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| Sembra che a Berlino stiano costruendo una specie di… muro. |
Rudolf Abel – ovviamente non si chiamava così – imparò a dipingere in America. Il mestiere del pittore era la copertura ideale per una spia: quando sei un artista, nessuno fa caso ai tuoi orari o ai tuoi itinerari. Puoi sparire per mesi e nessuno si preoccupa. Ma anche se resti fermo nello stesso posto per ore e ore, nessuno si porrà il problema: basta che davanti hai un cavalletto. Abel non era un pittore, ma non è che avesse molto altro da fare nei suoi lunghi pomeriggi en plein air o nella sua base segreta camuffata da atelier. Durante la guerra era stato un elemento prezioso, ma negli anni Cinquanta, a New York, l’impressione è che tirasse a campare: dopo l’esecuzione dei Rosenberg, gran parte dei suoi contatti erano bruciati. In più il KGB gli aveva procurato un compare inaffidabile, un finlandese che si scordava in giro i microfilm e col vizio peggiore che una spia possa avere, l’alcool.
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| Il nemico ti ascolta. |
Abel invece dipingeva. Stava diventando bravo, anche se un po’ accademico. In effetti la sua freddezza per le avanguardie, e un certo debole per il realismo socialista, alla lunga avrebbero potuto insospettire qualche collega pittore – se a bruciarlo non avesse provveduto il finlandese. Sapeva che Abel era scontento di lui. Quando da Mosca lo chiamarono a rapporto, lui perse la testa e si ritrovò nell’ambasciata americana di Parigi. Si guadagnò la fiducia dei federali facendo una manciata di nomi, tra cui quello di Abel. Condannato a morte, mantenuto in vita in attesa di essere usato come merce di scambio (con la prospettiva di essere giustiziato in patria da chi sospettava che avesse tradito) Abel in cella continuò a dipingere, diventò sempre più bravo. Non aveva molto altro da fare, e comunque preoccuparsi non sarebbe servito.
A volte Spielberg sembra voler estrarre il cuore pulsante dell’America, altre volte sezionarne il sistema nervoso. Quello che ci conquista è il fatto che sia impossibile capirlo prima di dare un’occhiata: gli basta passare da una storia all’altra per oscillare allegramente dal pacifismo alla paranoia. L’autore che più di tutti ha amato gli alieni e ci ha invitato ad accoglierli a braccia aperte, è anche quello che ce li ha mostrati più spietati e assetati di sangue. Potrebbe essere interessante cercare di organizzare i suoi film in coppie antitetiche, ad esempio: Incontri ravvicinati come un anti-Squalo, La guerra dei mondi un anti-ET. Il soldato Ryan un anti-1940, The Terminal un anti-Prova a prendermi. Per certi versi Lincoln si presentava come una specie di Schindler allo specchio: le malefatte di un presidente eroico contro le opere di bene di un nazista profittatore.
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Il Ponte delle spie riflette di nuovo allo specchio alcuni temi di Lincoln: se là la sceneggiatura si attardava compiaciuta sui metodi moralmente discutibili di un grande personaggio con un grande scopo, qui Spielberg inverte le lenti e si concentra su un piccolo uomo che salva il mondo semplicemente facendo il suo lavoro, senza deviare dalla retta via o ammettere strappi alle regole, cascasse il cielo (e il cielo poteva cadere davvero: le spie sovietiche si erano appena impadronite dei segreti del progetto Manhattan). Tom Hanks è ancora una volta il buon americano qualunque, come nel soldato Ryan (mentre in The Terminal era l’opposto, il buon selvaggio); ancora una volta l’avvocato di un alieno, che si appassiona al suo caso disperato e alla fine non solo riesce a salvarlo, ma mostra la superiorità del sistema giudiziario migliore del mondo. Spielberg ci crede sul serio, e la sua fede non ci sorprende: è molto più bizzarro che facciano mostra di crederci i fratelli Coen (continua su +eventi, e Buon Natale!)



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