Se posso, vorrei dire – a seguito di qualche malevolo commento – che tutto ciò che ho dato ha pagato le tasse. Poi, che altre donazioni possono aver luogo, senza passare per il notaio: Ricerca sul Cancro, Vidas, Bambini nefropatici, Shoah, San Raffaele, scusa mi fermo, sono stati i miei preferiti. Infine un chiarimento su tutta questa gazzarra. Qui dentro c’è stato un terribile schifo, una congiura… (Bernardo Caprotti, 26/11/13, Corriere della Sera)
Qualche giorno fa – Berlusconi non era ancora decaduto, sembrano secoli – sul Corriere è comparsa una letterina del presidente della catena Esselunga, Bernardo Caprotti. Trattandosi della replica a un articolo che lo riguardava, la pubblicazione era un atto dovuto; a sorprendere (ma neanche più di tanto, ormai), è la decisione di pubblicare il testo del biglietto così come è probabilmente arrivato, stile Celentano. Probabilmente in redazione avranno preferito non innervosire ulteriormente il personaggio, e così gli hanno dato spazio esattamente come in un talk show si “passa la linea” a un ospite telefonico, magari un tizio inviperito che ha chiamato perché stanno parlando male di lui.
Risultato: abbiamo assistito in diretta allo sfogo di un capitano d’industria ottantottenne, senza capire molto dei dettagli, ma afferrando la sostanza: il tizio non si può più fidare di nessuno. Gli fanno la guerra i figli; gli fa la guerra la vecchia segretaria e braccio destro; probabilmente gli hanno alzato una trincea persino in ufficio stampa, così è ridotto a scriversi i biglietti da solo. Con qualche effetto perversamente comico: Caprotti afferma di aver fatto cospicue donazioni alla “Shoah”: probabilmente non allude a un inverosimile sostegno ai genocidi nazifascisti, ma alla meritoria associazione “Figli della Shoah”; aveva fretta e ha abbreviato, e al Corriere han stampato così.
Di fronte a un episodio del genere – valutate voi quanto buffo o patetico o triste – spunta la solita domanda (spunta sull’Unità, H1t#206): ma succede così anche altrove? O siamo l’unico Paese in cui i capitani d’industria non riescono a padroneggiare la propria lingua madre, né a munirsi di collaboratori che li sappiano assistere? Quando Caprotti definisce il Corriere il “Times del proprio Paese”, mette a fuoco il problema: è immaginabile un testo così involuto sul Times o su qualsiasi altra prestigiosa testata occidentale? Non è una domanda retorica, onestamente non lo so: se qualcuno ha in mente episodi paragonabili me li segnali pure qua sotto. Ma nel frattempo rimane il dubbio di ritrovarsi nel Paese con la classe dirigente e industriale meno colta d’Europa. Altrove almeno una letterina la sanno scrivere – se non lo sanno fare, sanno procurarsi qualcuno che lo faccia per loro; da noi no, non è richiesto, non è necessario.

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