emissario dell’Iran, che “ha stretto un’alleanza con Russia e Cina. I tre Paesi sono ferventemente anti-americani e anti-occidentali, e quindi ostili ad Israele e agli ebrei”. Quante volte ci è capitato di dircelo in questi anni: chi aspetta i barbari, molto spesso non sa di esserlo. La professoressa è convinta di fare un discorso “occidentale”: razionale, cartesiano, utilitaristico. Laddove sotto una paginetta del genere l’Occidente è morto, o quantomeno riavvolto fino al secolo XI: qualcuno dal balcone ci sta chiamando alle crociate, i cristiani sono buoni e i mori sono cattivi. Certo che questi discorsi si leggevano anche vent’anni fa. Su Libero, sul Giornale. Oggi arrivano su Repubblica, e infiammano quel che resta di una borghesia che, nello spicchio che intravedo da Twitter, mi sembra completamente sconvolta dagli eventi: hanno investito molta emotività su fronti che non stanno reggendo. L’Ucraina è un baluardo dell’Occidente – salvo che il fronte cede; Israele è un baluardo dell’Occidente – peccato che stia commettendo crimini contro l’umanità. Ormai vedo professori cattedratici buttarsi su Milei, il quale per quel che ci è dato da capire ha una concezione dell’economia tanto facilona quanto facilone è l’approccio della Porat al conflitto israelopalestinese. Stiamo diventando tutti scemi? Sono le polveri sottili? O la semplificazione intellettuale e linguistica è quel che avviene quando comincia una guerra, e la guerra è appunto già cominciata?

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Lost in Ratio: Proportional Thinking and the Gaza Catastrophe

(This should be the English translation of this post. Unfortunately, after so many years, my English still doesn’t fit my thoughts, so please be indulgent).

Israel is a complex phenomenon that we shouldn’t try to summarize with simplistic definitions. No doubt about it. But those who argue that it is also an out-of-control sociological experiment have been provided with an important evidence in the last few days: the latest statement from the Israeli embassy to the Holy See.

Why does the Israeli government communicate in such a disastrous way? Here, on a flimsy A4 sheet, we have an exhibition of arrogance and an admission of guilt. “We must consider the big picture”, they say. OK. Those who said the same thing after October 7th were called anti-semitic, but now of course it’s different. So what’s the big picture here? Looks like we should consider that for every militant “killed”, only three civilians have “lost their lives”. Only three civilians out of four, yes, they’re really claiming something like that. They don’t even seem to expect that the interlocutor could react by asking: who caused these three civilians to “lose” their “lives”? The most immediate explanation is that they are accustomed to interlocutors who never ask them these questions: by constantly rejecting any criticism as anti-semitic thoughtcrime, they have slipped into a self-referential bubble where no one would dare accuse them of killing civilians. But it’s not just that.

To be truly convincing, you must believe in what you say, and this is usually one of the flaws underlying every regime based on propaganda: at some point, friction with reality becomes explosive. Whoever wrote that statement seems to believe that three civilian victims for every combatant is a success, something to be proud of. The Israel Defence Force is and will always be the most moral army in the world, and this should be proven by the fact that in wars fought by NATO in recent years, the ratio was higher, 1 to 9 or 1 to 10. How they managed to extract these numbers, I don’t know, I took a look at the data for Iraq and it’s a huge mess. Here I’ll take them for granted because I’m not interested in debunking propaganda; I’m interested in understanding what they’re thinking because it’s the way they think that has led them to the catastrophe of these days.

My hypothesis is that Israeli government officials are so used to communicate ratios that they no longer understand absolute values. This leads to a culture shock, as absolute values are the only interesting data for the rest of the world. The rest of the world realizes that thirty thousand deaths in three months is an immense figure, unparalleled for a contemporary war (and there are many very close and very violent ones). How do Israeli government officials respond? They don’t even try to correct the absolute value (thirty thousand). Instead, they provide a ratio (one militant out of four victims). How the rest of the world is supposed to react? Someone does the math and deduces that the IDF is accusing itself of having eliminated 22,500 civilians. It’s still an enormous number, especially from a government defending itself in The Hague against a charge of genocide. Whoever wrote the statement didn’t probably think that anyone would divide thirty thousand by four and then multiply by three. He was only thinking about the fractional number: three out of four, come on, it’s not bad. In other wars it went worse, why do you even look at us?

Why so much emphasis on the ratio? Well, it certainly looks better than the absolute value. But to think that the rest of the world would buy into this, Israeli government officials must have bought into it first and for a long time. If we now take a look at how they communicated in the last 20 or 30 years, we realize that the habit of turning every absolute value into a ratio between different quantities is practically mandatory for them. Twenty years ago, during the so-called Second Intifada, I called it the Kissinger equation, except it’s not exactly an equation (and I’m not exactly a mathematician). I called it that because at some point the former US diplomat, trying to explain the Israeli point of view, turned an already significant figure of victims (50 victims of suicide bombings) into something much more dramatic: he said that the suicide bombers had killed “the equivalent of 2500” US victims.

How did Kissinger get this figure? With a ratio. 50 Israeli victims stood to the total of Israeli Jews as 2500 victims stood to the total of US citizens. It’s not that it didn’t make sense. The sense was also to make it clear how serious a figure (50 civilian deaths) could be, which in the vast USA may seem almost routine. No, those 50 deaths were a lot because Israel is very small. Here, perhaps, we are at the heart of the whole problem.

Israel is very small. The disproportion between its size and its military and economic power (and its cultural and diplomatic influence) is something unseen since the times of the Greek city-states. Perhaps the catastrophe stems from here: the West is trying to save a too small outpost in every way; it cannot begin to give up pieces of it (it is already too small!), or let an enemy occupy strategic positions on the heights or the coast. But geography is a destiny: if a region is too small, and surrounded by potential enemies, it doesn’t matter how many resources and settlers you can pour on it; one day it will simply cost too much.

Another immense disproportion is between Israel’s smallness and the huge attention it receives from the world. To maintain this attention, to justify it, to alleviate the impression that half the world is fighting over an irrelevant strip of land, Israeli communicators have very quickly become accustomed to turning every number ratios by the Kissinger equation. I could cite endless examples, but I’m lazy. This is a slide published by IDF in 2014. 

Even in 2014 Gaza war, Palestinian deaths were more or less thirty times those of Israelis, but this was not the ratio that IDF wanted to share with us. The Israeli Force was keen to point out to us that the situation, although as usual confined to an area roughly the size of one of the 20 Italian regions, was extremely serious: the equivalent of carpet bombing over more than two-thirds of the peninsula. It’s just propaganda, of course.

Or maybe not. In the eternal debate between those who think that language shapes thought and those who believe that thought shapes language, I wonder if some philospher wasn’t right when he suggested that language and thought eat each other’s tails infinitely. I’m not sure what philospher was and if he really said that. However, it seems to me a powerful idea: man has a thought, to express it he invents a language, and yet language leads him to think in certain ways and not others, which leads him to speak in certain ways and not others, until this thought/language leads him to collide with a reality that no longer corresponds to his thoughts or his words. Many empires have crashed on this problem.

The Kissinger equation, in the way Mr Kissinger applied it, didn’t sound so eccentric. The problem is when you’re not just communicating like this, but you start to think like this. Behind that ratio (one dead Israeli is worth 50 dead Americans) lies an axiom of chilling nationalism: every country recognized by the international community would be worth the same amount. Just as we are used from middle school to divide the GDP by the number of inhabitants, perhaps we should also divide the victims of wars and terrorism. As once I pointed out, this would make the injury of a citizen of the Republic of San Marino a crime against humanity. I was obviously joking. But whoever wrote that statement is serious. 

For him, the absolute number is not of great value. It needs to be contextualized – i.e., introduce a ratio between quantities that shows that other wars have had more victims. Even during the Iraqi War it took years and years of fighting in more cities to put together a similar number of civilian casualties. What happened in the last three months, however, is extraordinarily circumscribed, both in time and space. This is a strong argument for those who speak of attempted genocide. And yet Israeli government officials don’t seem to understand it. It’s possible that they are simply hiding behind the numbers. That would be the most optimistic hypothesis. I have another one: they consider Israel a state at risk of extinction. Any number of collateral victims would ultimately be irrelevant because the essential thing is the survival of Israel: without which perhaps the world would perish. Assuming that the world matters something to Netanyahu: let’s hope so, or let’s hope for his successors.

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Il pensiero proporzionale e la catastrofe di Gaza

Al Jazeera

Israele è senza dubbio tante cose. Ma chi sostiene che si tratti anche di un esperimento sociologico fuori controllo, nelle ultime ore ha potuto mettere a verbale una prova importante: l’ultimo comunicato dell’ambasciata alla Santa Sede. 

Perché il governo israeliano comunica in un modo così disastroso? Qui abbiamo, in un esile foglio A4, un’esibizione di arroganza e un’ammissione di colpevolezza. A chi in questi giorni ha criticato me e altri perché prendevo per buono il bodycount delle autorità di Gaza (ovvero di Hamas), non posso che segnalare che il governo israeliano quei numeri già da tempo li ha accettati. Anche in questo comunicato non li nega. Oserei dire che li rivendica, ma lasciamo perdere quel che penso io. Cerchiamo di capire cosa pensano loro. 

Bisogna considerare il quadro generale, dicono. Senz’altro. (A chi diceva la stessa cosa il 7 ottobre davano dell’antisemita senza troppi complimenti: ma prendiamolo per un progresso). Per ogni militante ucciso, hanno perso la vita tre civili, spiegano; dando per scontato che l’interlocutore non reagirà immediatamente chiedendo: ma chi gliel’ha fatta “perdere”, la “vita”, ai tre civili? La spiegazione più immediata è che sono abituati a interlocutori che queste domande non gliele fanno mai: a furia di respingere ogni critica come psicoreato antisemita, si sono lasciati cullare in una bolla autoreferenziale dove nessuno oserebbe accusarli di uccidere i civili. Ma non è soltanto questo. 

Per essere davvero convincenti, bisogna credere in quello che si dice e questo è di solito uno dei difetti alla base di ogni regime basato sulla propaganda: a un certo punto l’attrito con la realtà diventa deflagrante. Chi ha scritto questa cosa, ritiene davvero che tre vittime civili per ogni vittima combattente sia un successo, una cosa da rivendicare a testa alta: siamo l’esercito più morale del mondo, lo prova il fatto che nelle guerre combattute dalla Nato negli ultimi anni il rapporto era più alto, 1 a 9 o 1 a 10. Come siano riusciti a estrarre questi numeri non lo so, ho dato un’occhiata ai dati per l’Iraq ed è un ginepraio immenso. Qui li prenderò per buoni, perché non m’interessa debunkare la propaganda; mi interessa capire cosa stanno pensando, perché è il modo in cui pensano che li ha portati alla catastrofe di questi giorni. 

L’ipotesi è che i governativi israeliani siano talmente abituati a usare indici relativi, da non comprendere più gli indici assoluti. Che invece sono quelli che interessano al resto del mondo. Il resto del mondo a un certo punto si rende conto che trentamila morti in tre mesi è una cifra immensa, senza paragoni per una guerra contemporanea (e ce ne sono di molto vicine e molto violente). Come rispondono i governativi israeliani? Non si sognano neanche di correggere il numero assoluto (trentamila). Forniscono invece un indice relativo (un militante su quattro vittime). A questo punto il resto del mondo rimane sbigottito: qualcuno fa l’operazione e deduce che l’IDF si stia autoaccusando di avere eliminato 22.500 civili. Continua a essere un numero enorme: da parte poi di un governo che si sta difendendo all’Aja da un’accusa di genocidio. Ma probabilmente chi ha scritto il comunicato non pensava davvero che qualcuno avrebbe diviso trentamila per quattro e poi moltiplicato per tre. Chi ha scritto il comunicato pensava soltanto al numero frazionario: tre su quattro, dai, non è male, in altre guerre è andata peggio. 

Perché tanta enfasi sul numero frazionario? Beh, senz’altro si presenta meglio del valore assoluto. Ma per pensare che il resto del mondo si beva questa cosa, i governativi israeliani se la devono essere bevuta per primi e molto a lungo. Se ora diamo un’occhiata a come hanno comunicato negli ultimi 20 e 30 anni, ci rendiamo conto che l’abitudine a trasformare ogni valore assoluto in un rapporto tra grandezze diverse è per loro un passaggio praticamente obbligato. Vent’anni fa, durante la cosiddetta Seconda Intifada, la chiamavo equazione Kissinger, salvo che non è esattamente un’equazione (e io non sono esattamente un matematico). La chiamavo così perché a un certo punto l’ex diplomatico statunitense, per cercare di spiegare il punto di vista degli israeliani, trasformava una cifra di vittime già importante (50 vittime di attentati suicidi) in qualcosa di estremamente più drammatico: 2500 vittime statunitensi “equivalenti”).

Come faceva Kissinger a ottenere questa cifra? Con un rapporto. 50 vittime israeliane stavano al totale degli ebrei israeliani come 2500 vittime stavano al totale dei cittadini USA. Ora, non è che la cosa non avesse un senso. Il senso era anche quello di far capire quanto poteva essere grave un dato (50 morti civili) che negli sterminati USA può sembrare quasi di routine. No, quei 50 morti sono tantissimi, perché Israele è molto piccolo. Ecco, siamo forse al nodo di tutto il problema.

Israele è molto piccolo. La sproporzione tra la sua grandezza e la sua potenza militare ed economica (e la sua influenza culturale e diplomatica) è qualcosa di mai visto dai tempi delle polis greche e forse nemmeno a quei tempi. Forse la catastrofe nasce da qui: l’occidente sta cercando di salvare in tutti i modi un avamposto troppo piccolo; né può cominciare a cederne dei pezzi (è già troppo piccolo!), o lasciare che un nemico occupi posizioni strategiche sulle alture e sulla costa. E però la geografia non perdona: puoi rovesciare risorse e coloni, ma una regione troppo piccola sarà sempre troppo difficile da difendere. 

Un’altra sproporzione immensa è tra la piccolezza di Israele e l’enorme attenzione che riceve dal mondo. Per mantenere questa attenzione, per giustificarla, per alleviare l’impressione che mezzo mondo stia litigando per una irrilevante strisciolina di terreno, i comunicatori israeliani si sono molto presto abituati a trasformare ogni numero con l’equazione Kissinger. Potrei citare infiniti esempi, ma non ho tanto tempo. Questa è una slide del 2014, credo che l’operazione si chiamasse Margine di Protezione. Anche in quel caso i morti palestinesi furono più o meno dieci volte quelli israeliani, ma non era questo l’indice relativo che interessava al governo israeliano. Il governo israeliano ci teneva a farci presente che la situazione, per quanto come al solito circoscritta in un territorio grande più o meno come l’Emilia-Romagna, era gravissima: l’equivalente di un bombardamento a tappeto su più di due terzi della penisola. È solo propaganda, certo. 

Oppure forse no. Nell’eterno dibattito tra chi pensa che il linguaggio formi il pensiero e chi ritiene che il pensiero formi il linguaggio, io mi domando se per caso non avesse ragione Charles Sanders Peirce quando suggeriva che le due cose si mangino la coda all’infinito. Lui a dire il vero non si esprimeva così. Non sono nemmeno sicuro che lo abbia mai detto davvero. È possibilissimo che sia io ad aver capito male, in effetti per essere un pragmatista era piuttosto incomprensibile. Mi sembra comunque un’idea potente: l’uomo ha un pensiero, per esprimerlo inventa un linguaggio, e però il linguaggio lo porta a pensare in determinati modi e non altri, il che lo porta a parlare in determinati modi e non altri, finché questo pensiero/linguaggio non lo porta a sbattere contro una realtà che non corrisponde più né ai suoi pensieri né alle sue parole. Molti imperi sono andati a sbattere contro realtà simili. 

L’equazione Kissinger, nel modo in cui la applicava l’omonimo ex diplomatico, non suonava nemmeno così eccentrica: era un banale rapporto, tipico del linguaggio giornalistico americano che ama istituire rapporti tra oggetti lontani e domestici, ad esempio misurare la distanza tra un pianeta e il sole in campi da football. Il problema è quando, oltre a comunicare così, si comincia a pensare così. Perché dietro a quel pensiero (un morto israeliano vale 50 morti USA) c’è un assioma di un nazionalismo agghiacciante: ogni Paese riconosciuto dalla comunità internazionale varrebbe la stessa quantità, diciamo 1. Così come siamo abituati sin dalla scuola media a dividere il PIL per il numero di abitanti, così dovremmo forse dividere le vittime di guerre e terrorismo. Come facevo notare, questo avrebbe reso il ferimento di un cittadino della Repubblica di San Marino un crimine contro l’umanità. Stavo ovviamente scherzando. Ma chi ha scritto quel comunicato è serio. Per lui il numero assoluto non ha un grande valore. Occorre contestualizzare – ovvero introdurre un rapporto tra grandezze che dimostri che altre guerre hanno avuto più vittime. A dire il vero persino durante la guerra in Iraq, per mettere assieme una quantità simile di vittime civili, servono anni e anni di combattimenti in più città. Quello che è successo negli ultimi tre mesi è invece straordinariamente circoscritto, sia nel tempo sia nello spazio. Questo è un grande argomento a favore di chi parla di tentato genocidio, ma i governativi israeliani non sembrano capirlo. Può darsi che si stiano semplicemente nascondendo dietro ai numeri. Sarebbe l’ipotesi più ottimista. La mia è che ritengano Israele uno Stato in perenne via di estinzione. Qualsiasi numero di vittime collaterali alla fine sarebbe irrilevante, perché l’essenziale è la sopravvivenza di Israele: senza la quale perirebbe forse il mondo. Ammesso che del mondo interessi qualcosa a Netanyhau: speriamo di sì, o speriamo nei suoi successori. 

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Questo non è fascismo (non è abbastanza serio)

Nel 1938 l’editore italiano di origine ebraica Angelo Fortunato Formiggini decise di protestare contro le leggi razziali nel modo più spettacolare, lanciandosi dalla Ghirlandina (la torre del duomo di Modena). Si dice che prima di lanciarsi avrebbe urlato “Italia” tre volte. Si dice: ma per un po’ se ne dovette parlare sottovoce. I giornali non riportarono il fatto. Sotto il fascismo andava così.

Continuo a essere convinto che ogni volta che paragoniamo una situazione qualsiasi al nazismo (e al fascismo), noi esprimiamo per prima cosa la nostra scarsa fantasia. Il ‘900 è la nuova Bibbia, ci ha dato le parole che parliamo e i concetti che pensiamo, e non riusciamo a uscirne. Tra l’altro è un secolo di orrori, che fa impallidire quelli della Bibbia vera. Per esempio, chi paragona quel che è successo in Rai questi giorni a quello che sarebbe successo sotto il nazismo (o il fascismo), manca clamorosamente il punto. In un regime davvero nazista un cantante come Ghali… non sarebbe nemmeno nato, ma ipotizziamo che un Ghali relativamente biondo avesse detto davanti ai microfoni del Festival della Canzone Nazista “Stop al genocidio”: come avrebbe reagito a quel punto un regime seriamente nazista?
Non avrebbe reagito.
Nessuno avrebbe risposto niente.
Avrebbe dato alla vicenda la minore importanza possibile. Meno se ne parla, meglio è.
 
Chi era davanti alla tv in quel momento (non moltissimi gli svegli) ne avrebbero parlato un po’, nei giorni successivi, ma non così tanto, anche perché in sé la frase non dice molto: stop al genocidio, e ci mancherebbe, chi sarebbe mai favorevole a un genocidio? Nemmeno chi lo commette, di solito, sostiene di esserlo. E poi di che genocidio si tratterebbe? Alla radio ogni tanto parlano di un genocidio da qualche parte in Cina – gli uiguri? O forse in Congo, meno male che il nostro beniamino Ghali Biondo ci ricorda che esistono anche questi lontani scenari di guerra. Bravo Ghali Biondo, e sarebbe finita lì.
L’Eiar funzionava così. L’Eiar non improvvisava. Se avete dato un’occhiata a qualche cinegiornale Luce, sapete che non avevano nessuna remora a parlare di crimini di guerra. Purché fossero crimini imputabili agli inglesi, o ai sovietici.  
Invece nel nostro Paese, che chiamare fascista è offensivo (forse a questo punto è anche offensivo nei confronti del fascismo), un cantante ha cantato che non gli sembra giusto bombardare gli ospedali… e nel giro di poche ore il presidente di una importante comunità aveva scritto un comunicato in cui definiva inaccettabile, giuro, inaccettabile, il fatto che una canzone stigmatizzasse gli ospedali bombardati. Dal che cosa dobbiamo dedurre: che la comunità in questione è favorevole a bombardare ospedali? O piuttosto che il loro rappresentante non li sta rappresentando al meglio?
I cantanti di mestiere vendono canzoni, e se un po’ di polemica li può aiutare, troppa rischia di essere controproducente per cui lo stesso Ghali, lo stesso Ghali! ha immediatamente tentato di stemperare la questione, dichiarando di avere scritto quel verso prima del 7 ottobre. E la sera successiva si è limitato ad aggiungere “Stop genocidio”. Nient’altro.
Ed è scoppiata una crisi diplomatica.
Per Ghali. 
L’indimenticabile interprete di “Chi se ne frega dei tuoi ma, dei tuoi se, dei tuoi bla-bla”.
Ghali. 
Se la situazione non fosse tragica, sarebbe persino divertente, perché davvero, non si è mai vista a memoria d’uomo una coda di paglia così grande. Ghali ha detto “Stop genocidio”, e il giorno dopo l’ambasciatore israeliano ha sentito la necessità di rispondergli, trasformando un cantante famoso tra i ragazzini nel nuovo punto di riferimento del pacifismo italiano. Merlo lo ha già definito antisemita, e come ti sbagli? Un’AI sarebbe stata meno prevedibile, magari Merlo ormai adopera l’AI, oppure l’AI adopera Merlo. Costretto da cotanti interlocutori a ritornare sull’argomento a Domenica In, Ghali non ha detto molto di più, ma tanto è bastato per costringere Mara Venier a leggere un comunicato della direzione, e se credete che tutto questo sia il fascismo avete una strana idea del fascismo. Questo è il risultato di un sistema mediatico che invece di troncare e sopire ogni dissenso, lo stimola e amplifica finché non diventa una crisi diplomatica. Questo è anche il disastro comunicativo che si verifica quando qualcuno che crede di avere ben saldo il controllo della narrativa scopre che non è così: un cantante qualsiasi ha notato che il re è nudo e non c’è più niente che si può fare. 
Ovvero no: si può continuare a sfilare nudi, portando a casa almeno un po’ di coerenza e decenza, come il re della favola di Andersen. Invece il re che abbiamo visto all’opera in questi giorni sta passando il tempo a strepitare sui giornali e sui social che lui non è nudooooooo! basta dire che sono nudoooooo! Questo è un vestito finissimooooooo, posso mostrarvi le fatture dei sarti di fama mondiale, voi non lo vedete perché siete incompetenti. Saremo anche incompetenti, ma la sentenza preliminare della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja l’abbiamo letta; c’è scritto che i rischi di genocidio erano concreti e che Israele doveva prevenirli. Questo, alcune settimane fa: dopodiché il governo israeliano ha intimato i profughi palestinesi di raggiungere Rafah, e ora sta bombardando Rafah. Un’altra cosa che il governo ha fatto è cercare di screditare l’UNRWA, che aveva fornito gran parte delle prove ammesse alla Corte. Ma per ora nessuna accusa è stata provata. 
Ora vi prego di seguirmi: se Israele, che doveva prevenire un genocidio, non lo sta facendo, e anzi sta distruggendo archivi e cimiteri – i segni della secolare presenza palestinese a Gaza – premendo la striscia come un tubetto di dentifricio sul varco di Rafah, si sbaglierà più di tanto Ghali a dire “Stop genocidio”? Che non vuol nemmeno dire che il genocidio ci sia già stato. Vuol dire che il rischio c’è, perdio, siamo a trentamila morti, due terzi civili, se avete paura a usare la parola in questo momento, per quale motivo al mondo abbiamo perso tempo a insegnarvela? Lo capite che tutta la Storia che avete studiato serviva a evitare di ritrovarvi qui, ora, di fronte a una catastrofe, con gli occhi chiusi per non vedere, e la bocca piena di se, di ma, di bla-bla, per non sentire?  
No, non solo Ghali non sbaglia, ma non dice niente di eccezionale. Quel che dice diventa eccezionale perché nessuno professionista ha il coraggio di dirlo. Ghali e Dargen D’Amico – quanto dev’essere frustrante passare anni e risorse a piazzare un po’ di gente in tutto il sistema mediatico e politico, a blandire e minacciare, per poi scoprire che la gente dà retta a un tizio vestito da scemo che cantava Fottitene e balla? Di chi è esattamente la colpa, se Ghali e Dargen D’Amico sono più informati e attendibili della Repubblica e del Corriere? Quanto può essere ridicolo un Montanari che non pubblica l’intervista a Ghali finché non prende le distanze da Hamas, come se i lettori fossero più interessati alle lezioni di Montanari che alle parole di Ghali? Diteci ancora una volta, coraggio, che i giornali stanno sul mercato perché danno alla gente quello che vuole leggere.  
Come ha notato per esempio Anna Momigliano su Haaretz, in Italia di Gaza non si stava parlando molto, prima di Sanremo. E Ghali non ne stava praticamente parlando, prima che i filoisraeliani non lo stimolassero in tal senso. Convinti di avere dalla loro parte una cassa di risonanza che non funziona, anzi li stordisce, li convince di avere il polso di un pubblico che semplicemente non li conosce. Se sulla Repubblica non esce un’intervista a Ghali, non è certo un danno per Ghali. Sarebbe un danno per Repubblica, se non avesse chiuso, qualche anno fa.

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Per favore, Angelina Mango, rinuncia all’Eurovision Song Contest

Cara Angelina Mango

per prima cosa, complimenti: hai vinto il festival della canzone italiana, al termine di una delle edizioni più seguite e più combattute. Con la tua vittoria hai probabilmente scritto una pagina della storia della musica italiana, e tante altre frasi fatte che potrei scriverti, prima di passare al dunque. Perché alla fine, se ti scrivo, è soltanto perché devo chiederti un favore. Molto grande.

Cara Angelina Mango, 

in quanto vincitrice del festival, hai il diritto di partecipare all’Eurovision Song Contest. Immagino che si tratti di un’occasione non piccola per far conoscere il tuo brano e la tua bravura anche all’estero. Ecco il motivo per cui ti scrivo. 

Devo chiederti di non partecipare: di boicottare l’Eurovision Song Contest. 

Sì, lo so, non sono cose da chiedere a un’artista.  

Ma non so a chi altro rivolgermi, sono abbastanza disperato. Proprio in questi giorni in cui tu hai avuto altre cose cui pensare, il governo israeliano ha chiesto ai civili palestinesi di evacuare Rafah, perché deve smantellare le basi di Hamas che a quanto pare adesso si troverebbero lì – è tre mesi che le cerca, devastando la Striscia nel processo. In queste ore l’esercito israeliano sta già bombardando Rafah. I civili dovrebbero andarsene, ma c’è un problema: Rafah è l’ultima città della Striscia. La gente che tre mesi fa ha accolto un simile invito ad andarsene da Gaza, è scappata più a sud, a Khan Younis – salvo che gli israeliani hanno bombardato e occupato anche Khan Younis, invitando la popolazione ad andare ancora più a sud, appunto a Rafah. Più a sud di così non possono andare, c’è solo il confine egiziano, che rimane chiuso. Ci sono centinaia di migliaia di civili in trappola, a Rafah. Negli ultimi tre mesi ne sono morti più di 25.000, uccisi dalle bombe e dai fucili dell’esercito israeliano. Più di un terzo erano minori. Sono numeri che il governo israeliano non contesta. È chiaro che tu non hai nessuna responsabilità di tutto questo.

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Però all’Eurovision gareggerai contro gli artisti di altri Paesi, tra cui Israele, che ha già ufficialmente presentato la cantante che difenderà i suoi colori. Ora, parliamoci chiaro: l’Eurovision è una baracconata al quadrato, che moltiplica due cose che sono già baracconate in sé: le competizioni tra canzoni e le competizioni per nazioni. Tu ci vai a promuovere la tua canzone, non a difendere l’Italia; e allo stesso modo la tua collega non andrà a difendere Israele, né a rappresentare le decisioni del governo o i bombardamenti dell’esercito. E però ci andrà. Come se non stesse succedendo niente. 

Questa cosa, perdonami, la trovo insopportabile. Non è vero che non sta succedendo niente. Due anni fa, come sai, la Russia è stata esclusa dall’Eurovision in seguito all’invasione dell’Ucraina. I rappresentanti di diverse nazioni (non l’Italia) avevano annunciato che se la Russia restava in gara, loro non avrebbero partecipato. A tutti gli osservatori non filorussi sembrò una decisione ragionevole, un modo per dare un segnale al governo e alla popolazione russa: non possiamo tollerare un’invasione a poche centinaia di km da casa nostra, non possiamo giocare assieme a votare il cantante mentre c’è chi bombarda e uccide. Ecco. Due anni dopo il messaggio che rischia di passare è l’opposto: che il governo israeliano può fare quello che vuole senza che nessuno, almeno in Europa, si opponga. E cosa vuole fare il governo israeliano?

Youtube

C’è una sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja che lo mette nero su bianco: Israele deve prevenire qualunque atto che possa essere ricondotto a genocidio. Il che significa quanto meno che il rischio di genocidio c’è. Dopo averla recintata e isolata dal mondo per decenni, l’esercito israeliano sta distruggendo la Striscia. I soldati stanno uccidendo migliaia di palestinesi, cercando di forzarne l’esodo in Egitto. Ufficialmente lo fanno per eliminare i guerriglieri di Hamas e ritrovare gli ostaggi, ma non sembra che stia funzionando. Inoltre compiono azioni che non sembrano avere molto a che fare con l’antiguerriglia. Ad esempio, distruggono gli archivi. e smantellano i cimiteri. Per quale motivo al mondo un esercito in guerra può perdere tempo a eliminare tombe e documenti? Mi viene in mente un solo motivo: cancellare la storia degli abitanti di Gaza, impedire che in futuro qualcuno possa dimostrare l’entità di quello che è successo. Ma come (potresti obiettare), sappiamo bene cosa sta succedendo: ci sono i giornalisti sul posto. Ormai non più, dall’inizio della crisi ne sono morti più di cento, sotto i bombardamenti o colpiti da armi da fuoco. È un numero assolutamente eccezionale, per un teatro di guerra così circoscritto. Sembra proprio che i giornalisti siano presi di mira dai militari israeliani. 

È come se in gioco non ci fosse soltanto la vita di centinaia di migliaia di persone (il che già basterebbe) ma la nostra oggettività. Israele è un Paese nostro amico, e quindi può riscrivere la sua storia a piacimento, e noi dobbiamo far fingere che sia tutto ok, che un tentativo di genocidio sia semplicemente un’operazione antiterroristica. Dobbiamo continuare a raccontarci questa cosa finché non cominceremo a crederci. Scrivere nei nostri libri che i palestinesi erano una sparuta minoranza che a un certo punto si è dileguata per cause naturali, e poi farli leggere ai nostri figli finché non si convinceranno che sia andata così. Questa normalizzazione comincia oggi, quando un tuo collega dice “stop genocidio” e la Rai taglia la frase dal video dell’esibizione; quando si parla dell’Eurovision e diamo tutti per scontato che ci saremo noi e ci sarà anche Israele.

Cara Angiolina Mango, il giorno del tuo trionfo a Sanremo ha coinciso con il giorno del ricordo dei massacri delle foibe, forse hai sentito a un certo punto Amadeus che ne parlava. Si tratta di un episodio storico molto controverso; ti basti pensare che su wikipedia le stime dei morti infoibati oscillano tra le tre e le undici migliaia. Anche volendo prendere il numero più alto, si tratta di un massacro inferiore a quello che è avvenuto a Gaza negli ultimi mesi. Da cui la solita domanda: a cosa serve ricordare un episodio di 80 anni fa, se non a impedire che cose simili succedano? E se lasciamo che cose simili succedano senza opporre nemmeno la nostra coscienza, a che ci serve ricordare episodi di 80 anni fa?

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Cara Angiolina Mango,

probabilmente sto sbagliando tutto. Il conteggio dei morti non è mai un argomento efficace. La fantasia umana ha dei limiti oltre ai quali non riesce più a concepire l’orrore: tremila, trentamila, non fa nessuna differenza. Per questo motivo i comunicatori più abili di solito si concentrano sui casi singoli. Forse avrei dovuto parlarti semplicemente di Hind Rajab, la bambina di sei anni che è sopravvissuta per qualche ora al bombardamento che aveva ucciso la sua famiglia. Stavano scappando da Gaza in automobile, quando è stata presa di mira. La cugina quindicenne è riuscita a chiamato la Mezzaluna Rossa prima di morire. La Mezzaluna Rossa ha richiamato e solo Hind poteva rispondere, così ha risposto. Ha implorato che la venissero a prendere, era lì nascosta tra i cadaveri dei parenti e aveva paura del buio. Il personale della Mezzaluna Rossa ha contattato l’esercito israeliano, ha chiesto di poter accedere all’area. Ha aspettato per ore. Finalmente un’ambulanza è potuta partire, ma non è mai arrivata. L’esercito ha sparato anche all’ambulanza. Non è così raro laggiù. I volontari che partivano, sapevano che il rischio c’era. Ma c’era una bambina sola al buio, e così sono andati. Tutto questo non è normale, non dovrebbe succedere. Se abbiamo la minima possibilità di impedirlo, dobbiamo utilizzare quella minima possibilità. 

Così la mia minima possibilità, stasera, è domandarti questa cosa: per favore, prendi almeno in considerazione l’idea di non partecipare all’Eurovision. Che poi diciamocelo, hai già vinto Sanremo, cosa dovresti dimostrare all’Eurovision? Tutti gli anni una canzone vince l’Eurovision: di solito è un ritornello scemo e ce ne dimentichiamo la settimana dopo. Ma se tu riuscissi a dire, nei prossimi giorni: preferirei non andare, mi sento a disagio a partecipare; vorrei che prima di partecipare Israele si attenesse alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia e prevenisse un genocidio, ecco, credo che milioni di persone in Italia, e in Palestina, e in tutto il mondo (persino in Israele) non ti dimenticheranno più. Scriverai un’altra pagina di storia, persino più nitida di quella che hai scritto ieri.  

E poi certo, qualcuno se la prenderà. C’è gente che non sopporta nemmeno di sentire le parole “stop genocidio”: le considera offensive, forse non sa cosa significa genocidio, oppure pensa che è una buona cosa, non lo so. Esiste gente così, e se tu dici che non vuoi andare all’Eurovision, si offenderà molto. Ma è gente che non ti avrebbe ascoltato comunque. E siccome non si può piacere a tutti, probabilmente la cosa migliore è scegliere di non piacere a chi difende i genocidi. Scusami, sono stato troppo lungo. Grazie. E ancora complimenti.

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I palloni di Hamas

Avvertenza: questo pezzo contiene descrizioni di atti di violenza che possono impressionare il lettore, così come hanno impressionato me. 

Il 5 febbraio è la festa di Sant’Agata, la martire siciliana a cui il Signore avrebbe fatto ricrescere il seno, dopo che i carnefici glielo avevano amputato. Dunque se devo scrivere un pezzo sui seni-pallone amputati da Hamas, lo farò oggi. 
Ma devo proprio? Su un argomento così macabro, col rischio di indugiare in dettagli morbosi o mancare di rispetto alle vittime di una strage? Scrivere un pezzo che nessun algoritmo si filerà, che ben pochi verranno a leggersi, e quei pochi magari proprio per notarne i difetti, perché?
Pare sia terapeutico. Ho sentito dire che le fobie si superano parlandone. Inoltre ho la sensazione di essere stato preso in giro, da qualcuno che sapeva esattamente come spaventarmi, e mi ha raccontato una storia orribile ben sapendo che i dettagli più sanguinosi mi avrebbero tenuto lontano. Cedere a un trucco simile significa ammettere le proprie debolezze, per cui non lo farò. Siccome ho paura delle mutilazioni, ora scriverò un pezzo lungo e disteso sulle mutilazioni. Chi sperava di impressionarmi col sangue almeno saprà che non funziona.
È stata soprattutto questa fobia a tenermi lontano dai primi resoconti che apparivano sui media immediatamente dopo il 7 ottobre. I dettagli ultraviolenti mi turbano in modo particolare: mi restano in mente e non riesco a liberarmene, è come se contagiassero la mia fantasia. Forse si tratta di una mia fragilità, il motivo per cui ancora oggi ho grossi problemi a guardare film dell’orrore che i miei studenti minorenni mandano giù come Biancaneve. Oppure i miei studenti hanno capito che mandar giù film dell’orrore è un sistema efficace per non invecchiare fragili come sta succedendo a me. Non lo so, né mi ponevo il problema: i più prestigiosi organi di informazione riportavano che in quei giorni erano avvenute cose orribili, che i colpevoli erano i miliziani di Hamas, e io lo ritenevo assodato: senza troppo preoccuparmi di quanto orribili fossero. 

Finché – ma erano già i primi di gennaio, e un pool legale sudafricano stava per accusare all’Aja il governo israeliano di genocidio – lessi che i seni delle vittime erano stati “asportati e usati per giocare a pallone”. Lo lessi in questo bizzarro appello, pubblicato su diversi quotidiani:

Trovate il testo per esempio qui.
Ma a chi sono state consegnate le firme?
Chi dovrebbe dichiarare il “femminicidio di massa”? 

E non ci ho creduto. 

Forse era troppo terribile per me, forse c’è un limite all’orrore che riesco a provare: un mostro con otto occhi mi farebbe paura, con cento occhi mi farebbe ridere? Oppure semplicemente il seno-pallone non è plausibile, è qualcosa di cartoonesco, completamente fuori dall’uncanny valley che sfida il mio senso critico. I seni non sono sferici (specie una volta asportati) né rimbalzano; per quello che ne so. E ho la sensazione di saperne di più, sui seni, di chi ha messo in giro questa storia. In mezzo a un resoconto di fatti orripilanti, è un dettaglio che manda in tilt la mia fantasia e sembra messo apposta per farmi dubitare di tutto il resto. Forse da un diabolico antisemita infiltrato che vuole prendersi gioco di chi in buona fede legge e firma… Oppure è una provocazione messa lì perché qualcuno ci caschi. Quel qualcuno sono io? È l’antisemitismo a farmi dubitare dell’equipollenza tra un pallone e un seno umano?

Va bene. Se qualcuno deve, ci cascherò io. Non rappresento nessuno oltre me stesso, non sono un esperto di nulla (senz’altro non sono un esperto di seni), ma ho una certa dimestichezza con le leggende di martiri ormai, e questa ha tutta l’aria di essere una leggenda. 

A dire il vero la prima analogia che mi è venuta in mente, per una pura associazione di idee, è assai più recente: 24 anni fa, alla vigilia delle manifestazioni genovesi anti-G8, i membri delle forze dell’ordine furono informati che i manifestanti li aspettavano al varco con “palloncini di sangue infetto“. Era una leggenda metropolitana altrettanto implausibile e cartoonesca: anche in quel caso mescolava subdolamente l’idea del sangue coi liberi giochi all’aria aperta: non si capiva come adulti responsabili avrebbero mai potuto credere in qualcosa del genere. E però può anche darsi che abbia funzionato: in quei giorni poliziotti e carabinieri sembravano spiritati, animati da una furia che non aveva giustificazioni razionali. Magari era paura.

Allo stesso modo, ogni volta che un breve video dell’IDF ci mostra soldati sorridenti che si aggirano in mezzo alle macerie; o cittadini allegri che fanno cordone per non far passare gli aiuti umanitari, e ci domandiamo: ma cosa sta succedendo a tutta questa gente? Ci vorrà molto tempo per capirlo, sempre che qualcuno vorrà dedicarcisi; può darsi che in parte sia quello che succede a normali individui quando persone degne di fede ti raccontano che ci sono uomini cattivi che giocano a pallone con i seni umani. 

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La propaganda ha le sue leggi che la ragione non conosce, ma qualcuno le ha studiate e le sa applicare. Quello che inorridisce me, può animare la furia cieca di un soldato di leva. La storia dei seni-palloni faceva parte di un un repertorio di testimonianze che arrivò sui media prestissimo, soprattutto in Israele dove per qualche giorno chiunque si sentiva in dovere di raccontare le peggio cose che gli venivano in mente, che le avesse viste o no. Non lo dico io, lo dicono i giornalisti israeliani sionisti: e non solo quegli eterni brontoloni di Haaretz, ma anche canali generalisti. Nelle ultime settimane quasi tutte le storie più raccapriccianti sono state debunkate (malgrado qualcuno le ripeta ancora ad alta voce, e forse ci creda ancora). Abbiamo saputo abbastanza presto che i miliziani non avevano decapitato quaranta bambini; che non hanno strappato un feto a una donna incinta (quest’ultimo è un vero topos: ricorre nelle testimonianze di molti eccidi in tempo di guerra). Soprattutto Haaretz ci ha raccontato che nei primi giorni l’IDF appaltò la raccolta dei cadaveri del 7 ottobre a un’organizzazione ultrasionista, Zaka, che definire controversa è un eufemismo. Molti dettagli truculenti sono stati forniti proprio dagli operatori di Zaka, che purtroppo hanno mostrato nell’occasione più fantasia nell’inventare mutilazioni non dimostrabili che perizia nella gestione dei corpi delle vittime. E tuttavia la storia dei seni-palloni non proviene da Zaka. Non potrebbe: per assistere a un’amputazione e vedere miliziani giocare a pallone bisognava essere lì durante il fatto. Questa storia richiede dei testimoni oculari. Ci sono?

Ce n’è uno. 

Questo è un problema, per più di un motivo. Nell’appello riportato sopra avete letto di “seni asportati e usati per giocare a pallone”. È già una forzatura. L’appello tradisce la volontà di far apparire come sistematica una pratica di mutilazione cui la testimone avrebbe assistito una volta sola, e che difficilmente avrebbe potuto essere ripetuta durante un blitz che sappiamo essere stato molto concitato. I miliziani stavano cercando di tornare nella Striscia portando con sé più ostaggi possibile, e a partire da un certo punto hanno dovuto difendersi dall’esercito che stava intervenendo con gli elicotteri. Che abbiano perso tempo a giocare torturare sadicamente ostaggi che avrebbero dovuto usare come moneta di scambio sembra assurdo, ma è anche vero che in battaglia la gente perde la testa e fa le cose più assurde. 

Comunque la testimone c’è. È una donna – il che è cruciale – ha 22 anni, fa un lavoro di ufficio (“accountant”) e si fa chiamare Sapir; non vuole rivelare la sua identità perché, scrive il New York Times, “sarebbe braccata per tutta la vita”. La polizia la ritiene una teste chiave e ha divulgato quasi subito un video in cui il suo volto sfuocato racconta la storia che più tardi ha ripetuto al NYT, e che riporto qui

She said that at 8 a.m. on Oct. 7, she was hiding under the low branches of a bushy tamarisk tree, just off Route 232, about four miles southwest of the party. She had been shot in the back. She felt faint. She covered herself in dry grass and lay as still as she could.

Ecco. Non solo è l’unica testimone, ma era ferita alla schiena. Si sentiva debole. Ciononostante, dal suo nascondiglio (un cespuglio sotto un tamarindo) avrebbe assistito a una scena molto lunga e complessa, di fronte alla quale altri avrebbero certamente distolto lo sguardo.

About 15 meters from her hiding place, she said, she saw motorcycles, cars and trucks pulling up. She said that she saw “about 100 men,” most of them dressed in military fatigues and combat boots, a few in dark sweatsuits, getting in and out of the vehicles. She said the men congregated along the road and passed between them assault rifles, grenades, small missiles — and badly wounded women.

“It was like an assembly point,” she said.

The first victim she said she saw was a young woman with copper-color hair, blood running down her back, pants pushed down to her knees. One man pulled her by the hair and made her bend over. Another penetrated her, Sapir said, and every time she flinched, he plunged a knife into her back.

She said she then watched another woman “shredded into pieces.” While one terrorist raped her, she said, another pulled out a box cutter and sliced off her breast.

“One continues to rape her, and the other throws her breast to someone else, and they play with it, throw it, and it falls on the road,” Sapir said.

She said the men sliced her face and then the woman fell out of view. Around the same time, she said, she saw three other women raped and terrorists carrying the severed heads of three more women.

Le tre teste non sono state trovate – ma è anche vero che i volontari di Zaka raccolsero i cadaveri in modo molto approssimativo, e che in certi bodybag furono trovate più teste. Non sono stati trovati nemmeno i seni, né il taglierino da cartone (“box cutter”) che Sapir sostiene essere stato adoperato per asportarli. Per ora non è stato trovato niente di quello che racconta Sapir, la quale del resto era ferita alla schiena mentre osservava una scena che sembra presa da un torture porn. 

Per credere che tutto questo sia successo dobbiamo prendere per buona una testimone unica,  probabilmente sotto choc, che era ferita alla schiena e nascosta in un cespuglio, che ha fotografato il cespuglio in cui era nascosta ma non i resti delle mutilazioni che racconta di avere visto. In coscienza, non posso dimostrare che sia una storia falsa: ma è una storia a cui non credo. Non credo che tagliare i seni con un taglierino (durante uno stupro) sia così facile. Non posso escludere che una persona ferita e sotto choc sia vittima di allucinazioni, o che subisca la pressione di organi di propaganda che sin dall’inizio della crisi erano determinati a far funzionare l’equazione Hamas=Isis. Giova ricordare che la mutilazione dei seni delle vittime era praticata dai miliziani di Isis in Siria, e che foto e resoconti delle loro torture rimbalzavano con gli smartphone negli anni in cui “Sapir” era adolescente. Per noi l’Isis ormai è una sigla lontana, ma per i giovani che stanno minando la striscia di Gaza è stato un incubo concreto, che ha nutrito la loro fantasia negli anni della formazione.  

Allo stesso momento, non posso escludere che la storia sia vera. Improbabile, ma non impossibile. Ci sono persone che in stato di choc dimostrano lucidità e presenza di spirito; un taglierino, se è abbastanza grosso, può anche recidere muscoli; se poi la vittima aveva protesi, ecco, si tratta di sacchetti di silicone che i miliziani avrebbero anche potuto lanciarsi per scherno. Forse il vero motivo per cui non voglio crederci è quello per cui fatico a credere alle leggende di santi torturati e mutilati. Se non ci credo, smetto di essere vero. Quei seni non sono mai stati tagliati: come il Salvatore, li faccio ricrescere. Forse sto scrivendo la mia leggenda anch’io… (continua)

<!—Mi faccio coraggio, cerco su google "breast" "hamas" e "football" (li cerco in modalità incognito). Non mi sembra di trovare nulla di rilevante, ma non ho troppa voglia di scavare. Rileggo l'appello. Noto particolari che alla prima scorsa erano sfuggiti alla mia attenzione – distratta dall'orrore. Ad esempio: è un appello a vuoto. A chi sarà consegnata la raccolta di firme? "Il femminicidio del 7 ottobre deve essere dichiarato femminicidio di massa". Da chi? C'è un'autorità nazionale o sovranazionale che si occupa di dichiarare i femminicidi? "GLI AUTORI DEVONO ESSERE CONDANNATI PER CRIMINI CONTRO L'UMANITÀ". Non avrei niente da eccepire, e a questo punto l'unica autorità che mi viene in mente è la corte internazionale di giustizia dell'Aja: quello che negli ultimi giorni forse sta impensierendo i sostenitori di Israele, per via della denuncia mossa dalla Repubblica Sudafricana. 

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Ma insomma era già abbastanza chiaro che si trattasse di propaganda, legittima finché non stravolge i fatti; è sin dall’inizio dei bombardamenti nella Striscia che gli hasbaristi cercano di distrarre l’attenzione dal massacro ricordando ogni giorno, anche più volte al giorni, gli orrori del 7 ottobre. Nel frattempo la Striscia è stata invasa, le vittime sono aumentate di giorno in giorno e ormai sono più di ventimila, tra cui un centinaio di giornalisti e molti più bambini. È un orrore che va avanti imperterrito da più di due mesi e posso capire la frustrazione di chi ogni giorno deve cercare di rubare la scena tornando sempre, ossessivamente, sul 7 ottobre. Non escludo che l’enfasi sull’orrore delle mutilazioni sessuali sia causato proprio dalla necessità di attirare l’attenzione ogni giorno in un modo diverso, e però inevitabilmente prima o poi a qualcuno doveva scappare la mano e direi che è successo. Chi ha raccontato la storia dei miliziani che giocano a pallone con i seni? L’appello non perde tempo a citare fonti: l’unico riferimento esplicito è il New York Times. Vado a controllare l’inchiesta uscita di recente, di cui ho sentito parlare anche molto bene e che fin qui avevo colpevolmente aggirato.

L’inchiesta parla di molte cose orribili, e a un certo punto 

 (tranne un cenno, su cui tornerò più avanti); ma soprattutto, non trovo tutte quelle certezze che altri lettori hanno voluto trovarci. È un’inchiesta che si basa sui resoconti dei testimoni oculari. Addirittura 250 resoconti, il che dovrebbe mettere a tacere qualsiasi obiezione salvo per il fatto che su 250 testimoni, i giornalisti del NYT non hanno trovato una sola vittima di violenze sessuali. Riportano tutti le violenze fatte ad altre persone. Questo non è poi così strano, e non significa che le violenze non ci siano state: è sufficiente ipotizzare che i miliziani violentassero e mutilassero soltanto le persone che intendevano uccidere – e che quindi avessero chiaro abbastanza presto chi intendevano uccidere e chi prendere come ostaggio; bisogna inoltre assumere che abbiano potuto fare esattamente tutto quello che avevano pianificato di fare, malgrado l’intervento dell’esercito israeliano, che per quanto tardivo ha senz’altro ostacolato le loro operazioni. È un’interessante raccolta di testimonianze, mettiamola così, e notiamo, senza commento, che sono tutte testimonianze di israeliani; quanto alle prove, l’inchiesta non ne contiene e cerca anche di dare una spiegazione del perché: l’esercito aveva fretta e ha ripulito tutto. Questa fretta, devo dirlo, non mi sembra così credibile. Il 7 ottobre le stragi sono avvenute in località israeliane sulle quali l’IDF ha il pieno controllo. E l’IDF aveva, come si è visto, un’esigenza impellente di trovare le prove delle violenze sessuali commesse dai miliziani: ma quando i giornalisti del NYT le hanno cercate, non le hanno trovate. Nel frattempo circolavano voci agghiaccianti (la storiaccia dei bambini decapitati), mai provate, e queste voci potrebbero anche avere influenzato i testimoni. Vale la pena di ripetere, per l’ennesima volta: questo non significa che non siano stati commessi stupri e mutilazioni sessuali. La strage del 7 ottobre è stata spaventosa, c’è stato più di un migliaio di vittime: mi sembrerebbe strano anche da un punto di vista statistico che non fosse avvenuto nemmeno uno stupro, nemmeno una mutilazione. Che però stupri e mutilazioni siano stati sistematici, è una cosa che i testimoni raccontano, non una cosa che si possa dimostrare. 

Queste obiezioni, finché le faccio io, non 

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