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Il santo che non sbatteva le uova

17 maggio: San Pasquale Baylon (1540-1592), che non inventò lo zabaion

La gloria degli uomini è in molti casi una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale. Avrete sentito di quella politica che ha dato un’intervista di quattro pagine su tanti temi, e alla fine le hanno chiesto come abbina i colori e ha detto mah, mi dà dei consigli un’armocromista, ecco, fine, l’unica cosa che la gente ha letto è armocromista, e continueranno a menarsela con l’armocromia finché non trovano qualcosa di più sciocco, uno dice vabbe’, è la propaganda politica, un agone senza scrupoli – no macché, la gente fa così da sempre, capisce male una cosa, se la lega al dito e decide di ricordarsi quella singola cosa; non importa cosa abbiate fatto di bene o di male perché tanto si ricorderanno di voi per una cazzata che avete detto ma in realtà intendevate un’altra cosa, oppure nemmeno l’avete detta: così come Maria Antonietta non ha mai detto Che mangino brioches, Galileo non ha mai detto Eppur si muove, Voltaire potendo avrebbe ammazzato un sacco di gesuiti per le loro sciocche opinioni, e lo stesso Brecht, non cominciamo nemmeno con Brecht, se la gente sapesse cosa scriveva davvero ammutolirebbe di schianto – parliamo piuttosto di San Pasquale Baylon. 

Sapete per cosa è famoso? Ha dato il nome allo zabaione. 
Sul serio? No. La Treccani dà l’etimologia più probabile dal tardo latino “sabaia” (“bevanda d’orzo”), da cui per estensione sarebbe stato il nome a tutta una serie di zuppette, compresa quella con l’uovo e il marsala, magari attraverso il veneziano “zabaja”. Un’altra ipotesi la ricollega a un capitano di ventura del quattrocento, Giampaolo (“Zan”) Baglioni (“Baion”). In Piemonte a inizio Novecento si chiamava effettivamente “sambayon”, in teoria in onore di San Pasquale Baylon patrono dei pasticcieri, ma sembra una classica inversione di causa ed effetto, ovvero perché un asceta come San Pasquale si è ritrovato patrono di chi sforna dolci tutte le mattine? Per via di una leggenda che lo voleva, appunto, inventore dello zabaione: ma è una leggenda sciocca come poche. 
Zabaione verrebbe da “San Baylonne”, perché così si pronunciava il nome del santo a Trastevere nel Settecento, quando gli fu dedicata una chiesa che in precedenza si chiamava dei Quaranta martiri. Dunque abbiamo un termine a quo: il 1740. In precedenza Baylone, un frate alcantarino vissuto per lo più in Spagna, non doveva essere molto conosciuto a Roma. Nel settecento però gli alcantarini si espandono nei regni di Sicilia e anche nello Stato della Chiesa, e Pasquale Baylon probabilmente entra in una litania popolare che più che nelle chiese probabilmente si recitava nei collegi: una filastrocca che appioppa a ogni santo un patronato a seconda della rima del cognome; per cui Ignazio di Loyola è il “protettore della scuola”, mentre San Pasquale Baylonne si ritrova “protettore delle donne”. Da qui la strofetta che le donne nubili reciterebbero per allontanare lo spettro dello zitellaggio:

A me più bianco e rosso
sembra giallino

San Pasquale Baylonne 

protettore delle donne
deh, trovatemi un marito
bianco, rosso e colorito
ma di certo a voi uguale
o glorioso san Pasquale.

Le donne a dire il vero di protettrici ne hanno finché ne vogliono, ma l’idea audace che un frate possa essere d’aiuto alle fedeli dell’altro sesso deve aver solleticato la fantasia di qualche contafrottole, magari nei pressi di una pasticceria che doveva lanciare un prodotto. Insomma a un certo punto qualcuno si inventa la storia di una donna disperata perché il marito ha un problema di virilità; questa invoca San Pasquale, il quale a mo’ di rimedio in sogno le propone la ricetta dello zabaione al marsala. Vero che sembra la trama di un film scritto da Castellano e Pipolo con Lando Buzzanca? Infatti lo è.

Questo episodio non solo è completamente apocrifo, ma smentisce tutto quello che sappiamo del santo vero, un asceta del XVI secolo particolarmente devoto al santissimo sacramento dell’eucarestia – tanto che durante una missione in Francia, malgrado i superiori gli avessero raccomandato un profilo basso, a Pasquale capitò di accapigliarsi sull’argomento con un gruppo di ugonotti e pare che ci abbia rischiato la pelle. Una cosa che può sfuggire è che fino al Vaticano II, l’eucarestia poteva essere somministrata ai fedeli solo dopo 12 ore di digiuno, il che comportava per i devoti che cercavamo di comunicarsi più volte a settimana un regime alimentare molto frugale e faticoso; le stesse fonti cattoliche ammettono che possono essere state le privazioni autoinferte ad accorciare la vita di Pascual Baylón Yubero, che morì a 52 anni lasciando qualche opuscolo con le sue massime e riflessioni sul sacramento e la pietà cristiana. Non devono essere dei capolavori (Pasquale si considerava un illetterato, e nessuno ci ha tenuto a smentirlo), ma ci mise l’anima: imparò a scrivere per cercare di spiegare le cose in cui credeva e che gli premevano al punto di digiunare e morirne.

Ma noi ci ricordiamo di lui per una filastrocca sulle donne in cerca di marito e una leggenda stupida sulle uova sbattute. Questa è la gloria degli uomini: una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale.

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Mattia è il tredicesimo

14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo

Paris Bordon, la Pentecoste

Secondo gli Atti degli Apostoli (il sequel del Vangelo di Luca), la prima decisione che Pietro prende da solo, immediatamente dopo l’Ascensione di Gesù, è ripristinare il numero degli apostoli: Gesù ne aveva scelti dodici, e siccome Giuda dopo aver tradito si era ammazzato, bisognava eleggere un suo sostituto. A voler essere pignoli, anche il tradimento di Giuda era stato voluto da Dio, ma Pietro non ha tutti i torti: undici è veramente un numero scomodo (un numero primo), laddove il dodici ha proprietà che lo hanno reso da sempre molto popolare; parliamo del numero più basso ad avere sei divisori, quattro dei quali sono anche i primi quattro numeri naturali. Non è un caso che sia le ore della parte solare del giorno, sia i mesi dell’anno, siano dodici in molte culture. È il primo numero che puoi dividere per due, per tre e per quattro, e ancora non hai a che fare con resti e con virgole.

Per gli ebrei 12 è soprattutto il numero dei figli di Giacobbe, ognuno capostipite di una tribù di Israele. Anche se al tempo di Gesù questa suddivisione si era ormai persa (al punto che dieci tribù su 12 al tempo di ritornare da Babilonia risultavano disperse) il solo richiamo al numero 12 evocava la rifondazione del popolo di Dio: lo si vedrà decenni dopo nell’Apocalisse dove il numero compare un po’ dappertutto: le dodici stelle sulla corona della vergine (che è la Chiesa), e i 144000 “redenti della terra” (144, se vi era sfuggito, è il quadrato di 12). Dunque sì, era comprensibile che gli apostoli rimasti in undici sentissero l’esigenza di ripristinare un numero tanto simbolico. 
L’episodio è il primo in cui si manifesta il nuovo Pietro, non più il tremebondo interlocutore di Gesù, ma un personaggio improvvisamente sicuro del suo ruolo e delle sue idee, persino prima di ricevere lo Spirito Santo durante la Pentecoste (l’episodio deve succedere per forza prima, dal momento che lo Spirito deve scendere su dodici apostoli). È lui a informare una comunità di “120 persone” che Giuda si è ammazzato, è lui a spiegare che la sua sostituzione è necessaria, come se avesse già capito che si tratta di creare una struttura comunitaria con regole già rigide. Questo Pietro è un personaggio che compare soltanto in questo libro di Luca evangelista, ma lo stesso Luca è molto attento a definire le sue prerogative: Pietro può spiegare ai compagni che serve un nuovo apostolo, ma non può nominarlo direttamente. 
L’unica limitazione è che sia scelto tra “coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto con noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo”. Non sappiamo quanti fossero (in precedenza Luca aveva menzionato 72 discepoli), ma sappiamo che tra questi viene selezionata una rosa di due candidati: Barsabba “soprannominato il Giusto” e Mattia. La decisione finale viene presa mediante sorteggio: la sorte cade su Mattia, che prende così tra i Dodici il posto di Giuda. Malgrado un precedente così autorevole, in seguito la Chiesa non ricorrerà più al sorteggio per nominare vescovi o cardinali. 
Lo stesso Mattia negli Atti è poco più di un segnaposto e serve soprattutto per garantire al lettore che nella pagina seguente lo Spirito Santo sia sceso su dodici, e non undici apostoli. Il che può farci sospettare che Luca si sia inventato l’episodio per armonizzare due tradizioni che non si conciliavano: alcuni dicevano che lo Spirito Santo era sceso su dodici, altri che uno dei dodici aveva tradito Gesù… come si spiegava la cosa? Luca la spiega: il che può significare che è davvero stato l’evangelista sgobbone, quello che più si è preoccupato di illuminare diversi aspetti del Vangelo che potevano risultare ambigui od oscuri; oppure che quando non sapeva esattamente com’erano andate le cose, non aveva scrupolo a inventarsele un poco.
 
Mattia comunque è diventato patrono degli ingegneri, non so perché ma sono sicuro che molti ingegneri abbiano istintivamente approvato il ripristino del numero 12. Nelle Scritture è appena una comparsa, ma questo è vero anche per altri apostoli, di cui i Vangeli riportano appena una battuta o a volte nemmeno quella. Questo non ha impedito agli agiografi di inventare su di loro le storie più strampalate, anzi, più vuoto era il loro dossier, più spazio c’era per aggiungere vita morte e miracoli. 
Invece Mattia, forse per la sua posizione ambigua di apostolo-non-apostolo, non ha trovato quasi nessuno disposto a raccontarne gesta memorabili. Chi lo dice martire in Etiopia – destinazione tipica di chi aveva fatto perdere le sue tracce – chi in Cappadocia, chi a Gerusalemme trafitto da un’alabarda che almeno consente di riconoscerlo negli affreschi. Alcuni citano versetti di un suo vangelo che però già nel secondo secolo veniva rigettato come apocrifo. Nessuna città lo reclama come patrono; a Padova ne conservano parte del corpo, ma vuoi mettere con la lingua di Sant’Antonio? Altre sue reliquie sono a Treviri e in Santa Maria Maggiore a Roma, dono di Sant’Elena imperatrice, ma per i bollandisti sarebbero invece i resti di un omonimo patriarca di Gerusalemme del secondo secolo. Insomma se ai santi interessasse ancora la fama tra gli uomini, Mattia potrebbe lamentarsi di non aver lasciato molte tracce di sé – ma sempre meglio di Barsabba.

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Gengolfo il magnifico

11 maggio: San Gengolfo martire (VIII secolo), patrono dei mariti traditi

Che elmo elegante,
benché le protuberanze non si capisce a cosa…
no, niente. 

Gengolfo è quel tipico santo che state dicendo no dai, se l’è inventato lui, che razza di nome Gengolfo: e invece no. Magari qualche altro agiografo se l’è inventato, qualcuno con un debole per i Pipinidi e qualche difficoltà a elaborare i tradimenti coniugali. Io non sono quel tipo di agiografo.
I Pipinidi mi lasciano abbastanza indifferente. Ma qualcuno narra che una volta, tornando dalla guerra sulla strada per Varennes, Gengolfo si sia ritrovato assetato presso una fontana a Bassigny. Il proprietario della fonte, ignaro di avere davanti non un semplice cavaliere, ma un santo nonché compagno di tenda di Pipino il Breve, avrebbe fatto questa scandalosa proposta: se vuoi bere, devi comprare la fonte. No, non l’acqua: proprio la fonte. Dopo puoi bere finché vuoi. 
Va bene, avrebbe risposto san Gengolfo, che per fortuna aveva abbastanza contante con sé. Il proprietario deve essersi sentito come Totò quando riesce a piazzare la fontana di Trevi: immaginate però la sua disperazione quando qualche tempo dopo la fonte si estingue all’improvviso. Cos’era successo? Gengolfo era arrivato nel suo feudo a Varennes, aveva picchiato il suolo col bastone, e per miracolo la fonte si era trasferita lì, così impara la gente a tentare di fottere i santi. 
Gengolfo era un buon soldato e uno strettissimo collaboratore di Pipino, che di lì a poco avrebbe esautorato definitivamente l’ultimo re merovingio e forse concesso al santo un ulteriore feudo in Frisia. Parte dell’ascendente che Pipino provava per Gengolfo derivava da un miracolo a cui avevano assistito una volta nella tenda da campo in cui riposavano: durante la notte una torcia si era riaccesa da sola tre volte, un miracolo che trascrivo perché da bambino durante un ritiro spirituale vidi anch’io una luce che si riaccese tre volte, forse un mio compagno di camera era un santo ma siccome sospettavo che fosse uno scherzo mi voltai dall’altra parte e non lo saprò mai. 

Saint Gingolph è un ridente paesino diviso a metà 
dalla frontiera franco-svizzera,
dove almeno secondo Wikipedia
avviene questo incredibile fenomeno 
che il lago è in discesa. 
Benché Gengolfo abbia dedicato buona parte del tempo lasciato libero dal mestiere della guerra a evangelizzare la Frisia, non trovò il martirio a causa dei pagani, ma della moglie – e in effetti a rigore è discutibile che si possa considerare un martirio: non stava mica difendendo la fede, al massimo cercava di gestire con dignità un matrimonio scoppiato. La moglie lo tradiva da diverso tempo, addirittura con un prete, e a corte ormai sapevano, sicché lo stesso Gengolfo non poteva più far finta di niente perché agli occhi del re (e di Dio) ciò sarebbe risultato connivenza se non complicità. Le aveva anche fatto il test: metti la mano nella fonte, se mi dici la verità non ti succederà nulla. La moglie si era scottata. Siccome al marito ripugnava comunque denunciare ufficialmente la cosa (era l’ottavo secolo, un’adultera rischiava il patibolo), alla fine aveva piazzato la signora nel castello più lontano che aveva, sperando che col tempo si sarebbe un po’ calmata e che riflettendo sulla generosità del marito avrebbe magari trovato una sua via alla santità. 
Invece lei di lui diceva: fa miracoli come  il mio deretano canta le canzoni (questo secondo una tarda leggenda le causò dopo la morte del santo un grosso problema di aerofagia). Continuò in ogni caso ad avere amanti e uno – forse lo stesso prete – lo convinse ad ammazzare Gengolfo; il che ci insegna che è più facile per un santo spostare una fonte d’acqua con la falda acquifera e tutto quanto che suscitare rimorso in chi ti fa le corna, amen.

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La più saggia lava i piatti

10 maggio – Santa Isidora la stolta, vergine in Egitto (quarto secolo)

[2013]. Capita a tutti i supplenti l’esperienza di una classe antipatica – entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno perché È Stato Lui. In queste classi, tipicamente, c’è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, oppure non capisce nemmeno l’italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po’ individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po’ per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.

Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c’è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che – mi ha detto la visione – si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, praticamente tutte. Come sarebbe a dire “praticamente”? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate… per esempio ce n’è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole… Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta… la chiamiamo Isidora la scema… Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l’unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare… Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un’aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu…

Scoppia subito l’Isidoramania – il deserto egiziano è una polveriera di misticismo, basta una scintilla perché tutti si mettano in viaggio a vedere la nuova santa di riferimento. Isidora ha passato tutta la vita a nascondersi, e tutta questa popolarità la regge malissimo: dopo qualche tempo scompare. Nel deserto, dicono. Come dire: potrebbe essere dappertutto. La leggenda di Isidora è tutta qui, una specie di fiaba di Cenerentola formato collegio di monachelle. Magari è nata effettivamente così, un modo di riadattare la fiaba a un pubblico di bambine come la Gertrude dei promessi sposi – quelle già segnate dalla nascita, che giocavano con bambole vestite da suorine, le Barbie modello Badessa. Un asceta al posto del Principe, un’aureola d’oro al posto della scarpina di cristallo, perché no.

La leggenda mette a fuoco l’annosa polemica tra cenobitismo e ascetismo, vita comunitaria e vita solitaria; visti dal monastero, gli asceti sono tutti mezzi matti dediti a pratiche folli e devianti. Per l’asceta è l’esatto contrario: i monasteri sono luoghi di mediocrità e squallore dove la sguattera è più vicina a Cristo della madre badessa. La lotta tra asceti e cenobiti proseguirà sotterranea lungo tutta la storia della Chiesa: anche se in occidente sembra che i secondi si siano imposti da subito, gli asceti non sono mai veramente spariti. Si sono infiltrati: ma è facile riconoscerli, sono quelli che persino in un istituto concentrazionario come un monastero del Cinquecento si lamentano perché la cucina è troppo buona e le consorelle ricevono troppe visite: Teresa d’Avila che lotta per scalzare le carmelitane, Matteo da Bascio che si lamenta perché il saio dei frati minori non è abbastanza ruvido, eccetera.

Gente così è sempre esistita, il che ci porta a ipotizzare che anche un Pitrim possa essere esistito – magari non in Egitto, magari non nel quarto secolo – ma da qualche parte nascosta nelle pieghe del tempo. A immaginarsi la scena non ci vuole tantissima fantasia. Un ospite che arriva in un monastero: si aspetta di trovarci tanta ospitale santità nonché una certa pia deferenza, e invece sono tutte fredde e antipatiche, si credono tutte di essere chissachì, adesso ve lo faccio vedere io. Fatemi vedere la più malmessa di tutte – è lei? La sguattera? È una deficiente? Lo dite voi che è una deficiente, io ho le visioni e vi dico che è la più vicina a Gesù Cristo di tutte quante. E adesso me ne vado, ciao, è suonata la campanella.

E la povera Isidora resta lì, a gestirsi una santità appioppata all’improvviso. Magari soffriva di anoressia o di qualche altro disturbo alimentare più insolito (picacismo?) Le monache che prima la respingevano perché indemoniata ora la invidiano – non è necessariamente un progresso. Non sorprende che abbia fatto perdere le tracce, nel deserto o in un altro monastero. Ma potrebbero semplicemente averle cambiato nome e cella per difenderla dai curiosi. Nel frattempo qualche consorella si sarà messa a bere la risciacquatura dei piatti per mostrare di non essere da meno, e così via. Nel frattempo Pitrim è ancora in giro a scambiar matti per poeti, scemi per santi, anoressiche per modelle. Ogni tanto suona una campanella, magari la prossima è per voi.

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Che fine ha fatto Domitilla

7 maggio: Santa Flavia Domitilla (I secolo), nobildonna in disgrazia


A Roma la prima persecuzione anticristiana in assoluto fu quella promossa da Nerone dopo il grande incendio del 64: ne parla anche Tacito, quindi siamo abbastanza sicuri che i cristiani se la videro male, perlomeno nell’Urbe: Pietro e Paolo sarebbero stati giustiziati in quel frangente.
 
Della seconda persecuzione sappiamo molto meno; per come la racconta Svetonio somiglia più a una purga di palazzo. Siamo nel 95, Tito Flavio Domiziano è imperatore da quando aveva trent’anni: ora ne ha 45 e si sente forse con le spalle al muro. Soffre di una malattia nervosa che non siamo riusciti a diagnosticargli in duemila anni – chi dice Asperger, chi epilessia, e non dimentichiamo l’intossicazione da piombo che nella città degli acquedotti doveva essere molto diffusa. 

Domiziano ha sempre amato la solitudine, ma forse a questo punto si tratta di nascondere episodi convulsivi che convincerebbero qualche cortigiano della necessità di cambiare imperatore, e dopo un secolo ormai si è capito come si cambiano imperatori a Roma. Se ti va bene ti soffocano col cuscino come Tiberio, se ti va peggio trenta pugnalate o tocca arrangiarsi da soli come capitò a Nerone, ma insomma un imperatore che si pre-pensioni fino a questo momento non si è visto, non è previsto. Non è nemmeno chiaro come funzioni la successione – in teoria lo Stato è ancora una repubblica: l’imperatore è uno stato di eccezione permanente ed è eccezionale sia il modo in cui conquista il potere, sia il modo in cui lo cede.

Domiziano a dire il vero è diventato Augusto in modo abbastanza banale, subentrando a suo fratello Tito che era molto più famoso e amato di lui. In quindici anni di regno, Domiziano deve aver riflettuto spesso su quanto sia facile farsi amare se si rimane sulla ribalta appena un paio d’anni, il tempo di fare regali a tutti, assistere i cittadini durante una pestilenza, e morirne; a Domiziano invece era capitato l’ingrato compito di chi sopravvive a oltranza, finché qualcuno non ti fa fuori.

Figli non ne ha – se ne avesse, a questo punto tramerebbero contro di lui, rendendosi popolari in qualche legione ai confini dell’impero, vincendo una scaramuccia qua o là con barbari spesse volte corrotti e compiacenti, distribuendo bottini fino a farsi acclamare nuovi imperatori. Verso il 95 pensa di aver risolto il problema della successione designando i figli di un parente, Flavio Clemente, figlio di un figlio del fratello di suo padre, il grande Vespasiano. Non solo, ma la madre di questi due ragazzi – Flavia Domitilla – era figlia di un’omonima Flavia Domitilla, sorella di Tito e Domiziano, insomma questa dinastia flavia era appena arrivata a regnare su Roma e già stava cominciando ad avvitarsi su sé stessa come certe stirpi faraoniche.

Sembra comunque che tutto fili liscio, i due ragazzi crescono sani e possono avvalersi dell’istitutore più celebre di tutta la romanità, Quintiliano, che ovviamente è fierissimo di loro. Il loro padre, che nel 95 è console, non sembra particolarmente ambizioso, eppure già in primavera Domiziano comincia a sospettare: ora che la successione è definita, qualcuno a corte potrebbe esser tentato di accelerarla. Non sappiamo se il sospetto fosse nutrito da indizi o delazioni, o se ormai Domiziano fosse arrivato al punto in cui si praticano purghe preventive alla Stalin; Svetonio parla di una “tenuissima suspicione”, ma è pur sempre Svetonio, oggi scriverebbe gossip su Chi. Fatto sta che in maggio Flavio Clemente viene messo a morte con altri suoi sodali; anche la moglie viene punita, ma soltanto con l’esilio nell’isola di Ventotene. E siccome mettere in giro la voce che c’è stata una congiura sarebbe già una mezza ammissione del fatto che l’imperatore non è immortale, che insomma altre congiure sarebbero possibili, secondo Cassio Dione i sospettati furono accusati non di avere attentato alla vita di Domiziano, ma di empietà verso gli dei o “ateismo”. Ai tempi era un’accusa serissima, ancorché abbastanza vaga: era passibile di condanna per ateismo chiunque si rifiutasse di sacrificare agli Dei ufficiali.

Per Cassio Dione (che però scrive già nel 200) effettivamente Flavio e la moglie non sacrificavano perché erano “deviati dai costumi dei Giudei”: il che è buffo se si pensa che la dinastia Flavia è proprio quella che gli ebrei li aveva dispersi nel mondo; era stato lo stesso Tito, zio di Flavia Domitilla, a radere al suolo Gerusalemme e il suo tempio nel 70. Gli ebrei a quel punto si erano trasferiti ovunque e anche a Roma, diffondendo le loro concezioni religiose che avevano trovato proseliti in ogni classe sociale. Che poi tra le varie correnti ebraiche, i due coniugi avessero abbracciato proprio il cristianesimo, Cassio non lo dice perché magari non la differenza tra cristiani ed ebrei non gli interessava: a dichiarare chiaro e tondo che Flavio e Flavia fossero cristiani ci pensa quasi un secolo più tardi Eusebio di Cesarea, che però si confonde e scrive che Domitilla era stata esiliata a Ponza. Questo ha fatto pensare che potrebbero persino esistere due Flavie Domitille diverse: non è affatto impossibile, visto che i nomi femminili si ereditavano. Leggende successive trasformano questo personaggio abbastanza evanescente in una martire vera e propria, giustiziata a Terracina dopo aver convertito molti pagani a furia di miracoli. 

Ma l’importanza di Domitilla e suo marito sta nel fatto che sono gli unici martiri romani di epoca domizianea che conosciamo: e siccome riteniamo che Giovanni evangelista abbia scritto l’Apocalisse più o meno in quel periodo, descrivendo il senso di angoscia provato dai cristiani del tempo a causa di un vasto disegno persecutorio nei loro confronti (secondo molti esegeti Domiziano sarebbe la Bestia), sarebbe più che sensato trovare testimonianze di questa persecuzione su larga scala: che ahinoi, non ci sono; Flavio e Flavia è tutto quello che abbiamo.

Quando a Domiziano, pochi mesi dopo la purga sarebbe morto assassinato, come aveva previsto. Un prefetto del pretorio lo avrebbe avvisato della congiura: c’è qui il procuratore Stefano che si è procurato un biglietto con la prova, si è anche ferito a un braccio. Mentre Domiziano leggeva il biglietto, Stefano dalle bende della ferita avrebbe estratto il pugnale. Con lui termina la dinastia Flavia.

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L’abate recalcitrante

23 marzo: San Gualtiero di Pontoise (1030-1095), abate recalcitrante

Gualtiero, di origine piccarda, era l’abate del monastero di Pontoise, e il tratto che risulta più evidente dalle sue succinte biografie è che non morisse veramente dalla voglia di fare l’abate; perlomeno nel monastero di Pontoise. 

Vabbe’ non sarà Cluny, ma non è neanche una spelonca sulla Maiella, per dire

La sua prima fuga è nel 1072, quando si presenta come se niente fosse all’abbazia di Cluny e chiede di entrare come monaco semplice. Cluny nell’XI secolo era la capitale del monachesimo occidentale: Gualtiero vi incontra Ugo di Cluny, nientemeno che il mediatore tra l’imperatore Enrico VI e papa Gregorio VII, insomma il regista di Canossa. Negli stessi anni stava raccogliendo fondi per trasformare l’abbazia nella chiesa più maestosa di Francia e del mondo. Gualtiero preferiva essere un suo umile sottoposto nella grande Cluny che un uomo di responsabilità nella relativamente piccola Pontoise, e io un po’ lo capisco, voi no? 

Ugo accoglie Gualtiero, ma quando i monaci di Pontoise scoprono che sta lì gli ordina di tornare al suo posto, e a Gualtiero non resta che obbedire. Non sappiamo esattamente per quale motivo avesse litigato coi suoi monaci, ma la sua vicinanza a Ugo ci fa sospettare che Gualtiero tendesse a interpretare il suo ruolo con un’intransigenza che era lo spirito stesso della riforma gregoriana, ma che forse è più facile portare avanti se sei privo di responsabilità e non ti tocca ogni giorno avere a che fare con sottoposti che ti boicottano. Fatto sta che Gualtiero dopo qualche anno scappa di nuovo, e ai suoi confratelli tocca cercarlo fino in Turenna, dove un pellegrino lo riconosce nel saio di un eremita che coi suoi saggi consigli stava cominciando ad attirare gente dai villaggi intorno a Tours. 

Invece di tornare a Pontoise, Gualtiero stavolta decide di portare il suo problema a Roma, dove chiede al papa in persona di essere sollevato dal suo incarico. A Roma c’è ancora Gregorio VII che gli dice papale papale che se scappa un’altra volta da Pontoise, lo scomunica. 

A Gualtiero non resta che tornare a Pontoise, dove tutto sommato non deve aver lasciato un brutto ricordo – anche solo il fatto che ogni volta che spariva i suoi confratelli si mettevano a cercarlo dappertutto, rifletteteci: se il vostro capo sparisse, lo andreste a cercare di monastero in monastero? Persino in Turenna? 

Dopodiché è probabile che avesse un caratterino: litigò con tutto il sinodo di Parigi perché non sollevavano da un incarico un prete che aveva una concubina. Riuscì a infastidire pure il re di Francia denunciando il modo sbarazzino con cui quest’ultimo continuava a vendere cariche ecclesiastiche benché un imperatore di Germania fosse già stato messo in ginocchio, a Canossa, per lo stesso motivo. Insomma era un gregoriano duro e puro, ma probabilmente è più facile esserlo quando non devi gestire un’abbazia intera e non ti tocca cedere a compromessi continui che alla lunga mettono in crisi le tue convinzioni. 

Comunque ce l’ha fatta, è diventato santo – se Dio ha il senso dell’umorismo che a volte gli sospetto, in paradiso gli ha fatto trovare la copia identica del monastero di Pontoise, con dentro gli stessi monaci, e gli ha detto: pensavamo di nominarti abate, che ne pensi? A noi sembra proprio l’incarico giusto per te. Dopodiché ogni tanto lo chiamano dall’inferno, ehi, è di nuovo scappato quel monaco, venitevelo a prendere. Dà lezioni ai diavoli su come si affliggono correttamente le anime, prende tutto troppo sul serio, è un tormento.

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Il frate cancellato

14 marzo: Beato Filippo Longo (XIII sec.), presidente delle suore clarisse

A Filippo Longo capitò di essere il settimo seguace di Francesco d’Assisi, quando era ancora una banda di mistici scalzi e potenzialmente sovversivi; poi di fare carriera prendendo ordini da un papa, e dirigendo un ordine femminile; e poi all’improvviso fu cancellato, come se non fosse mai esistito: al punto che è quasi per caso che conosciamo il suo nome oltre a un soprannome (“Longo”) che gli deriverebbe dalla sua statura. Non sappiamo da dove venisse (comunque un posto qualsiasi, un borgo ai piedi del Subasio o di Rieti o del contado di Perugia, o di Teramo: nessuna città importante reclama Filippo Longo). 

Secondo Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Filippo pur non avendo fatto studi particolari era un oratore particolarmente capace (“il Signore [gli] aveva toccato e purificato le labbra con il carbone ardente, così che parlava di Dio con mirabile dolcezza”). Forse è il motivo per cui Francesco lo portava con sé quando si reca a San Damiano a incontrare Chiara: affinché nessuno osasse sollevare il benché minimo sospetto su questi incontri, gli serviva un testimone convincente che potesse riferire i contenuti delle discussioni tra i due santi e garantirne l’ortodossia. 

In seguito Francesco parte per la Terrasanta e quando torna scopre che la predilezione di Filippo per Chiara e le sue consorelle si è trasformata in un vero e proprio incarico amministrativo: Filippo è diventato “primo Confessore, Visitatore, Correttore, e Presidente” delle suore che ancora non si chiamano clarisse ma monache di San Damiano. A conferirgli una tale autorità non poteva che essere stato il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, il grande sponsor di Francesco e Chiara presso la curia di Roma. 

Francesco, che probabilmente senza Ugolino avrebbe rischiato più di un processo per eresia, questo tentativo neanche troppo velato di trasformare il suo movimento di poveri in un ordine gerarchico manovrato dalla curia non lo digeriva così bene. Lo si capisce da piccoli episodi come questo, riportato da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia: appena scopre che Filippo ha fatto carriera come capo delle clarisse, lo destituisce immediatamente dichiarando: “I miei frati proprio per questo sono chiamati Minori, perché non presumano di diventare maggiori“. Può darsi che semplicemente Francesco ritenesse Chiara e le sue sodali in grado di governarsi da sole. Filippo abbozza, ma Francesco è già malato e muore nel giro di qualche anno (1226); pochi mesi dopo Ugolino diventa papa Gregorio IX e rimette Filippo al suo posto di confessore e presidente delle clarisse. 

Sono gli anni in cui i francescani si dividono tra un’ala più oltranzista che vuole ritornare all’esempio del fondatore, e una maggioranza ‘conventuale’ ormai organizzata come un ordine religioso. Filippo dà la sensazione di essere uno dei tanti operatori di questa normalizzazione, ma come spesso accade c’è sempre qualcuno più normalizzatore di te che a un certo punto ti fa le scarpe e non è nemmeno escluso che a un certo punto Filippo sia caduto in disgrazia. Il suo nome viene citato tra i testimoni oculari consultati dai tre frati che nel 1246 stilano la “lettera di Greccio”, un documento che accompagna una raccolta di testimonianze inedite su Francesco, finora ignorate dalle biografie. Questi tentativi di raffigurare un Francesco diverso da quello ufficiale vengono completamente fermati nel 1263, quando al Capitolo Generale di Pisa l’ordine francescano stabilisce di distruggere tutte le biografie del santo e sostituirle con l’unica omologata, la Legenda Maior compilata per l’occasione da Bonaventura di Bagnoregio, ministro generale dell’ordine. 

Bonaventura di Filippo Longo non fa menzione. Come se non fosse mai esistito: e se l’opera di cancellazione prevista dai francescani fosse stata completa, oggi non sapremmo nulla di lui. E in ogni caso non ne sappiamo molto. Secondo lo storico seicentesco Ludovico Jacobilli, specializzato in santi di Umbria e dintorni, i superiori lo avrebbero trasferito in Alvernia, dalle parti di Clermont-Ferrand, dove avrebbe continuato a stupire gli ascoltatori con le sue doti oratorie davvero innate, se anche il passaggio da Italia a Francia non le aveva appannate. Lo stesso Jacobilli ammette che altri cronisti lo danno per morto molto più vicino ad Assisi, ovvero a Perugia: e sepolto in uno dei convento di suore che dirigeva; il che forse era ammissibile prima di un’ulteriore normalizzazione degli ordini maschili e femminili: ma già ai tempi di Jacobilli risultava troppo difficile da accettare.

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Tre cappuccini in Etiopia

3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo

Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce “Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo” del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei santi si legge ciò:

“Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo”.

Il… sempre presente estremismo arabo? 

È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest’ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di “estremismo arabo” si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché “estremismo arabo” è proprio un’espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché… né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale

Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar

A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell’omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va. 

All’inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall’ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l’Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l’impero del Negus non è dietro l’angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope. 

Nessun “estremista arabo” li ostacola, ma giunti all’altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com’era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l’ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata. 

Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un’esperienza missionaria non fortunata nell’isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano. 

A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove si per qualche tempo tirano a campare curando i malati. Liberat improvvisa anche un’attività di orafo: ma la loro permanenza in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un’altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest’ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un’opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l’ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c’entrano molto.

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Amen, dissero le pietre

2 marzo: San Luca Casali di Nicosia (IX secolo), che predicò alle pietre


Voi ogni tanto vi chiedete cosa lo fate a fare? Perché io più o meno tutti i giorni. Prima o poi inventeranno un arnese che sa farlo al vostro posto – se non l’hanno già inventato. Anche questi pezzi sul santo del mese, c’è sicuramente un algoritmo che sa già scriverli meglio. C’è un algoritmo per tutto ormai. L’unico di cui sento la mancanza, è l’algoritmo che legga quello che invece scrivo io. L’algoritmo che mi faccia i complimenti, l’algoritmo che mi voglia bene. Visto che di esseri umani ne passano sempre meno, e un bel giorno non ne passeranno più: già adesso, se togli quello che viene a litigare, a spacciare un link, quello che stava cercando tutt’altro ma Google non ha del tutto smesso di farlo passare da qui… rimane una manciata di persone, l’età media delle quali non mi lascia molte speranze. Poi ogni tanto boom! Un migliaio di accessi dalla Bassa Sassonia si riversa su una agiografia, una recensione di un Marvel del 2014 o un lato B di Battiato, non è chiaro perché succeda; forse ogni tanto a Google avanzano dei cookies e li nasconde sotto il primo tappeto che trova, che a volte è un post mio. Va’ a sapere. E io qualche volta ci casco pure eh, mi domando: ma come mai stanno tutti leggendo il mio pezzo sul lato B di Battiato? Forse qualche pezzo grosso ne ha parlato? Ma pezzo grosso di che. No, sono tutti algoritmi ormai, e io a volte mi sento l’ultimo blogger sulla Terra, oppure Bernardino Lamis, che nella novella L’eresia catara impartisce la lezione della sua vita a una classe vuota, scambiando per alunni gli impermeabili che sgocciolano. E anche un po’ Luca Casali di Nicosia.
Divenuto monaco in giovanissima età, e cieco nella vecchiaia, Luca Casali è ricordato soprattutto per un miracolo seguito a uno scherzo di cattivo gusto. Stava ritornando da una visita di parenti a Nicosia, che non è la capitale di Cipro ma il comune dell’entroterra siciliano, quando i confratelli che lo accompagnavano gli dissero, in fondo a una pietraia: ehi, la gente ha saputo che passavi ed è venuta a sentirti, non è che hai una predica pronta? Luca, commosso dalla considerazione in cui è tenuto dalla gente del posto, improvvisa lì per lì un sermone coi fiocchi: peccato non ci sia nessuno ad ascoltarlo, tranne i confratelli che si tengono il saio dal ridere. Ma il riso muta tosto in sbigottimento quando al termine del discorso, dopo che Luca ha impartito la benedizione, le pietre prorompono in un sonoro “Amen”. 
È un caso davvero particolare – di solito i miracoli servono a guarire le persone, o a risolvere i loro problemi. Ma Luca Casali non smette di essere cieco. Per un attimo ha la sensazione di essere ancora utile. Ma è solo un’illusione, il miracolo è funzionale a un’illusione. La storia è senz’altro ispirata al passo in cui Gesù spiega che Dio può trasformare in figli di Abramo anche le pietre (Matteo 3,9; Luca 3,8). E però le pietre di San Luca dopo aver risposto restano pietre. Di questa storia dal retrogusto un po’ aspro avrebbe potuto ricordarsi Luigi Pirandello, quando inventò il personaggio patetico di Bernardino Lamis. Non so se ci avete fatto caso, ma le prediche migliori le facciamo ai sassi e alle sedie vuote. Sarà che fanno silenzio, ci danno spazio, ci confortano con la fiducia che sembrano concederci, e a quel punto ci lasciamo andare e facciamo discorsi bellissimi, e i sassi se ne rendono conto, e se potessero applaudire lo farebbero – grazie, grazie, basta così per carità, siete troppo buoni. 

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Il samurai nell’inferno di Unzen

28 febbraio: martiri dell’inferno di Unzen (28/2/1627)

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/2018/03/24/the-hells-of-unzen/

I resoconti dei martiri del Kirishitan – il cristianesimo giapponese – sono spesso raccapriccianti. O forse è la mia sensazione? Sono talmente assuefatto ai racconti occidentali di fanciulle mutilate e date in pasto alle belve che non ci trovo ormai niente di strano, mentre le crocifissioni di massa praticate dai giapponesi nel Seicento mi sgomentano. Se qualche martire da noi è mai stato davvero gettato nella bocca di un vulcano, è stato così tanti secoli fa che non ho difficoltà a considerarla una leggenda: ma che sia successa la stessa cosa appena 400 anni fa a Unzen Jigoku (un piccolo vulcano vomitante acque sulfuree e corrosive, spesso tradotto “inferno dell’Unzen”) mi ispira un genuino orrore. 

Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull’eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)

Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l’impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun. 

Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L’ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell’arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell’arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)

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Un angelo chiamato Gabriele

27 febbraio: San Gabriele dell’Addolorata (1838-1862)

Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell’Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l’ho appena fatto. 

L’episodio che ho in mente è l’incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un’esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l’ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele. 

I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po’ a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia. 

Gabriele diventerà l’amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L’Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po’ più smorte, fragili e sexy. 

La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera).  La tbc insomma nell’Ottocento contribuisce a svecchiare l’immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all’invenzione dello pneumotorace, all’introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.

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La barbuta Crocifissa

20 febbraio: Santa Paola la barbuta, leggenda di Avila 

Crocefisso di Santa Wilgefortis
Museo diocesano di Graz
By Gugganij – Own work, CC BY-SA 3.0

Paola è una ragazza di Avila, Vecchia Castiglia, che si è consacrata a Dio. Un giovinastro che non è d’accordo cerca di importunarla: Paola si rifugia in una cappella e abbraccia il crocefisso, chiedendogli protezione. La protezione arriva nel modo più imprevisto: a Paola crescono all’improvviso barba e baffi. Il ragazzo, inorridito e ben poco incline alla genderfluidità, scappa effettivamente via. Paola è la variante castigliana di una figura leggendaria diffusa in tutta l’Europa cattolica (tranne che in Italia): la donna crocefissa e barbuta. Ce ne sono un po’ dappertutto e sono conosciute in ogni Paese con un nome diverso: quello portoghese, Vilgeforte, deriva evidentemente dal latino Virgo Fortis: vergine forte, coraggiosa (in Inghilterra era chiamata Uncomber, “senza pena” anche per chi la invocava, a volte contro i dolori del parto).

Una donna con la barba, quindi, è considerata più forte di una donna senza, ancorché indesiderabile. Che i digiuni scombinati intrapresi da alcune mistiche nei conventi potessero causare squilibri ormonali con annesse complicazioni tricologiche non è del tutto implausibile, ma la leggenda non sembra alludere a questo, né agli ermafroditi degli antichi miti (nessuna vergine barbuta risale a prima del 1200). La vergine barbuta potrebbe invece essere una di quelle leggende che nascono da un equivoco iconografico, ovvero in quelle situazioni in cui a un certo punto alcuni fedeli si trovano davanti un’immagine sacra che non riescono bene a spiegarsi: in questo caso una donna barbuta e crocefissa.  Ma chi avrebbe mai crocefisso una donna barbuta, e perché? 

Il Volto Santo di Lucca
Di Joanbanjo – Opera propria, CC BY-SA 3.0

In questo caso l’equivoco potrebbe essere stato generato dalla circolazione di souvenir – sì, anche nel medioevo li fabbricavano e vendevano, ma nella maggior parte dei casi si trattava di riproduzioni di immagini sacre molto famose. Ad esempio i pellegrini che transitavano da Lucca (ed erano molti) avrebbero molto facilmente riportato a casa una piccola copia del Volto Santo, il crocefisso che è il vero simbolo della città, dall’origine piuttosto misteriosa. Secondo i lucchesi risaliva ai tempi di Gesù, e non era stato scolpito da mano umana: si tratterebbe invece di un’immagine acheropita, una copia 3D del corpo di Cristo ritrovata da San Nicodemo e in seguito salpata dalla Palestina su una nave senza marinai, e ritrovata presso il porto di Luni dai lucchesi. Per molto tempo abbiamo pensato che la leggenda coprisse un’origine orientale del crocefisso, che però resta tutta da dimostrare: lo stile è meno bizantino di quanto vorrebbe sembrare, e faceva propendere i critici per un rifacimento medievale di un oggetto più antico andato perduto. Nel 2020 un esame col carbonio14 ha messo in crisi questa ricostruzione: a quanto pare il Volto Santo è davvero un oggetto molto antico, risalente più o meno all’800. Può darsi che a quei tempi e in quei luoghi fosse normale scolpire un crocefisso completamente vestito dalla testa ai piedi, con una tunica dalle maniche lunghe: non ci sono rimasti molti crocefissi dello stesso periodo, mentre alcune immagini posteriori abbastanza simili sembrano proprio basate sul Volto di Lucca, che già prima del 1000 era diventato un’immagine molto famosa e diffusa. Perlomeno da questa parte delle Alpi, dove una riproduzione del Volto sarebbe stata facilmente interpretata come un crocefisso ‘alla lucchese’. 

Nel resto d’Europa invece questa immagine, emersa dalle tasche di qualche pellegrino, lasciava perplessi: la tunica sembrava più adatta a un corpo femminile. Questo avrebbe stimolato il fiorire di leggende, tra cui si sarebbe imposta quella della figlia cristiana di un re pagano che non volendo sposare il suo promesso sposo (pagano) avrebbe pregato fino ad ottenere da Cristo quella barba necessaria a sventare il matrimonio – per essere poi crocefissa dal padre deluso e disgustato. Messa in questi termini, la storia ha avuto un discreto successo fino al Cinquecento, quando le forme più estrose della religiosità popolare sono state messe al bando sia dalla riforma protestante che dalla controriforma cattolica: anche se Vilgefortis (invocata anche contro i mariti violenti) ha resistito in qualche martirologio fino al Concilio Vaticano II, e ad Avila Santa Paola si venera ancora.

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Beato il pittore (che sa stare al suo posto)

18 febbraio: Beato Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico, pittore e frate domenicano (1387-1455).

Dettaglio della Crocefissione,
convento di San Marco (Firenze)

Quando nel 1445 i fiorentini rimasero senza un arcivescovo, papa Eugenio IV – che in quella città aveva soggiornato nove anni – ebbe l’idea stravagante di offrire il posto a fra Giovanni da Fiesole, che da poco aveva invitato a Roma e stava lavorando alla cappella del Sacramento. Fra Giovanni ovviamente declinò – diciamo “ovviamente”, e troviamo l’idea “stravagante”, perché il pittore che conosciamo come Beato Angelico ce lo immaginiamo completamente immerso nella sua pittura, in paesaggi già tridimensionali ma dai colori ancora irreali e fiabeschi di miniatura medievale – mentre per fare il vescovo riteniamo servano altre doti: carisma, leadership, ingegneria gestionale eccetera eccetera. Un pittore arcivescovo, ve lo immaginate? Non sarebbe stato un grande arcivescovo e rischiava di perdere anche qualche tacca come pittore. Ragion per cui siamo tutti molto felici che abbia declinato, indicando il confratello Antonino Pierozzi, intellettuale di rango. Giorgio Vasari nelle vite ne approfitta per tessere l’elogio della modestia del frate pittore: “Fu gran bontà quella di fra’ Giovanni, e nel vero cosa rarissima concedere una dignità et uno onore e carico così grande, a sé offerto da un sommo pontefice, a colui che egli, con buon occhio e sincerità di cuore, ne giudicò molto più di sé degno. Apparino da questo Santo uomo i religiosi de’ tempi nostri, a non tirarsi addosso quei carichi che degnamente non possono sostenere et a cedergli a coloro che dignissimi ne sono“. 

Secondo il meccanismo sociale noto come principio di Peter, se premiamo le persone competenti con una promozione, presto o tardi le porteremo a un livello in cui non saranno più competenti: a quel punto, se non li degradiamo con altrettanta prontezza (ma è molto difficile che accada), gli incompetenti resteranno lì, e in breve tempo tutta la nostra struttura sarà composta di gente sbagliata nel posto sbagliato. Giovanni da Fiesole seppe riconoscere il livello di incompetenza nel momento in cui stava per oltrepassarlo, insomma ebbe l’accortezza di restare al suo posto: la sua competenza, sin da ragazzo, era stata la pittura, e la pittura fu tutta la sua vita. Questo è più o meno quello che ci racconta Vasari, partendo forse dall’osservazione che se aveva davvero dipinto tutte le opere che gli venivano attribuite, l’Angelico doveva essere stato un lavoratore instancabile (“Lavorò tante cose questo padre, che sono per le case de’ cittadini di Firenze, che io resto qualche volta maravigliato, come tanto e tanto bene potesse, eziandio in molti anni, condurre perfettamente un uomo solo“). Eppure.

Eppure sappiamo che fra Giovanni non era solo il Maestro Beato Angelico. Nel 1450 sarebbe diventato priore del suo convento a Fiesole (subentrando a un fratello defunto). Già in precedenza aveva accettato incarichi amministrativi – quel tipo di accolli che un artista puro dovrebbe rifuggire come la peste. E la stessa generosa offerta che declinò, della cattedra arcivescovile di una capitale come Firenze, dimostra l’alta considerazione del papa per un uomo che conosceva di persona e che evidentemente doveva mostrare altre doti oltre a quella, indiscutibile, per la pittura. È possibile che già intorno al 1440 l’Angelico (ormai conosciuto ben oltre i confini della Toscana) più che un pittore fosse diventato il direttore artistico del suo brand: la rapidità con la quale completa uno dei suoi lavori più famosi e titanici, il ciclo di affreschi del nuovo convento domenicano di San Marco a Firenze, ci fa supporre che a realizzarli sia stata una vera e propria squadra di collaboratori, in grado di replicare lo stile del Maestro (il quale magari interveniva direttamente nei punti decisivi, come i volti che negli affreschi calamitano l’attenzione e sembrano tanto più moderni degli sfondi in cui sono immersi). 

È la stessa squadra che una volta trasferitasi a Roma, riesce durante un intervallo di poche settimane a Orvieto a decorare una buona parte della cappella di San Brizio (che poi Signorelli completerà con quegli straordinari affreschi sulla fine del mondo). Professionisti rapidi che procurano all’ordine domenicano appalti prestigiosi e remunerativi. Lo stile sviluppato dal loro leader è precisamente quello che i committenti religiosi dovevano preferire: una via intermedia tra le eleganze tardo-gotiche di Gentile da Fabriano e la rivoluzione realista di Masaccio: panorami naturali ma non troppo, che non distraggano dalla gentilezza delle figure in primo piano, piacevoli – annota Vasari – ma mai sensuali. 

Dopodiché non è nemmeno impossibile che fra Giovanni piangesse tutte le volte che dipingeva una crocifissione, come raccontano: la religiosità che emanano le sue composizioni è innegabile, e unita alla sua fama di frate modesto e pio fece sì che l’arte di Beato Angelico diventasse un modello per la pittura sacra, in contrapposizione a quella di altri maestri del primo rinascimento dallo stile più mondano, che un confratello della generazione successiva, Girolamo Savonarola, avrebbe fatto bruciare nel rogo purificatore in Piazza della Signoria; ma le opere di Giovanni a quanto pare non furono toccate. Chiamato “Angelico” già dai contemporanei, e “Beato” dai primi biografi, fra Giovanni è stato ufficialmente beatificato assai più tardi, nel 1982 da Giovanni Paolo II, che contestualmente l’ha nominato patrono degli artisti.

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Tutti debunker a Martiropoli

16 febbraio: San Maruta (IV-V sec.), vescovo di Mayferkqat, non so se mi sono spiegato.

Di Maruta, vescovo della città siriana di Mayferkqat, che fu inviato da Giovanni Crisostomo presso lo scià di Persia Yazdgard I acciocché ponesse termine alle persecuzioni sasanidi nei confronti dei cristiani, non ho tutto questo tempo di parlare. Accenno solo a quel simpatico aneddoto secondo il quale, siccome lo scià si stava affezionando a Maruta, che essendo non solo un sant’uomo ma anche medico aveva curato con un certo successo la sua emicrania, un giorno, nel tempio zoroastriano, durante la celebrazione, un uomo misterioso apparve allo scià dicendo: fate uscire dal tempio colui che presta credito a un sacerdote cristiano! Yazdgard ne sarebbe rimasto molto impressionato, perché i re orientali in queste leggende sono sempre impressionabilissimi: Maruta, invece, non fece una piega ma chiese di poter ispezionare il tempio e ci trovò una botola da cui evidentemente era comparso l’uomo misterioso. 

Guarito così dallo spavento, (e infuriato coi sacerdoti zoroastriani che pensavano di poterlo fare fesso) Yazdgard si sarebbe ancora più convinto della serietà di Maruta, e avrebbe avviato una politica di tolleranza religiosa e di alleanza coi Romani d’oriente che effettivamente risulta dalle cronache. Tutto grazie a una banale operazione di debunking, molto simile a quelle messe in atto dal profeta Daniele con Nabucodonsor. I nemici di Daniele sono i sacerdoti del dio Bal, quelli di Maruta sono gli zoroastriani, ma il succo è lo stesso: il profeta conquista la propria credibilità dimostrando che i prodigi degli altri dèi sono trucchetti messi in atto da un clero di imbroglioni.  

In effetti è molto più semplice dimostrare la falsità delle credenze altrui che la fondatezza delle proprie, e quindi non troverai mai tanti debunker come nei pressi di una istituzione religiosa: l’idea è che dopo averti dimostrato che tutto quello che sai è falso, non ti resterà che fidarti di loro. È una tecnica tipica dei truffatori di strada: prima fingono di sventare il trucco di un compare ai tuoi danni, e dopo avere conquistato la tua fiducia ti fottono. Maruta è a tutt’oggi considerato patrono della Persia, cioè dell’Iran: dai suoi viaggi tra Ctesifonte e Bisanzio riportò nella sua città tante reliquie che per un po’ prese il nome di Martiropoli, però ora non ho molto tempo per raccontare la sua storia, scusate, ho visto il video di un tizio che dimostra come sia impossibile guadagnare migliaia di euro al giorno con le cripto, è tutto uno schema di Ponzi, mentre invece il suo sistema è molto più modesto, al massimo metti via qualche centinaia di euro al giorno, però bisogna darsi da fare, insomma ciao.

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Un’africana in Veneto

8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)

Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall’Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all’antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l’attenzione di fedeli e curiosi (“Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!“) In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto. 

Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz’altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome (“Fortunata”), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l’ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia. 

La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un’altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l’Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l’unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento. 

Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d’istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.

Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt’Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c’è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po’ l’effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l’esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l’ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell’impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l’italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l’otto febbraio del 1947. 

Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: “Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?”

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San Gilberto di Limerick (oh!)

 4 febbraio: San Gilberto vescovo di Limerick (XII secolo)

C’era a quei tempi un presule in Irlanda
che trovava la sua Chiesa esecranda,
con riti problematici
e diciamolo, scismatici,
scandalizzanti il presule d’Irlanda.

Quest’uomo, che chiamavano Gilberto,
affrontava i suoi avversari a volto aperto:
“L’unica Chiesa sana”,
dicea, “è la gregoriana:
le altre sono eretiche, vi avverto”.

Alla riforma di Papa Gregorio
si riferiva (credo sia notorio)
che uniformò la Chiesa:
ben meritoria impresa
in cui si cimentò Papa Gregorio.

Gilberto fu seguace suo e buon chierico,
ma poiché egli era vescovo a Limerick (oh!)
per lui ho scritto una sciocca
insensata filastrocca,
che è cosa invero indegna di un buon chierico.

Si fosse egli chiamato Arnolfo, o Ambrogio,
non dico che avrei scritto un buon elogio:
però ci avrei provato;
ne è colpa del prelato
se Arnolfo non chiamavasi, né Ambrogio.

La colpa in parte cade su Edward Lear
che queste strofe scrisse a non finir:
“limerick” le chiamò,
il motivo non lo so:
non credo lo sapesse neanche Lear.

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Brigida e il barile senza fine

1° febbraio – Santa Brigida, badessa-vescovo, copatrona d’Irlanda

(2013) Appena dico “Santa Brigida”, vi sento già sbuffare: “Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d’Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche”. Tutto questo è vero e anche di più, ma si tratta di Brigitta di Uppland, 23 luglio. Il primo febbraio ricorre un’altra Santa Brigida, quella di Kildare (Irlanda). Perché l’Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.

E sai cosa bevi

Brigida forse era figlia di un capotribù e di una schiava convertita da Patrizio, forse no; forse esisteva già sotto forma di Brighid, importante divinità celtica, a cui erano dedicate alcune fontane sacre che poi passarono in blocco al cristianesimo quando questo espugnò anche l’Irlanda e Brighid si rassegnò a vestire i panni da badessa, riuscendo però nella trattativa a spuntare qualcosina di più: un pallio. Siccome non siete dei lettori qualunque, ma siete i lettori della rubrica dei Santi sul Post, non c’è bisogno di spiegarvi cosa sia il pallio e quanto sia straordinario che Brigitta ne vestisse uno. Solo i vescovi portano il pallio, e i vescovi, di solito, anzi sempre, sono maschi. Invece Brigitta lo portava, e lo portarono tutte le badesse che si succedettero a lei nella guida del monastero di Kildare (che forse all’inizio ospitava monaci di ambo i sessi, ancorché segregati; ma il boss era una donna). La cosa andò avanti per 500 anni, al punto che qualcuno cominciò a chiedersi il perché, e nacquero divertenti spiegazioni: si narra ad esempio che Brigitta fosse stata ordinata badessa da un vescovo molto anziano, che forse aveva sbagliato formula e invece di chiamarla “badessa” l’aveva chiamata “vescovo”: ma un ordine sacerdotale è una cosa seria, indissolubile, come il matrimonio; se per dire un prete molto anziano e presbite ti sposa per errore con un’acquasantiera, tu e l’acquasantiera restate marito e moglie per l’eternità – oppure vi appellate alla Sacra Rota, che in un caso del genere non avrebbe molte difficoltà ad annullare il sacramento – ma nel caso di Brigida nessuno si era appellato e così la badessa avrebbe ottenuto la dignità di vescovo, unica donna al mondo, per lei e per le sue success… le sue successoress… buffo, in italiano non c’è una parola per le donne che succedono ad altre donne in un ruolo di responsabilità. Curiosa lacuna.

Brigida è simpatica. Faceva miracoli molto semplici e di sicura presa: ottenne lo spazio per un convento stendendo il suo velo su un campo. Il proprietario gli aveva detto che gli avrebbe dato solo la terra coperta dal suo velo ma Brigida riuscì ovviamente a dilatarlo fino ad ottenere un bel lotto fabbricabile. Non ebbe particolari visioni estatiche, e di monasteri ne fondò assai meno dell’omonima principessa di Svezia – ma nell’isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:

I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven’s family
drinking it through all eternity.

(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità)

Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l’eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l’abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: “Tuo figlio ci ha messo l’acqua”, ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.

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La monaca antipatica

30 gennaio: Santa Giacinta Marescotti (1585-1640), monaca antipatica

Se il destino dell’uomo è il suo carattere, non si può dire che Giacinta Marescotti partisse avvantaggiata. Ognuno ha la sua croce: può essere una malattia o una condizione sociale. In molti casi la santità coincide con l’eroica sopportazione di questa condizione. Giacinta era nobile e bella, ma una croce comunque l’aveva: meno visibile di altre, più imbarazzante da condividere, ma comunque nota a tutti i biografi che non possono fare a meno di rilevarla: Giacinta era insopportabile. 

“Mostravasi tanto ritrosa e acerba che da pochi era amata e da molti fuggita” (Francesco Maria de Amatis), “cupa, intrattabile, grave alla famiglia” (un’altra biografia citata da Alfredo Cattabiani). Sarebbe stato proprio questo carattere difficile ad alienarle la simpatia del padre nel momento fatale in cui il marchese Paolo Capizucchi fece capire che era interessato a imparentarsi coi Marescotti. Paolo a Giacinta piaceva, ma il padre decise che Capizucchi si sarebbe fidanzato con la sorellina Ortensia, mentre Giacinta sarebbe tornata dalle suore del convento di San Bernardino, dov’era andata a scuola (ma ci era resistita un anno appena). I biografi fanno balenare il sospetto che la decisione del padre dipendesse dal cattivo carattere di lei; tuttavia il suo nome secolare (Clarice, “di Chiara”) tradiva già il proposito dei genitori di sbolognarla alle clarisse – proprio come la Gertrude di Manzoni, che era stata chiamata così perché il nome suonava adatto al chiostro. 

Nel chiostro Clarice ci entra a vent’anni, non come suora clarissa, ma come terziaria francescana: non prende dunque il voto di clausura, può ricevere visite, ma deve pur sempre vivere nel convento, seppure in un bilocale al piano nobile finemente arredato. La famiglia le passa 40 scudi l’anno, che in un convento di Viterbo sono più che sufficienti a fare una bella vita: ma che bella vita si può fare in un convento a Viterbo? Respinta dalla famiglia, isolata dal mondo, Giacinta non può nemmeno contare sulla solidarietà delle consorelle, che in effetti non sono sue consorelle. A questo punto della storia il romanziere farebbe irrompere un Egidio o qualche altra complicazione peccaminosa, ma a Giacinta non succede nemmeno questo, è come se nemmeno Satana la sopportasse. A trent’anni si ammala – è un brutto momento, nel giro di pochi mesi le erano morti la madre, un fratello e la cara sorella Ortensia.

Giacinta si mette a letto; un frate predicatore che sale per confessarla, Antonio Bianchetti, vede i bei mobili e de ne va sdegnato esclamando “Il Paradiso non è fatto per le persone superbe e vanitose”. È uno choc, o se preferite, la vocazione: Giacinta decide di cambiare stile. Rinnega i bei mobili e i vestiti, sceglie una cella spoglia in cui si incatena a un letto di di assi di legno, ma non può rinnegare il suo carattere: insopportabile era prima e insopportabile resta. I suoi eroici atti di penitenza innervosiscono le clarisse, che la penitenza la fanno per tutta la vita e non sopportano la sua ansia di recuperare il tempo perduto, con gesti teatrali più adatti a una leggenda di santi che a un convento vero: una volta che per chiedere perdono si inginocchia per baciare il sandalo di una sorella, si prende un calcio in faccia.

Col tempo la situazione migliora – non è affatto chiaro il perché: d’altronde siamo stati quasi tutti ragazzini insopportabili, e poi a un certo punto cosa ci è successo? Niente di speciale, la vita ci ha preso a schiaffi, ma nemmeno tanti. Forse Giacinta comprende che la santità si può conquistare anche con le opere di bene, e che di bene con quei 40 scudi al mese se ne può fare parecchio. Fondamentale sembra essere stato l’incontro con Francesco Pacini, ex soldato di ventura (anche lui un carattere difficile) che racconta di essersi convertito grazie alle assidue preghiere di Giacinta. Pacini e la Marescotti fondano due confraternite dedite all’assistenza di poveri e malati, i Sacconi e gli Oblati di Maria. L’immagine di Giacinta migliora al punto che quando muore (a 53 anni) i concittadini vogliono a tutti i costi ritagliarne un lembo delle sue vesti per averne una reliquia, e le clarisse devono rivestirla tre volte. Insomma anche per gli antipatici c’è speranza – certo bisogna lavorarci molto, più coi fatti che con le parole.

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Il santo parricida e matricida

29 gennaio: San Giuliano l’Ospedaliere, parricida e matricida

Vi è mai capitato, tornando a casa tardi ragazzini, di pensare: quelli adesso mi ammazzano, mi aspettano dietro la porta e me ne danno finché – per cui girate la chiave nel modo più lento possibile, come ladri nella casa dei vostri genitori, ma dietro la porta non c’è nessuno, nessuno nemmeno in cucina, nessuno in salotto a sonnecchiare davanti alla tv, nessuno da nessuna parte e questo non era mai successo, al punto che vi spaventate e aprite pure la porta di camera loro, dov’è giusto che fossero, ma non era giusto per voi trovarli lì. Questa cosa, se ci riflettete, non ha senso: che i vostri genitori dividano un letto e un’intesa sessuale non solo è giusto, ma è il motivo stesso per cui voi siete al mondo a domandarvi: perché? Perché ciò che mi ha dato la vita mi mette tanto a disagio? 

Masolino da Panicale

Al giovane Giuliano, nobile cacciatore, un cervo ormai braccato avrebbe detto: Come osi inseguirmi, tu che ucciderai il padre e la madre? Sconvolto, Giuliano avrebbe abbandonato i genitori e la terra d’origine, non si sa nemmeno quale (in alcune versioni Ath, oggi in Belgio), peregrinando per monti e per valli fino a far carriera alla corte di un principe che ne apprezzava le corti cavalleresche, sposare una vedova e intitolarsi il di lei castello. Un mattino molto presto, tornando stanco da un viaggio di lavoro, Giuliano entra nella sua camera e nella penombra trova nel letto una persona in più. Già sicuro di avere scoperto un tradimento della moglie, non perde tempo ad accendere una candela e ammazza a fil di spada i due dormienti. Il lettore a questo punto ha già capito, ma Giuliano no: immaginate il suo sbigottimento quando uscendo dal castello vede giungergli incontro la moglie tutta contenta: hai visto chi ti è venuto a trovare? I tuoi genitori che ti hanno cercato in lungo e in largo perché li avevi abbandonati senza spiegare il motivo! Siccome erano molto stanchi li ho accomodati nella nostra camera e me ne sono venuta alla prima messa del mattino… ma perché sei così pallido? Giuliano, devastato dal compiersi del suo destino, decide su due piedi di abbandonare ogni suo avere e mendicare per il mondo. La moglie, che almeno secondo Iacopo di Varazze conosceva la profezia e (chioso io) forse un po’ si sentiva colpevole di non aver allestito la camera degli ospiti, decide di accompagnarlo. Nelle loro peregrinazioni arrivano a un grande fiume che secondo gli abitanti di Macerata è il Potenza, ma più facilmente l’autore aveva in mente i grandi fiumi tra Reno e Senna, dove fondano un ospedale per i pellegrini che arrivavano lì dopo un guado evidentemente molto difficile. Molti anni dopo, quando un pellegrino assiderato bussa alla porta, Giuliano non esita a ospitarlo nel suo letto malgrado mostri i sintomi della lebbra. Si tratta in realtà di un angelo ben camuffato che annuncia a Giuliano e consorte il perdono di dio: la coppia morirà pochi giorni dopo. Si direbbe che per tornare nella grazia di Dio, Giuliano, che non aveva tollerato i genitori nel proprio letto, abbia dovuto accogliere nello stesso letto la malattia più orribile alla vista, il disfacimento della pelle e della carne. Non aveva accettato chi gli aveva dato la vita, doveva accettare chi gli dava la morte. È una storia ben strana e non sappiamo chi l’ha inventata.

La paginetta su questo Santo che Iacopo di Varazze infila nella sua Legenda aurea, in mezzo alle biografie di altri vescovi e martiri recanti lo stesso nome, diventa così popolare da ‘mangiarsi’ gli altri Giuliani – compreso ad esempio il patrono di Macerata, che nei primi secoli era un omonimo martire istriano. È una leggenda spuntata all’improvviso nel tardo medioevo (non se ne trovano tracce prima del XIII secolo), che sicuramente ricorda il mito di Edipo, ma sposta l’attenzione dal tabù dell’incesto al senso di disagio che possiamo provare nel sorprendere i nostri genitori a letto assieme. Flaubert troverà la leggenda su una vetrata della Cattedrale di Rouen e ci scriverà quel capolavoro di novella. Giuliano è un santo troppo leggendario per risultare nel Martirologio romano: la più comprensiva Bibliotheca Sanctorum lo ricorda il 29 gennaio, riprendendo la tradizione attestata da Iacopo di Varazze; a Macerata festeggiano il 31 agosto, prima di tornare al lavoro.

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La barella accanto

23 gennaio – Beata Benedetta Bianchi Porro (Forlì 1936 – Sirmione 1964), sofferente

Questa vorrebbe essere una pagina divertente, ma ridere dei santi non è quasi mai giusto. Al limite si può sorridere su quelli antichi, ormai ridotti a leggende – anche se sotto tutte le leggende c’è quasi sempre qualcuno che ha sofferto davvero. Quanto ai più recenti, ridere sembra proprio la cosa più sbagliata da fare, ed ecco la mia confessione: leggendo una biografia di Benedetta Bianchi Porro mi è successo, mi sono messo a ridere. 

È stato solo un istante, ma non ne vado fiero. Probabilmente si trattava di una risata nervosa, perché la storia della vita di Benedetta Bianchi Porro è straziante – lo stesso Dickens avrebbe avuto qualche esitazione a concentrare tante sfighe su un solo personaggio letterario. Infatti BBP non è un personaggio: è esistita davvero, e ha sofferto davvero, più di quanto ritengo che una persona possa soffrire. Ancora neonata contrae la poliomielite, che le deforma la schiena e le lascia una gamba più corta dell’altra. Però ne guarisce, il che forse le infonde quella fiducia nella scienza che la spinge dopo il liceo a iscriversi a medicina – anche se a partire dai 13 anni ha cominciato a perdere l’udito. A 20 anni invece un’ulcera della cornea le indebolisce sensibilmente la vista. È il dopoguerra, una disabile che vuole laurearsi e diventare medica non può contare sulla sensibilità degli insegnanti, alcuni dei quali a quanto pare la trattano in modo sprezzante. Benedetta insiste, e studiando arriva ad autodiagnosticarsi il morbo di Recklinghausen. È una neurofibromatosi, una malattia rara con possibili complicanze oculistiche, ortopediche, neurologiche: tutto combacia col quadro sintomatologico di Benedetta (e gli specialisti lo confermeranno). È curabile? Benedetta ci prova – i giornalisti di oggi direbbero che “combatte” – ma a ogni operazione chirurgica la situazione sembra peggiorare e nel 1959 Benedetta, dopo un intervento al midollo, rimane paralizzata. 

A questo punto Benedetta è a letto, quasi completamente sorda, quasi completamente cieca, quasi completamente immobile. Le biografie ci dicono che pensa sempre più a Gesù e la cosa non sorprende. Ce n’è una in particolare che ci informa di un primo viaggio a Lourdes, ed è da questa che riporto la seguente frase:

“Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo. Che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto”. 

Ecco, ripeto, non ne vado fiero, ma a questo punto mi sono messo a ridere. 

È stata una risata breve e nervosa, perché alla fine cosa c’è da ridere in una ragazza di 26 anni, deformata da una malattia contratta alla nascita, che nella sua breve vita ha fatto in tempo ad acquisire abbastanza conoscenza da capire di dover morire di lì a poco, ma non rapidamente: diventando giorno dopo giorno sempre più sorda, sempre più cieca, sempre più rigida: cosa c’è da ridere se un giorno si ritrova su una barella a Lourdes, a pregare senza poter muovere nemmeno le labbra, e se il miracolo le passa di fianco? Benedetta ha creduto nella medicina, e la medicina le ha solo spiegato di cosa soffriva e quanto ancora avrebbe sofferto; ha creduto in Dio, ma Dio guarisce un po’ a casaccio, a quanto pare. Ho riso di tutto questo perché sono un essere umano e come tale cerco di trovare il senso al dolore, e più cerco e meno lo trovo, così a volte ne rido. Due anni dopo Benedetta ha smesso di soffrire, circondata dall’affetto di persone che nella sua sofferenza trovavano una specie di speranza. Nel 1986, una madre che ha letto da qualche parte la stessa storia che ho letto io, le dedica una novena di preghiera perché ha un figlio in coma: il ragazzo si sveglia, tanta sofferenza per un attimo sembra avere un senso. Benedetta Bianchi Porro è stata beatificata nel 2019.

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Edoardo il Confessore

5 gennaio: Edoardo il Confessore (1002-1066), re d’Inghilterra

Per chi è già re, la via per la santità è relativamente semplice: fondare un ricco monastero – nel caso di Edoardo, l’abbazia di Westminster – può essere determinante. Non solo i monaci continueranno a ricordarsi di te nelle loro preghiere, ma avranno tutto l’interesse a difendere la tua figura storica e a garantire sulla tua vita e i tuoi miracoli. Poi ci sono i parenti, tanto disposti a onorare la tua memoria da morto quanto diffidavano della tua figura da vivo: alcuni davvero non vedono l’ora che tu te ne vada in paradiso. 

Edoardo non è il primo santo in famiglia: già uno zio omonimo veniva venerato come “martire” perché era stato fatto uccidere dalla matrigna nel 978. Il termine “confessore” nel medioevo veniva appioppato ai santi che pur difendendo la fede (“confessando”) non ne morivano di morte violenta, evento tutt’altro che infrequente nel mestiere di monarca. Erano, tanto per cambiare, tempi complicati, che vedevano l’Inghilterra sospesa tra due centri di potere: Danimarca e Normandia. Edoardo è figlio di Etelredo II detto il Malconsigliato, che aveva rinunciato a invadere la Normandia per sposare Emma, sorella del duca di Normandia e soprannominata “la gemma dei Normanni”, si presume per l’avvenente bellezza. A Emma sarebbe capitato di sposare due re, generarne altri due, e fare da matrigna da altri due ancora. L’inizio della carriera di regina però non fu promettente: i Danesi invadono l’Inghilterra ed Etelredo, piuttosto di combattere, decide di scappare con tutta la famiglia dal cognato normanno. Non sappiamo se fu questa scelta a valergli il soprannome di Malconsigliato: fatto sta che Edoardo, undicenne, ne avrebbe trascorsi altri venticinque in questa specie di esilio, che a guardarlo dal nostro punto di vista tanto esilio non era, visto che almeno la madre doveva trovarsi più a suo agio da quella parte della Manica. Lo stesso Edoardo fa carriera e forse per qualche tempo diventa tutor del figlio del duca, il piccolo Guglielmo che poi conosceremo come il Conquistatore. Nel 1016 a Emma, rimasta vedova, viene proposto di sposare un nuovo re d’Inghilterra: Canuto I, il figlio dell’invasore danese che aveva fatto scappare il primo marito. Come dire di no? Ma Canuto è anche re di Danimarca, anzi fa già abbastanza fatica a regnare laggiù su alleati vichinghi piuttosto irrequieti, e l’Inghilterra resta in balia delle famiglie rivali. Quando anche Canuto muore, nel 1035, Edoardo e il fratello Alfredo provano a sbarcare nell’isola, ma non hanno fortuna: Alfredo in particolare viene catturato dal conte del Wessex che lo fa accecare per renderlo inadatto al trono: Alfredo muore poco dopo a causa delle ferite. Edoardo è già scappato in Normandia. La fortuna gira in suo favore nel 1041, quando l’Inghilterra ormai è controllata da Canuto II, figlio di Emma e Canuto. Il fratellastro di Edoardo regna sull’isola col pugno di ferro, ma non ha eredi e rischia di venire travolto da una congiura di palazzo o una rivolta popolare o entrambe le cose: propone quindi a Edoardo di co-regnare con lui. A Edoardo basta poco per essere amato dai nuovi sudditi: tanto per cominciare non è danese come gli ultimi conquistatori, né ha dovuto alzare le tasse per combatterli o per rimettere in riga qualche nobile riottoso. 

Canuto muore l’anno dopo in Danimarca durante un matrimonio di parenti, forse per un ictus (a 24 anni!): Edoardo, che pare non fosse un cattivo combattente, si ritrova re incontrastato di tutta l’Inghilterra senza avere vinto una sola battaglia e capisce forse nell’occasione che le guerre, meno si combattono, meglio è. Ovviamente non riuscì a farne del tutto a meno, ma riuscì a ridurle al minimo, addirittura sposando la figlia di uno dei suoi peggiori nemici, il conte del Wessex che aveva accecato e ucciso suo fratello. L’unione non lasciò figli, il che permise poi ai monaci di Westminster di ricamare la leggenda di un matrimonio ‘bianco’ contratto per necessità politica ma non consumato. Ma persino la mancanza di un erede diretto, che in una monarchia è spesso visto come indizio di fragilità, Edoardo riuscì forse a trasformarla in un vantaggio, se davvero promise a Guglielmo di Normandia di succedergli al trono. L’alleanza coi Normanni, in una fase in cui i Vichinghi erano presi dalle loro beghe, lo rese così sicuro in politica estera da consentirgli di smantellare del tutto la flotta che suo padre aveva istituito per difendersi dalle incursioni danesi (e che decisamente non aveva funzionato). Alla sicurezza nel Mare del Nord avrebbero provveduto i Cinque Porti, cinque municipalità affacciate sul mare a cui Guglielmo offrì in cambio speciali privilegi. Anche grazie a questa decisione riuscì ad abolire le tasse per il mantenimento dell’esercito.

Dai documenti che ci restano, non risulta che Guglielmo fosse particolarmente munifico nei confronti della Chiesa: la decisione di istituire un’abbazia a Westminster viene ricondotta a un voto che Guglielmo avrebbe fatto durante la sua giovinezza in Normandia, di recarsi in pellegrinaggio a Roma se mai un giorno fosse riuscito a tornare nella natia Inghilterra. Nell’isola, come si è visto, c’era tornato; dopo di che aveva scoperto di non avere poi tutta questa voglia di lasciarla di nuovo: né poteva fidarsi troppo di nobili e parenti. Sarebbe stato un papa (non è chiaro quale, anche a Roma erano tempi turbolenti) a suggerirgli di destinare il budget previsto per il viaggio all’erezione di una chiesa che sarebbe diventata il pantheon dei re inglesi. Quando fu eretta era la prima costruzione in stile romanico dell’isola (due secoli dopo fu completamente rifatta alla moda gotica). Edoardo fece appena in tempo a presenziare alla sua consacrazione: morì in quel 1066 così importante per la storia della sua nazione. Alla sua morte il trono fu reclamato sia da Guglielmo di Normandia (figlio dello zio), sia da Aroldo, figlio del suocero conte di Wessex (sempre quello che aveva accecato il fratello di Edoardo). Come sia andata a finire lo sapete perché lo avete letto sui libri di storia, e anche nel caso non sapeste leggere è più o meno tutto disegnato sugli arazzi di Bayeux. Guglielmo, benché molto diverso dallo zio per temperamento e per politica, fu probabilmente il primo a capire quanto fosse importante insistere sulla santità del re di cui si professava erede. Edoardo era una figura di re pacifico e autorevole, nato in Inghilterra, cacciato da invasori malvagi che per lungo tempo gli avevano impedito di tornarvi: tutto quello che Guglielmo non era, ma che gli inglesi avrebbero desiderato. Canonizzato nel secolo successivo, per qualche tempo fu considerato il protettore dell’Isola, finché i cavalieri di ritorno dalle Crociate non imposero la figura più guerresca di San Giorgio. È ancora il protettore dei matrimoni difficili, dei monarchi in generale e in particolare della famiglia reale inglese, che sembra averne spesso bisogno. 

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Il figlio di Dio e i suoi antenati

24 dicembre: Santi antenati di Gesù

La vigilia del Natale, il martirologio romano celebra gli antenati di Gesù, un concetto abbastanza problematico dal momento che Gesù è considerato, già alla fine del primo secolo, il figlio diretto di Dio. Nozione difficile da conciliare col fatto che le Scritture conservino non una, ma ben due liste di antenati di Gesù: non solo, ma le due liste (una nel vangelo di Matteo, l’altra in Luca) non coincidono. 

Matteo all’inizio del suo Vangelo provvede una lista che va in ordine cronologico da Abramo a Giuseppe, “lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo” (ma una variante antica recita proprio “Giuseppe generò Gesù”). Matteo, ex ragioniere col pallino dell’ordine, si ingegna a far tornare i conti anche con gli antenati, che devono essere un numero multiplo di sette: 14 antenati da Abramo a re Davide, 14 antenati da Davide alla deportazione di Babilonia che per qualche motivo è esclusa dal conteggio, 14 dal ritorno da Babilonia a Gesù. I conti in realtà non tornano (qualche nome si è forse perso in traduzione), ma quel che importa davvero è che la figura di Gesù viene solidamente conficcata nel “tronco di Iesse”, il capostipite della dinastia dei re di Israele e di Giuda, che Matteo aveva trovato nell’Antico Testamento, anche se forse nella versione che consultava mancava qualche nome. Questo secondo la promessa solenne che Dio aveva fatto a Davide, figlio di Iesse: il tuo trono sarà stabile per sempre. Gesù quindi è davvero il re dei Giudei, il Messia promesso dai profeti. 

Questa catena di discendenti e promesse da mantenere è oggettivamente difficile da conciliare col fatto che pochi versetti dopo Giuseppe appaia un semplice padre putativo, messo dall’angelo davanti a un fatto compiuto: la sua fidanzata è già incinta a causa dello Spirito Santo. Secoli di commentatori hanno rilevato che comunque da un punto di vista legale Giuseppe, riconoscendo il Messia, ne diventa il padre a tutti gli effetti; rimane nel lettore una sensazione di compromesso, come se Matteo volesse tenere il piede in due scarpe: ai cristiani garantisce l’eccezionalità di Gesù, figlio di Dio; agli ebrei ribadisce che si tratta del Messia di stirpe davidica. 

Matteo è così scrupoloso da riportare anche quattro antenate donne (Tamar, Raab, Rut, Betsabea): ha suscitato molte discussioni il fatto che tutte e quattro siano personaggi irregolari, per le origini o per il comportamento (Raab è una prostituta, Tamar si finge tale per necessità, Rut non è ebrea di nascita, Betsabea è sedotta da Davide quando è già moglie di un suo generale). Matteo forse voleva ricordarci che la grazia di Dio può emendare qualsiasi peccato o difetto? Più probabilmente Matteo inserisce queste quattro donne perché sono le uniche che trova nelle Scritture, dove in effetti le donne irreprensibili non lasciano quasi traccia.

La lista di Luca è molto diversa, al punto che non si può escludere che abbia una funzione polemica nei confronti di quella stilata da Matteo – ammesso che Luca la conoscesse. È una lista a ritroso, parte da Gesù, “figlio, come si credeva, di Giuseppe” (quel “come si credeva” mette tutto un po’ tra parentesi) e risale di generazione in generazione ben oltre Abramo, fino al primo uomo Adamo, “figlio di Dio”, segno che per Luca Gesù, molto più che il Messia ebraico, è il redentore dell’umanità intera. Luca non nega la discendenza da Davide, ma la sua insofferenza per i signori e i nobili lo porta a strapparlo dal ramo del di lui primogenito Salomone, e includerlo invece tra gli eredi di un oscuro fratello di Salomone, Nathan. Da lì in poi quella di Luca è una lista di uomini di cui nulla sappiamo tranne il nome, con qualche occasionale sprazzo di luce (Zorobabele, il leader dei rimpatriati dall’esilio a Babilonia, che compariva anche nella lista di Matteo). Proprio per questo suona in qualche modo più vera, come se Luca l’avesse ripresa da qualche famigliare che sapeva recitarla a memoria: un altro indizio di verosimiglianza è la presenza di nomi ripetuti (tra cui lo stesso “Gesù”), che esistono in tutte le famiglie del mondo tranne in quella descritta nella lista di Matteo. 

Per gli altri due evangelisti omologati, il problema degli antenati di Gesù proprio non si pone. Marco (forse il più antico) comincia col battesimo di Gesù, già adulto, nel Giordano, quasi a confermare la tesi degli adozionisti, che credevano che Gesù fosse nato uomo e fosse diventato figlio di Dio in un secondo momento: col battesimo, appunto. Per Giovanni (senz’altro il più tardo), Gesù è il Verbo di Dio fatto carne: un concetto abbastanza complesso, più neoplatonico che cristiano, ma di fronte al quale l’esistenza di antenati “nella carne” è taciuta come fanno sempre i filosofi coi dettagli che non si adattano alle loro formulazioni. Nei secoli successivi, il successo della visione giovannea creerà qualche imbarazzo ai lettori cristiani dei vangeli: insomma, Gesù è figlio diretto di Dio o è erede della stirpe di Davide? Ogni tentativo di conciliare le due idee si denunciava in quanto macchinoso. Per qualche tempo serpeggiò anche l’idea che Gesù fosse erede di Davide da parte di madre: il che non si può escludere a priori, ma sia Luca sia Matteo mostrano una tradizione patrilineare.

(Buon Natale e buone feste a tutti: nel 2023 mi troverete tutti i giorni sulla pagina fb del Catalogo dei Santi ribelli, e un po’ più spesso anche qui, spero).

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Uomini, profeti e me

Un paio di segnalazioni, ché Ognissanti si avvicina e io avrei un libro in promozione:

– È uscita una mia intervista su Credere (la rivista settimanale d’attualità per vivere la gioia del Vangelo), edizioni Paoline. Che se ci pensate è notevole. C’è anche una foto mia decente, visto il materiale di partenza (se ricordo bene quando me l’hanno scattata avevo il covid). Probabilmente è la foto più sexy che mi pubblicheranno mai ed è uscita su Credere, la rivista settimanale d’attualità per vivere la gioia del Vangelo. 

– Domani (sabato mattina) alle 9:30 dovrei essere ospite telefonico di Uomini e profeti, prestigiosa trasmissione di Rai Radio 3. A presto e buon Halloween (sì, è sempre la stessa festa). 

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I santi ribelli a Faenza il 23 settembre!

 

Buonasera a tutte e tutti, solo una breve segnalazione: sono stato invitato dalla redazione del Post a Talk, nell’ambito del quale avrò il privilegio, ma diciamo pure il piacere, di presentare a Faenza il Catalogo dei santi ribelli con Laura Tonini venerdì 23 settembre alle ore 18 nel cortile piccolo. È un evento a iscrizione e quindi… sì, potreste persino non trovare posto se non vi prenotate (diciamo che è un’eventualità) (non lo so quanto sia piccolo il cortile piccolo). Finisce tutto alle 19 perché poi ci sono Concita De Gregorio ed Erica Mou quindi non è che possiamo prendercela comoda. 

Detto questo… ma poi chi ha vinto la Gara? Ebbene si tratta di Summer on a Solitary Beach: vittoria non banale ma sostanzialmente appropriata a un torneo così estivo. Questo il podio:

1. Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

2. Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

3. Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

E così l’Era del cinghiale bianco, dopo la soddisfazione di aver azzannato Cuccurucucù, rimane al quarto posto. Grazie a tutti per la partecipazione e la compagnia. 

Ps: lo so che succedono tante cose nel mondo (guerre, elezioni), e mi piacerebbe pure scriverne, ma cose non banali che per adesso non mi vengono (e settembre comunque per me è un mese durissimo). Il blog ritornerà, prima o poi ritorna sempre. 

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Il catalogo dei santi ribelli è in libreria, e voi?

Sembra proprio che stia facendo finta che non sia già uscito questo libro a cui lavoro alla fine da più di dieci anni. Non è esattamente così: volevo solo aspettare un’occasione buona, l’uscita di un articolo o di un’intervista che però non stanno uscendo perché, perché, non so neanche più perché. Bisogna avere pazienza con questo libro, è sempre stato difficile da portare in giro. Adesso comunque basta, lo lancio da qui con un articolo che mi hanno appena segato, in effetti a rileggerlo non è che ti fa correre in libreria con gli euro in mano ma vabbe’, voi potete anche andarci con calma, magari nelle ore meno calde che ormai non saprei neanche quali sarebbero.

Pubblicare un libro sui santi non è stato semplice. Attenzione: non sto dicendo che è stato difficile da scrivere, perché in effetti no: i santi alla fine sono già materia di leggende (anche i più recenti), e si lasciano raccontare che è un piacere. Del resto è il motivo per cui ho cominciato, più di dieci anni fa: l’idea era quella di attirare i lettori su internet con una rubrica facile da scrivere e non troppo legata all’attualità. L’oroscopo, insomma: ma era già stato fatto. Il santo del giorno non è un genere altrettanto popolare, ma un suo pubblico di nicchia ce l’ha. È uno spunto perfetto per chi si annoia a scrivere sempre le stesse cose: ogni giorno del calendario ti propone un secolo diverso, una leggenda di martiri o una vicenda del novecento, una disputa teologica o un’apparizione misteriosa. Davvero, non è stato difficile scrivere storie sui santi. 

Pubblicarle in un libro, invece.
Non voglio accusare nessuno, se non me stesso: ho un debole per progetti letterari irrealizzabili. Gli scrittori di mestiere al giorno d’oggi sono molto concreti e fanno bene: lavorano sulle trecento cartelle, cercano storie in cui il lettore si possa identificare, investono molto nell’autobiografia perché è un modo di metterci la faccia. Io continuo a immaginare libri immensi in cui di autobiografico non c’è quasi nulla; libri in cui perdersi, scritti da autori collettivi che si nascondono a vicenda per un lettore che li tiene sul comodino e ogni tanto apre una pagina a caso e ci cade dentro. Ci avrei visto bene anche le illustrazioni, magari miniate a mano. A parte questi sogni, mi è capitato più di una volta di destare la curiosità di un editore. La rubrica andava avanti da anni, ovviamente non si poteva pubblicare tutto, ma se si fosse riuscito a selezionare diciamo trecento cartelle, perché no? 
Giuro: quando me lo proponevano non ho mai fatto il difficile. Ci ho sempre provato. Certo, bisognava lavorarci sopra. Su internet mi piaceva scrivere ogni pezzo con un taglio diverso: oggi un racconto, domani un saggio storico (diciamo un riassuntino di un saggio storico), la prossima settimana una teoria sul vangelo, e così via. Era divertente fingere di essere tanti autori diversi, ma quando si fa un libro tutta questa varietà deve ridursi. Bisogna trovare uno stile più uniforme, tagliare un sacco di cose e aggiungere raccordi necessari. Ci ho provato tante volte. Nei miei archivi ho bozze di libri dei santi ormai di otto, nove anni fa. Ci ho provato e ci ho riprovato e ogni volta, quasi all’ultimo momento, un editor mi diceva: mi dispiace, non se ne fa niente. 
Non sono sicuro del perché andasse a finire sempre così. Il materiale mi sembrava buono, forse semplicemente non riuscivo a trasformarlo in un libro vendibile, e a un certo punto ho cominciato a pensare che non ne valesse la pena. Meglio continuare a sognare il mio libro impossibile, la Legenda da mille e più pagine, e continuare a pubblicarla una paginetta alla volta sull’internet. E mi ero fatto anche questa idea (paranoica?) che scherzare sui santi in Italia fosse ancora sconsigliabile. Non che le mie agiografie siano particolarmente anticlericali (anzi a volte sono stato accusato di difendere la Chiesa da questa o quell’accusa, ma direi che la Chiesa ha avvocati più competenti). Ma c’è sempre qualcuno che si offende, oggi più che ieri. Io sono di una generazione precedente, quella che salutò l’arrivo di Internet come di uno spazio franco dove litigare con tutti. Tuttora sui social mi piace prendere le difese dei preti contro gli atei e viceversa, alla voce “fede religiosa” ho scritto “è complicato”. Adesso mi intervistano anche le riviste religiose, tra le varie domande mi chiedono se sono in ordine coi sacramenti. Non sono esattamente in ordine coi sacramenti.
Per un po’ mi è piaciuto crogiolarmi in questa situazione: certo, da lontano avreste potuto scambiarmi per un sedicente scrittore che non riusciva a pubblicare un libro, ma io sapevo di essere un talento misconoscuito, boicottato da editori oscurantisti o superstiziosi. Poi qualcosa si è mosso, proprio mentre stavo lavorando a tutt’altro. Qualche anima santa della Utet (sempre sia lodata), mi ha proposto per l’ennesima volta di riprendere il palinsesto, sfrondare un sacco di cose e trasformarlo in un libro. Io come sempre ho detto: certo, perché no, proviamoci. Ma non ci ho creduto fino alla fine. Neanche quando mi hanno fatto vedere le bozze (tra parentesi, le bozze più corrette che ho visto in vita mia, sempre sia lodata la Utet). Quando mi è arrivato il libro a casa, ecco, ho cominciato a crederci un po’. E poi… ho avuto paura. 
Ho scritto un libro sui santi. Non è che avrò offeso qualcuno? Sicuramente avrò offeso qualcuno. Mi dispiace. Io in realtà volevo soltanto scrivere storie, ma non te le legge nessuno se non offendi qualcuno. Si chiama “Catalogo dei santi ribelli”, e il sottotitolo rincara la dose: Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa. Non vi dico la fatica per trovare una santa davvero prostituta, perché Maria Maddalena, malgrado tutte le voci calunniose messe in giro in duemila anni, dai vangeli non risulta una sex worker. Più facile trovare qualche ladro: il primo uomo a essere stato canonizzato in direttissima da Gesù Cristo è stato proprio il criminale crocifisso al suo fianco (anche Agostino, com’è noto, rubacchiava frutta da ragazzo, ma solo per il gusto della bravata). Quanto agli immigrati, pensate che a un certo punto in Sicilia bastava avere tratti somatici africani perché la gente cominciasse a venire a chiederti dei miracoli, un pastore si ritrovò a capo di una confraternita quasi suo malgrado. C’è un’intera sezione sui santi genderfluid – da Marina, che si finse uomo per entrare in un monastero maschile e finse così bene che fu accusata di aver messo incinta una cameriera – a Sebastiano, da due secoli patrono ufficioso dei gay per motivi che ho cercato, per quanto possibile, di chiarire. 
Ci sono anche molti santi famosi, sui quali avanzo sospetti insinuanti, ad esempio tra gli evangelisti San Luca a volte sembra un infiltrato socialista, quasi tutta la dottrina sociale della chiesa poggia su episodi che riporta lui. San Pietro per contro a un certo punto sembra il guru di una setta che incamera i fondi degli adepti… e San Paolo come faceva a risultare fariseo agli ebrei, greco ai greci e cittadino romano ai romani? Non sembra un po’ una spia? Francesco e Chiara terminarono i loro giorni in silenziosa ribellione contro gli stessi ordini di cui risultavano i fondatori; Caterina da Siena soffriva di anoressia. Padre Pio secondo Giovanni XXIII era un imbroglione (ma coi suoi eventuali raggiri ha finanziato un grande ospedale). Teresa di Calcutta ha raccolto denaro in tutto il mondo senza promettere di guarire un solo malato. Karol Wojtyla forse credeva di essere l’ultimo Papa prima del secondo Avvento, e oltre all’agonia dovette sopportare la delusione.
 
E così via. È stato bello scrivere un libro sui santi. Ho imparato molto da loro. Anche da quelli che non sono mai esistiti (in effetti una delle cose più curiose è il modo in cui anche i santi più improbabili hanno ispirato, anche a secoli di distanza, altri santi realmente vissuti: in questi casi la santità è una sorta di leggenda incarnata). Certo, mi resta il rimpianto per quell’immenso volume immaginario che non scriverò mai, mille e più pagine vergate di caratteri minuscoli. Ma anche questo, davvero, non mi sembra uscito male. È in libreria.

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Dieci anni in Paradiso

1° novembre – Tutti i Santi

A chi di voi legge abbastanza abitualmente il Post, può capitare ogni tanto di trovare in prima pagina un pezzo sul santo cattolico del giorno. Di solito li firmo io, e non parlano necessariamente del santo del giorno. A volte non è proprio il santo cattolico – a volte non è nemmeno un santo – a volte non parlano proprio di niente in particolare, ma insomma ormai sono una tradizione, da quand’è che sul Post escono questi pezzi? Da dieci anni. Auguri! Cioè in realtà il blog dedicato aprì dieci anni e quasi un mese fa (il primo pezzo era dedicato a Santa Teresina del Bambin Gesù), ma credo abbia più senso festeggiare nel giorno dedicato a tutti i Santi. Come passano in fretta dieci anni, ultimamente.

Santi agiografati sul Post per secolo dopo Cristo.

L’idea era molto più antica (ho degli appunti che risalgono al 2002) e ispirata, credeteci o no, all’oroscopo di Internazionale, sì quello di Bob Brezsny che in realtà credo di avere smesso di seguire proprio verso il 2002 quando ho capito, e mi ci è voluto pure un po’, che non era ironico, che ci credeva davvero. Ma insomma il concetto era simile: decostruire una delle classiche rubriche da quotidiano, usarla come cavallo da Troia per scrivere tutto quello che mi andava. Ovviamente i santi non hanno l’appeal dell’oroscopo, ma non bisogna sottovalutare che ogni giorno è l’onomastico di qualcuno – certo, è un discorso che funziona finché si dedicano pezzi a Francesco o a Teresa, non ad Agabo o a Gwynllyw. In ogni caso il nome più gettonato fin qui è Giovanni: Giovanni Bosco, Giovanni Nepomuceno, Giovanni decollato, Giovanni da Copertino, Giovanni Paolo II, Giovanni Damasceno, Giovanni Evangelista e non dimentichiamo che anche Francesco d’Assisi in realtà si chiamava Giovanni (c’è anche un pezzo su Giovanni Lindo Ferretti, che però non è ancora esattamente un santo, anzi spero lo diventi il più tardi possibile). Tra i nomi femminili probabilmente vince Maria, non solo perché alla madre di Dio sono già stati dedicati nove pezzi, ma anche grazie a Maria Maddalena, Maria Goretti, Maria Egiziaca, Marguerite-Marie Alacoque e perché no? Jean-Marie Vianney.

Provenienza geografica (se i confini fossero sempre stati quelli del 2021).

Ho messo un link al primo pezzo ma è molto difficile che funzioni – come notano gli esperti, Internet come archivio è una frana. In particolare dopo due o tre anni il Post fece un restyling generale e non vorrei che sembrasse una critica, insomma lo so che sono cose inevitabili, ma i link più vecchi non funzionano più e alcuni pezzi sono visibili solo parzialmente, perché erano divisi in pagine. A volte penso che dovrei mettere a posto tutto, un pezzo alla volta. Altre volte penso che si farebbe prima a ripartire da capo. Ho cominciato entrambe le cose e mi sono interrotto entrambe le volte. Sul mio vecchio blog personale ho ricopiato quasi tutti i pezzi, ovviamente modificando le cose di cui mi vergognavo di più e a volte smontando e rimontando cose qua e là e ora il risultato è che in giro per il web ora ci sono due o tre versioni dello stesso pezzo. Una cosa molto medievale, tutto sommato.

Ho detto medievale? Quando ho cominciato ero convinto che avrei parlato soprattutto di Medioevo, ma a quanto pare non è stato così. Anche se la media di tutti i pezzi (inclusi quelli dedicati ai patriarchi e ai profeti della Bibbia, la cui datazione è abbastanza incerta) mi dà come risultato il 745 dC, i secoli più visitati in assoluto sono il primo (una ventina di pezzi è dedicata a personaggi del Nuovo Testamento) e il terzo, il secolo ruggente dei martiri. Il personaggio più antico sarebbe Isacco: quello più recente, sia per età che per canonizzazione, Giovanni Paolo II, non a caso soprannominato “Santo subito”. Il secolo medievale più frequentato è il Duecento, grazie agli ordini mendicanti. C’è un altro picco più difficile da interpretare nel Cinquecento. La contemporaneità (Otto e Novecento) si difende bene: una ventina di santi su… a proposito, quanti santi abbiamo coperto fin qui?

Santi per cittadinanza, un grafico che non ha moltissimo senso.

Il conto è difficile. Occorre detrarre i pezzi in cui davvero il santo era un mero pretesto, e i casi in cui ho voluto trattare da santo un personaggio che non lo è, o un santo che la stessa Chiesa ha riconosciuto come mai esistito (Simonino). Ma è capitato anche il contrario, ovvero che uscisse sul Post un pezzo su una santa che ancora non lo era (Angela da Foligno) e qualche anno dopo lo è diventata. Al netto di ciò il conteggio dice 10243, a cui bisogna evidentemente detrarre le diecimila vergini che secondo la leggenda sarebbero state martirizzate con Sant’Orsola (ma è probabile che si tratti di un errore di traduzione). Se evitiamo di contare anche i 40 martiri di Sebastea e i 26 compagni di Paolo Miki (questi ultimi purtroppo furono crocefissi davvero in Giappone, non è una leggenda) si arriva al comunque ragguardevole totale di 178: a questo punto l’obiettivo di farne almeno 365 non sembra poi così lontano. Speriamo che i prossimi dieci anni non scorrano ancora più veloci. Abbiamo 60 martiri (più i 40 di Sebastea), 42 vergini, 35 vescovi, 113 eremiti, sette monaci (per lo più benedettini), sedici frati (con una netta preponderanza dei francescani), 19 religiose, soltanto quattro gesuiti, 13 personaggi dell’Antico Testamento tra cui sette profeti; 14 teologi, 5 apostoli; l’unica categoria che si può dire chiusa è quella degli evangelisti, quattro su quattro.

Santi italiani per regione
Santi italiani per regione

Da dove vengono i Santi di cui qui si è parlato? Qui il conto è complicato dal fatto che in duemila e più anni i confini sono cambiati e di molto, al punto che una delle nazioni più rappresentate sarebbe la Turchia: che però al tempo dei dieci santi in questione non si chiamava ancora così, dato che i turchi vivevano altrove. In ogni caso, se decidiamo di applicare arbitrariamente i confini di oggi a tutti i santi di tutte le epoche, scopriamo che un terzo del totale proviene dalla cosiddetta Italia. All’interno di quest’ultima, il Lazio è decisamente la regione più venerata, e in generale metà dei Santi proviene dal centro, tra Toscana e Abruzzo. La seconda nazione contemporanea, con un quinto del totale, sarebbe Israele, e non sorprende: al terzo la Francia, al quarto appunto la Turchia. Se invece proviamo ad assegnare a ogni santo la cittadinanza che gli sarebbe spettata alla nascita… entriamo in un ginepraio di questioni oziose; diciamo che prevale la nazionalità ebraica, da Isacco a San Pietro, sempre con un quinto del totale: al secondo posto l’Impero Romano classico, quello che crolla ufficialmente nel 476. Ma è un dato che non dice un granché. Più rilevante contare i santi per sesso: risulta che tre su quattro sono maschi, e se probabilmente sul calendario il rapporto è appena un po’ meno sbilanciato in loro favore, mi sembra incredibile aver dedicato 42 pezzi a delle sante, insomma a delle donne: mai me ne sarei creduto capace. A proposito di sessi bisogna rilevare che anche in una categoria come quella dei santi, che non si segnala certo per fluidità, i casi di ambiguità sono meno infrequenti di quel che si potrebbe pensare: abbiamo almeno tre santi rivendicati come patroni dalla comunità LGBT (Sebastiano, Sergio e Bacco) oltre a tre crossdresser, se includiamo nella categoria oltre a Marina e Vitaliano anche Giovanna d’Arco, dato il peso che la scelta di vestire abiti maschili ebbe nella sua incriminazione.

Non riapriamo l’annoso dibattito

Colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno letto fin qui e scusarmi per tutte le volte che mi avete chiesto qualcosa e non vi ho risposto per ignavia o sbadataggine: prometto che d’ora in poi sarò più sollecito ecc. Ringrazio i redattori del Post, che mi hanno corretto tante cose, e il peraltro direttore che mi ha sempre lasciato libero di scrivere qualsiasi sciocchezza: un onore che ho ripagato scrivendone molte, e molte ancora spero di scriverne. Certo, lo sappiamo tutti, Brezsny è su un altro livello, ma si fa quel che si può. Alla prossima.

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Sergio e Bacco: santi, sposi e gay?

7 ottobre: Santi Sergio e Bacco, martiri e patroni dei matrimoni gay

Robert Lentz, 1994
Icona per il gay pride di Chicago

A Sergio e Bacco, ufficiali di una legione romana, capitò tra terzo e quarto secolo una storia di martirio tutto sommato abbastanza ordinaria, non fosse per un dettaglio che più di un millennio dopo ha intrigato alcuni studiosi e/o militanti LGBT: subito dopo avere ammesso la propria fede e aver rifiutato di sacrificare nel tempio di Giove, prima di essere deportati dall’imperatore Galerio in una provincia orientale, bastonati a morte (Bacco), e costretti a indossare calzature chiodate all’interno (Sergio), entrambi furono costretti a sfilare davanti ai compagni in vestiti femminili. Questo è molto strano, e non ritorna in nessun’altra leggenda di martiri. Punizioni del genere non erano tipiche dell’esercito romano, anche se l’imperatore Giuliano effettivamente fece sfilare in vesti femminili un reparto di cavalleria che durante una battaglia non si era battuto con troppo coraggio.   

Si sa che le torture delle storie di martiri si assomigliano un po’ tutte, per via che gli agiografi si leggevano tra loro e si copiavano spesso. Di santi frustati e bastonati ce n’è tanti, ma di santi costretti a vestirsi da donna ci sono solo questi due graduati dell’esercito, la cui amicizia fraterna è spesso sottolineata nelle icone da un altro elemento inusuale: le due aureole appaiono intrecciate. Del resto è lo stesso Bacco, apparendo a Sergio la notte prima del martirio, a dare l’impressione di non poter salire in cielo senza di lui, tradendo una certa fretta che il sacrificio si completi. Insomma Sergio e Bacco – che in Oriente diventarono santi molto popolari dopo il quarto secolo – sembrano comportarsi come una coppia. Prima o poi era destino che qualcuno avanzasse l’ipotesi: e se fossero quel tipo di coppia? E se questa fosse stata la loro vera colpa, taciuta dagli agiografi ma rivelata indirettamente dal bizzarro castigo escogitato dall’imperatore: la parata in vesti femminili, una parodia del matrimonio?

Santo Sergio
(basilica
di San Demetrio
a Tessalonica)

A mettere in nero su bianco l’ipotesi fu lo storico John Boswell nel suo saggio più famoso (The Marriage of Likeness: Same-Sex Union in Premodern Europe, 1994) che fu anche l’ultimo che riuscì a pubblicare, prima di morire nello stesso anno. Boswell aveva una cattedra di Storia a Yale, dove aveva collaborato a fondare il Centro di Studi Lesbici e Gay: era cattolico praticante dall’età di quindici anni e da venti viveva con un compagno. Studiando le manifestazioni della sessualità in epoca antica e medievale, era giunto a una conclusione contraria a quella avanzata dal più celebre Michel Foucault e dai suoi discepoli. Per i foucaultiani non ha molto senso parlare di gay prima dell’Ottocento, quando in Occidente cominciamo a sentire l’esigenza di dividere l’umanità anche a seconda delle preferenze di genere. Boswell stimava Foucault ma era di tutt’altro parere: i gay erano sempre esistiti, e se non se ne trovavano tracce per molti secoli, si trattava semplicemente di cercarle con più attenzione. Ora, gli storici soffrono appunto di questa deformazione professionale, per cui quando si mettono a cercare qualcosa con molta attenzione, prima o poi la trovano, anche a scapito del buon senso. Boswell a un certo punto decise che il termine “fratello”, nel mondo greco-romano, poteva essere inteso come un eufemismo per “amante”: una volta accettato questo, i numerosi riti in cui persone dello stesso sesso venivano riconosciuti come “fratelli” diventavano forme di matrimonio omosessuale, più o meno tollerato dalle autorità, non solo presso Greci e Romani ma anche nei primi secoli del cristianesimo (cerimonie di affiliazione fraterna sono ancora praticate in alcuni riti ortodossi), fino a una cesura che Boswell indicava solo intorno al dodicesimo secolo. 

L’ipotesi di Boswell è stata più volte smontata, anche da studiosi che riconoscono il valore pionieristico delle sue ricerche: e però non è difficile capire perché sia stata abbracciata da molti militanti LGBT. Per Foucault, semplificando brutalmente, l’omosessualità come la intendiamo oggi è un costrutto sociale: esiste finché esiste la nostra società, che è tutt’altro che una società ideale. Per Boswell l’omosessualità è qualcosa di più vicino a un dato di natura: ne sono esistiti in qualsiasi società, e hanno sempre variamente cercato di ottenere un riconoscimento della loro condizione e delle loro relazioni. Per quanto labili siano le prove, la teoria ha il pregio di venire incontro alle aspirazioni di tanti desiderosi di conciliare la propria omosessualità con la fede cristiana: magari è solo una leggenda, ma non più di qualsiasi altra leggenda di santi: esiste perché qualcuno ne ha sentito il bisogno. Nel 1996 un pittore frate francescano (e gay), Robert Lentz, dipinse per il gay pride di Chicago un’icona dei Santi Sergio e Bacco che divenne immediatamente il pezzo più riprodotto del suo catalogo. I due santi di Lentz sono trentenni di aspetto atletico, com’è lecito del resto attendersi da due ufficiali dell’esercito, ma molto diversi da quelli tramandati dall’iconografia bizantina, che invece ne sottolineava gli aspetti quasi femminei. 

Il Cameo “Rothschild”:
ritratto di Onorio e moglie e
(in seguito) di Bacco e Sergio

Lentz, forse inconsciamente, sembra aver sentito la necessità di sottolineare il rapporto paritario tra i due: quell’aspetto che non solo corrisponde meglio al nostro ideale contemporaneo, ma che si discosta di più dal modello di rapporto omosessuale che di solito associamo al mondo greco-romano: quello pederastico, che prevede un uomo adulto, libero e attivo e un ragazzo ancora imberbe, passivo e spesso schiavo. Nelle raffigurazioni tardoantiche invece uno dei santi (Sergio) è spesso raffigurato come più giovane ed effemminato – qualcosa di analogo a quanto accade con Giovita, il partner di Faustino. Nel mosaico della basilica di San Demetrio a Tessalonica, Sergio sembra davvero una santa: ha capelli a caschetto, una tunica piuttosto chic che lo avvolge fino ai sandali, occhi grandi e labbra a cuoricino. Però anche questa nostra percezione di effemminatezza, alla fine sappiamo che è un costrutto culturale: molti tratti che oggi associamo istintivamente al sesso femminile, nell’arte bizantina esprimevano semplicemente gioventù e purezza. 

A un certo punto gli stessi bizantini potrebbero aver cambiato paradigma e avuto problemi a interpretare le loro vecchie icone (magari tra una crisi iconoclastica e l’altra): capita così che a Costantinopoli un cameo che in origine raffigurava probabilmente l’imperatore Onorio e sua moglie venga ridedicato rispettivamente a Bacco – la figura maschile – e a Sergio: a quest’ultimo tocca la figura in precedenza femminile, più piccola. Chi incise i nomi dei due santi sul cameo forse aveva ancora più difficoltà di noi a riconoscere la sessualità di un personaggio che, pur ornato di orecchini, sfoggiava capelli insolitamente corti: oppure non ebbe altra scelta, se voleva salvare il cameo doveva trasformarlo in un’immagine di santi, e una coppia di santi maschio e femmina non esisteva, non era prevista. E siccome molte storie di santi non nascono prima delle immagini, ma per spiegare le immagini (vedi San Nicola), non è escluso che l’episodio del mascheramento dei sue santi non sia stato inventato da un agiografo proprio per spiegare come mai in un mosaico o in un affresco i due venivano raffigurati in uno stile che già nel V secolo poteva sembrare troppo femminile. 

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Giona: ti sembra il caso di prendertela così?

21 settembre – Giona, profeta suo malgrado

La Bibbia, letterariamente parlandone, non è che sia questo capolavoro: ma quello che la rende più verosimile di tanti altri libri è l’incoerenza. Bel paradosso. Non c’è dubbio che Iliade e Odissea siano più armoniche – e se poi parliamo di coerenza narrativa, Il Signore degli anelli lascia piste a tutte e tre. Ma se in giro nessuno crede più all’esistenza di Achille o Ulisse, e nessuno ha mai per un attimo preso sul serio l’esistenza di Sauron, è proprio perché si vede benissimo che sono storie con un inizio, una fine, e quasi sempre una morale. La Bibbia, beh, non proprio. La Bibbia è evidentemente una raccolta di libri scritti da mani diversissime, rivisti da traduttori e compilatori che avevano idee talvolta opposte, e messi assieme da editori che avevano criteri ancora diversi, e a fare tutto questo potrebbe esserci voluto un millennio: per cui alla fine più che una storia è uno scrigno pieno di roba che per quanto stia lì da secoli lascia sempre questa impressione di materiale raccolto alla benemeglio da qualcuno che stava scappando da un incendio, un’alluvione, una scorreria dei Caldei. Se apri l’Iliade trovi sempre duelli e litigi; se apri la Bibbia puoi trovare a distanze di poche pagine teorie sulla creazione, pagine di censimenti, storiacce di donne e predoni, dibattiti sul senso della vita, poesie d’amore, cronache storiche, profeti preoccupati dalla corruzione dei costumi, e il Libro di Giona: il quale potrebbe essere anche solo una presa in giro.

Dio parla con Giona, seduto fuori dalla città di Ninive, salterio armeno del XVII secolo, immagine di dominio pubblico

“Libro” poi si fa per dire, sono tre o quattro paginette, ma è come se mettessero tra virgolette tutto il resto della Bibbia: e se fosse tutto uno scherzo, di Dio o di chi racconta? I cristiani lo piazzarono verso la fine dell’Antico Testamento, perché Giona sembra il profeta più vicino a una certa concezione di Gesù, e Gesù stesso a chi gli chiedeva un “segno” aveva accennato al “segno di Giona” (Matteo 12,40): così come il profeta era rimasto nel ventre di un pesce per tre giorni e tre notti, così dopo tre giorni Gesù sarebbe riemerso dal mondo dei morti. Nella Bibbia ebraica invece la storia di Giona appartiene al libro dei Profeti Minori, di cui Giona sembra però una parodia. Mentre tutti gli altri libri profetici contengono, non sorprende, profezie, quello di Giona sin dalla seconda riga dimostra al lettore che vuole essere qualcosa di diverso: un racconto. C’è da dire che l’ipotetico del lettore della Bibbia a questo punto di profezie dovrebbe averne lette centinaia, per cui dopo aver ammirato lo stile di Isaia, la verve di Geremia, la visionarietà di Ezechiele, potrebbe essere subentrata una certa stanchezza – alla fine si tratta perlopiù di ammonizioni nei confronti di uno o più popoli che non amano Dio come dovrebbero; minacce, lamenti, prefigurazioni di sventura, non è che non ci siano variazioni sul tema ma insomma la canzone è quella.

Il libro di Giona parte appunto da questa saturazione. È una specie di pausa riflessiva organizzata da qualcuno che potrebbe essere vissuto anche parecchio più tardi e che questi profeti li conosceva bene, forse li leggeva di mestiere. In Giona le profezie sono date per scontate, stanno in due righe: quello che interessa all’autore è il contesto: come si comporta il profeta che le deve enunciare, e il pubblico che le ascolta? O meglio: come ci aspettiamo che si comportino? Ipotizziamo che si comportassero in un modo diverso: cosa succederebbe? E se il profeta non avesse voglia di fare il profeta? E se il popolo, che per definizione non ascolta mai il profeta e non si pente dei propri peccati, decidesse invece di farlo? Il libro di Giona è questo: un piccolo grande What If, un esperimento mentale e narrativo. Sarà anche per questo che a differenza di tutti i cartigli profetici che lo circondano, ci suona più contemporaneo. Gli altri profeti si lamentano, minacciano, vaticinano: l’autore di Giona racconta una storia e sorride.

1,1 Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». 1,2 Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. 

Vedete, bastano davvero i primi due versetti. Il primo sembra in tutto e per tutto il classico incipit del profeta minore: il Signore parla a un Tale figlio di un altro Tale e gli ordina di andare presso la tal città di peccatori, che sta per essere distrutta come Sodoma, Gerico, Babilonia… a questo punto lo sappiamo bene cosa succede alle città che continuano a dispiacere a Dio malgrado gli avvertimenti  I nomi sono presi da altri libri della Bibbia, il che tradisce l’intento narrativo: un profeta di nome Giona è  brevemente menzionato nel Secondo Libro dei Re (dovrebbe essere vissuto nel IX secolo aC), mentre Ninive era stata una capitale dell’impero Assiro. Il secondo versetto spiazza tutto l’impianto, perché stavolta il profeta in questione disobbedisce: Dio gli ha dato una missione, Giona preferisce di no. Fin qui i profeti hanno sempre detto di sì al Signore, però con dubbi e timori che ci autorizzano a pensare che dire di sì al Signore sia qualcosa di faticoso, di eroico: ma l’eroismo implica una libera scelta. Se chi dice di sì al Signore è un profeta, una persona eccezionale, ne consegue che non possiamo essere tutti eccezionali, e che dunque a un uomo non eccezionale dovrebbe essere concesso rifiutarsi a Dio. Perlomeno Giona decide di scappare; il che è buffo, dato che il Signore è dappertutto.

Ma perché Giona non vuole obbedire? Non è subito chiaro, il che ha alimentato interpretazioni molto diverse, compresa quella nazionalista: Giona non vorrebbe convertire i Niniviti perché sono nemici degli Ebrei, e non tollererebbe l’idea che Dio per mezzo suo dia loro una possibilità di redimersi. È un’idea di San Girolamo, che Martin Lutero riprende in chiave antisemita: Giona rappresenterebbe l’ebreo geloso del suo Dio e dell’esclusiva alleanza che ha stretto col suo popolo. E però da nessuna parte nel piccolo libro si legge che gli Assiri stessero attaccando Israele: certo, da altri libri sappiamo che è storicamente accaduto, del resto tutti gli altri popoli nella Bibbia ci stanno apposta per attaccare e opprimere Israele. Ma l’autore non spende una sola parola per accreditare questa interpretazione: Giona non sembra avere a cuore il suo popolo o qualcun altro a parte sé stesso. È un uomo solo a cui Dio affida una missione, e che non la vuole. Può l’uomo rifiutare questo a Dio? Esiste insomma il libero arbitrio? L’autore di Giona non sembra crederci troppo: il profeta riesce a imbarcarsi, ma la nave va incontro a una furiosa tempesta. I marinai capiscono subito che un Dio ce l’ha con loro, e per riconoscere quale tirano a sorte. Viene ovviamente estratto Giona, che capisce di non avere scampo e propone di essere buttato in mare. I marinai non accettano subito l’idea: ma siccome la tempesta non cessa, si rassegnano (non dopo aver pregato il Dio di Giona perché li perdoni, loro in fondo non fanno che quello che è richiesto dalla divinità o dall’autore del racconto). Il sacrificio funziona: il mare si calma, Giona va a fondo ma Dio manda un enorme pesce a inghiottirlo.

Giona viene buttato a mare, Catacomba di Priscilla, foto di dominio pubblico

Nel ventre del pesce Giona intona un canto di speranza che è il vertice lirico del libro: “Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce”. Giona sembra avere imparato la lezione: una volta rigurgitato dal pesce sull’asciutto, riceve di nuovo dal Signore l’ordine di servizio e si reca ubbidiente a Ninive.

La città è un incubo kafkiano, troppo grande per essere vera: per percorrerla tutta servono tre giorni di cammino, insomma Los Angeles, e Giona deve attraversarla continuando ad annunciare il preavviso di Dio: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. Quante possibilità ci sono che i Niniviti lo ascoltino? Se abbiamo già letto un po’ di Profeti lo sappiamo: nessuna. La punizione è troppo solenne, i peccati evidentemente troppo gravi, la popolazione immensa, Giona è un uomo solo, e di malavoglia. Non possono salvarsi, è troppo tardi.

Ma se invece decidessero di ascoltare il Signore? Perché per la prima volta in tutto l’Antico Testamento, l’autore sceglie di percorrere questa via. I Niniviti si pentono tutti, dal primo all’ultimo e persino gli animali; lo stesso re smonta dal trono e si affretta a emanare un editto in cui impone a cittadini (e persino gli animali) di astenersi dal cibo, vestire di sacco ed espiare i gravi peccati che, tra l’altro, nessuno ha ancora spiegato quali siano, sono soltanto un mcGuffin per fare andare avanti la storia. Del resto, se Dio ha mandato Giona, significa appunto che voleva dare ai Niniviti un’ultima possibilità; se i Niniviti approfittano della possibilità, Dio non può che “pentirsi del male che aveva minacciato di far loro” e revocare la distruzione. Tutto è bene quel che finisce bene – salvo che Giona preferirebbe di no. È offeso a morte.

Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. Pregò il Signore: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!”

Che senso ha una scenata del genere? Se lo domanda persino Dio: “Ti sembra giusto essere sdegnato così?” Una spiegazione è sempre quella nazionalista: i Niniviti sono nemici degli Israeliti e per averli salvati Giona si sente ora un traditore dei suoi… ma non convince. Forse Giona è scontento perché il libero arbitrio sembra andare in una sola direzione: Giona non era libero di sottrarsi alla missione, mentre i Niniviti sembrano liberi di sottrarsi col proprio pentimento a una catastrofe che Dio aveva già predisposto per loro. Oppure, semplicemente, a Giona l’idea di una catastrofe non dispiaceva. In effetti anche dopo il perdono di Dio, che cosa fa? Esattamente quello che ci aspetteremmo dal classico profeta di sventura: esce dalle mura e resta a una prudente distanza, a osservare se per caso non arriva un terremoto o un diluvio o un fulmine. E intanto chiede a Dio la morte.

Questa posa querula e accigliata è la definitiva presa in giro dell’atteggiamento convenzionale del profeta: l’autore di Giona li conosce bene e forse ha cominciato a domandarsi se sotto le loro barbe non covi una certa ipocrisia. È davvero così affranto, il profeta-tipo, di vedere il popolo andare in malora? Non ci sta provando gusto, perché questo lo rassicura del suo essere migliore? E questo compiacimento interiore, la sicurezza di avere ragione mentre il popolo sguazza nel torto, sarà cosa davvero gradita a Dio? Lo stesso Dio, da che parte dovrebbe stare: col profeta che si sente l’unico uomo giusto, o con un popolo peccatore che riconoscesse i suoi errori?

Giona e la balena, di Pieter Lastman, riproduzione di dominio pubblico (non lo sta inghiottendo, lo sta rigurgitando).

Dio ha salvato una città, anche grazie al lavoro di Giona: ma Giona avrebbe preferito di no. È stanco, ha la sensazione di avere lavorato molto senza ottenere quello che per un profeta è lecito attendersi: un bel disastro da contemplare sdegnato all’orizzonte. Fa anche un po’ caldo, Giona cerca di ripararsi ma non c’è molta frasca nel deserto. Dio allora fa crescere per lui una pianta – non sappiamo di che specie, perché il suo nome, kikayon, compare solo qui in tutta la Bibbia. Spesso è tradotta come il ricino, ma non è così importante. L’importante è che questa pianta dà a Giona un po’ di sollievo, addirittura di gioia. Allora Dio la uccide.

Sembra veramente che Dio se la prenda soltanto con Giona: tutti gli altri meritano il suo perdono, che siano marinai pagani o Niniviti peccatori. Solo Giona viene sempre tormentato, e quando ricomincia a lagnarsene, Dio ha la faccia tosta di chiederglielo: ma ti sembra il caso di lamentarti per una semplice pianta di ricino? Giona conferma di sì, che è sdegnato al punto di morirne: solo allora Dio gli svela di essere non essere che il protagonista di una parabola, un brontolone ideato apposta per servirGli su un piatto d’argento la risposta finale.

«Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?»

L’Antico Testamento sta per cedere il passo al Nuovo: il Dio che nei primi libri sembrava una presenza terribile, gelosa e vendicativa sembra diventato un altro, una persona talvolta imprevedibile ma di buon senso, disponibile a rivedere le sue decisioni, più affezionato ai peccatori che a chi fa loro tutto il tempo la morale. Ama persino gli animali, il Libro finisce con questa precisazione che sembra un’inezia e non lo è: anche loro si sono pentiti, anche loro meritano il perdono. Tutti lo meritano, persino Giona che dovrebbe scendere dal suo piedistallo e capire che Dio sta facendo per Ninive quello che ha fatto per lui quando era nel pesce: offrire una seconda possibilità. Se i primi autori della Bibbia avevano chiaramente un rapporto complesso con padri autoritari e bizzosi, si intuisce che i tempi sono cambiati, i padri si sono addolciti o comunque si sente in giro la necessità di padri buoni, misericordiosi, persino un po’ ironici, padri che abbiano creato il mondo perché questo li rendeva felici, come l’ombra ci rende felici quando siamo nel deserto.

Non sappiamo se Giona abbia imparato la lezione: l’importante è che l’abbia intesa il lettore. Subito dopo comincia il Libro di Michea, un altro rotolo di furenti minacce per le genti di Samaria e Gerusalemme che non ascoltano la Parola del Signore. Insomma è stata solo una pausa di riflessione. Molto utile, per me almeno. Spero anche per voi.

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Gesù e i suoi fichi

24 agosto – San Natanaele apostolo

Natanaele (in ebraico Dio con noi) è un apostolo di Gesù, perlomeno nel vangelo di Giovanni; nelle liste degli altri vangeli non compare, ma è tradizionalmente identificato con Bartolomeo. Natanaele è di Betsaida come gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo: quando quest’ultimo comincia a parlargli del nuovo messia arrivato in paese (“Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe”, Gv 1,45), Natanaele risponde sprezzante: da Nazaret non può venire niente di buono. Nazaret era in Galilea, Betsaida nella regione del Golan, entrambe zone molti periferiche per la mentalità giudaica del tempo, centrata sulla città del Tempio, Gerusalemme. Gesù però appena incontra Natanaele reagisce nel modo opposto: lo saluta come un “vero israelita in cui non c’è frode” (1,47). Natanaele perplesso domanda: come fai a conoscermi? La risposta è sibillina: “Prima ancora che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico” (1,48). Noi lettori non ci capiamo molto: cos’era successo di particolare sotto quel fico? Qualcosa di importante, perché Natanaele reagisce esclamando: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele” (1,49).

Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)
Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato)

I miracoli del quarto vangelo sono un po’ diversi dagli altri. Giovanni (se davvero fu lui l’autore) li chiama “segni” e li considera momenti fondamentali in cui Gesù si manifesta come Messia davanti a testimoni credibili. Alcuni studiosi pensano che l’evangelista abbia rielaborato una fonte precedente, il cosiddetto “vangelo dei segni”, che avrebbe contenuto alcuni dei miracoli più spettacolari (le nozze di Cana, la resurrezione di Lazzaro). Accanto a questi però ci sono piccoli segni come il riconoscimento di Natanaele, che è il primo miracolo in assoluto e somiglia molto a quello che accadrà più tardi con la Samaritana: Gesù rivela al testimone qualcosa che soltanto lui può sapere. Di fronte a questo riconoscimento, le riserve del testimone crollano di schianto: non possono sussistere dubbi, Gesù è il Messia. Alla professione di fede di Natanaele, Gesù reagisce minimizzando: il meglio deve ancora arrivare. Credi in me solo perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico? “Tu vedrai cose maggiori di queste. In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (1,50-51). Il primo capitolo finisce così, promettendo effetti speciali e un lieto fine spettacolare, e sappiamo che l’evangelista manterrà. Ma il piccolo interrogativo iniziale non sarà mai risolto: cosa era successo a Natanaele sotto il fico? Cosa sapeva Gesù di lui, che noi forse ignoreremo per sempre?

Il fico è decisamente l’albero più enigmatico dei vangeli. Addirittura è l’unica creatura che Gesù maledice, in uno degli episodi più controversi, Marco 11,12-14. Il giorno prima Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme: ma siccome ha preso alloggio in un villaggio fuori dalle mura, Betania, ogni giorno gli tocca rientrare, scortato dagli apostoli. La mattina seguente, mentre rientra a Gerusalemme, si scopre affamato e “veduto di lontano un fico”, cerca se tra le foglie per caso non ci sia un frutto. Il fico, si sa, è un albero generoso: anche molto prima della stagione, e molto dopo, se si ha pazienza qualcosa si trova. Eppure Gesù in quel singolo fico “non trovò niente altro che foglie”, del resto Marco ha cura di annotare che non era ancora stagione. Spazientito, Gesù maledice il fico: “Nessuno mangi mai più frutto da te!” Entrato in città, Gesù manifesta in modo ancora più plateale il suo malumore: si reca nel Tempio e ne scaccia i mercanti con grande scandalo dei farisei (ma la folla sembra ammirarlo). L’indomani, ripassando sulla stessa strada, Pietro fa notare al maestro che il fico maledetto si è seccato. Gesù ne approfitta per spiegare che la fede in Dio può tutto, anche spostare le montagne. Gli apostoli di Marco sono i più perplessi dei quattro vangeli, e in questo caso la loro perplessità è la nostra: se Gesù era in grado di seccare un albero (e spostare una montagna), perché non ha semplicemente trovato un frutto di fico quando gli serviva?

Odifreddi is for boys, Bertrand Russell is for gentlemen (foto del 1954, pubblico dominio).

La maledizione del fico è l’unico vero miracolo eseguito da Gesù con un fine punitivo; in tutti gli altri casi Gesù guarisce, resuscita, salva, riconosce, provvede di beni di prima necessità (o voluttuari, nel caso delle nozze di Cana). Solo in questo caso punisce un essere vivente, il che provocò l’indignazione, tra gli altri di Bertrand Russell che ne parla in Perché non sono cristiano. Per Russell l’episodio dimostrerebbe una certa inferiorità morale dell’uomo Gesù rispetto ad altri maestri dell’umanità come Buddha e, ehm, Socrate. A riprova che la morale è molto meno stabile di quanto si creda; Socrate che per Russell era un uomo più retto di Gesù, oggi si ritroverebbe di nuovo nei guai con le autorità per quel problemino coi minori che già impensieriva gli ateniesi. Oltre a sovrapporre all’episodio del fico una sensibilità ecologica completamente sconosciuta al primo secolo, Russell rifiuta qualsiasi lettura simbolica dell’episodio; inoltre sembra aver voluto trovare il passo evangelico in cui Gesù sembra più capriccioso e vendicativo. Non sorprende che si tratti del Gesù di Marco, il più arrabbiato e il meno conciliante con gli apostoli.

Quel che lascia perplessi i lettori di ogni epoca è che Marco afferma chiaramente che non si trattava della stagione dei fichi, insomma quel che Gesù chiedeva alla pianta era anch’esso un miracolo: o forse è la pianta l’unica, tra le creature di Dio, che rifiuta la grazia di Gesù, il quale può seccarla ma non vuole compiere il prodigio opposto: renderla rigogliosa di frutti se lei non li vuole. Il simbolismo abbastanza ovvio per i lettori del Vangelo (ma non per Russell) è col popolo di Israele, che i profeti avevano più volte descritto come un albero da frutto, una vite o un fico. Gesù dunque sembra voler fornire agli apostoli una parabola mimata, nello stile tipico soprattutto del profeta Ezechiele: gli apostoli dovrebbero imparare qualcosa non dalle parole, ma dalle azioni del Maestro. L’albero di fichi è Gerusalemme: Gesù vi ha cercato invano qualcosa di buono, ma non è evidentemente ancora tempo; non resta che mandare tutto all’aria; non a caso Marco prosegue con la cacciata dei mercanti che porterà i farisei a decidere la morte di Gesù.

Ramo, frutto, seme e fiore del fico, da Wikipedia 

Lo stesso episodio torna in Matteo, molto più stringato (21,18-22) malgrado degli evangelisti Matteo sia il più critico nei confronti del popolo ebraico dal quale pure proveniva. Matteo omette il riferimento alla stagione: nel suo racconto il fico si secca immediatamente dopo la maledizione, e gli apostoli se ne sorprendono subito. Ed eccoci all’eterno dilemma su quale sia il primo vangelo: è Marco che prende da Matteo o viceversa? È Matteo che attenua l’episodio di Marco, ne stempera la lettura antiebraica concentrandosi piuttosto sull’aspetto prodigioso? O viceversa è Marco che legge di un piccolo miracolo in Matteo e decide di trasformarlo in una metafora storico-religiosa?

Sia come sia, né il racconto di Marco né quello di Matteo convincono Luca, che in un Gesù maledicente le piante si rifiuta di credere. Luca non capisce la profezia mimata (che del resto è un unicum in tutti i vangeli) e decide di trasformare l’intero episodio in una parabola (13,6-9): non è più Gesù a cercare i fichi, ma un “padrone” (“Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò”). Ma nemmeno a questo padrone l’ambientalista Luca concede di uccidere la pianta: intercede in suo favore il “vignaiolo”: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Il padrone accetta la proposta; il fico per il momento è salvo. Il che oltre a introdurre un dualismo tra un Dio-padrone stanco di essere tradito e un Cristo-vignaiolo incline all’intercessione, conferma terribilmente i miei sospetti su Luca, l’evangelista mansueto come il bue, quello che cerca in ogni atto o detto di Cristo la pietà, la dolcezza. Il che sarebbe magnifico; non fosse che quando questa pietà e questa dolcezza non le trova, Luca se le inventa. Trasformare in una parabola un episodio della vita di Gesù, attestato in due vangeli (uno dei quali Luca conosceva sicuramente) dimostra una certa disinvoltura con le fonti: a Luca non interessa più se il Cristo originale stava emettendo una sentenza nei confronti di un popolo. Luca ha deciso che il suo Cristo sarà misericordioso: i valori che vuole trasmettere vengono prima della fedeltà ai testi originali.

La maledizione del fico, già completamente stemperata in Luca, scompare in Giovanni: il quarto vangelo del resto è il più diverso dei quattro. Può darsi che l’episodio di Natanaele ne sia un’ulteriore rielaborazione: senz’altro è l’unico passo in cui un fico riveste qualche importanza, e come la maledizione descritta da Marco e Matteo, mantiene un’irrisolvibile ambiguità: cos’è successo sotto il fico? Ora che sappiamo che l’albero può rappresentare il popolo di Israele, possiamo meglio inquadrare il saluto di Gesù al nuovo apostolo: “Ecco un vero israelita in cui non c’è frode”. La situazione di Marco e Matteo apparirebbe capovolta: Gesù ha controllato l’albero e ha scoperto almeno un frutto senza difetto. Dunque Israele non merita la distruzione – certo, per autorizzare un’interpretazione del genere, Giovanni deve tenere il fico più distante possibile da Gerusalemme, che al momento della composizione del quarto vangelo era già stata rasa al suolo dai Romani. Sappiamo che il testo è l’espressione di comunità cristiane-ebraiche dell’Asia Minore (Efeso e dintorni) che a differenza dei lettori degli altri tre vangeli avevano mantenuto forti legami con la religione originaria e festeggiavano la Pasqua nella data prevista dalla religione ebraica. Due secoli più tardi, un esegeta proveniente dallo stesso ambito culturale, Afraate il Siriaco, collegherà la maledizione del fico all’episodio della Genesi in cui Adamo, dopo aver peccato disobbedendo a Dio, usa foglie di fico per nascondere la sua oscenità. Seccando il fico, Gesù avrebbe annunciato l’espiazione del peccato originale: dopo di lui non ci sarebbe stata più vergogna, né più bisogno di nascondersi. Tornando a Giovanni, il suo Natanaele forse serve ad affermare il concetto: Dio è [ancora] con noi, non si è scordato del suo albero da frutto prediletto, Israele; non lo ha trovato sterile, non lo ha maledetto, non lo ha seccato.

C’è un’ultima leggenda a cui non si può non accennare parlando di fichi e di Gesù: a un fico si sarebbe impiccato Giuda, il traditore, secondo una tradizione antica ma non attestata nei vangeli ufficiali. Oltre alla simbologia ormai chiarita (il frutto del tradimento penzola dall’albero maledetto), può trattarsi di un tentativo dei primi interpreti di mettere d’accordo due versioni diverse e ugualmente attendibili: secondo Matteo, Giuda si impicca per disperazione quando si rende conto che i farisei hanno intenzione di consegnare Gesù ai Romani per farlo condannare a morte (27,1-10). Luca però ha sentito una versione diversa, e negli Atti degli Apostoli la mette in bocca a Pietro (1,18): “Egli dunque acquistò un campo con il salario della sua iniquità; poi, essendosi precipitato, gli si squarciò il ventre, e tutte le sue interiora si sparsero”. Come conciliare un Giuda impiccato con un Giuda squarciato dopo una caduta? Una possibilità è che Giuda avesse scelto per impiccarsi un albero che non avrebbe retto il suo peso: una pianta dai rami fragili, come il fico o un suo parente subtropicale, il sicomoro, che ha rami più spessi ma ugualmente soggetti a spezzarsi con poco sforzo. L’albero in questo caso è già simbolo di qualcos’altro: fragilità, incapacità di tenere fede alla promessa data (anche di reggere il peso della colpa), ipocrisia.

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Zaccheo, l’esattore buono

20 agosto ─ San Zaccheo pubblicano (I secolo) 

Scendi che devi offrirmi 
un pranzo

I pubblicani nelle province Romane erano gli esattori delle tasse; non si trattava, malgrado il nome, di funzionari pubblici, bensì di privati in appalto che le tasse le anticipavano ai Romani, dopodiché avevano il tempo e l’agio di farsele restituire dalla cittadinanza. Era abbastanza ovvio che facessero la cresta, visto che campavano di questo. Siccome per il loro mestiere era necessario disporre di una buona liquidità, era anche probabile che molti di loro tra una campagna fiscale e l’altra esercitassero il lucroso mestiere di prestatori a interesse. Insomma, strozzini e amici delle guardie: non sorprende che la gente li detestasse, e invece Gesù li frequentava. Come le prostitute; ma mentre lo scandalo nei confronti della prostituzione è spesso un’attrazione ammantata di ipocrisia, gli esattori delle tasse la gente li odia davvero, non deve sforzarsi. 

Zaccheo è il pubblicano che si arrampica su un sicomoro, a Gerico, per riuscire a vedere Gesù che è appena entrato in città circondato dalla folla. In mezzo a tanti curiosi, Gesù lo riconosce e lo chiama per nome: “scendi subito, Zaccheo, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. L’episodio è attestato soltanto nel vangelo di Luca (19,1-10). E qui devo confessare una cosa: sto perdendo un po’ la mia fiducia in Luca, man mano che invecchio. Fu il primo evangelista di cui abbozzai un profilo, all’inizio di questa cosa: ne ero entusiasta, era il mio evangelista preferito quasi da sempre (vabbe’, la cotta giovanile per Giovanni è uno scotto inevitabile, è un po’ come i Pink Floyd). Luca è un vero cronista, scrivevo, Luca fa le ricerche e cerca di organizzare il materiale, di non annoiare il lettore con dettagli inutili. Ma avvertivo anche che Luca è un liberal, con un’attenzione particolare per i deboli, gli oppressi e le donne: un tratto incredibilmente moderno, così moderno che a un certo punto ha cominciato a insospettirmi: è come se Luca riuscisse a trovare in ogni situazione l’angolazione perfetta per me. La santa più importante della cristianità, Maria, è un personaggio di Luca: è lui che racconta l’episodio dell’annunciazione (Matteo fa parlare l’angelo a Giuseppe); e lui che le mette in bocca le sublimi parole del Magnificat. Luca fa dire al suo Gesù: “beati i poveri”. Non “beati i poveri in ispirito”, come Matteo, no: per Luca devono essere beati i poveri, è di loro il Regno dei Cieli: un luogo dove evidentemente è previsto un minimo di giustizia sociale, Matteo non si poneva il problema, Luca lo inventa. Luca è l’evangelista che sente il bisogno di correggere la parabola dei talenti di Matteo, livellando completamente il budget concesso ai servi: i talenti diventano “mine”, dal valore molto più modesto, e il padrone prima di partire li divide tra i servi in parti uguali, modificando così il significato di quella paginetta del vangelo che pare fosse l’unica a interessare davvero Margaret Thatcher. Ma come fa insomma Luca a conoscermi così bene? 

La spiegazione più semplice è che Luca mi conosca perché è lui che mi ha fatto così. L’attenzione per i deboli, l’interesse per le figure femminili che si sforza di far uscire dal cono d’ombra, il sogno della comunione dei beni prospettato negli Atti degli Apostoli, non sono cose moderne che riconosco in Luca: sono cose che Luca ha descritto, ed è anche grazie a lui che duemila anni dopo ne parliamo ancora. Ma le ha descritte dal vero o le ha proprio inventate? Quanto Cristo c’è davvero nel vangelo di Luca, quanto Luca c’è nel Cristo che ci piace?

Insomma dieci anni dopo non lo definirei più uno scrupoloso cronista. Che sia un liberal invece non c’è dubbio, è una cosa che traspare ad ogni confronto con gli altri tre autori e soprattutto con quello dei tre che aveva una vera ossessione per il denaro, al punto che tradizionalmente è identificato con Matteo, l’apostolo che faceva lo stesso mestiere di Zaccheo: ed è una coincidenza molto curiosa. L’episodio di Zaccheo è uno dei non pochissimi esempi in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: come se l’episodio della conversione del pubblicano Matteo non lo convincesse del tutto. Luca la conosce, l’ha riportata (anche se chiama Matteo “Levi”, come del resto fa l’altro evangelista Marco), però è come se l’obiezione dei Farisei (“Perché mangiate e bevete con quelli delle tasse e con persone di cattiva reputazione?” lo mettesse in imbarazzo. Eppure il suo Gesù ha la risposta pronta: “Quelli che stanno bene non hanno bisogno del medico; invece ne hanno bisogno i malati. Io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori, perché cambino vita”. Tutto giusto, ma è come se Luca sentisse che non basta, perché il suo Levi dopotutto è una comparsa, non torna più: come può essere sicuro il lettore che la vita l’abbia cambiata davvero? Così, per questa esigenza più didattica che biografica che Luca ha di essere chiaro, di non alimentare dubbi nel suo lettore, ecco che decide di far incontrare al suo Gesù un altro esattore, che la vita l’ha già cambiata: il piccolo Zaccheo, che è un pubblicano, certo, ma il meno esoso di tutti: come spiega al Salvatore a pranzo, “io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto“.

Possiamo immaginare le obiezioni che avrebbe mosso Matteo, che il denaro lo conosceva in modo meno astratto di Luca: un pubblicano che desse metà del suo gettito ai poveri, quanto ci metterebbe a fallire? E chissà come erano delicati gli occupanti Romani con i rei di insolvenza. Oppure dovrebbe alzare le tasse a tutti, altra cosa rischiosa e in fin dei conti insostenibile. Cosa significa poi “se ho frodato, restituisco quattro volte tanto”: truffi i tuoi debitori e poi ti penti subito? Gesù invece approva tutto: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d’Abramo“, e subito dopo racconta la parabola delle mine. Insomma l’episodio di Zaccheo è uno dei tanti in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: sembra volerlo interpretare, spiegare, conciliare con una sua idea di Cristo che poi ha avuto una straordinaria fortuna e tutto sommato è anche la mia idea: e però corrisponde molto di più alle idee di Luca che a quello che su di lui raccontano gli altri tre evangelisti. Questa cosa che Gesù frequentasse la feccia della società, come gli esattori, lo infastidiva: l’unico modo per farla rientrare nel suo quadro di Gesù era immaginare un pubblicano diverso da tutti gli altri, un campione di onestà e generosità.

Zaccheo è l’esattore generoso: molto più raro di una prostituta virtuosa, per cui ammetto di fare un po’ più fatica a credere che Gesù l’abbia incontrato davvero. Poi, siccome si arrampica sul sicomoro che è un parente subtropicale del fico, potrebbe essere stato ripreso da Giovanni per creare la figura di Natanaele. Ma di quanto siano importanti (e ambigui) i fichi nei vangeli riparleremo presto.

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