Disco 2006
Non è che non piacerebbe anche a me, stilare la top 10 dei dischi dell’anno. Se solo quest’anno fossi riuscito ad ascoltarne 10.
La verità è che ho raccolto solo qualche canzone sparsa qua e là, e non ha molto senso metterle in ordine. Tutto quello che riesco ad allestire è una piccola cerimonia per… la Canzone dell’Anno.
Ma intendiamoci, la Canzone dell’Anno 2006 non è la più bella del 2006, non ci tengo ad essere fatto a pezzi. La mia preferita, se proprio v’interessa, è Young folks, un inno al rapporto di coppia contro tutto e contro tutti. O perlomeno così ho voluto capirla (e fischiettarla) io. Chi non l’ha mai ascoltata non ha da rimproverarsi, fa ancora in tempo a documentarsi (via polaroid ovviamente, è roba svedese). Ma non credo che a molti Young folks possa ricordare particolarmente il 2006.
La Canzone dell’Anno, invece, è la canzone che dovrebbe aiutarci a capire che razza di anno è stato questo. Va pescata nell’heavy rotation delle radio o di MTV: tutti dovrebbero averla sentita almeno una volta. Probabilmente è un pezzo in inglese, eppure dovremmo aver capito almeno il ritornello. Per fare un esempio, la filastrocca sulle biciclette a Pechino. Abbiamo tutti capito che sono nove milioni. Ecco. Il 2006 è stato l’anno in cui ci siamo resi conto che a Pechino ci sono nove milioni di ciclisti (molti in procinto di motorizzarsi), “It’s a thing we can’t deny”. Non resta che amarsi fino alla morte. Così forse Katie Melua potrebbe aver cantato la Canzone dell’Anno. Se la metafora politica non fosse stiracchiata assai.
E allora? Probabilmente bisognerebbe incoronare Lily Allen, ha messo d’accordo fin troppa gente. In settembre, mentre cercavo di risintonizzare l’autoradio abbandonata per due mesi in un parcheggio, non facevo che saltare di Smile in Smile, roba da piangere. E pensare che fino a qualche mese prima era un pezzo su MySpace. Già. E “L’inno dei mondiali po-po-po-po-po” era ancora “Seven Nation Army”. Quel tipo di cose che succedevano nel 2006. Ok, vada per Lily Allen, persona dell’anno. Ma davvero non c’era niente di meglio in giro?
Io mi butto. Secondo me la canzone dell’anno è Cash Machine. Probabilmente non ve la ricordavate più. Ma dovreste averla sentita, almeno una volta: io per esempio la stavo ascoltando mentre decollavo da Bologna, quest’estate. Gli Hard-Fi sono l’ennesimo gruppo inglese: non suonano nulla di particolarmente originale, e anche il pezzo non è un capolavoro. Niente da ballare o fischiettare. Ma ti rimane in testa.
E dopo un po’ germoglia. Sapete com’è l’inglese, per noi. Molti messaggi ci arrivano per via subliminale. Ci metti un po’ a renderti conto di un fatto banalissimo: Cash Machine è una canzone sul denaro. Su quanto sia frustrante non averne.
Go to a cash machine
To get a ticket home
Message on the screen
Says don’t make plans, you’re broke
Da quand’è che non si parlava di denaro in questi termini, nelle hit parade? Per quanto mi sforzi a me non viene in mente altro che Mick Hucknall quando cantava Money’s to tight to mention. E poi basta, fine, il pop ha goduto vent’anni di paghette garantite. Finché un bel giorno questo ragazzino inglese arriva davanti al bancomat e…
I scratch a living, it ain’t easy
You know it’s a drag
I’m always paying, never making
But you can’t look back
I wonder if I’ll ever get
To where I want to be
Better believe it
I’m working for the cash machine
Non sono versi immortali, è un grido di dolore abbastanza banale: come ogni dolore, del resto. Viene il giorno in cui ti accorgi che il bancomat non lavora per te: sei tu che lavori per lui. Quel giorno per molti è arrivato nel 2006. E nel video – tenetevi forte – ci sono gli operai! In pieno giorno, su MTV, gli Hard Fi travestiti da minatori fabbricano le odiose banconote. Se siamo tutti imprenditori di noi stessi, siamo anche gli operai di noi stessi. Siamo da una parte e dall’altra di quello sportello. Si chiama alienazione, e il pop non ne parlava da un pezzo.
Nella terza strofa il dramma diventa famigliare. “What am I gonna do? My girlfriend’s test turned blue!” Levare le tende perché non puoi permetterti “di essere un papà”? È una mia impressione, o fino a qualche anno fa sarebbe stato incantabile? Pensate solo al 2005, quando i Kaiser Chiefs cantavano “and my parents love me, that’s enough love for me”. È stato un anno lungo. Qualcuno ha scollinato. Il pezzo finisce intonando un coro normalissimo, ma che potrebbe venire da un vecchio blues del Delta: There’s a hole in my pocket, my pocket, my pocket. Non è un capolavoro, no. Ma Cash machine è la Canzone del 2006.
E poi – ma questo forse l’ho sentito solo io – c’è quel vago suono di armonica, all’inizio, che per un attimo ti fa sentire di nuovo tra una track e l’altra di Sandinista! Davvero, soltanto una frazione di secondo. Ma sarebbe stato bello se un giorno qualcuno ripartisse da lì.
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