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We are stardust, we are golden

Mezzo secolo fa stava per cominciare Woodstock, tre giorni di pace amore e musica, e voi non c’eravate. Non è grave. Non c’era nemmeno Joni Mitchell, che pure avrebbe descritto meglio di ogni altro lo spirito di quei tre giorni nella canzone che si chiama, appunto, Woodstock.

Mi sono imbattuto in un figlio di Dio, stava camminando sulla strada. Gli ho chiesto dove stava andando e questo mi ha detto: Sto andando alla fattoria di Yasgur, entrerò in una rock’n’roll band, mi accamperò nella campagna e cercherò di liberare la mia anima.

La colpa in questi casi è sempre del manager: Elliot Roberts convinse Joni che una comparsata televisiva al Dick Cavett Show sarebbe stata una promozione più efficace per il suo secondo album – invece di quell'”Aquarian Exposition in White Lake, NY” che sui manifesti citava Woodstock anche se la contea di Woodstock aveva rifiutato di ospitarlo. Per la cultura giovanile dell’epoca “Woodstock” era già un nome famoso: il mitico villaggio dove Bob Dylan si era ritirato dopo l’incidente in moto, cancellando una tounée e rimettendosi a far musica in cantina coi suoi amici, suggerendo a un’intera generazione di allontanarsi dalle insidie urbane e tornare al territorio. Ma il festival di Woodstock si sarebbe tenuto 70 chilometri più a sud, nella fattoria del signor Max Yasgur. Lo avrebbero organizzato promoter alle prime armi, e malgrado il cartellone stratosferico nessuno sapeva esattamente come sarebbe andato a finire. Siamo polvere di stelle, siamo oro. E dobbiamo ritrovare la strada per il Giardino…

Finì che invece dei cinquantamila spettatori previsti ne arrivarono quasi cinquecentomila; che chi non si era procurato i biglietti entrò lo stesso; finì che i set degli artisti si dilatarono al punto che Jimi Hendrix, che aveva insistito per chiudere il concerto di domenica 17 agosto, terminò alle 11 del mattino di lunedì. Ma in un qualche stranissimo modo, finì bene: anche se il Dylan tanto evocato non volle presentarsi, perché non sopportava gli hippie (e gli organizzatori del festival all’Isola di Wight lo pagavano meglio); malgrado gli ingorghi stradali, la disorganizzazione, l’insufficienza delle strutture igieniche e sanitarie, il fango e il caos, e l’allarmismo dei quotidiani che imploravano ai cronisti in loco di calcare su violenze e disastri che avrebbero potuto benissimo esserci, e invece miracolosamente non ci furono. Finì con Max Yasgur che distribuiva acqua gratis, il medico di campo che lodava il comportamento dei giovani, almeno una morte per overdose e almeno un parto prematuro. La cosiddetta controcultura divenne la cultura egemone di una generazione, e a chi non ne voleva vedere le contraddizioni fu offerto ancora qualche mese di tempo. Per i babyboomers americani Woodstock fu un successo necessario quanto inatteso: e Joni Mitchell non c’era.

“Allora posso camminare dietro di te? Sono venuta qui per sfuggire allo smog, e sento di essere l’ingranaggio in qualcosa che si sta muovendo. Forse è un periodo dell’anno, o forse è un periodo dell’uomo. Non so bene chi sono, ma sai, la vita serve a imparare”.

Anche in tv si ritrovò a condividere la ribalta con i reduci del concerto che nel giro di due giorni era diventato la notizia di apertura dei telegiornali. Dick Cavett la mise a sedere in cerchio con Grace Slick dei Jefferson Airplane, che parlava del suo set domenicale come di un’esperienza religiosa e non era del tutto ironica; col suo ex David Crosby che diceva di aver assistito alla “cosa più strana mai avvenuta sulla terra”, con Sthephen Stills, che sfoggiava ancora orgoglioso i jeans sporchi di fango. A Woodstock c’era stata una battaglia, l’unica che in quel momento aveva un senso combattere: la pace aveva vinto sulla guerra, la speranza sul caos, la solidarietà sull’autodistruzione: e Joni Mitchell non c’era. Maledetto manager.

Questa è più o meno la leggenda consegnata ai cronisti, ma qualcosa non torna. Quando Joni compose Woodstock aveva 25 anni. Neanche al tempo poteva sembrare un’hippie ingenua – non lo era mai stata. A otto anni aveva cominciato a comporre al piano, a nove a fumare; a dodici aveva temporaneamente abbandonato la scuola e aveva iniziato a suonare la chitarra con gli artisti di strada di Saskatoon, Saskatchewan, Canada., cominciando a inventare accordature alternative perché la poliomelite contratta a nove anni le aveva lasciato delle difficoltà articolari. A 20 anni si era spostata a Toronto, con l’idea di fare la folksinger nel breve momento in cui il folk di Joan Baez e del primo Bob Dylan soppiantava il rock nell’immaginario giovanile. Suonava più nelle strade che nei caffè, lavorava ai grandi magazzini; rimasta incinta, aveva sposato un cantautore che le aveva promesso di allevare il figlio come suo (promessa non mantenuta). A 24 aveva lasciato il marito e si ritrovava a New York, la capitale della scena folk, proprio nel momento in cui la scena stava implodendo. Era stato David Crosby, ex chitarrista dei Byrds, a scoprirla in un caffè e a capire per primo che era qualcosa di più dell’ennesima folksinger. Nell’estate del ’69 Joni era una interprete promettente e un’autrice già affermata (Judy Collins aveva scalato le classifiche con una sua canzone, Both Sides Now). Ora faceva coppia con Graham Nash, anche lui folgorato sulla strada per la “fattoria di Yasgur”, i cui entusiasti resoconti le ispirarono il testo di Woodstock. Del resto loro storica esecuzione di Suite: Judy Blue Eyes immortalata nel film di Woodstock, avrebbe reso molto più di qualsiasi apparizione televisiva, anche in termini meramente commerciali. Ma in realtà Crosby Stills e Nash riuscirono sia a regalare un set memorabile al concerto (alle tre del mattino!), sia a partecipare allo show in tv. Se loro ci riuscirono, perché a Joni fu chiesto di restare in città? Mancava un posto in elicottero? Senz’altro la logistica era complicata, e il manager non voleva rischiare di ritrovarsi con tutti i suoi artisti di punta bloccati nel fango mentre Cavett intervistava quelli della concorrenza.

Ma se Elliot Roberts scelse di lasciare indietro proprio lei, è perché sapeva che Joni era l’artista meno adatta a un evento del genere. Due settimane prima, all’Atlantic City Pop Festival, aveva reagito allo scarso interesse del pubblico abbandonando il palco in lacrime dopo tre canzoni. Joni Mitchell è probabilmente l’esempio più classico di musicista che piace più ai colleghi che al grande pubblico: un’artista dal valore indisputabile, ma inadatta ai festival di massa. Il che la rese in qualche modo in grado di descrivere meglio di chiunque altro l’essenza di quei festival. Allo stesso modo in cui nessuno aveva raccontato Waterloo meglio di Victor Hugo, che sul campo non c’era e che se ci fosse stato non ci avrebbe capito niente: allo stesso modo Joni, al riparo dagli aspetti più triviali e problematici, dal fango e dal fumo, descrisse Woodstock non per quello che era, ma per quello che Woodstock aveva voluto essere: l’antiVietnam.

Quando alla fine arrivammo a Woodstock, eravamo forti di un mezzo milione di anime, e ovunque si cantava e si celebrava. E in sogno vidi i bombardieri portare i loro cannoni nel cielo e trasformarsi in farfalle su tutta la nazione. Siamo polvere di stelle, siamo oro. Siamo carbonio di un miliardo di anni…”

Oggi la chiamiamo FOMO, Fear of Missing Out: Joni doveva avere avuto la sensazione di perdere un momento irrecuperabile. Non avrebbe più voluto permetterselo. La canzone era già pronta un mese dopo per il folk festival di Big Sur (un contesto radicalmente diverso, condiviso da poche migliaia di spettatori): nel film la canta in anteprima, circondata da una folla intimidita che non sa esattamente come prenderla. Prima di cominciare le strofe annuncia il ritornello, quasi un invito a cantarlo in coro: un invito assurdo, chi potrebbe mai intonarsi con quella voce acutissima? L’intuizione di Grace Slick si è realizzata: Woodstock è l’inno di una nuova religione, un salmo inaudito e quasi ineseguibile. Forse non era l’intenzione del regista, ma di fronte a un esibizione così intensa e spudorata gli sguardi catatonici degli spettatori e le scenografie medievali sembrano all’improvviso inadeguati come un teatro di cartapesta. Joni arrivava più in alto di tutti, faceva la musica più complessa di tutti e molto difficilmente si sarebbe trovata a suo agio con tutti. La Woodstock incisa dai colleghi Crosby Stills Nash e Young in Déja Vu lo dimostra già indirettamente: è una cover normalizzata, trasformata in un onesto pezzo rock che sembra rifiutare tutte le potenzialità schiuse dalla melodia. L’unica vera Woodstock restava quella altissima di Joni, incisa sul lato B del primo singolo ambientalista della storia del rock, Big Yellow Taxi (“Hanno asfaltato il paradiso e ci hanno messo un parcheggio”. “Hanno tolto tutti gli alberi e li hanno messi in un museo degli alberi, e ora chiedono alla gente un dollaro e mezzo solo per vederli”).

Il vero battesimo di folla, la canzone l’avrebbe avuto l’anno successivo, al secondo festival dell’Isola di Wight. Ed è lì che i nodi vennero al pettine, almeno per Joni. Che il miracolo pacifico di Woodstock fosse stato fortuito e probabilmente irripetibile lo si era già visto nel dicembre del 1969 ad Altamont, in California, dove l’idea dell’entourage dei Rolling Stones di avvalersi degli Hell’s Angels come servizio d’ordine aveva portato a un disastro molto prevedibile, col senno del poi: c’era scappato il morto – accoltellato dagli Angels – e neanche a farlo apposta si trattava di un afroamericano. Se ad Altamont i concertoni avevano rivelato il loro lato violento, all’Isola di Wight si rivide all’improvviso qualcosa che il flower power sembrava aver annullato: il conflitto di classe tra gli hippy ricchi che avevano potuto permettersi traghetto e biglietto e i poveracci che una volta approdati sull’isola si erano visti confinati in un recinto scomodo e remoto dal palco, prontamente battezzato Desolation Row dagli orfani di Dylan. Tra i reclusi di Desolation Row c’era anche un vecchio maestro di yoga di Joni Mitchell (continua su TheVision…)

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