Non bisogna fare un altro partito ma lavorare per risollevare quello che c’è. Domani mi vado ad iscrivere al @pdnetwork. https://t.co/5Jem2aDZfO— Carlo Calenda (@CarloCalenda) March 6, 2018
https://platform.twitter.com/widgets.js
Infatti è appena successo nel Pd, onorato all’indomani della sconfitta elettorale dall’adesione via twitter del ministro Calenda. Dopo poche ore Calenda già spiegava al Pd cosa doveva fare e non fare per non perdere la sua preziosa adesione. Provate a immaginare la stessa situazione nella Lega, o in Forza Italia – non ha senso. Nel Pd non è nemmeno la prima volta. Ogni tanto arriva qualcuno, prende la tessera e spiega agli altri cosa deve fare il partito.
Se il PD si allea con il M5S il mio sarà il tesseramento più breve della storia dei partiti politici. https://t.co/JKAloycTFB— Carlo Calenda (@CarloCalenda) March 7, 2018
https://platform.twitter.com/widgets.js
La stessa avventura renziana, in fondo, è cominciata così: appena otto anni fa anche l’allora sindaco di Firenze era sostanzialmente un outsider. Quel che è successo dopo, a ben vedere, non ha molti precedenti nella storia dei partiti italiani: in una manciata di anni, grazie a un paio di consultazioni di base (le Primarie!), l’outsider si è preso il partito di cui è tuttora, malgrado le dimissioni ufficiali, il leader più rappresentativo. È una traiettoria impensabile in partiti-azienda come Forza Italia o M5S; molto improbabile nella Lega, che ormai è a tutti gli effetti il partito italiano più vecchio in parlamento, l’unico che mostri ancora vagamente una struttura tradizionale novecentesca. Forse è la prova che il Partito Democratico è davvero democratico; di certo è la dimostrazione che è un partito straordinariamente scalabile: che chiunque abbia una visione e un po’ di sostenitori – e di finanziatori – può davvero entrare e cominciare a dettare la linea. Gli altri partiti non sono così e gli altri partiti, bisogna ammetterlo, non perdono così tanti voti (più di sei milioni in dieci anni). A questo punto si tratta di capire se quello che doveva essere il punto di forza del Partito Democratico non si sia rivelato la sua principale debolezza: se i segni di vitalità che ci sta mostrando in questi giorni (incontri, dibattiti, correnti che nascono) siano un segno promettente o gli ultimi rantoli di un’entità che non si rassegna al declino. Il Pd non è certo l’unico partito a strutturarsi in correnti, ma è l’unico in cui le correnti diano la sensazione di poter nascere, agglutinarsi, defluire, nel giro di pochi anni o mesi. Matteo Richetti ne ha appena tenuta a battesimo una, “Harambee”, affrettandosi a spiegare che si tratta di una parola swahili che non ha un vero e proprio senso: una generica affermazione di volontà e unione, una specie di “daje”, “oh issa”: non che l'”I care” di Veltroni e il “Big Bang” di Renzi alludessero a significati molto più complessi, ma insomma la sensazione è che siano finiti non soltanto i contenuti, ma ormai anche i nomi per chiamarli.
via Blogger https://ift.tt/2qDbg9T