Le macchine rallentano, c’è un tamponamento. Una macchina è rovesciata sul fianco, sta per prendere fuoco. Sul ciglio del raccordo una donna si riscuote dallo choc e si mette a urlare: lì dentro c’è mia figlia. I poliziotti la trattengono. Arriva un tizio in felpa nera: cosa può fare? Quello che vorresti fare tu, quello che farebbero tutti. Solleva la fiancata di peso, strappa la bambina alla morte e se la mette in braccio. Per quale altro motivo pensavate di essere venuti al cinema?
Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).
Vai a vedere Jeeg Robot. Me l’hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi – tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.
Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore – tutti i suoi amici o sono svaniti all’Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro – ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento – la violenza è l’unico linguaggio che conosce – tanto violento quanto fragile.
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno… (continua su +eventi!)
tra tutto quello che ho letto su questo film, questa è la recensione più bella di sempre!
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