Il lungo cammino del popolo eterno.
Cerchiamo di restare razionali e di guardare i numeri. Dall’inizio delle operazioni sono morti tredici soldati israeliani. (Sono morti anche più di quattrocento palestinesi, ma quelli per adesso lasciamoci stare). La loro morte era in qualche modo necessaria?
Prima che l’IDF entrasse a Gaza, i razzi lanciati da Hamas e da altre organizzazioni non avevano fatto nessuna vittima. Zero vittime. Evidentemente l’Iron Dome funziona bene (e i razzi palestinesi funzionano male). Poi Netanyahu, dopo una lunga riflessione, ha lanciato l’offensiva di terra: e tredici ragazzi israeliani, fin qui, sono morti. Più di tutte le vittime delle ultime due operazioni a Gaza. Nel frattempo l’operazione pare che abbia cambiato finalità: all’inizio si trattava di snidare qualche base sotterranea e qualche tunnel, ora si parla di “azzoppare Hamas, cosicché non sia più in grado di colpirci di nuovo per qualche anno»”.
A genitori, parenti, amici, qualcuno starà spiegando che quei ragazzi sono morti per ottenere un obiettivo, e che questo obiettivo non è annientare Hamas, la perfida organizzazione terroristica che si fa ostaggio di un milione e mezzo di palestinesi recintati su quattro lati; non è liberare per sempre Israele almeno da questa minaccia; non è assicurare per sempre le proprie famiglie da una pioggia di razzi incendiari o esplosivi; no. Se per un attimo avevamo perfino sperato che Netanyahu volesse almeno dare una svolta alla situazione, ovviamente ci sbagliavamo. I vostri figli, i vostri parenti, i vostri amici, sono morti per conquistare qualche altro anno di relativa sicurezza. Due, tre, magari quattro. Come incidere un bubbone, farne trasudare il liquido. Poi coagulerà, si rigonfierà, tra qualche anno minaccerà di nuovo di esplodere e vi saranno altri amici, altri parenti, altri figli che per inciderlo dovranno morire. Magari toccherà a voi. Dovreste sentirvi fieri di questo.
E tutto questo quanto dovrebbe durare? Più o meno per sempre. Magari Gaza non si presterà per sempre al gioco – c’è un limite al piombo fuso che può cadere su una striscia di sabbia e cemento prima che tutto si riduca a un cratere – ma ci saranno altri recinti, altre strisce. Nei suoi tweet il primo ministro chiama la sua gente “il popolo eterno”. Israele sarà sempre una piccola nazione orgogliosa e vincitrice, e la sua vittoria consisterà nel trionfare su piccoli nemici isolati, recintati, incattiviti, addomesticati. Qualcuno ogni tanto dovrà morire per mantenere l’odio e l’istinto di vendetta entro una certa soglia di tolleranza.
Insomma il progetto è questo, la vittoria è questa, questo lo status quo che Netanyahu vuole preservare per il suo popolo. Tra le tante spiegazioni che si possono dare – tutte utili – di ordine strategico, economico, culturale, vale la pena offrire ai lettori quella degli antropologi (che viene a confortare un nostro antico sospetto): il conflitto tra Hamas e Israele è una guerra rituale:
È in questo senso che suggeriamo di leggere il conflitto Israele/Hamas come una “guerra rituale”. Attraverso di essa, entrambi i contendenti ri-costruiscono e ri-affermano la propria identità, rafforzando in tal modo la coesione interna del proprio gruppo. L’identità, inoltre, come sottolinea Ugo Fabietti, “è una definizione del sé e/o dell’altro che affonda le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi coagulati intorno ad interessi particolari” [9]. Non è necessario ricordare quali siano i rapporti di forza o gli interessi particolari nel caso in esame. Inoltre, ricorda ancora Fabietti, i gruppi umani hanno la tendenza a “elaborare definizioni positive del sé, mentre producono invece definizioni negative dell’altro” [10]. La “guerra rituale” tra Israele e Hamas, dunque, avrebbe non solo lo scopo di ri-costruire e ri-affermare l’identità collettiva dei due gruppi, ma anche quello di costruire e ri-costruire “l’altro” in modo negativo.
Quelle che Ernesto De Martino chiamava la “crisi della presenza” o il “rischio di non esserci nel mondo” sono pressoché permanenti sia in Israele sia a Gaza. Entrambe le “società” inoltre, sono fortemente militarizzate e l’antropopiesi assume dunque il senso di costruzione (e di ri-costruzione) dell’uomo (l’israeliano o il militante di Hamas) anche come soldato. Le società hanno certamente altri strumenti per definire se stesse e gli altri e per fronteggiare i momenti di crisi, ma, come osserva Francesco Remotti, non tutte scelgono “strumenti antropopoietici tranquilli, anonimi … molte adottano processi che irrompono nella normalità e introducono la violenza, il dolore, la sofferenza fisica e psicologica”
Non sta a me, non sta a noi consolare le Racheli che oggi piangono i loro figli. Se non ha senso giudicare i figli di Hamas cresciuti in un recinto e allevati da martiri, ugualmente è inutile rivolgersi ai figli di Israele a cui sarà chiesto periodicamente un tributo di sangue: il loro recinto è appena un po’ più grande, molto più confortevole, ma sempre un recinto è. Forse l’unica cosa che ha senso fare è guardare a noi stessi, e lottare con tutte le nostre forze perché il modello del recinto non sia mai esportabile; controllando che le nostre porte restino sempre il più possibile aperte per chiunque si stancherà di militare in questo o quel popolo eterno.

Scrivi una risposta a S. Cancella risposta