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C’è un romanzo attualissimo che dovremmo studiare in tutte le scuole, l’ha scritto Alessandro Manzoni

Due ragazzi vorrebbero diventare grandi, mettere su famiglia, cominciare un’attività. Ma un boss che già da settimane stalkerava la ragazza è di un altro parere, e manda i suoi picciotti a intimidire le autorità. Costretti a dividersi, i due protagonisti perdono le proprie tracce in un contesto apocalittico: crisi economica, guerra, epidemia. Le autorità sono completamente incompetenti, la popolazione crede a qualsiasi fake news. La ragazza trova rifugio in una comunità chiusa femminile dove però scopre che l’autoreclusione non abolisce i rigidi rapporti di forza della società, anzi li esalta. La sua protettrice, ricattata a causa di un torbido passato, la consegna a un altro boss. Il ragazzo, frustrato, si radicalizza: coinvolto nei moti di piazza viene criminalizzato come un terrorista dal potere costituito, in caccia di capri espiatori. E così via.

Partendo da un piccolo caso di provincia – un banale caso di molestie, un’intimidazione di stampo mafioso  – l’autore allarga il quadro fino a dipingere un’intera società in stato disfunzionale. Le leggi descrivono i reati invece di reprimerli; il governo, ignorando i più elementari concetti di economia conduce la popolazione alla fame e al caos; i ricchi vivono in una bolla, cosplayer di una fiction in costume medievale; la cultura è custodita da eruditi ottusi che disprezzano la scienza; le guerre sono il risultato di farraginosi meccanismi diplomatici che scattano quasi automaticamente, decidendo il destino di milioni di persone. E proprio quando le cose sembrano volgersi al meglio, un’apocalittica epidemia travolge la vita di tutti i personaggi. Il romanzo italiano più attuale che possiate aprire oggi forse è stato scritto nel 1827, quando ancora non era chiaro se in Italia si potessero scrivere libri – e in che lingua andassero scritti.

Quante volte, anche in questi giorni, di fronte ai tweet di qualche sovranista esagitato che cercava di cavalcare la paura del coronavirus per chiedere la chiusura dei porti, ci siamo detti: dagli all’untore. Quante volte di fronte a quel meccanismo giornalistico conosciuto come macchina del fango, non abbiamo pensato alla colonna infame. Un cosiddetto intellettuale si lamenta della crisi del liceo classico, senza nemmeno disporre degli strumenti statistici per stabilire se il classico sia in crisi o no: l’ennesimo Don Ferrante. C’è crisi, qualcuno propone di stampare moneta all’infinito, che problema c’è? come Ferrer coi forni e la farina – salvo che sappiamo già come andrà a finire, appunto: ce l’ha spiegato Alessandro Manzoni. Viene emanata una legge per risolvere un problema che ha già ispirato tante altre leggi rimaste inapplicate: come non pensare allo scrittoio ingombro di carte dell’Azzeccagarbugli, mentre cerca la grida più recente perché quelle fresche di stampa fanno “più para”. C’è una manifestazione, qualcuno fa dei danni, qualcun altro rimane impalato davanti alla telecamera del giornalista: domani sarà su tutte le homepage come il leader dei facinorosi, la stessa storia sin dai tempi di Renzo Tramaglino. E a proposito di Renzo, il suo rancore per chiunque abbia avuto il tempo e la facoltà di studiare, non lo vediamo all’opera tutti i giorni sui profili di milioni di laureati all’università della vita? La dinamica con cui le folle deformano ogni informazione, qualcuno l’aveva già descritta così bene prima della notte delle beffe? Per farla breve: se cercate un romanzo italiano che ci descriva meglio di quello scritto da Manzoni duecento anni fa, e ambientato duecento anni prima, non è detto che lo troviate.

Andrebbe letto in tutte le scuole – il problema è che lo facciamo già. E tante volte ci siamo detti che forse proprio questo era il problema coi Promessi sposi: l’obbligo scolastico. Un libro che ci racconta con abbondanza di dettagli un’avventurosa vicenda di soprusi, duelli, malintesi, drammi interiori e quant’altro, in un periodo storico così apparentemente lontano dal nostro, evoca in tutti noi per prima cosa la fornica sciupata dei banchi di scuola. Ogni tanto qualcuno butta lì la provocazione: e se smettessimo di imporlo agli studenti? Magari a quel punto sì, comincerebbero davvero ad apprezzarlo. Qualcuno senz’altro lo leggerebbe di nascosto, mentre il prof spiega Tolstoj o la Ferrante.

Purtroppo niente lascia pensare che le cose andrebbero così… (continua su TheVision)

Le classifiche dei libri ci dicono l’esatto contrario: gli unici classici della letteratura italiana a salire ciclicamente le classifiche sono i testi che vengono assegnati dagli insegnanti come letture estive in giugno, o imposti nel pacchetto dei libri di testo a settembre. Il Fu Mattia Pascal, La Storia di Elsa Morante, i Malavoglia di Verga e così via. Tutti testi interessanti e ancora attuali, ma se la scuola non li riproponesse, nel medio termine rimarrebbero materia per gli specialisti. La stessa cosa succederebbe per i Promessi sposi, che tra questi è anche uno dei meno facili da leggere. La prosa di Manzoni è quanto di più diverso si possa immaginare da quella svelta e spesso cinematografica che siamo abituati a trovare nei best seller di oggi, anche quelli con pretese letterarie: è tornita, abbondante, si dipana come la lezione di un professore di Storia a cui nessuno abbia imposto limiti di tempo. È uno stile quasi miracoloso per gli anni in cui Manzoni lo produsse, e che per molto tempo fu uno standard ineguagliato, ma oggi ha bisogno del filtro scolastico per essere apprezzato: molti testi postmoderni che fondano il proprio successo di nicchia sul fatto di essere quasi impossibili da leggere (penso a Infinite Jest, o L’arcobaleno della gravità) sono per certi versi più facili da leggere con comodo in poltrona o persino sotto l’ombrellone.

Un altro aspetto che ci aliena ineluttabilmente da Manzoni è proprio quello che più contribuì a renderlo una lettura obbligatoria per così tanto tempo: il cattolicesimo. Perché per quanto sia tragico e decadente il mondo descritto da Manzoni, non può che urtare la nostra sensibilità postmoderna il fatto che ci abbia messo la soluzione davanti al naso: la Provvidenza. Ovviamente le cose sono molto più complesse di così, e anche il cattolicesimo di Manzoni, a conoscerlo, è un sentimento religioso molto sui generis: in un Paese dove tutti nascono cattolici e smettono di crederci dopo aver preso i sacramenti, Manzoni fece il percorso contrario, convertendosi in età adulta, e rimanendo molto vicino a una corrente abbastanza esotica per la sensibilità italiana, il giansenismo.

La fede di Manzoni non gli impedisce di muovere critiche severe al clero, anzi: due dei personaggi meglio definiti dall’autore, con precisione spietata, sono com’è noto due figure di religiosi: Don Abbondio e Gertrude. Per quanto si avvicini a loro, per quanto li descriva nei moti più reconditi, Manzoni non sospende mai un fermo giudizio morale nei loro confronti: per quanto non smetta di riconoscere e di descrivere come il loro carattere e le loro mancanze siano il risultato delle pressioni sociali subite sino dalla nascita, Manzoni non smette di affermare che a queste pressioni, in qualsiasi momento, il timido prete e la monaca reclusa avrebbero potuto e dovuto dire di no. Non esattamente il cattolicesimo bonario delle nostre sacrestie, come si vede: da integralista del libero arbitrio Manzoni non può perdonare Gertrude: è “sventurata”, è vero, ma nessuno la obbligava a rispondere.

Mentre in Italia è passato molto spesso per cattolicesimo un dispositivo morale che ci allontana dalle nostre responsabilità individuali, Manzoni non ha pudore a rimettercele costantemente davanti agli occhi, con quell’insistenza che passa per paternalismo (e in un certo senso lo è davvero): siamo noi che scriviamo troppe leggi invece di preoccuparci e farle rispettare, siamo noi che di fronte a una minaccia più o meno vaga ci inchiniamo come davanti don Abbondio davanti ai bravi “troppo giusti, troppo ragionevoli”. Siamo noi che malgrado ogni tentativo di contenerci, di fronte alle provocazioni di un interlocutore nemmeno troppo astuto cominciamo a vedere rosso e ci facciamo possedere dall’ira, come fra Cristoforo davanti a don Rodrigo. Siamo noi che di fronte a una difficoltà, invece di lottare per ciò che abbiamo di più caro, decidiamo di rinunciarci come se Dio ce lo chiedesse, come Lucia nella sua notte più terribile. Siamo noi i personaggi dei Promessi Sposi, e questo ci fa arrabbiare: tutti gli altri popoli europei vivono in romanzi più recenti. Noi forse no: uno scrittore pietoso e spietato insieme come Manzoni forse non lo abbiamo trovato e a questo punto magari è troppo tardi.

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Anche Salvini, a Gerusalemme?

[Questo pezzo ci ha messo un po’, ma alla fine è uscito su TheVision]. Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz’altro il primo a portare nella politica l’antica arte della provocazione; però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l’attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e lasciarli autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l’arte ma non il senso; e oggi che ha il campo libero, lo vediamo trollare non tanto per imporre un’agenda politica, ma piuttosto imporre un’agenda politica che gli permetta di trollare.

Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l’idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ebbene, Salvini voleva esattamente questo da noi, Salvini si nutre della nostra furia.

Quanto a Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per massima resa. Riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico è un gesto che non gli costa nessuna fatica e sarebbe gravido di conseguenze, se Salvini fosse al governo (si tratterebbe di tradire l’approccio UE al problema). Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a starci: l’anno scorso è resistito fin quasi a Ferragosto perché in effetti un ministro degli interni a torso nudo al Papeete è ancora un po’ provocatorio; ma non un minuto di più. E poi, certo, Salvini dimostra anche in questo caso l’allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente, sì: ma davvero a Salvini premevano così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio la settimana scorsa? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma circola ancora qualche fuorisede filopalestinese in kefiah (il tizio ragiona per stereotipi un po’ muffiti). Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari in quello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, che colpo sarebbe: che fantastico modo di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega – e invece no, Piazzale VIII Agosto si riempie, ma di placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.

A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori, per così dire, professionisti o appassionati; quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell’abisso: perché ci sono livelli davvero sotto i quali nessuno era sceso, e Salvini li sta perforando in caduta libera. Cioè lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità invitando a un convegno sull’antisemitismo Liliana Segre (che prontamente ha declinato l’invito). Salvini ha davvero spiegato a un giornale israeliano che l’antisemitismo, in Italia, lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l’osservatorio sull’antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti dai nomi e dai cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che spartire con l’antisemitismo di una “destra tradizionalista”, e lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Magari ignorando in buona fede che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di cose che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista. Almirante era il segretario di redazione.

Qualcuno ha già rimarcato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare “una patente di rispettabilità politico-religiosa”. Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall’altra parte qualcuno si presti, e Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto Duterte, è andato a trovare Orban, perché non dovrebbe accostarsi a Salvini… [continua su TheVision]

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L’Emilia-Romagna non esiste (ma resiste)

[Questo pezzo è stato scritto ieri ed è uscito su TheVision]

Oggi non è una brutta giornata. Ovvero: se do un’occhiata dalla finestra, l’Emilia-Romagna continua a sembrarmi la stessa regione inquinata e decadente di ieri. I problemi sono ancora tutti lì esattamente dove erano sabato, e in parte si tratta di problemi che Stefano Bonaccini non risolverà, perché l’Emilia-Romagna alla fine è semplicemente un pezzo d’Italia, d’Europa e di mondo, ritagliato in modo anche abbastanza casuale.

In alcune zone di questo pezzo d’Italia, la propaganda salviniana funziona, ed è facile notare che sono le zone periferiche di un tessuto che progressivamente si sta trasformando in una grande periferia. I centri resistono, ma sono sotto assedio: oppongono un modello ma non riescono più a irradiare un messaggi alternativi a quelli declinati dalla Mediaset e dalle sua varianti; già prima di arrivare alle tangenziali i discorsi nei bar cominciano ad assomigliare agli stessi discorsi che puoi sentire a Varese, Viterbo, Vibo Valentia. Bibbiano perde i contorni di placido comune in provincia di Reggio nell’Emilia e diventa un campo d’internamento dove bambini rasati venivano sottoposti a elettroshock da assistenti sociali satanisti.

Ma non si tratta soltanto di una gara a spararla grossa (che Salvini comunque era determinato a vincere). Nelle zone montane, in certa Bassa, nelle new town fungate sulle strade statali, Salvini vince come vince il Capo Indiano che chiama a raccolta i nativi messi ai margini dall’avanzata del progresso. Nelle zone industriali dove un capannone su due è una carcassa di cemento, nella riviera che non è soltanto Rimini e Riccione ma migliaia di pensioncine a trazione famigliare che la Croazia spazzerà via, Salvini non vince soltanto perché racconta cazzate. In un certo senso, non è il solo che le dice. In un tessuto sociale che ha smesso da un pezzo di essere competitivo, e mese per mese assiste al suo stesso smembramento, anche chi continua a raccontarci che siamo la terra delle Ferrari, di Farinetti, di Fellini, a volte non ha percezione di quanto ci stia ammorbando di chiacchiere. Modena era una realtà industriale quando c’erano le fonderie, e la Ferrari era poco più di una fabbrichetta – famosa in tutto il mondo ma abbastanza marginale. Ora al posto delle fonderie c’è il museo Enzo Ferrari ma non creerà mai la stessa ricchezza, non è che puoi davvero pensare di sostituire lo storytelling all’acciaio. C’è un limite oltre il quale anche la narrazione delle eccellenze diventa un tormentone non molto meno tossico dell’elettrochoc di Bibbiano, e oltre quel limite perché Matteo Salvini non dovrebbe vincere? Perché non dovrebbe raccontare che l’euro ci sta strangolando, che negli anni Ottanta si stava meglio, che l’immigrazione abbassa il costo del lavoro? È una visione superficiale, ma non più superficiale di quella che propone di risolvere tutto con l’auto di lusso, l’abbigliamento di lusso, la ristorazione di lusso.

(Mesi fa il sindaco di un piccolo centro sull’appennino parmense scrisse una circolare ai genitori degli studenti, chiedendo per favore di non ordinare lo zaino scolastico su Amazon ma di comprarlo nell’unica librocartoleria superstite. Dalla stampa nazionale insorse un editorialista progressista: ma come! Ai ragazzi bisogna insegnare a eccellere, a studiare, a diventare Bezos, non a combatterlo. Sì, in pratica bisogna insegnare ad andarsene dall’appennino, un luogo dove tenere aperta una libreria è ormai un eroismo inutile). (L’editorialista in questione non è cresciuto in appennino ma in una redazione; è figlio di un altro editorialista, perché raccontare i pregi della meritocrazia è un’arte che in Italia non s’impara in una generazione).

Però alla fine oggi non è una brutta giornata, dai. Si è alzata anche la foschia, ora splende il sole, l’aria continua a essere tra le più carbonate sul pianeta, ma non si può pretendere. Di tutto aveva bisogno questo pezzo d’Italia tranne che di un’altra gang di amministratori incompetenti e parolai. La maggior parte degli elettori del vecchio bacino emiliano 5Stelle ha deciso, di fronte a un bivio, che la direzione indicata da Salvini non era praticabile: non era affatto scontato. E soprattutto abbiamo dimostrato che un certo tipo di campagna elettorale non funziona ovunque, e quindi alla lunga non funziona. Da questo punto di vista bisogna ringraziare Salvini, proprio perché in quest’occasione ha dato il peggio di sé e ci ha dato un’occasione gloriosa per dimostrare che Salvini, anche nella sua versione peggiore, non è sostenibile. Non vince neanche se fa il Gabibbo, non vince neanche se fa Cronaca Vera (il martellamento ossessivo su Bibbiano), non vince a imbucarsi in qualsiasi sagra, ad afferrare un prodotto gastronomico e a spararsi un altro selfie con quei poveri sostenitori che ormai in memoria hanno più faccioni di Salvini che foto dei figli. Dopo Craxi, dopo Renzi, Salvini è l’ennesimo avventuriero che due o tre battaglie hanno illuso di poter conquistare almeno mezza Italia: è senz’altro bello pensare che si sia dovuto fermare sul Taro. Significa che l’Emilia rossa resiste? Anche l’Emilia rossa è storytelling. Comunista in senso stretto non lo è mai stata: forse le è capitata in sorte una classe dirigente un po’ più pratica, un po’ più onesta, ma quello che vedo io dalla finestra è un pezzo d’Italia individualista e frustrato che un candidato di centrodestra decente lo voterebbe. È da almeno vent’anni che lo implora: un candidato liberale, pragmatico, amico delle piccole medie imprese o di quel che ne resta. Ecco, questo candidato la destra italiana non ha mai voluto proporlo. Sia Berlusconi ieri, sia Salvini oggi, si sono sempre lasciati incantare dal mito della fortezza rossa da espugnare con gli slogan e le recriminazioni identitarie: non hanno mai pensato di proporre una vera alternativa a livello di amministrazione, forse semplicemente perché non era disponibile o credibile. Il giorno che lo sarà, qualcosa mi dice che l’Emilia smetterà di essere rossa nel giro di poche ore. Ma è una prospettiva lontana, lontana. Il centrodestra che tira è il centrodestra che la spara più lunga, tant’è che al declino della stella di Salvini sta iniziando a sorgere quella di Giorgia Meloni. Le chiacchiere che producono funzionano in tv, funzionano sui social, funzionano in tante edicole e bar, ma non ti fanno vincere le elezioni, perlomeno tra Taro e Rubicone. È una bella giornata oggi, dai.

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La passione mancata di Bettino C.

La sera del 23 aprile del 1993 gli uomini della scorta di Bettino Craxi gli chiesero invano di uscire dal retro dell’Hotel Raphael. Nella piccola piazza antistante, già da un paio d’ore, si era formata una folla sempre più rumorosa che brandiva biglietti da mille lire (91 centesimi del 2020, al netto dell’inflazione). “Vuoi pure queste?“, cantavano, “Bettino, vuoi pure queste?”, sull’aria di Guantanamera. Craxi, essendo Craxi, decise che non si sarebbe lasciato intimorire da quella che riteneva una manifestazione organizzata dai suoi avversari politici. Uscì dall’ingresso principale. E… si lasciò intimorire, eccome. “Ho provato per la prima volta sulla mia pelle lo squadrismo”, disse poi. Non c’è motivo di dubitare che si sia trattato di un vero choc per lui, al termine di una giornata particolarmente drammatica. Ma nel filmato il tragitto tra la porta dell’hotel e l’auto blu non dura più di quattro secondi, durante i quali gli agenti di polizia gli fanno da scudo umano. È vero, la piazza era piena (ma è anche abbastanza piccola). È vero, i manifestanti stavano tirando “di tutto! monetine, pezzi di vetro, di tutto!”, come gridò nel microfono l’inviata Rai Valeria Coiante. Ma non fu squadrismo, nel senso che il termine ha sui libri di Storia di cui Craxi era avido lettore: non fu l’azione di una banda armata nei confronti di un avversario politico inerme. Craxi era ben difeso, dalle forze dell’ordine di uno Stato che aveva appena deciso – con un voto del Senato – di non indagare su quattro delle sei accuse che i magistrati gli rivolgevano. La decisione era stata accolta con rabbia da una parte rilevante dell’opinione pubblica, e qualcuno aveva deciso di aspettarlo fuori dal Raphael. Tutto qui, e forse non sarebbe stato questo macigno sulla traiettoria politica di Bettino Craxi, se per una volta avesse deciso di essere un po’ meno Craxi e di uscire dal retro. In fin dei conti era il 1993, Craxi non era il primo leader politico a rimediare fischi e monetine, né sarebbe stato l’ultimo.

Perché non riusciamo a rivalutare Craxi? Nemmeno dopo vent’anni – vent’anni passati all’ombra di politici quasi sempre inferiori a lui per cultura e strategia – perché non riusciamo a dare allo statista quel che gli spetta? Cosa posso dire, è complicato. Forse per la mia generazione è una questione di imprinting. Nel 1993 io ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da sempre, cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; tra fan dei Duran Duran e fan degli U2 non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine, come tra Montecchi e Capuleti). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti delle fiction imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non significa che non avesse un senso detestarlo, mentre ci vivevi. Rifiutare l’estetica del disimpegno, rifiutare far caso alle crepe nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, e del resto eravamo davvero adolescenti. E Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcelo, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.

Ora, tutto questo è molto puerile, e abbiamo avuto trent’anni per rimetterlo in discussione. Trent’anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran: perché non Craxi? Che davvero, qualche argomento lo aveva.

A volte ho il sospetto che sia anche responsabilità dei craxiani… (continua su TheVision)

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La vocazione (maggioritaria) all’autodistruzione

Sarà una coincidenza? Proprio nella settimana in cui abbiamo salutato la nascita di un nuovo movimento di opinione (le “sardine”), i dirigenti del PD hanno deciso di aprire un dialogo con la Lega sulla prossima legge elettorale. I leghisti la vorrebbero più maggioritaria e anche Zingaretti sembra d’accordo, in vista di un auspicato ritorno al bipolarismo. Del resto il M5S continua a scendere nei sondaggi, Forza Italia sembra in fase terminale, Renzi e Calenda dovrebbero contendersi un bacino di elettori abbastanza ininfluente, per cui, insomma, il futuro dovrebbe essere una sfida a due, ed è chiaro che i due vorrebbero essere PD e Lega. Non è scritto nel destino, ma potrebbe diventarlo con la legge giusta: il maggioritario. E proprio nei giorni in cui Zingaretti decide di pronunciarsi sull’argomento, le piazze emiliane suonano un colpo e cominciano a riempirsi di gente che nessuno aveva previsto o calcolato.

Si chiamano sardine, vabbe’, e da dove vengono? Un po’ da ovunque. Alcune affiorano per la prima volta nello specchio della politica, altre hanno perso la voglia di votare tanti anni fa, altre ancora si sono appena disamorati del movimento che fu di Beppe Grillo (e non hanno nessuna intenzione di ammetterlo). Che cosa vogliono? Tante cose vagamente “di sinistra”: ecologia, solidarietà, antirazzismo, tanti temi difficili da sintetizzare in uno slogan o un programma. Anzi no, non è così difficile: non ne possono più di Salvini e del suo sovranismo razzista e cialtrone. Visto: alla fine serve poco per mettersi d’accordo. Basta individuare un nemico, e Salvini sembra non chiedere di meglio. 

Va bene, ma per chi voteranno? Ecco. Senz’altro non Salvini, e molto difficilmente le altre formazioni di centrodestra ormai satellitari alla Lega. Ma da qui a mettere tutti una croce sullo stemma del PD ce ne passa: soprattutto in Emilia-Romagna, dove il PD è considerato il partito dello status quo, e in alcune città governa senza soluzioni di continuità dalla fine della seconda guerra mondiale (pur con nomi diversi, e una classe dirigente ormai completamente diversa per mentalità e cultura). No, non è possibile pretendere che tutte le sardine votino per il PD di Bonaccini – finché c’è ancora un sistema ragionevolmente proporzionale…

…Ma con un buon maggioritario, ecco, alle sardine e agli altri pesci non resterebbe altra scelta: o padella o brace. 

La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno brutti e cattivi di Salvini: non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come Salvini, pur di far piazza pulita dei nemici ‘interni’ del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il PD resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo forse non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati, e proprio in un momento in cui l’emergenza climatica richiederebbe misure sempre più drastiche e impopolari.

Ma anche in caso di completa catastrofe politica e ambientale dirigenti del PD potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, ecc.: di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza.

Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema che è antico quanto il PD (2007), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del PD, al punto che viene da domandarsi se non sia il destino del PD: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.

È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo finalmente alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”… (continua su TheVision)

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PD e 5Stelle, separati alla nascita

Un accordo di governo tra Pd e M5S: fino a qualche settimana fa sembrava impossibile, e forse lo è. Certo, il parlamento lo ha accettato: ma la base? Prima o poi qualcuno dovrà spiegare ai milioni di elettori Cinque Stelle che il Pd non è più il partito di Bibbiano. Prima o poi qualcuno dovrà convincere gli elettori del Pd che il ministro Di Maio non è più “er bibbitaro“, e che Rousseau in fin dei conti è una semplice piattaforma di consultazione interna, con molte falle nella sicurezza e zone d’ombra, ma del tutto legittima. Prima o poi, due popoli aizzati da anni l’uno contro l’altro su media e social network dovranno seppellire l’ascia di guerra.

Ammesso che sia possibile, chissà se ne vale la pena. Pd e M5S potrebbero riallontanarsi tanto velocemente quanto si sono avvicinati. A farli convergere per un istante sarebbero mere considerazioni tattiche, in un tentativo più o meno disperato di resistere a un Salvini trionfante nei sondaggi. Ecco l’unica cosa che avrebbero in comune, gli elettori dem e grillini: il nemico. In politica è normale trovarsi a letto col nemico del proprio nemico, ma non significa che devi andarci d’accordo tutto il giorno. Non resta che stringere i denti e ricordare che Di Maio-Zingaretti è meno peggio di Di Maio-Salvini. Con queste premesse, è chiaro che l’alleanza potrà durare fino a un calo di Salvini nei sondaggi, o il nodo di qualche inchiesta su di lui non giunge al pettine. Dopodiché, o si troverà un altro nemico in comune, oppure addio. Potrebbe anche essere tutto qui.

Oppure democratici e cinquestelle potrebbero approfittare di questo strano flirt estivo per rimettersi in discussione. Per qualche anno si sono odiati e disprezzati, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma quando è cominciato tutto questo, e chi l’ha deciso?

Quella tra elettori del M5S e del Pd non è la tipica contrapposizione ideologica che separa – per fare un esempio – fascisti e comunisti. Non è nemmeno una nuova forma di lotta di classe: i bacini sociali dei due elettorati sono contigui, forse sono gli stessi. Anche l’interpretazione che va per la maggiore (Pd elitista contro M5S populista) convince fino a un certo punto: il Pd ha molto spesso assorbito spinte populiste (specie nella fase rottamatrice della segreteria Renzi), mentre il M5S sembra essere il partito più votato dai laureati. Fingiamo di essere appena arrivati in Italia da un altro pianeta: di fronte a due partiti che si odiano e si spartiscono gli stessi serbatoi elettorali, non potremmo che concludere che si tratta del risultato di una scissione. Non abbiamo mai pensato di analizzarla da questo punto di vista, ma forse potremmo.

Se non è facile trovare una data per sancire l’inizio dell’odio tra i due soggetti politici, è certo che già nell’estate del 2007 c’era una forte diffidenza reciproca. Nell’ottobre di quell’anno i leader di Margherita e Ds decidono di fondersi in un unico partito, con Walter Veltroni come segretario, eletto durante le prime primarie aperte ai cittadini della storia repubblicana. Fino a quel momento lo schema dei Democratici di sinistra era stato quello dalemiano di coalizzarsi con forze più centriste (le schegge dell’esplosione della vecchia Dc), cercando di arginare Berlusconi. Lo schema era sembrato efficace con l’Ulivo di Prodi nel 1996, ma molto meno con l’Unione di dieci anni dopo. Per Veltroni, apparentemente più bonario, quelle stesse forze andavano attirate e assorbite, eliminando gli elementi meno assimilabili grazie a una legge elettorale che prevedesse una soglia di sbarramento sufficientemente alta. D’Alema non credeva nella strategia di Veltroni ma in un certo senso la preparava; Veltroni era insofferente dei tatticismi di D’Alema, ma in un certo senso li portò a compimento. Perché sia i dalemiani che i veltroniani erano convinti che l’unico modo di vincere le elezioni fosse andare verso il Centro, visto come un’immensa pianura in cui pascolava un abbondante elettorato moderato che non poteva davvero sopportare la volgarità di Berlusconi e prima o poi lo avrebbe abbandonato. Sia D’Alema che Veltroni erano convinti che il futuro della socialdemocrazia fosse una liberaldemocrazia allineata alle direttive di Maastricht, mitigata da alcuni ammortizzatori sociali da decidere poi con calma. Il fatto che la classe media cominciasse a impoverirsi non destava molte preoccupazioni: l’eventualità che la frustrazione degli elettori li portasse a cercare formazioni politiche più estreme sembrava fantascienza. Sia D’Alema che Veltroni erano convinti che la battaglia si sarebbe vinta al centro perché, in sostanza, sia D’Alema che Veltroni erano buoni politici di Centro, e non facevano che tendere a sé stessi. E sia D’Alema che Veltroni non ci arrivarono mai.

Oggi forse si è chiarito il perché… (continua su TheVision)

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We are stardust, we are golden

Mezzo secolo fa stava per cominciare Woodstock, tre giorni di pace amore e musica, e voi non c’eravate. Non è grave. Non c’era nemmeno Joni Mitchell, che pure avrebbe descritto meglio di ogni altro lo spirito di quei tre giorni nella canzone che si chiama, appunto, Woodstock.

Mi sono imbattuto in un figlio di Dio, stava camminando sulla strada. Gli ho chiesto dove stava andando e questo mi ha detto: Sto andando alla fattoria di Yasgur, entrerò in una rock’n’roll band, mi accamperò nella campagna e cercherò di liberare la mia anima.

La colpa in questi casi è sempre del manager: Elliot Roberts convinse Joni che una comparsata televisiva al Dick Cavett Show sarebbe stata una promozione più efficace per il suo secondo album – invece di quell'”Aquarian Exposition in White Lake, NY” che sui manifesti citava Woodstock anche se la contea di Woodstock aveva rifiutato di ospitarlo. Per la cultura giovanile dell’epoca “Woodstock” era già un nome famoso: il mitico villaggio dove Bob Dylan si era ritirato dopo l’incidente in moto, cancellando una tounée e rimettendosi a far musica in cantina coi suoi amici, suggerendo a un’intera generazione di allontanarsi dalle insidie urbane e tornare al territorio. Ma il festival di Woodstock si sarebbe tenuto 70 chilometri più a sud, nella fattoria del signor Max Yasgur. Lo avrebbero organizzato promoter alle prime armi, e malgrado il cartellone stratosferico nessuno sapeva esattamente come sarebbe andato a finire. Siamo polvere di stelle, siamo oro. E dobbiamo ritrovare la strada per il Giardino…

Finì che invece dei cinquantamila spettatori previsti ne arrivarono quasi cinquecentomila; che chi non si era procurato i biglietti entrò lo stesso; finì che i set degli artisti si dilatarono al punto che Jimi Hendrix, che aveva insistito per chiudere il concerto di domenica 17 agosto, terminò alle 11 del mattino di lunedì. Ma in un qualche stranissimo modo, finì bene: anche se il Dylan tanto evocato non volle presentarsi, perché non sopportava gli hippie (e gli organizzatori del festival all’Isola di Wight lo pagavano meglio); malgrado gli ingorghi stradali, la disorganizzazione, l’insufficienza delle strutture igieniche e sanitarie, il fango e il caos, e l’allarmismo dei quotidiani che imploravano ai cronisti in loco di calcare su violenze e disastri che avrebbero potuto benissimo esserci, e invece miracolosamente non ci furono. Finì con Max Yasgur che distribuiva acqua gratis, il medico di campo che lodava il comportamento dei giovani, almeno una morte per overdose e almeno un parto prematuro. La cosiddetta controcultura divenne la cultura egemone di una generazione, e a chi non ne voleva vedere le contraddizioni fu offerto ancora qualche mese di tempo. Per i babyboomers americani Woodstock fu un successo necessario quanto inatteso: e Joni Mitchell non c’era.

“Allora posso camminare dietro di te? Sono venuta qui per sfuggire allo smog, e sento di essere l’ingranaggio in qualcosa che si sta muovendo. Forse è un periodo dell’anno, o forse è un periodo dell’uomo. Non so bene chi sono, ma sai, la vita serve a imparare”.

Anche in tv si ritrovò a condividere la ribalta con i reduci del concerto che nel giro di due giorni era diventato la notizia di apertura dei telegiornali. Dick Cavett la mise a sedere in cerchio con Grace Slick dei Jefferson Airplane, che parlava del suo set domenicale come di un’esperienza religiosa e non era del tutto ironica; col suo ex David Crosby che diceva di aver assistito alla “cosa più strana mai avvenuta sulla terra”, con Sthephen Stills, che sfoggiava ancora orgoglioso i jeans sporchi di fango. A Woodstock c’era stata una battaglia, l’unica che in quel momento aveva un senso combattere: la pace aveva vinto sulla guerra, la speranza sul caos, la solidarietà sull’autodistruzione: e Joni Mitchell non c’era. Maledetto manager.

Questa è più o meno la leggenda consegnata ai cronisti, ma qualcosa non torna. Quando Joni compose Woodstock aveva 25 anni. Neanche al tempo poteva sembrare un’hippie ingenua – non lo era mai stata. A otto anni aveva cominciato a comporre al piano, a nove a fumare; a dodici aveva temporaneamente abbandonato la scuola e aveva iniziato a suonare la chitarra con gli artisti di strada di Saskatoon, Saskatchewan, Canada., cominciando a inventare accordature alternative perché la poliomelite contratta a nove anni le aveva lasciato delle difficoltà articolari. A 20 anni si era spostata a Toronto, con l’idea di fare la folksinger nel breve momento in cui il folk di Joan Baez e del primo Bob Dylan soppiantava il rock nell’immaginario giovanile. Suonava più nelle strade che nei caffè, lavorava ai grandi magazzini; rimasta incinta, aveva sposato un cantautore che le aveva promesso di allevare il figlio come suo (promessa non mantenuta). A 24 aveva lasciato il marito e si ritrovava a New York, la capitale della scena folk, proprio nel momento in cui la scena stava implodendo. Era stato David Crosby, ex chitarrista dei Byrds, a scoprirla in un caffè e a capire per primo che era qualcosa di più dell’ennesima folksinger. Nell’estate del ’69 Joni era una interprete promettente e un’autrice già affermata (Judy Collins aveva scalato le classifiche con una sua canzone, Both Sides Now). Ora faceva coppia con Graham Nash, anche lui folgorato sulla strada per la “fattoria di Yasgur”, i cui entusiasti resoconti le ispirarono il testo di Woodstock. Del resto loro storica esecuzione di Suite: Judy Blue Eyes immortalata nel film di Woodstock, avrebbe reso molto più di qualsiasi apparizione televisiva, anche in termini meramente commerciali. Ma in realtà Crosby Stills e Nash riuscirono sia a regalare un set memorabile al concerto (alle tre del mattino!), sia a partecipare allo show in tv. Se loro ci riuscirono, perché a Joni fu chiesto di restare in città? Mancava un posto in elicottero? Senz’altro la logistica era complicata, e il manager non voleva rischiare di ritrovarsi con tutti i suoi artisti di punta bloccati nel fango mentre Cavett intervistava quelli della concorrenza.

Ma se Elliot Roberts scelse di lasciare indietro proprio lei, è perché sapeva che Joni era l’artista meno adatta a un evento del genere. Due settimane prima, all’Atlantic City Pop Festival, aveva reagito allo scarso interesse del pubblico abbandonando il palco in lacrime dopo tre canzoni. Joni Mitchell è probabilmente l’esempio più classico di musicista che piace più ai colleghi che al grande pubblico: un’artista dal valore indisputabile, ma inadatta ai festival di massa. Il che la rese in qualche modo in grado di descrivere meglio di chiunque altro l’essenza di quei festival. Allo stesso modo in cui nessuno aveva raccontato Waterloo meglio di Victor Hugo, che sul campo non c’era e che se ci fosse stato non ci avrebbe capito niente: allo stesso modo Joni, al riparo dagli aspetti più triviali e problematici, dal fango e dal fumo, descrisse Woodstock non per quello che era, ma per quello che Woodstock aveva voluto essere: l’antiVietnam.

Quando alla fine arrivammo a Woodstock, eravamo forti di un mezzo milione di anime, e ovunque si cantava e si celebrava. E in sogno vidi i bombardieri portare i loro cannoni nel cielo e trasformarsi in farfalle su tutta la nazione. Siamo polvere di stelle, siamo oro. Siamo carbonio di un miliardo di anni…”

Oggi la chiamiamo FOMO, Fear of Missing Out: Joni doveva avere avuto la sensazione di perdere un momento irrecuperabile. Non avrebbe più voluto permetterselo. La canzone era già pronta un mese dopo per il folk festival di Big Sur (un contesto radicalmente diverso, condiviso da poche migliaia di spettatori): nel film la canta in anteprima, circondata da una folla intimidita che non sa esattamente come prenderla. Prima di cominciare le strofe annuncia il ritornello, quasi un invito a cantarlo in coro: un invito assurdo, chi potrebbe mai intonarsi con quella voce acutissima? L’intuizione di Grace Slick si è realizzata: Woodstock è l’inno di una nuova religione, un salmo inaudito e quasi ineseguibile. Forse non era l’intenzione del regista, ma di fronte a un esibizione così intensa e spudorata gli sguardi catatonici degli spettatori e le scenografie medievali sembrano all’improvviso inadeguati come un teatro di cartapesta. Joni arrivava più in alto di tutti, faceva la musica più complessa di tutti e molto difficilmente si sarebbe trovata a suo agio con tutti. La Woodstock incisa dai colleghi Crosby Stills Nash e Young in Déja Vu lo dimostra già indirettamente: è una cover normalizzata, trasformata in un onesto pezzo rock che sembra rifiutare tutte le potenzialità schiuse dalla melodia. L’unica vera Woodstock restava quella altissima di Joni, incisa sul lato B del primo singolo ambientalista della storia del rock, Big Yellow Taxi (“Hanno asfaltato il paradiso e ci hanno messo un parcheggio”. “Hanno tolto tutti gli alberi e li hanno messi in un museo degli alberi, e ora chiedono alla gente un dollaro e mezzo solo per vederli”).

Il vero battesimo di folla, la canzone l’avrebbe avuto l’anno successivo, al secondo festival dell’Isola di Wight. Ed è lì che i nodi vennero al pettine, almeno per Joni. Che il miracolo pacifico di Woodstock fosse stato fortuito e probabilmente irripetibile lo si era già visto nel dicembre del 1969 ad Altamont, in California, dove l’idea dell’entourage dei Rolling Stones di avvalersi degli Hell’s Angels come servizio d’ordine aveva portato a un disastro molto prevedibile, col senno del poi: c’era scappato il morto – accoltellato dagli Angels – e neanche a farlo apposta si trattava di un afroamericano. Se ad Altamont i concertoni avevano rivelato il loro lato violento, all’Isola di Wight si rivide all’improvviso qualcosa che il flower power sembrava aver annullato: il conflitto di classe tra gli hippy ricchi che avevano potuto permettersi traghetto e biglietto e i poveracci che una volta approdati sull’isola si erano visti confinati in un recinto scomodo e remoto dal palco, prontamente battezzato Desolation Row dagli orfani di Dylan. Tra i reclusi di Desolation Row c’era anche un vecchio maestro di yoga di Joni Mitchell (continua su TheVision…)

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L’Invalsi fa politica, anche se non lo sa

Se negli ultimi giorni non siete stati completamente assorbiti dal diabolico piano neonazista per uccidere Matteo Salvini, o dal diabolico piano del Pd per rubarvi i figli e darli in adozione ai gay, può darsi che anche voi abbiate sentito parlare dell’ultimo rapporto Invalsi, appena pubblicato. Può darsi che sulle vostre bacheche sia comparso qualche titolo disperato: un terzo degli studenti non sa leggere un brano in italiano! Può darsi che vi siate imbattuti in qualche accigliata riflessione: avete voluto il sei politico e adesso guarda cos’è successo, alle medie non si fa più analisi grammaticale e il risultato è una catastrofe. Può davvero darsi che abbiate letto cose del genere – ebbene, indovinate: non è praticamente vero niente.

Niente. Non solo non risulta a nessuna Procura un complotto neonazista contro Salvini. Non solo non risulta fin qui nessun dirigente Pd indagato denunciato per aver tolto un figlio a un genitore. Non è nemmeno vero che alle medie non si faccia analisi logica e grammaticale: dispiace che Corrado Augias non abbia potuto controllare su un qualsiasi libro di testo, prima di consegnare le sue osservazioni a Repubblica. Quanto al sei politico, è più una leggenda metropolitana che altro: se davvero fu assegnato a qualche classe negli anni Settanta, ormai quegli studenti sono genitori di altri studenti passati attraverso altre quattro riforme scolastiche, tanto vale dare la colpa alla riforma Gentile, se non direttamente a Carlo Magno. Non è nemmeno vero che un terzo degli studenti non sappia leggere un testo: anzi, è proprio un caso di scuola di come un dato statistico possa essere deformato in senso propagandistico, o anche solo perché nelle edicole il titolo allarmista scaccia sempre il titolo accurato.

I test Invalsi sono costruiti proprio per mantenere un terzo del campione al di sotto della media: è quel che prevede il modello teorico che li ispira. Lamentarsi che un terzo dei candidati non superi la media è un po’ come denunciare la scarsa qualità del tennis giocato a Wimbledon perché su 128 iscritti solo la metà riesce a passare il primo turno. Senz’altro la comprensione del testo di troppi studenti medi italiani lascia ancora a desiderare, ma di fronte a un giornalismo del genere sorge il dubbio che sia il minore dei mali: che senso ha imparare a leggere meglio se poi quel che c’è da leggere in edicola è una rifrittura delle stesse opinioni stantie prodotte entro il 1989 e poi chiuse in un cassetto? Chi ha ancora necessità di leggere attacchi a fantasmi polemici come il “6 politico”, il famigerato “Sessantotto”, una mai meglio definita “didattica delle competenze”, eccetera eccetera eccetera?

E dire che l’Invalsi per primo fa tutto il possibile per stimolare una discussione più interessante. Il rapporto somiglia a una brochure pubblicitaria, i grafici sono abbastanza chiari, gli argomenti scelti con molta attenzione. Oltre a valutare la scuola pubblica nel suo complesso, l’Invalsi ogni anno valuta sé stessa e non è una sorpresa che si promuova sempre. Chi la vuole criticare senza indulgere ai luoghi comuni si trova invece in difficoltà: un po’ perché la mole di dati a disposizione è effettivamente abbondante; un po’ perché comunque conosciamo solo i dati che l’Invalsi vuole farci conoscere. Per dire: l’insegnante che ha trovato la domanda X un po’ assurda non ha la possibilità di verificare se i suoi studenti siano riusciti comunque a rispondere in modo soddisfacente. In compenso ha tutti i dati a disposizione per osservare i fenomeni che l’Invalsi vuole farci osservare.

Ad esempio: la parola chiave di quest’anno è senz’altro “divario”. Divario tra generi (i maschi vanno meglio in matematica, le femmine in inglese), divario tra le regioni: il nord ha risultati migliori della media, il sud inferiori. Nulla di nuovo o sorprendente, e infatti una critica che si può muovere all’Invalsi è che ci fa spendere molti soldi per dirci qualcosa che in sostanza sapevamo già: nelle zone in cui il reddito pro capite è più alto, anche l’offerta formativa è migliore. Lo strumento che secondo alcuni dovrebbe servire a valutare i docenti finisce per suggerire che la possibilità dei docenti di fare la differenza sia scarsa o nulla: un insegnante scarso a Nord avrà comunque studenti più brillanti di un insegnante motivato a Sud. Nei rari casi in cui questo non succede, il meccanismo dell’Invalsi di solito non individua un insegnante meritorio, ma un insegnante disonesto che trucca i risultati. Un fenomeno, il cosiddetto cheating, che negli ultimi due anni si è bruscamente ridotto, ci avverte l’Invalsi, senza fornirci spiegazioni. Ne azzardo una io, almeno per quanto riguarda la prova di terza secondaria di primo grado: fino a due anni fa si somministrava durante l’esame di licenza e faceva media, il che esponeva gli studenti a un rischio di bocciatura e i consigli di classe al rischio di contestazioni e ricorsi. Dal 2018 la prova si fa in primavera e non fa più media: inoltre è finalmente computer based, ovvero gli insegnanti non la correggono più a mano (finalmente!), e quindi non potrebbero truccare i risultati nemmeno se volessero. In compenso la prova non è più ritenuta importante dagli studenti che a volte di fronte all’ennesimo quesito a crocette possono cedere alla tentazione di rispondere a caso. Il fatto un un terzo degli studenti non abbia risposto in modo soddisfacente a un questionario di comprensione di un testo in effetti si potrebbe anche formulare così: un terzo degli studenti non ha capacità o voglia di mettere le crocette nelle caselle giuste. Dove l’Invalsi registra un problema di competenze, un insegnante sul campo potrebbe anche riconoscere un problema di motivazione, e più spesso un composto dei due (chi volesse provare una simulazione delle prove al computer le trova qui: sono meno facili di quel che possono sembrare a prima vista).

Il fatto che anche gli insegnanti non abbiano più la necessità o l’opportunità di sabotare le prove Invalsi non significa che abbiano superato un generale atteggiamento di diffidenza… (continua su The Vision)

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Tradurre in cattività: il caso Neon Genesis Evangelion

E così ci siamo arrivati. Un’emittente televisiva (Netflix lo è, a modo suo) ha ritirato il doppiaggio in italiano di una serie a causa delle proteste degli utenti. Prima o poi sarebbe successo, ma probabilmente non è un caso che sia successo con un anime, e in particolare con l’ambizioso Neon Genesis Evangelion. Così come non è un caso che a trovarsi nel mirino ci sia, per l’ennesima volta, l’adattatore Gualtiero Cannarsi, già molto criticato per le sue versioni dei film dello Studio Ghibli. Cannarsi è indifendibile: i dialoghi che ha imposto ai doppiatori di Neon sono ridicoli. Ma chi ora grida al bullismo nei suoi confronti non ha tutti i torti. È vero, il suo italo-giapponese è esilarante, specie se sovrapposto a un prodotto serioso come NGE. Ma per quanto naive risulti la sua personale teoria della traduzione, maturata lontano dalle accademie, bisogna almeno evitare di farne un agnello sacrificale.

Non è responsabilità di Gualtiero Cannarsi se, fino a qualche giorno fa, i personaggi di Neon dicevano cose come “È col tentare di abbatterlo in fretta che la cosa si è fatta dura”, o “L’autoespulsione è entrata in attività”. Non è responsabilità sua se i doppiatori sono stati costretti a recitare battute che non capivano. Se a Cannarsi è stata data sempre più fiducia, malgrado i problemi fossero evidenti (e il pubblico non mancasse di notarli), la responsabilità è di chi questa fiducia per tutto questo tempo l’ha concessa. Ora Cannarsi pagherà anche per loro, ma quel che è successo è che un sincero cultore della materia è stato lasciato solo, per anni, al tavolo di lavoro, da committenti la cui negligenza a un certo punto deve aver interpretato come un attestato di fiducia. Magari sarebbe bastato poco: un editore, un distributore, un collaboratore che in tutti questi anni gli stesse accanto, gli rileggesse a voce alta le frasi che scriveva, lo aiutasse a non allontanarsi dall’italiano parlato e scritto. Qualcuno che smorzasse sul nascere certe velleità ermeneutiche che sono il tipico mostro che nasce dal sonno breve e agitato dei traduttori quando la scadenza comincia a essere troppo vicina (e la scadenza è sempre troppo vicina). Cannarsi invece è stato lasciato solo, e ha fatto quel che facciamo tutti quando siamo soli: ha iniziato a parlare con se stesso, in una lingua tutta sua.


Tradurre è molto difficile. Bisogna avere due lingue in testa, e non è detto che nella nostra ci stiano davvero. Nelle orecchie, soprattutto, perché a volte è come ascoltare due musiche contemporaneamente. Magari non è impossibile, ma senz’altro non è una passeggiata, e il traduttore non fa altro tutto il giorno. Eppure ci basta leggere due o tre pagine in un’altra lingua, o anche solo ascoltare due o tre episodi in versione sottotitolata, per ritrovarci già in bocca qualche espressione che in italiano non esiste, qualche calco che un buon traduttore dovrebbe sempre saper aggirare, con leggerezza, mentre saltabecca da una lingua all’altra. Questo dovrebbe fare il traduttore ideale. Quello reale il più delle volte sbanda, incespica, cade, e pur di rispettare una scadenza finisce per consegnare un ibrido italo-qualcosa che un editor (o più d’uno) faticosamente convertiranno in italiano. Non sempre riuscendoci, come chiunque può verificare aprendo un libro qualsiasi. Il traduttore è un traditore, dicevano, ma temo non renda l’idea. Un maledetto assassino, ecco cos’è un traduttore: anzi una spia, inviata a uccidere un testo che a volte conosce molto bene, al quale magari è affettivamente legato: proprio per questo si rende quasi sempre necessaria l’assistenza di professionisti in grado di mettere da parte gli affetti, ammesso che ne abbiano mai avuti: gente con la mano ferma quando c’è da impugnare il bisturi, la sega e gli altri attrezzi. Tradurre è un lavoro sporco, è la fine dell’innocenza: devi interiorizzare il concetto per cui il tuo rispetto per l’opera va subordinato al rispetto per un lettore italiano distratto che si stanca alla prima frase non scorrevole. Non lo accetti? Allora hai bisogno che qualcuno molto vicino a te non smetta di ricordartelo, a ogni capitolo, ogni pagina, ogni capoverso. Se Cannarsi non ha mai avuto qualcuno tanto vicino, non è colpa sua.

È una vittima designata, in un certo senso. L’uomo giusto nel momento sbagliato… (Continua su TheVision).

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I Beatles esistono in natura?

Life flows on within you without you…

Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò malgrado abbia già letto critiche non entusiaste; malgrado dal trailer abbia capito quasi tutta la storia (un musicista mediocre, ritrovandosi in una dimensione parallela dove i Beatles non sono mai esistiti, fa quello che avremmo fatto tutti al suo posto: incide le canzoni dei Beatles e ottiene ovviamente un successo mondiale). Ci andrò e mi domanderò se l’autore del soggetto per caso un giorno non ha davvero visto Non ci resta che piangere, almeno lo spezzone su youtube in cui un Massimo Troisi catapultato nel quasi-Cinquecento prova a farsi bello canticchiando Yesterday. Perché con le buone idee funziona come con le melodie: se due si assomigliano, è più facile immaginare che una derivi dall’altra. Copiare è più semplice di inventare, e questo lo dimostrano gli stessi Beatles, dai quali tutti hanno un po’ copiato qualcosa. Il che però significa anche che un mondo senza Beatles dovrebbe essersi evoluto musicalmente in modo completamente diverso dal nostro, e quindi forse in un mondo del genere Hey Jude e Yellow Submarine suonerebbero strane e magari sgradevoli. O no?

Gli autori del film sembrano pensare di no: le canzoni dei Beatles diventano immediatamente successi. Come se le melodie esistessero davvero in sé, fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono state composte, in una specie di iperuranio da cui ogni tanto qualche genio come Lennon e McCartney riuscirebbe a tirarle fuori. Il compositore sarebbe uno scopritore, dotato di qualche geniale senso in più che gli consentirebbe di percepirle e condividerle con noi poveri mortali. La melodia di Yesterday è irresistibile. Se anche non l’avessimo mai ascoltata prima, la troveremmo migliore di qualsiasi cosa ci propone il mercato musicale oggi: Ed Sheran morrebbe d’invidia (Ed Sheran nel film di Boyle interpreta sé stesso che muore d’invidia). Persino nel medioevo di Troisi e Benigni sarebbe piaciuta al primo ascolto – ma allora perché nessuno nel medioevo l’ha trovata? forse mancava il genio adatto. Migliaia di anni al buio, e poi all’improvviso, in un sobborgo di una città portuale inglese, all’improvviso un genio: Paul McCartney. Si sveglia un mattino, si prepara la colazione, si accorge che sta canticchiando un motivetto. Scrambled eggs, oh my baby how I love your legs. Per poi domandarsi all’improvviso: ma questa canzone, di chi è? L’ho davvero scritta io?

Per assecondare questa ipotesi, dobbiamo anche accettare che nella stessa località portuale sia nato, nello stesso periodo, un genio non inferiore a Paul McCartney: John Lennon, lo scopritore di Help, In My Life, Strawberry Fields, Across the Universe e decine di altre melodie geniali. E a questo punto sembra ingiusto tacere di come all’ombra dei due sia cresciuto George Harrison, magari meno dotato dei primi due ma pur sempre in grado di comporre Something e Here Comes the Sun: e che ai tre in un secondo momento si era aggregato Richard Starkey, un batterista che all’inizio lasciava perplessi i critici e che a distanza di mezzo secolo è considerato uno dei principali innovatori della ritmica pop – il paesaggio musicale in cui viviamo è ancora popolato di rullate improvvisate da lui. Certo, si potrebbe obiettare che i Beatles non erano gli unici innovatori sulla piazza: nello stesso periodo c’erano, per esempio, i Rolling Stones. Anche gli Stones però cominciarono a comporre soltanto quando videro, coi loro occhi, Lennon e McCartney completare in pochi minuti il ritornello di I Wanna Be Your Man. Almeno, stando a quel che raccontano i biografi senza l’esempio cruciale dei Beatles non avremmo avuto nemmeno le centinaia di composizioni firmate da Mick Jagger e Keith Richards.

Se davvero la musica esistesse in natura, disponibile soltanto alla sensibilità di rari individui, quel che successe a Liverpool nei primi anni Sessanta sarebbe insomma una coincidenza di proporzioni cosmiche: nello stesso ristrettissimo intervallo di spazio e tempo, quattro individui geniali si sarebbero incontrati e sarebbero riusciti a collaborare, ahinoi, per meno di dieci anni, prima che la combinazione supergeniale diventasse instabile ed esplodesse – non prima di avere ispirato centinaia di emuli, nessuno dei quali altrettanto geniale. Che storia incredibile, meravigliosa e tragica. È appunto la storia che amiamo raccontarci quando ascoltiamo i Beatles ed è quella che mi commuoverà mentre guarderò Yesterday. Ma è una storia, appunto. Ormai talmente consolidata nel nostro immaginario collettivo che forse vale la pena di sfoderare la parola pesante: è un mito. I rocker ragazzini che dopo anni di gavetta si impongono all’attenzione del mondo con la pura forza del loro genio musicale. Non sanno leggere uno spartito, ma in testa hanno più melodie di Mozart. (La stessa storia di Mozart in seguito è stata riscritta per assomigliare un po’ di più al moderno mito delle rockstar). Il mito conosce anche la parabola discendente: la difficoltà a gestire il successo, le divergenze artistiche e caratteriali, la droga, i contrasti economici, e una donna venuta da lontano a mettere zizzania tra i ragazzi. La storia dei Beatles sembra il canovaccio da cui saranno poi sviluppate tutte le biografie delle rockstar. Anche in questo senso, sono stati i primi a scoprire qualcosa che forse esisteva già.

L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica… (continua su TheVision, sotto questa foto di John&Yoko)

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I babyboomers che odiano Greta (hanno i loro motivi)

[Questo pezzo è uscito su TheVision mercoledì]. I più famosi hater italiani di Greta Thunberg – qualcuno l’avrà già notato – sono tre babyboomers. Rita Pavone, che la trova un personaggio da film horror, è del 1945. Maria Giovanna Maglie che la metterebbe “sotto con la macchina” del 1952, come Giuliano Ferrara (“detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”). Il che significa tra l’altro che nel fatidico 1968 Ferrara e la Maglie avevano la stessa età che oggi ha Greta. Sono personaggi sopravvissuti egregiamente agli anni Sessanta, hanno assistito e a volte partecipato a mobilitazioni ben più radicali di quella promossa dalla sedicenne svedese. Altri detrattori della Thunberg li riconosci dalla mentalità compottarda (“cosa c’è dietro questa ragazzina?”) o ipercorrettista (“Se usa un bicchiere di plastica non può dare lezioni”). I babyboomers non ragionano così. In un certo senso non ragionano nemmeno. Il loro fastidio per il nuovo personaggio è qualcosa di incontrollabile: a malapena riescono a verbalizzarlo, e sì che due su tre vivono di parole.

La morale della favola è assai nota: si nasce incendiari, si muore pompieri. L’Italia è un Paese molto anziano, il dibattito pubblico è un giardinetto ostaggio di pensionati che borbottano e inveiscono contro i giovinastri rumorosi. I giovinastri stavolta non sono nemmeno particolarmente rumorosi – non spaccano neanche più le vetrine – ma i pensionati se la prendono lo stesso. Non dico che questa spiegazione non sia soddisfacente, ma vorrei proporne ugualmente una meno banale. Ferrara, la Maglie, la Pavone, hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell’Occidente. Il 1968 fu un episodio importante, ma se allarghiamo un po’ lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento della storia di una generazione; cui seguì la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato, l’edonismo degli anni Ottanta, eccetera. Se volessimo assegnare a una generazione un’ideologia… saremmo dei maledetti semplificatori; ma se davvero volessimo farlo, diremmo che la priorità dei babyboomers è stata la liberazione dell’individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata; negli anni Ottanta si esprimeva nel consumismo senza più freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui una ragazza svedese ci ricorda che non c’è futuro per chi non riesce a riciclare carta e plastica. Sono cose che fanno incazzare i babyboomers, non perché siano anziani – ok, ormai sono anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma è finito. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo, sì, potrebbe avere i giorni contati. Non è colpa di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando, eccetera eccetera. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. È inquietante perché da un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.

Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature”, non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui devono prepararsi a rinunciare. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui le nuove generazioni devono rassegnarsi a rinunciare (continua su TheVision).

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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.

La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.

Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici… (continua su TheVision).

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Il Movimento 5 Stelle ha svenduto la scuola ai leghisti

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Quattro miliardi: questo è quanto il governo prevede di risparmiare sulla scuola nei prossimi tre anni. Non sarà il taglio all’istruzione più clamoroso della storia della scuola italiana, ma è comunque un taglio. L’opposizione non ha dubbi nel definirlo così; anche alcuni sindacati sono piuttosto critici e si preparano già alla mobilitazione – altri sonnecchiano. Per il governo invece no, non ci sarà nessun risparmio: anzi, questa finanziaria spenderà per la scuola persino di più di quanto stava spendendo il governo Gentiloni.

Di fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.

Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che decennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile (continua su TheVision).

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L’annosa questione del razzismo di Tolkien

Make Middlearth Great Again

Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz’altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli “Orchi”. È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un’opera di propaganda, e l’ha smontata in quanto tale. Ma l’operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un’opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l’accusa salta fuori, e c’è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l’ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.

Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d’attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l’aveva mai sentita. E poi c’è un’altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po’ razzista. Veramente poco, per un inglese dell’ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l’argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell’Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l’anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po’ troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L’ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un’intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui “alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri”. L’affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l’ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d’Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

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Niente di nuovo dal fronte del Natale

Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l’infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all’aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l’anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus

Dal Fronte per ora questo è tutto: un po’ poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe “obbligatorio”. Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che “chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore“. Insomma l’artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L’impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c’è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l’impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c’è chi addobba l’albero, c’è chi compra i regali, c’è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – “War On Christmas” la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l’augurio “Merry Christmas” dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista “Happy Holidays”, buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l’Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d’innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l’esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell’Europa Centrale dev’essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant’anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un’invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l’anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c’è la capacità di riconoscere al volo un’immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c’è l’abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d’inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l’anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l’imperatore Aureliano introdusse nel 274… (Continua su TheVision).

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A Parigi è già inverno (il più caldo)

Sarà l’inverno più caldo di sempre in Europa, e non a causa dei gilet gialli. Per quanto abbiano dimostrato, nel giro di un paio di settimane, di poter mettere Parigi e la provincia a ferro e fuoco; costringendo il governo a un passo indietro clamoroso, e dimostrando ancora una volta al mondo che ribellarsi paga (almeno in Francia): per quanto abbiano già scritto un pezzetto di Storia, quel pezzetto non racconterà che i gilet gialli furono la miccia dell’inverno più caldo. Tutto il contrario.

Sarà l’inverno più caldo di sempre perché farà più caldo, semplicemente: e l’evidenza non può più essere ignorata. È l’inverno che ha già causato i gilet gialli; è l’emergenza ambientale che sta bussando alla porta; è la catastrofe del clima che si annuncia, e i tafferugli francesi non sono che un timido annuncio di quello che succederà da qui in poi. È normale che l’allarme arrivi dalla Francia: è il suo destino, la sua geografia: la nazione più vasta dell’area più ricca, che include come l’Italia paesaggi diversissimi, ma a differenza dell’Italia non separati da barriere difficili da valicare: il che l’ha resa il laboratorio dell’assolutismo, del protezionismo, e allo stesso tempo ha creato le premesse per la Rivoluzione.

Due secoli e trent’anni dopo, la Francia è l’unica grande democrazia presidenziale europea, ed era assolutamente prevedibile che la tensione tra una provincia avvilita dalla globalizzazione e un’élite tecnocratica confinata nella capitale dovesse spezzarsi proprio qui. In un certo senso la novità non sono i gilet gialli, che protestano come i francesi hanno sempre protestato: la vera novità è il loro avversario, il presidente Macron. Salito all’Eliseo grazie a un sistema elettorale che lo ha investito di un potere e di una responsabilità assolutamente sproporzionate rispetto al credito che gode presso i cittadini, Macron e i suoi uomini si sono ritrovati a incarnare con precisione fin qui mai immaginata l’archetipo del tecnocrate gelido e cosmopolita. L’Europa delle istituzioni, lontana dal cuore del popolo eccetera.  È chiaro che avrebbe risposto all’emergenza con misure impopolari: è ovvio a chi le avrebbe fatte pagare.

L’idea del suo governo aveva un che di disumano, nella sua drastica semplicità: il costo del riscaldamento globale, lo paghino gli automobilisti e gli autotrasportatori. Chi non abita entro i confini della capitale; chi non è stato abbastanza fortunato o avveduto da ritrovarsi da vivere nei centri lambiti dall’Alta Velocità; che anche in Francia ha assorbito l’attenzione dello Stato ai danni delle tratte ferroviarie periferiche; chiunque si ritrovi costretto ancora nel 2018 a usare un’automobile per lavorare (o semplicemente viva in un piccolo centro dove i supermercati sono riforniti dai camion). Per la Capitale sono loro i colpevoli, sono loro che ammorbano l’aria di Co2 e polveri sottili; quindi è a loro che toccherà pagare. C’è il piccolo particolare che sono la maggioranza dei francesi, e i francesi non sono quel tipo di popolo che mugugna ma sopporta.

Questo è più o meno il senso della lotta: non che si possano fare analisi più approfondite, ma si rischia di caricare un movimento spontaneo di connotazioni che ancora deve assumere (magari le assumerà, ma non forziamo lo sguardo). Certo, c’è un programma, e in quel programma ovviamente c’è di tutto e quasi il contrario di tutto: solidarietà con i richiedenti asilo e rigore con i richiedenti asilo respinti. Ci sono tantissime misure sociali che nessuno a sinistra potrebbe respingere, innalzamento del salario minimo e delle pensioni; salvo che ovviamente non ci si pone il problema della copertura; così come non se lo ponevano, in campagna elettorale, né Di Maio né Salvini. Ma quanti gilet hanno davvero letto e sottoscritto il documento, quanti sono scesi in piazza semplicemente per difendersi da un rincaro del carburante? (continua su TheVision)

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L’autocritica maoista di D e G

Pallidi, smorti, due stracci grigi messi ad asciugare su uno sfondo rosso drago, i due imperatori della moda non vi sono mai sembrati così nudi, così ridicoli: e adesso infatti li irridete. Adesso.

Il problema non è avere un cannolo grande.

Adesso Crozza li può prendere in giro; adesso Gianni Riotta può ammettere che la crisi con la Cina è stata una débâcle“Agire in un mondo unico e social come se vivessimo ancora nell’Italia chiusa anni Cinquanta, porta a disastri”; adesso Vittorio Zucconi su La Repubblica può persino mettere in dubbio la versione ufficiale dell’azienda, quella secondo cui i tweet violentemente anticinesi partiti dall’account di uno stilista sarebbero stati scritti da un malvagio hacker. Come se fosse la prima volta che da quell’account partono tweet disastrosi e autolesivi, come se lo stesso responsabile dell’account non avesse mai definito “brutta” Selena Gomez, o “fascista” Elton John. Fino a venerdì però non c’era quotidiano italiano che osasse mettere in discussione la bizzarra teoria degli hacker. Fino alla settimana scorsa non c’era quotidiano che potesse permettersi a cuor leggero di mettere in discussione Dolce e Gabbana. E così, mentre i siti di e-commerce ritiravano i prodotti griffati, il Ministero cinese annullava la sfilata-evento e su Instagram si postavano video di falò alimentati con i vestiti della coppia di stilisti, per i giornalisti italiani Dolce e Gabbana al massimo avevano sbagliato uno spot, urtato qualche indigeno troppo suscettibile.

Poi però è arrivato il loro grottesco video di scuse, e qualcosa è cambiato. Come se i predatori del circo mediatico avessero sentito l’odore del sangue: Dolce e Gabbana improvvisamente non erano più intoccabili. Non più i capricciosi tiranni del lusso, quelli che qualche anno fa per una recensione negativa avevano ritirato le inserzioni pubblicitarie a un quotidiano. Dolce e Gabbana erano stati colpiti. Non sono immortali, dunque. E quindi addosso – comodo, adesso.

Così comodo che forse vale la pena di chiamarsi fuori. Tanto la frittata è fatta, no? Dolce e Gabbana lavorano sugli stereotipi: lo hanno sempre fatto e per molto tempo ha funzionato. La caricatura di Italia che spacciavano al mondo era davvero ferma agli anni Cinquanta, e potrebbe persino essere stata controproducente per l’immagine della nostra nazione all’estero: ma funzionava, vendeva, e quindi perché lagnarsene. I problemi sono nati quando il metodo Dolce e Gabbana è stato esteso al resto del mondo globalizzato, in aree forse più sensibili ai problemi che gli stereotipi portano con sé.

Il problema è avere un grande cannolo

Un primo segnale d’allarme arrivò durante la sfilata primavera-estate 2013, quando alcune modelle si presentarono in passerella con un ingombrante orecchino che lasciò perplessi i giornalisti anglosassoni (“Are they racist?“): rappresentava la testa di una donna nera; somigliava non troppo vagamente ai quelle raffigurazioni stilizzate e grottesche degli individui afroamericani stigmatizzate da Spike Lee in Bamboozled . In quell’occasione l’azienda si limitò a precisare che avevano voluto citare le “teste di moro”, un simbolo del folklore siciliano. Uno choc culturale interessante, su cui la stampa italiana non trovò molto da dire.

Così come si allarmò particolarmente l’anno dopo, quando le foto dell’”Hallowood Disco Africa” con gli stilisti truccati da africani fecero il giro del mondo e arrivarono in America, dove la “blackface” è ancora vista come un oltraggio dalla comunità afroamericana: un ricordo di quei minstrels show in cui attori bianchi truccati da neri ne irridevano i costumi mentre si appropriavano della loro musica. Gabbana non portava una blackface, ma delle foto sembrava divertirsi, sinceramente inconsapevole dei problemi che avrebbe potuto crearsi con i clienti di oltreoceano. Tanto chi si indigna di queste cose non compra Dolce e Gabbana, no?

I giornalisti italiani si fecero invece sentire nel 2015, quando lo stesso Gabbana definì “sintetico” il figlio di Elton John e quest’ultimo reagì annunciando che non avrebbe mai più comprato prodotti della griffe; al che Gabbana reagì definendolo fascist. Forse fu un hacker anche in quell’occasione, non si può escludere, ma non è questo il punto. Il punto è che allora i giornalisti italiani intervennero, sì: ma per difendere Gabbana; per cercare di spiegare e Elton John che quella di Gabbana su suo figlio era un’opinione, e le opinioni vanno rispettate. Certo, non credo che Elton John si sia scosso più di tanto per i rilievi di Beppe Severgnini, ma il problema resta: quello di una stampa nazionale che sembra spalleggiare Gabbana (o il suo hacker) per partito preso, anche a costo di scadere nel ridicolo… (continua su TheVision).

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Burioni e il futuro del PD (è il futuro del PD?)

Le primarie non le vincerà, ma almeno il Congresso Pd sembra averlo portato a casa Dario Corallo. A distanza di qualche giorno il suo intervento è l’unico rimasto in mente a chi non segue il dibattito congressuale per mestiere o masochismo. Non era neanche così imprevedibile che un outsider ottenesse questo risultato, anzi, è una situazione ricorrente nelle fasi più critiche della storia del partito: qualcosa di molto simile capitò quasi 10 anni fa dopo la caduta di Veltroni, quando a un’assemblea parlò una giovane Debora Serracchiani. Corallo non era nemmeno l’unico giovane a proporre l’ennesima tabula rasa, l’ennesima rottamazione; se è riuscito a battere la concorrenza e a imporsi su YouTube è perché ha avuto l’idea di scatenare una polemica con un personaggio che in rete funziona meglio di qualsiasi quadro del Pd: Roberto Burioni.

Con una mossa apparentemente pretestuosa, al culmine di un ragionamento un po’ confuso, Corallo ha avuto quel guizzo di genio che gli ha permesso di apparire sulle homepage di più testate nazionali. Anche perché Burioni se l’è presa – ma questa era la cosa più prevedibile di tutte – mettendo in guardia il Pd dalla “tentazione di fregarsene della scienza (e della salute delle persone), per accarezzare il pelo all’ignoranza”.

Vale la pena di spiegare l’equivoco? Corallo ovviamente non proponeva di ”fregarsene della scienza”, ma lamentava che il Pd avesse fatto proprie un insieme di dottrine economiche – più liberali che socialdemocratiche – scambiandole per scienza “esatta” e rifiutandosi di discuterle con gli elettori, così come Burioni si rifiuta di discutere seriamente coi NoVax. È un paragone piuttosto sghembo: i NoVax sono una frangia tutto sommato modesta dell’elettorato (anche se blandita da M5S e Lega); il Pd deve porsi il problema di recuperare un bacino molto più ampio.

Evocando Burioni, Corallo è riuscito a dirottare un po’ di attenzione su di sé, ma il risultato è che ora non stiamo parlando davvero di Corallo: stiamo parlando di Burioni. Malgrado abbia colto l’occasione per ribadire che non intende impegnarsi in politica, è lui il vero vincitore del congresso. Non come candidato, ma come programma politico. Chiunque vincerà le Primarie – Zingaretti o Minniti, la gara non entusiasma – si troverà davanti a un bivio: essere burionisti o rinnegare il burionismo? Il Pd del 2019 sarà il partito delle eccellenze, dei professionisti di successo, o sarà il partito del “99% che non ce la fa”? Sembra che alla fine lo scontro – perché di uno scontro c’è bisogno – sarà questo. In attesa che Renzi si rifaccia vivo (impossibile pensare che non vorrà di nuovo dire la sua); in mancanza di candidati dalla personalità forte; nell’eclissi generale dell’ideologia, il burionismo è almeno un argomento su cui ci si può confrontare.

Ha anche il pregio della chiarezza: il burionismo non è così difficile da definire. È una forma di meritocrazia – parla solo chi è competente, parla solo chi è laureato – che da lontano può somigliare a quel caro vecchio elitismo, quell’attitudine snob che gli avversari della sinistra le hanno sempre imputato. Salvo che una volta la sinistra respingeva la definizione o, quando proprio non poteva respingerla, l’ammetteva con pudore, come una debolezza, un peccato originale; mentre il burionismo oggi rivendica la propria superiorità senza vergogna, anzi con una certa sfacciataggine – e in questo modo, paradossalmente, perde tutta quella patina snob e talvolta finisce per somigliare, nei toni urlati e sprezzanti, ai populisti che combatte: vedi come ha reagito all’intervento di Corallo la fanbase dei seguaci di Burioni su Twitter.

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Il burionismo, poi, non poteva che nascere sui social: è una strategia comunicativa che ha senso soprattutto lì. E forse non è un caso che i grandi “blastatori” italiani su Twitter siano quasi tutti professionisti ultracinquantenni, che scoprono il mezzo quando ormai i giorni in cui erano abituati a confrontarsi tra pari sono un ricordo lontano. Paradossalmente è proprio questo approccio verticale a dare spettacolo, quando impatta contro l’architettura democratica dei social network e produce scintille: le “blastate”. La differenza tra il burionismo e il grillismo, o il leghismo 2.0 rifondato su Facebook da Salvini e Morisi non è il mezzo, infatti, ma il fine: il burionismo è arrogante perché deve proteggere la scienza e salvare delle vite. Di questo Burioni è convinto e non si stanca di spiegarlo – anche se non ha ancora i numeri per provarlo: blastare funziona. A chi gli obietta che le umiliazioni e gli insulti non hanno mai convinto nessuno, Burioni risponde che il suo scopo non è convincere i NoVax – per Burioni sono irrecuperabili – ma impressionare il pubblico che assiste agli scambi, e che evidentemente si lascia conquistare più da un blastaggio che da un ragionamento pacato. Il burionismo è uno scientismo cinico: crede nella scienza e solo nella scienza, ma allo stesso tempo non ritiene che la scienza sia comprensibile a tutti. La divulgazione dev’essere semplice, e includere qualche momento catartico-liberatorio in cui l’ignorante viene sollevato dallo spettacolo dell’umiliazione di qualcuno più ignorante di lui.

Luca Morisi

Questo per sommi capi è il burionismo, e non è detto che non funzioni. Il personaggio c’è, vende libri, va in tv, egemonizza il dibattito del principale partito d’opposizione, e nel frattempo le vaccinazioni aumentano – non necessariamente grazie a lui, ma aumentano. Non è così strano che il nome di Burioni desti più attenzione di quello di qualsiasi concorrente alla segreteria del Pd. Il Pd è reduce da un insuccesso storico; Burioni, per dirlo con le sue parole, è: “Qualcosa di unico sia dal punto di vista social media sia dal punto di vista editoriale, non solo nel nostro Paese”. Ma il burionismo può davvero diventare la base programmatica e la strategia comunicativa del Pd? Burioni diventò famoso quando gli capitò di scrivere che la scienza non è democratica, un’affermazione abbastanza controversa che fece breccia però immediatamente, al punto da alimentare un sospetto: non è che a tanti burionisti la scienza piace proprio perché non è democratica? Un bell’argomento per chi si scopre critico nei confronti del suffragio universale, per chi periodicamente propone di “superarlo”.

Può il Partito Democratico ospitare in sé un punto di vista così poco democratico? E cosa succede – si domandava Corallo – quando dalla scienza “dura” si passa a discipline più controverse, come l’economia, la sociologia, l’ecologia? Come impedire che la fiducia nella competenza si trasformi in dogma, e il burionismo diventi una specie di religione? Ammesso che blastare i NoVax funzioni, possiamo pensare di blastare allo stesso modo i NoTav, fingendo che non abbiano argomenti e obiezioni sensati, basati su osservazioni, calcoli, ragionamenti?

Si sarà capito che per me tutte queste sono domande retoriche. Non credo che si possa essere burionisti e democratici, bisognerebbe scegliere: e in un partito che si chiama ancora “Democratico”, la scelta mi sembra ovvia – sempre che possiamo ancora permetterci di essere democratici. Perché ecco, forse il problema è proprio questo: possiamo ancora permettercelo?

Corallo propone di andare verso il popolo, una proposta fin troppo ovvia per quello che in teoria sarebbe un partito di (centro) sinistra. Ma nella pratica il popolo è già stato opzionato da altri due partiti populisti, che si sono contesi lo stesso bacino elettorale con promesse imbattibili, e attualmente governano insieme. Certo, prima o poi saranno costretti a vedere i loro bluff, prima o poi ogni promessa elettorale rivelerà il suo lato oscuro. Ma potrebbe volerci ancora qualche anno, e a quel punto è persino possibile che gli elettori reagiscano alla delusione cercando qualcosa di sensibilmente diverso. Per un partito politico in crisi la ricerca di un’identità coincide spesso con la ricerca di una nicchia elettorale e con due avversari populisti al governo, il Pd non potrebbe essere popolare e democratico, neanche se ci tenesse davvero (continua su TheVision sempre più menagramo).

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Non è una scuola per insegnanti (maschi)

“Scusami, sto cercando una maestra”.
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo. 
“Ci sono io”.
“Sì, ma cercavo una maestra”.
“Beh io insegno qui”.
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
“Ah, mi scusi, non avevo capito”.
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D’accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Cos’è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.

È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma avere il sesso femminile, in generale, in tutti i luoghi di lavoro dove è minoritario e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all’università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell’uomo in casa e coi figli: l’insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l’aumento del benessere aumenta la fluidità: una donna può permettersi di dedicarsi alla carriera mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo è allarmante il fatto che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà. Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambiniCerto, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall’intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumentano e forse ci accorgeremo di aver ottenuto l’uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi (continua su TheVision).

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I pazzi e il Pendolo

Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l’abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n’era uno che prevedeva tutto questo con trent’anni d’anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.

Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest’opera…

Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent’anni esatti fa era l’argomento più caldo dell’estate (bisogna dire che era un’estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell’agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell’autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l’impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell’Ottocento, dalla Resistenza al ’68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent’anni dopo, non sembra così complicato. C’è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l’uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall’Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).

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Questo pezzo ti farà incazzare (se sei contrario al crocefisso a scuola)

Questo pezzo [è uscito ieri su TheVision] ti farà incazzare. Se ti consideri un laico; se malsopporti le ingerenze della Chiesa cattolica nella società italiana, e in particolare nella scuola; se ti sei indignato la scorsa settimana, quando Salvini ha buttato lì di rendere obbligatori i crocefissi “ben visibili” in tutti i luoghi pubblici, scuole incluse, questo pezzo non ti farà passare l’indignazione, anzi.

Come se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz’altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l’Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell’intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c’è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).

In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell’intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall’indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po’ di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l’argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.

In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d’allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent’anni chi è a destra tira fuori lo strumento d’emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l’ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l’hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un’immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell’inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l’hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L’inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s’impugna più comodamente, specie d’estate.

Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l’unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l’effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos’è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall’autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e… il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).

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Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Sono giorni convulsi in libreria. Molti stanno per partire per le vacanze, molti non chiuderanno le valigie soddisfatti se prima non saranno riusciti a infilarci venti chili di volumi freschi di stampa, da consumare sotto l’ombrellone. Ma non è questo il vero motivo per cui c’è una coda alla cassa. In nove casi su dieci la fila ha preso forma dietro un acquirente che ha chiesto se può pagare con la Carta Del Docente.

Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell’app che stampa i buoni, procedere con l’autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l’elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l’app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti a spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.

Non è il caso di farsi prendere dal panico. L’allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l’anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c’è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l’è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una “misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine”, uno “spreco di risorse preziose”. In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po’ in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all’ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l’anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù…

È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C’è un nuovo governo che chiude i porti ai naufragi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all’anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo determinato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l’autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un’impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.

La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app… (continua su TheVision).

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Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l’hanno coi musulmani, con l’Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l’Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po’ perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c’è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c’è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore “L’Europa è Cristiana, non Musulmana”?

E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch’essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po’ da loro, un po’ dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev’essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell’Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev’essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?

Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po’ il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l’hanno un po’ d’orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell’ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell’ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.

D’altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata “completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista”, contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto “melting pop” che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono “autoctoni”, cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po’ di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l’aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su “Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista”: è anche un riconoscibilissimo dipendente dell’azienda, e Mediaset tra l’altro è in una fase delicata. L’approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l’Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s’intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal “contenuto razzista” del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di “razzismo” per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).

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Dove c’è una scuola ghetto, guardati intorno: troverai anche una scuola cattolica

[Questo pezzo è uscito venerdì scorso su TheVision]. Due bambini nati nello stesso ospedale vivono nella stessa strada. I loro genitori lavorano nello stesso cantiere. Un bambino a settembre andrà nella scuola dell’infanzia del quartiere; l’altro no. Forse dovrà prendere un pulmino e andare in una scuola da qualche parte in provincia, oppure resterà a casa. Il primo bambino, ovviamente, ha la cittadinanza italiana: il secondo no. A chi si chiedeva a cosa sarebbe servita una legge sullo ius soli: a evitare aberrazioni come questa. Non è una proiezione, non è un episodio sporadico: è la situazione in cui potrebbero per esempio trovarsi a settembre più di sessanta bambini a Monfalcone, provincia di Gorizia. Il sindaco non li vuole nelle scuole dell’infanzia statali.

Ovviamente è più complicato di così. Due istituti comprensivi di Monfalcone hanno fissato un tetto del 45% di alunni “stranieri” per classe che taglierebbe fuori appunto una quarantina di bambini. Il sindaco, Anna Cisint (Lega) ha sostenuto la scelta dei due istituti, e a sua volta ha ricevuto il sostegno del suo leader e ministro degli interni, Matteo Salvini. I sindacati hanno fatto un esposto in procura; il ministro dell’istruzione (anche lui d’area leghista) ha cercato di placare gli animi ventilando la possibilità di aprire altre due sezioni. Ma insomma siamo ormai a fine luglio e più o meno quaranta famiglie non sanno ancora se i loro figli di tre anni frequenteranno una scuola dell’infanzia, e quale. È quel tipo di incertezza che può costare un posto di lavoro a un famigliare: se il bambino resta a casa, qualcuno dovrà rimanere con lui. Più facilmente una madre o una sorella. La Cisint teme che accogliendo più “stranieri” le scuole diventino un ghetto.

Metto la parola “stranieri” tra virgolette, perché in molti casi parliamo probabilmente di bambini nati in Italia che una legge un po’ medievale considera non cittadini del Paese in cui hanno trascorso i primi tre anni di vita. La Cisint dà per scontato che non siano molto integrati, e se continueranno a restare in famiglia non c’è dubbio che non si integreranno; se poi in famiglia non hanno imparato a parlare in un buon italiano, non è restando in casa che lo impareranno. Tra tre anni in ogni caso dovranno iscriversi alla scuola dell’obbligo, probabilmente proprio negli stessi istituti comprensivi che ora vorrebbero tenerli fuori. Insomma il ghetto è solo rimandato. Non è che il sindaco non se ne renda conto. Lei insiste che i bambini dovrebbero essere assorbiti dalle scuole dei distretti limitrofi. Fin qui non ha ottenuto nulla, ma il braccio di ferro potrebbe andare avanti fino all’inizio delle lezioni.

Sarebbe abbastanza facile accusare la Cisint di xenofobia e razzismo. Di sicuro molti suoi elettori sono xenofobi; lei stessa non sembra impegnarsi molto per combattere questa impressione: qualche mese fa ostacolò la nascita di un centro islamico perché secondo lei “le moschee in Italia non sono previste”. È riuscita perfino a espellere lo sport nazionale bengalese, il cricket, dalla Festa dello Sport di Monfalcone. Il caso delle scuole d’infanzia però è più delicato. Quello che propone, almeno in senso astratto, è ragionevole; è la stessa cosa che cercherebbe di fare un sindaco di qualsiasi altra area politica, anche progressista. Non vuole respingere i bambini “stranieri”, o nasconderli sotto il tappeto. Vorrebbe semplicemente spalmarli su una superficie più vasta, in modo da favorire l’assimilazione culturale, che preferiamo chiamare “integrazione”.

Com’è stato scritto fino alla noia (ma alcuni non hanno intenzione di leggere) l’emergenza stranieri in Italia è tutto fuorché un’emergenza. Non stanno arrivando molti stranieri, in percentuale: il flusso è costante ma stabile. Eppure chi soffia sul fuoco dell’intolleranza ha buon gioco a mostrare come in certe realtà gli immigrati sembra abbiano preso il sopravvento sulla popolazione locale. A una certa ora del pomeriggio sembra che in giro ci siano soltanto stranieri; e anche davanti alle scuole, altro che otto per cento. Gli immigrati tendono a insediarsi a macchia di leopardo, e questo favorisce lo sviluppo di un sentimento xenofobo sia nei quartieri dove gli italiani temono l’accerchiamento, sia in quelle larghe zone del Paese dove gli immigrati sono talmente pochi che vengono ancora percepiti come alieni dallo spazio profondo. Se davvero li si potesse distribuire più uniformemente nel territorio, sarebbe molto più facile integrarli. È in fondo il principio per cui i centri di permanenza sono stati disseminati in tutte le regioni; lo stesso principio per cui l’Italia chiede ai Paesi europei di ospitare quote più alti di richiedenti asilo. In piccolo, è la stessa logica che la Cisint cerca di applicare alla sua Monfalcone. È un distretto industriale che sopravvive alla crisi: gli immigrati sono arrivati perché cercano lavoro, e alla Fincantieri e in altre aziende della zona il lavoro c’è. Che iscrivano i propri figli già alle scuole d’infanzia è una buona notizia; significa che in molti casi lavorano anche le madri, e il lavoro è un fattore cruciale dell’emancipazione femminile. Sempre che ci siano scuole disponibili: a Monfalcone forse non ci sono. Ma sono davvero così tanti, e così prolifici, i lavoratori di cittadinanza non comunitaria in città? (Continua su TheVision)

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La guerra di Salvini contro le ONG (e l’umanità)

[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision ed era stato scritto qualche giorno e duecento morti annegati prima].

Matteo Salvini non sopporta le ONG. “Non toccheranno più un porto italiano”, ha annunciato martedì scorso a un convegno di Confartigianato (che forse aveva altre priorità). Non che la cosa abbia molta importanza: in una sola settimana di giugno sono sbarcati più di duemila migranti, di cui appena duecento passati per una nave di ONG. Ecco, quei duecento per Salvini sono uno scandalo, una macchia insopportabile nel uso curriculum di Ruspa Umana. Quanto agli altri 1800, possono accomodarsi: non fanno neanche notizia. Mentre la Lifeline rimaneva bloccata al largo di Malta con 234 migranti, la Maersk ne sbarcava tranquillamente 108 a Pozzallo – ma la Lifeline è la nave di una ONG tedesca, la Maersk è un cargo mercantile: nessuno l’accuserà nemmeno velatamente di trescare con gli scafisti.

È come se gli unici migranti che preoccupano Salvini fossero quelli a cui capita di essere soccorsi dalle ONG. Ricordate l’Aquarius, coi suoi 630 migranti? Dovette affrontare una tempesta e riparare in Spagna, mentre Capitan Ruspa mostrava i muscoli in campagna elettorale twittando #ChiudiamoIPorti; nel frattempo la Guardia Costiera sbarcava 932 migranti a Catania senza che né Salvini né Toninelli trovassero nulla da ridire: insomma i porti sono “chiusi” soltanto per le ONG, e siccome le ONG soccorrono soltanto una piccola parte dei dispersi in mare, i porti sono “chiusi” solo per chi si beve gli hashtag di Salvini. Allontanare le ONG dai porti italiani gli consente di cantare #Vittoria per un’altra mezza giornata, ma non ha nessun effetto misurabile sul fenomeno migratorio: se le navi non governative non possono attraccare da noi, possono pur sempre chiedere soccorso ad altre navi. Che non glielo rifiuteranno.

Il comandante della Guardia Costiera al proposito è molto chiaro: “Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ogni chiamata di soccorso perché è un obbligo giuridico, ma prima ancora morale”. È la legge del mare: i naufraghi si soccorrono. Che se ne faccia carico un’ONG o la Guardia Costiera, non fa differenza. O meglio, una differenza c’è, che anche l’elettore salviniano dovrebbe apprezzare: la Guardia Costiera la paghiamo noi. Con le nostre tasse. Ogni litro di carburante, ogni ora di straordinario dell’equipaggio. Le ONG invece si finanziano da sole, senza nulla pretendere dal contribuente italiano. Salvano vite senza chiederci un soldo: questa cosa Matteo Salvini non la sopporta. Piuttosto di fare attraccare l’Aquarius in Italia, preferisce buttar via i nostri soldi facendola scortare dalla Guardia Costiera fino a Valencia. Perché? Storia lunga. C’entra uno youtuber, un libro Mondadori e forse anche un po’ Putin (ma non ha senso dare tutta la colpa a Putin).

Prima di raccontarla, fissiamo alcuni punti: le migrazioni nel Mediterraneo non sono un’emergenza (anzi negli ultimi mesi il numero dei migranti è bruscamente calato), ma un processo storico. Non è cominciato a causa del malvaggio Piddì, e non finirà perché Salvini fa la voce grossa con gli interlocutori più piccoli, la minuscola Malta e le minuscole ONG. Né le navi delle ONG, per quanto volonterose, possono essere ritenute responsabili del fenomeno, che non si è intensificato da quando sono in mare. Inoltre a tutt’oggi non risulta che siano colluse con gli scafisti. Probabilmente negli ultimi mesi avete sentito dire il contrario. Da Salvini, che le ha definite “vicescafisti“, o da Marco Travaglio, che anche martedì su Carta Bianca parlava di una “collaborazione di fatto” tra scafisti e operatori ONG. È almeno da un anno che ne parla, ma martedì ha precisato che non sta parlando di reati, e che non si aspetta che le indagini “arrestino o colpevolizzino” le ONG. Ne ha parlato molto anche il procuratore di Catania, Zuccaro, anche se confrontando le sue dichiarazioni sembra evidente che col tempo ha corretto il tiro: all’inizio diceva di avere delle prove, ma già da un anno sta parlando di “ipotesi di lavoro”. Ultimamente nelle interviste preferisce parlare di reti criminali basate in Africa: non sempre i titolisti se ne accorgono.

Nel frattempo però la procura di Palermo ha archiviato le indagini su due ONG, Sea Watch e Proactiva. La sentenza è importante perché ribadisce che secondo le convenzioni internazionali “le azioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro“: se la Libia non lo è, e Malta non sempre collabora, le navi delle ONG hanno tutto il diritto di attraccare in un porto italiano – o perlomeno non commettono un reato provandoci. Sì, c’è una sentenza di un tribunale italiano che dà ragione alle ONG e torto a Salvini e Toninelli (Continua su TheVision).

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Che cultura ti fai col bonus cultura

[Questo pezzo è apparso ieri su TheVision]. C’è stato un mattino, sulla fine della primavera, in cui i nati nel 2000 e nel 2001 si sono svegliati con 500 euro in meno. Il Consiglio di Stato si era appena accorto che il governo Gentiloni non aveva lasciato scritto dove avrebbe preso i 200 milioni di copertura necessari; il neoministro Bonisoli, bocconiano di area 5Stelle, ha pensato bene di farsi conoscere al grande pubblico con una dichiarazione roboante e piuttosto maldestra: facciamo venire la fame di cultura ai giovani, rinuncino a un paio di scarpe. Ben fatto ministro Bonisoli, ora tutti immaginiamo i tuoi figli calzati con scarpe da 500 euro.



Persino in questa fase di luna di miele, in cui gli esponenti del nuovo governo raccolgono applausi anche quando suggeriscono schedature su base razziale, l’uscita di Bonisoli deve essere stata giudicata disastrosa se nel giro di 48 ore ha dovuto rimangiarsela: da qualche parte i 200 milioni sono stati trovati, il bonus ci sarà anche nel 2019. In commissione cultura i senatori 5Stelle non hanno smesso di borbottare: è solo una mossa elettorale, se davvero si tratta di promuovere la cultura tra i giovani ci vorrebbe qualcosa di più strutturale. Sagge parole che non costano nulla: senz’altro si può fare qualcosa di più “strutturale” che infilare 500 euro in tasca ai 18enni (con l’obbligo di spenderli in sei mesi), ma cosa?



Bisognerebbe fare un ragionamento più ampio sul concetto di cultura; servono idee, serve tempo. Cinque anni fa Matteo Renzi non ne aveva: doveva svecchiare l’immagine della sinistra e ampliare il suo bacino elettorale in tempi brevissimi. I bonus un po’ a pioggia, ai giovani, ai docenti, agli impiegati, non erano una misura né strutturale né elegante, ma facevano notizia e all’inizio sembravano funzionare. Oggi il M5S, ancora impegnato in una delicata campagna per i ballottaggi, non si trova in una situazione così diversa: per gareggiare con le sparate quotidiane di Salvini non può permettersi di scoprirsi su nessun fronte; se la cultura giovanile non è la sua priorità, Di Maio non può nemmeno rischiare di passare per il politico che ha tolto ai diciottenni 500 euro di libri, o addirittura di scarpe – Bonisoli, ma che ti ha detto il cervello? Proporre ai 18enni di fare a meno delle scarpe. Maria Antonietta in confronto con quella cosa della brioches fu una grande comunicatrice (in realtà non disse mai quella cosa delle brioches. L’ho scoperto su Wikipedia).



Insomma il bonus elettorale resta, e la discussione su cosa sia la cultura e su quale sia il modo migliore di promuoverla è rimandata a data da destinarsi. Se vi va possiamo cominciarla qua sotto, gratis. Partirei da un’osservazione empirica: a 18 anni, non so voi, ma io non è che ne capissi molto in generale. Ero un coglione. In altri Paesi europei mi avrebbero aiutato a uscire di casa o a trovare un lavoro; ma se mi avessero infilato in tasca 500 euro e mi avessero costretto a spenderli in “cultura”, li avrei spesi in stronzate. Per fortuna nessuno si era già fatto venire questa buffa idea. E siccome avevo comunque fame di “cultura”, qualsiasi cosa fosse, mi avreste trovato spesso in biblioteca. Nelle città in cui mi è capitato di vivere ce ne sono di meravigliose: le amministrazioni di sinistra in particolare ci hanno investito, aggiungendo al tradizionale prestito dei libri anche quello di CD e DVD originali (tutti con la loro brava scritta “proibito il noleggio”). Ho una grande nostalgia per i miei pomeriggi di ozio in quegli ambienti luminosi e tranquilli, ma mi domando se non rischio davvero di sembrare quel tipo di persona che cerca di infilare il gettone telefonico nell’Iphone, una volta Renzi li descriveva così. Che senso ha insistere su un luogo fisico, ancorché pubblico, oggi che la cultura tende a smaterializzarsi – noleggiare CD e DVD, nell’era di Spotify e Netflix? Un’app che produce voucher è meno scenografica di una biblioteca, ma forse è più adatta ai tempi, così come uno smartphone è più comodo di una cabina telefonica (continua su TheVision).


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Sì, non ho votato il PD; no, non mi sono ancora pentito

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ciao, forse ci conosciamo. Sono più o meno il responsabile di tutto ciò che sta andando storto in Italia negli ultimi tempi. Hai presente quei poveretti in mezzo al mare? Se annegano li avrò sulla coscienza. Ti ricordi qualche settimana fa, quando un ministro dell’economia in pectore non escludeva di uscire dall’euro a causa della “teoria dei giochi” (scrisse proprio così), e lo spread schizzò alle stelle? Sono stato io.

No, non sono George Soros. Neanche sul suo libro paga, fammi controllare – no.

Durante gli ultimi vertici internazionali non hai avuto anche tu la sensazione che l’Italia fosse rappresentato da un prestanome imbarazzato che si tinge i capelli e mette a curriculum anche le visite alla fidanzata? No, sul serio, chi ce l’ha messo a Palazzo Chigi un tizio così? Indovina: sono stato io. E così via. Di’ un solo guaio successo negli ultimi due mesi: l’ho fatto succedere io. Proprio io.

Che non ho votato il Pd.

Eppure lo sapevo. Me l’aveva pur spiegato un sacco di gente, con ottimi argomenti. Le scorse elezioni non erano elezioni qualsiasi: stavolta era in gioco molto di più. La nostra permanenza in Europa, l’Europa stessa, la democrazia – la nostra umanità. Ricordo molto bene tutti questi discorsi, rivolti a quel bacino di elettori che in passato aveva votato Pd e che questa volta si sarebbe rivolto ad altre creature: principalmente il M5S, ma non solo. Si tratta di discorsi ai quali sono stato sensibile tante altre volte: benché abbia sempre odiato l’espressione “turarsi il naso” o “votare col mal di pancia”, più o meno è quello che mi è capitato sempre di fare, salvo stavolta: e proprio stavolta, guarda che casino ho combinato.

Adesso ogni giorno c’è qualcuno in tv o sull’internet che mi suggerisce di fare autocritica. L’altro giorno Virzì, intervistato dal Foglio, mi ha spiegato che i 5stelle sono fascisti, e che avrei dovuto arrivarci prima – no, non ho votato 5Stelle; ma ho comunque fatto perdere il Pd: avrei pur dovuto capirlo che se perdeva il Pd i 5Stelle avrebbero rivelato il loro fascismo latente alleandosi con la Lega. Queste cose si sapevano già. È un lungo discorso che si può mirabilmente riassumere in una vignetta di Staino, nata apocrifa ma poi confermata dall’autore stesso: “Fascisti, razzisti, incompetenti. Com’è stato possibile tutto questo?” “Sai, mi stava sulle balle Renzi”. Insomma tutto questo – la catastrofe umanitaria, lo spread, le figuracce internazionali – è successo perché sono antirenziano.

Magari è davvero così.

Faccio parte di un cospicuo insieme di elettori che non si trovava a suo agio, per usare un eufemismo, con molte delle proposte di Renzi. Appena ci fu l’occasione di farglielo capire (il referendum del 2016), ne approfittai. A quel punto Renzi sembrò fare un passo indietro, ma il Pd a quel punto continuò a sembrarmi un oggetto distante. In particolare la dottrina Minniti mi sembrava indifendibile, e così quando si è tornati a votare non ho votato il Pd. Per molti osservatori avrei comunque dovuto scegliere il meno peggio, il voto utile – è un discorso che capisco, ma a quel punto davvero un voto al Pd non mi sembrava più utile: al contrario, mi sembrava un voto perso… (continua su TheVision).

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Di che scuola sta parlando professore

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Vedrete che tra un po’ chiederanno di reintrodurre il frustino. Qualche settimana fa, quando imperversavano gli articoli e i servizi giornalistici sul teppismo scolastico, mi è capitato di dire ai miei colleghi questa cosa. Ero io stesso convinto di esagerare. Eppure ieri sul Corriere un importante opinionista ha scritto una letterina al neoministro dell’istruzione, suggerendo un decalogo che prevede, tra l’altro: (1), la “predella”, il gradino rialzato per la cattedra degli insegnanti; (4) l’eliminazione di “qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanze nell’istruzione scolastica”; (8) una cineteca obbligatoria, ma veramente obbligatoria, se non la fai ti chiudono il plesso; (9), “Alle gite scolastiche sia fatto obbligo di scegliere come meta solo località italiane. Che senso ha per un giovane italiano conoscere Berlino o Barcellona e non aver mai messo piede a Lucca o a Matera?” Ci sono altre perle, ma il frustino ancora non c’è.

Sembra comunque di intravederlo in controluce, tra le proposte scartate all’ultimo momento, e in fondo è il motivo per cui mi sto mettendo a scrivere: questo tipo di pezzi apparentemente sconclusionati, che sembrano concepiti unicamente per strappare qualche applauso tra vecchi studenti e perfino insegnanti (c’è persino il divieto a convocare i docenti a più di quattro riunioni al mese), in realtà qualche effetto lo ottengono. In gergo giornalistico si chiamano “provocazioni”, servono a far discutere, ma anche a spostare un po’ più in alto l’asticella del tollerabile. Non importa se la maggior parte dei lettori trova ridicola la predella: nel frattempo ci siamo rimessi a parlarne e qualcuno, anche uno su cento, magari non l’ha trovata una cattiva idea. E così, editoriale dopo editoriale, il frustino diventa uno scenario sempre meno improbabile. Soprattutto se nessuno ogni tanto si sobbarca il fastidio di intervenire per far presente che chi suggerisce una cosa così demenziale come un gradino in mezzo a un’aula evidentemente non conosce le normative in fatto di sicurezza – quelle su cui il personale scolastico è tenuto ad aggiornarsi a intervalli regolari. Proporre anche solo per scherzo una cosa del genere non tradisce solo una scarsa conoscenza della scuola contemporanea, ma un po’ di tutto il mondo del lavoro (continua su TheVision).

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La repubblica dei padroncini

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ma insomma alla fine chi ha vinto queste elezioni? Fin qui è abbastanza facile indovinare chi le ha perse, a partire da migranti e famiglie LGBT. Per capire davvero chi ha vinto occorre aspettare che si posi il polverone di promesse e false speranze. Dobbiamo ancora capire quante aliquote avrà davvero la cosiddetta flat tax, e se il reddito di cittadinanza dei CinqueStelle non si ridurrà a “una indennità di disoccupazione un poco rafforzata”, come l’aveva definita Giovanni Tria prima di diventare ministro dell’economia. È ancora presto per fare supposizioni; facciamole lo stesso. Secondo me hanno vinto i padroncini.

Si sa che i primi provvedimenti di un ministro hanno soprattutto un ruolo simbolico: Di Maio, arrivato al ministero del lavoro, per prima cosa ha mandato a chiamare Sergio Bramini, un imprenditore brianzolo diventato famoso grazie alle Iene perché… è fallito. La sua impresa di smaltimento rifiuti aveva come clienti lo Stato e altri enti pubblici; lo Stato e gli enti tardavano a pagare e Bramini, piuttosto di dichiarare bancarotta, ha ipotecato la casa; col risultato che gliel’hanno portata via, il suo cane è morto in un canile, e adesso Bramini andrà a Roma ad assistere le piccole imprese. A salvare i padroncini, qui nella Padania periferica li chiamiamo così. Non solo perché sono dirigono aziende piccole, a volte più piccole delle auto di rappresentanza con cui vanno in giro (intestate all’azienda). Non solo perché spesso sono i figli, se non i figli dei figli dei fondatori. Sono quelli che vivono ancora in ville contigue al loro capannone. Una siepe separa il giardino con piscina dal magazzino, dallo sguardo dei facchini indiani. I padroncini.

Forse hanno vinto loro. Il primo messaggio che Di Maio ha voluto dare dal suo ministero è: vi salveremo. A Bramini piace la flat tax, che per il piccolo-medio imprenditore in effetti dovrebbe tradursi in una manna dal cielo. Certo, servono soldi (“coperture”, le chiamano), dove prenderli? Per il neoministro dell’economia Tria si può benissimo alzare l’IVA (che è già una delle più alte in Europa). La prima imposta che avete pagato da bambini, quando vi davano i due euro per comprarvi il gelato. Non che il gelataio ritenesse sempre necessario rilasciarvi lo scontrino; ma voi l’IVA la pagavate lo stesso, e presto la pagherete un po’ di più. Ne va della sovranità dell’Italia, e poi bisogna salvare i padroncini. “Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso“. Salvare i padroncini. “Falliscono 320 imprese al giorno“, spiega Bramini, uno di quei classici numeri che ogni tanto dava Grillo sul suo vecchio blog. Sono più di centomila imprese all’anno, è abbastanza incredibile. Non solo che chiudano: che in Italia ce ne siano così tante. Eppure Eurostat conferma: ancora nel 2014 avevamo il doppio delle imprese della Germania. Siamo la nazione con più imprese in Europa – siamo anche una delle nazioni che cresce meno.

Potrebbe non essere una coincidenza: l’industria italiana potrebbe avere un serio problema di nanismo. Il caso di Bramini in fondo ci racconta proprio che una piccola impresa che vive di commesse statali rischia di essere strangolata a causa di banali ritardi burocratici. Altrove è lo stesso mercato a favorire la fusione e la creazione di imprese più grandi, in grado di far fronte con più efficienza a crisi di liquidità. Da noi no, da noi occorre salvare l’ecosistema dei padroncini. Quel tessuto sociale di capannoni e villette che era un chiodo fisso di Grillo, che è il Nord della bussola di Salvini (e di Bossi prima di lui). Su tante cose Lega e M5S non andavano d’accordo e probabilmente litigheranno presto; ma i padroncini piacciono a entrambi. Una delle prime destinazioni a cui i parlamentari 5S cominciarono a destinare i loro stipendi da parlamentari fu proprio un fondo salva-piccole-imprese. Nemmeno i panda hanno goduto di tanta attenzione. E come per i panda (orsetti vegetariani che mangiano solo bambù e non lo digeriscono neanche bene) è lecito domandarsi se ne valga la pena; se il modello di sviluppo della piccola impresa non sia per caso condannato dall’evoluzione, che in economia si chiama globalizzazione e ultimamente premia chi riesce ad adattarsi a una tendenza mondiale di livellamento dei prezzi delle risorse e della manodopera.

La risposta è scontata: no (continua su TheVision).

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Il giorno di Mattarella

(Questo pezzo è uscito ieri su TheVision). 

“Ho fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico.” Alle otto e mezza della sera, il Presidente Mattarella è appena entrato in sala stampa. Salvini sta già tuonando su Facebook che rivuole le elezioni; Di Maio e Giorgia Meloni si allenano a pronunciare la parola “impeachment”. Davanti alle telecamere, Mattarella racconta di come è arrivato a una decisione senza precedenti nella storia della Repubblica. La lista dei ministri presentata da Giuseppe Conte è stata bocciata e Mattarella, a domanda, conferma che la trattativa si è arenata su un solo nome: quello del ministro dell’Economia.

Il presidente è visibilmente nervoso, in queste settimane ha ingoiato diversi rospi. Ha atteso più che pazientemente che Cinque Stelle e Lega trovassero un accordo sul programma di governo e sui nomi da coinvolgere. E anche ieri sarebbe stato pronto a firmare la nomina “di un autorevole esponente politico della maggioranza,” purché non fosse “sostenitore di una linea” che avrebbe potuto provocare “la fuoruscita dell’Italia dall’euro.”Non era evidentemente il caso di Paolo Savona, l’autorevole economista ottantaduenne sul quale avevano trovato un accordo Salvini e Di Maio. Savona, che pure si considera un convinto europeista e auspica la nascita degli Stati Uniti d’Europa, con gli anni ha maturato un’opinione sempre più critica nei confronti dell’unione monetaria, e da tempo sostiene la necessità per l’Italia di un “piano B”– l’eventuale uscita, appunto, dall’eurozona. Più che di un’eventualità realizzabile, si sarebbe trattato di un avvertimento da impugnare a Bruxelles: se continuate a imporci il rigore, noi usciamo davvero. Un deterrente, un bluff, ma in economia forse bluffare non è più concesso (continua su TheVision).

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