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Il Principe e il poveretto

[È un pezzo di un mese fa, scritto di getto e gettato via già scritto quando Renzi faceva notizia per via delle sue frequentazioni saudite. Lui però insiste, così ecco qui].

Bisogna parlare di Renzi ma non riesco a concentrarmici, mi viene in mente tutt’altro, per esempio ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. A volte mettono l’hashtag #gifted ma in realtà la borsa o la scarpa se la sono comprate in negozio, magari a prezzo pieno. È un mondo alla rovescio: nel nostro devi sempre dimostrare che le marchette non le fai, o se le fai che ti vergogni. Per gli influencer invece riuscire a fare marchette è un punto d’arrivo. Interessante, nevvero? E invece devo parlare di Renzi. 

Renzi fa gli accessi, Renzi attira l’attenzione, la gente viene in blog del genere, se viene, la poca che ancora viene, perché vuole leggere qualche cosa caustica su Renzi, e io non è che non me ne rendo conto; ma che posso scrivere che non sia stato già? Proprio mentre stava trattando per far cadere un governo, accampando accanto a questioni in parte condivisibili anche richieste evidentemente pretestuose (a un certo punto ha buttato lì che avrebbe preso i soldi del MES per il ponte sullo Stretto, che è un po’ come fare all in su un tavolo di poker ma coi soldi del Monopoli), proprio in quel frangente Renzi si è fatto immortalare mentre intervistava un principe dell’Arabia Saudita, che di principi ne ha tanti, ma questo probabilmente è proprio quello che ha ordinato di fare a pezzi un giornalista dentro un’ambasciata. La notizia all’inizio l’ha data solo il Fatto Quotidiano, cioè in pratica l’organo degli hater di Renzi, il che ci autorizza a supporre che Renzi non ci tenesse così tanto a divulgare il suo incarico di cicisbeo presso una delle poche vere monarchie assolute rimaste al mondo. Una volta scoperto però Renzi mica poteva tirarsi indietro, e così ha prontamente spiegato che sì, lui adesso di mestiere fa il “public speaker”, non è uno scherzo, perlomeno su Linkedin ha scritto così, ed è normale che i suoi public speaking lo portino in giro per il mondo a intervistare tra gli altri anche un principe saudita un po’ sanguinario, e a irradiare sulla monarchia saudita un po’ del glamour che gli sarebbe rimasto attaccato da Palazzo Chigi, e anche quella fiorentinità che gli serve per evocare un Rinascimento saudita. Tanto più che non lo fa mica per la gloria: per fare questi discorsi o queste interviste nel suo caso bisogna essere membri di un “board”. Renzi ci guadagna 80.000 euro l’anno e ci paga le tasse in Italia, il che nella sua testa dovrebbe essere sufficiente a tacitarci. Invece è proprio a questo punto che nella mia testa cominciano ad affollarsi le più disparate considerazioni, ad esempio.

– Ma di cosa ti vanti poveraccio che con 80.000 euro un principe saudita non ci paga neanche la rata della Lamborghini per la concubina di secondo grado. Questo sei tu per lui, manco un autista. L’accompagnatrice dell’autista. Quella di scorta. 

– Ah, il Rinascimento, cioè quel periodo in cui i signorotti arricchiti rilevarono i titoli feudali dei principi medievali, accentrarono su di loro il potere e si misero ad ammazzare senza tanti complimenti chi non avevano a libro paga, col pensoso consenso degli intellettuali che piativano per incarichi a corte e formalizzavano le regole del perfetto cicisbeo. Ok Matteo Renzi, capisco dove vuoi arrivare.

– Renzi perdio l’abbiamo letto pure noi Machiavelli, lo sappiamo di che lagrime gronda e di che sangue lo scettro ai regnatori; che la politica sia sangue e merda ci è molto chiaro, ma questo significa sul serio che puoi sbracciarti con le mani sporche di entrambi, mettendoci la faccia, sei riuscito di nuovo a scrivere questa cosa, che in quel merdaio ci hai messo la faccia? Cioè lo sappiamo tutti che in politica estera bisogna essere amici di boia e tiranni, ma al punto da andarne fieri, dallo spiegare tutti contenti quanto fatturiamo al mese e all’anno col nostro secondo lavoretto presso il tal boia, il tal tiranno? 

– Per questo abbiamo abolito il finanziamento ai partiti: per selezionare finalmente una classe dirigente tutta fiera di mostrarti le sue fantasiose tecniche di fundraising, ad es noi ci facciamo dare totmila euro da un saudita sanguinario in cambio di visibilità, esatto sì, noi la diamo a lui, finché ci casca, certo, a proposito interessa una Fontana di Trevi quasi nuova? Una Battaglia di Anghiari praticamente mai usata?

– Stavi chiedendo la delega ai Servizi, e qualcuno ha avvisato il Fatto che nel frattempo eri in missione privata in Arabia Saudita. Probabilmente non otterrai la delega ai Servizi.

–  Ho letto sul Post che molti influencer non fanno davvero tutte quelle marchette che dicono di fare. Il punto è che la marchetta è proprio quello che vogliono fare da grandi, e nel frattempo per dimostrare le loro capacità le fanno gratis, o comunque per un tozzo di pane, tendendo spesso a esagerare la percentuale di marchetta di quello che fanno. È un mondo così. Un po’ triste, però.

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Meglio un giorno da pecorella

Lo so che ci sono tante cose più importanti e interessanti, ma ieri sera, provato dagli scrutini, sono restato su una poltrona e ho visto un po’ del Cantante mascherato; quanto basta per scoprire Alessandra Mussolini sotto la maschera della pecorella. Ecco, per me questa piccola cosa è abbastanza interessante.

Mi ha fatto venire in mente un tweet o qualcos’altro di un americano o di un inglese, non mi ricordo più, che qualche mese fa scoprì tutto scandalizzato che la sopradetta Alessandra Mussolini, nipote di tanto nonno, invece di vivere per sempre marchiata dall’indelebile infamia, partecipava alla versione italiana di Dancing with the Stars (Ballando con le stelle). Anche in quel periodo c’erano tante cose più importanti o interessanti per cui anche se avevo voglia di rispondergli non l’ho fatto. 

Però ripensandoci avrei dovuto, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli, ehi Mister, Sir, qual è il problema? Con tutti quelli che abbiamo, una Mussolini che balla è interessante? È vero, a differenza di voi imperialisti abbiamo avuto un dittatore certificato. Non c’è dubbio, è successo, e molti di noi hanno ancora un grosso problema ad accettarlo; resta fermo però il principio che le colpe del padre non ricadono sul figlio (tantomeno sul nipote). Quindi la signora Mussolini non solo ha fatto la ballerina, e l’attrice, ma è stata pure eletta in parlamento: ne aveva il diritto, si è candidata, e qualcuno aveva il diritto di votarla. Però alla fine non ha funzionato, e adesso fa l’ospite televisiva. Il che dovrebbe essere avvilente, ma per chi? Lei si diverte, la gente è moderatamente contenta di riconoscere una faccia nota, il cognome così terribile si associa un po’ meno agli orrori del Novecento e un po’ più alle copertine dei rotocalchi, e questo in qualche modo dovremmo sentirlo ingiusto. Per me è il contrario, e forse è una delle particolarità italiane che esporterei. La tv come camera di compensazione per i rampolli di famiglie celebri per il motivo sbagliato. 

Remembering China’s last emperor, Puyi, 50 years after his death 

Ho sempre trovato incredibile il modo in cui i comunisti cinesi trattarono l’ultimo imperatore, quel Pu Yi che pure si era macchiato di un tradimento e aveva permesso orrori che fanno impallidire quelli del nostro Mussolini e del nostro Savoia. Come sa anche solo chi ha visto il film di Bertolucci, quando i comunisti riuscirono a farsi consegnare Pu Yi dai sovietici, lo trasformarono in un… giardiniere. Non fu un trattamento indolore: dovette passare per un campo di rieducazione. Ma l’idea era potente: prendere l’ultimo erede di una dinastia, e di una storia millenaria, e trasformarlo in un cittadino qualunque. Una cosa del genere noi non potremmo farla – è ingiusto anche solo sognarla – però qualche buona idea a volte ci viene, ad esempio prendere il nipote di un re esiliato, o la nipote di un dittatore ancora rimpianto da molti italiani e trasformarli in celebrità sospese tra mainstream e trash. Per loro è sempre meglio che lavorare; per chi rimpiange i fasti dei nonni è un’offesa alla memoria, per noi che guardiamo è un modo per confiscare loro un’eredità che non hanno richiesto e che non meritano, nel bene e nel male.  

Quindi, o popoli: avete figli di dittatori da gestire, o eredi a un trono che non c’è più, e vi sembra ingiusto fucilarli? Mandateli in tv a ballare e cantare, in Italia facciamo così e secondo me funziona. Non fate il contrario, come gli americani, non mandate i personaggi televisivi in politica: quello sì che è pericoloso. (Allo stesso Trump, forse sarebbe bastato offrire di nuovo una stagione di The Apprentice e magari avrebbe acconsentito a lasciare la Casa Bianca con meno strascichi). 

(E ora che ci penso, quando ci lamentiamo di Renzi che continua a far politica, dobbiamo ammettere che lui a un certo punto ci aveva anche provato, a passare alla televisione; e non era una idea così sbagliata: dopo che aver vissuto per anni in quel trip egotico che è la politica ad alto livello, circondato e riverito da lacchè, quale altra cosa puoi fare, che ti produca una soddisfazione lontanamente paragonabile? La tv generalista funziona, ha salvato Giulio Ferrara, Claudio Martelli, chissà quanti altri. Avrebbe potuto salvare anche lui, e lui ci ha provato, non dite di no. Ha fatto quel documentario… l’avete guardato? Sì, lo so. È tv generalista, bisogna essere molto stanchi o disperati. Tra un po’ bisognerà pagare qualcuno per guardarla).

(Ho chiesto in classe: avete visto il Cantante Mascherato? Nessuno. E li capisco, però comincio ad aver paura). 

(Ma insomma quando qualcuno si mette a dire che Renzi è un sagace politico, ricordate un attimo che si è dovuto rimettere a far politica perché neanche in tv funzionava. Cioè la politica come camera di compensazione della camera di compensazione).

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Non resta che sperare in Di Maio (rendetevi conto)

Questa crisi politica mi trova dell’umore meno adatto a interessarmene. In teoria non sono di quelli autorizzati a sentirsi nauseati da una conta parlamentare. Prima dell’emergenza ero un fiero parlamentarista; lo sarò anche quando e se l’emergenza finirà: invece uno che parlamentarista non era è Matteo Renzi. Anch’io trovo beffardo che si sia messo a giocare all’ago della bilancia con un partitino, come qualsiasi democristiano post-diaspora che ha sempre finto di non essere; la beffa però mi sembra la stia facendo lui a me. Certo, lui è sempre lo stesso narciso che scalpita per l’attenzione (e per amministrare qualche fondo europeo), ma io? Lui è inquieto, lo sarà sempre finché non tornerà sotto il riflettore più importante (quindi lo sarà sempre), ma io invece perché sono così tranquillo? Davvero credo che il Conte 2 sia il migliore dei governi possibili? Davvero sono così stanco e sfibrato da non notare l’incompetenza generalizzata, i disastri, l’irresponsabilità?

Probabilmente sì.

Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l’Aldilà

Non so neanche per chi voterò – no, stavolta è peggio: stavolta non m’interessa. Parto da una constatazione: il partito in cui bene o male mi riconosco (più male che bene) è sempre stato il PD. L’ho votato da quando esiste – 2008 – e non ha mai vinto le elezioni. Anzi, ha sempre perso. Nonostante questo ha governato il Paese quasi per un decennio. Sul serio. 

È rientrato nelle stanze dei bottoni col governo Monti (2011), il che ha portato la segreteria Bersani al disastro delle elezioni del 2013. Disastro che non gli ha impedito di mantenere il ruolo di primo partito nella maggioranza che ha sostenuto il governo Letta, il governo Renzi (2014) e il governo Gentiloni (2016). Al termine della legislatura, intaccato da una scissione a sinistra e consegnato dalle primarie a un leader ormai percepito come fallimentare, è sceso alle elezioni del ’17 per la prima volta sotto il 20%, una batosta insopportabile per il partito che deteneva l’eredità morale dei due grandi partiti di massa del secondo Novecento. Ciononostante, e malgrado una seconda scissione, non gli è riuscito di stare lontano dal governo che per quindici mesi, gli unici quindici mesi in tutto il decennio 2011-2020 in cui il PD non ha dato alcun contributo al governo del Paese. Sono stati anche i quindici mesi più inquietanti della nostra storia recente, e il solo spettro di un secondo avvento di Salvini dovrebbe terrorizzarmi e spingermi a sostenere qualsiasi alternativa, un monocolore Di Maio, un governo tecnico Pippo Baudo. Ma ecco, ci credo davvero? A Salvini interessa così tanto governare? Mi pare che quanto gli interessi lo dimostrò ampiamente nell’estate del ’19. E per quanto si sia attribuita la sua scelta alla tipica ebrezza del Papeete, è abbastanza plausibile che in quel caso Salvini abbia fatto una delle scelte più lucide e razionali della sua vita, ovvero mollare ogni responsabilità quando era ancora giovane e credibile, e in grado di riprendere l’unico mestiere che ha fatto in tutta la sua vita: l’oppositore da fiera, da agitarmi davanti ogni volta che non ho tanta voglia di votare l’ordine e la responsabilità.

Rispettoso, lusinghiero, il giudizio che si dà

Con questo non voglio dire che il sovranismo non sia ancora un pericolo concreto, ma tutti gli avvenimenti importanti del 2020 lo hanno oggettivamente ridimensionato: la Brexit non è un paradiso in terra, la pandemia non è che la prima emergenza planetaria che dimostrerà nei prossimi anni quanto siano anacronistiche e scomode le frontiere europee. Forse siamo in quella fase della partita in cui il pezzo più importante è già stato mangiato (magari era Trump) e il resto del gioco è un dettaglio. Anzi è possibile che i sovranisti in Italia e in Europa abbiano appena iniziato a formare quel partito di massa che nei prossimi anni si opporrà al partito della responsabilità e della pianificazione emergenziale; la massa c’è e non chiede ai suoi leader che parole di speranza, o al limite teorie del complotto immaginose e interessanti. 

Questa cosa Salvini la sa, Meloni la sa, e forse entrambi nel loro segreto tremano di fronte all’enorme responsabilità di guidare un popolo nel deserto. Perché di questo si tratta: di governare no, governare nei prossimi anni sarà complicato e faticoso. Il massimo contributo che possono dare è impugnare la fiaccola del sovranismo, tener buona la loro gente al calore di una speranza di rivoluzione che non si realizzerà mai – più o meno quel che fecero i quadri del PCI nel secondo dopoguerra, con qualche regione in più da gestire, che poi son carriere, affari, butta via. Governare però no: poi bisognerebbe una volta buona spiegare agli elettori se si esce dall’Euro o si resta dentro, se si è con Putin o con Biden, coi novax o coi nocovid, tutte partite ormai decise anche se i tavoli sono ancora ufficialmente aperti. Governare si è già capito che non vogliono e non possono. Quindi governeranno gli altri. Cioè?

Il PD?

Ma cos’è il PD ormai?

Pensate a quanti pezzi ha perso lungo il percorso – era il partito dell’area Prodi, per prima cosa mandò all’aria l’ultimo governo Prodi. Lo fondò Veltroni, uno dei risultati più concreti che raggiunse fu la fine politica di Veltroni (un risultato molto importante, sottolineo, anche dal punto di vista letterario, cinematografico, musicale). Era il partito di Bersani, che ci ha messo anche un po’ ad andarsene; poi è stato il partito di Renzi, schizzato fuori pure lui. Al termine di tutte queste scremature, quel che rimane è un partito tranquillo, senza personalità di spicco; verrebbe da dire senza personalità e basta. Lo dirige un amministratore di regione, nel suo tempo libero: in questo periodo non deve averne molto. Si dà per scontato che sia composto da personaggi responsabili, e si chiude un occhio quando si mostrano non molto più avveduti degli altri. È insomma il partito adatto a quel tipo di maggioranza silenziosa che si forma alla fine della crisi, quando la gente è stanca di avventure: come gli elettori della Democrazia Cristiana dal 1948 al 1988. Può darsi che la situazione sia simile: che dopo aver provato Berlusconi, e Renzi, e Grillo, cominci a subentrare una certa stanchezza, una voglia di affidarsi non tanto all’uomo forte e neanche all’uomo competente, ma almeno tranquillo, in grado di dimostrare un minimo di serietà o almeno di simularla. Cosa che riesce più semplice se all’opposizione si rinchiudono in quel castello telematico di illusioni che Facebook, Amazon e Google stanno cominciando a smantellare, non un attimo prima di vedere come andava a finire Trump. Insomma i giochi sono abbastanza fatti, ognuno ha il suo ruolo, chi rimane fuori? Ah giusto.

I Cinque Stelle.

Ecco, vorrei dire che i Cinque Stelle sono la mia unica vera speranza, ma senza essere frainteso. Come amministratori sono stati disastrosi (ho in mente il mio ministro in particolare), né ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da un partito che dell’incompetenza si faceva bandiera. Bisogna dire che la pandemia ha messo in crisi molto più la loro piattaforma che quella dei sovranisti. Erano il rifugio dei NoVax, ora la gente fa carte false per vaccinarsi: ma non è solo quello. Dovevano mandare a casa i politici (e l’hanno fatto), e ora si trovano al loro posto, costretti loro malgrado a fare politica. Non si può dire che ci stiano riuscendo: sinceramente, non si può. Ma alcuni a questo punto potrebbero farcela, e questa è l’unico margine di speranza che in questo momento riesco a intravedere. Da Salvini e Meloni so cosa aspettarmi: tanto fumo sovranista e postfascista che gli adepti inaleranno voluttuosamente, nella speranza che dia più torpore che nervosismo; dal gruppo Mediaset so cosa aspettarmi, anche oltre l’estinzione fisica del suo fondatore (un supporto mediatico ai sovranisti fin tanto che si tratta di tenerli incollati al televisore durante le pubblicità di dentiere e pannoloni, che si eclisserà parzialmente nei momenti di crisi, proprio come la Fox è mancata a Trump nel vero momento del bisogno). Dal PD so cosa aspettarmi: tanta pacata affettazione di competenza, sostenuta da quotidiani autorevoli che non legge più nessuno, stampati da industriali che in Italia non producono più quasi niente, ormai se ci spiegano come stare al mondo è davvero per uno stimolo disinteressato, un capriccio. Da Renzi so cosa aspettarmi: cercherà di attirare l’attenzione su di sé, prestandosi a maneggi vari senza nemmeno accorgersene, insomma era partito Kennedy ed è finito Pannella. Dalla sinistra extraparlamentare, in cui ideologicamente pure mi riconosco, so cosa aspettarmi: tante velleità, e mi dispiace. 

Da Di Maio, ecco, no. Non so veramente cosa farà, non so chi lo voterà e che motivi troverà per farlo. Di Maio (e i suoi compari) sono l’unica variabile che può cambiare davvero la situazione. Possono tentare di ricorrere Salvini sui terreni del sovranismo e perfezionare qualche nuova variante complottista: ma non è soltanto una strada perdente, è l’imitazione di una strada perdente. Oppure possono restare dove non avrebbero dovuto e voluto trovarsi: al governo, e crescere, alla ricerca di una via credibile tra populismo e democrazia. Questa via credibile, prima della pandemia non esisteva: ora la situazione è parecchio cambiata e nei prossimi anni cambierà ancora di più. Insomma dipende quasi tutto da loro, sono il vero ago della bilancia e sono dei maledetti incapaci – ma non sarebbero arrivati lì se non lo fossero stati – e proprio perché maledettamente incapaci, hanno enormi margini di miglioramento. Dopotutto it can’t get much worse.

Mi accorgo che questo discorso – tirato in lungo apposta per allontanare il più possibile dei lettori dalla avvilente conclusione – sembra il tentativo disperato di vedere un bicchiere mezzo vuoto dove da un pezzo non c’è più non dico l’acqua, ma il bicchiere stesso; oppure il gesto disperato di chi trovandosi in un tunnel completamente buio, si strizzasse gli occhi per procurarsi qualche fotopsia e dirsi ecco, lo sapevo che c’è una luce in fondo. Scusate, questa crisi mi trova davvero nell’umore meno adatto.

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Renzi 1 – Salvini 1 – giornalisti 0

Anche se può essere ugualmente teso ed emozionante, un “duello” televisivo non è un vero duello; non è un match, non è una partita. La differenza sostanziale sta nel risultato: un duello è definito dal fatto che non possa che esserci un vincitore. Quando il vincitore non c’è, come in quel film di Ridley Scott, il duello non è davvero finito. Anche nello sport è quasi sempre così (il calcio è un’eccezione). I dibattiti televisivi non sono così, anche quando cercano di vendersi come “duelli”, come quello di ieri sera da Vespa. A proposito: secondo voi ha vinto Matteo Renzi o Matteo Salvini? È una domanda retorica, scusate, in realtà non m’importa così tanto del vostro parere. Suppongo che dipenda molto da quanto vi risulta simpatico uno dei due, o a quanto vi stiano antipatici entrambi. Ma il solo fatto che il giorno dopo se ne possa discutere (“chi ha vinto”?) dimostra che non stiamo parlando di un duello – che viceversa è la negazione di un dibattito. Fino a qualche decennio fa spesso serviva a terminarlo una volta per tutte: io dico che tu sei un farabutto, tu neghi l’affermazione, per decidere chi ha ragione ci si vede domattina dietro al convento dei carmelitani scalzi.

(Fermatevi per un attimo, gustatevi l’immagine dei due Mattei in manica di camicia, che si allontanano nella bruma con una pistola in mano, mentre su un lato Bruno Vespa conta i passi. Quello sarebbe stato un duello).

Invece in un dibattito televisivo possono vincere entrambi, anzi; il motivo per cui a volte due politici acconsentono a un “duello” è proprio che entrambi ritengono di poter ottenere qualcosa senza rimetterci molto (non sono mica politici per caso). È più o meno il caso del dibattito di ieri sera: entrambi avevano un’occasione per mettersi in mostra al loro pubblico di riferimento, ed entrambi hanno cercato di impiegarla al meglio. Entrambi ora possono pubblicare sui loro profili social qualche spezzone che dimostri in modo equivocabile ai loro fan che hanno ‘asfaltato’ l’avversario. Quanto a noi, possiamo anche assegnarci il ruolo di esperti di comunicazione (su internet è gratis), inforcare un monocolo immaginario e cercare di capire/spiegare chi dei due abbia fornito la prestazione migliore. Boh. Quasi quasi direi Renzi: ha rischiato di più, anche perché aveva meno da perdere. Ma a questo punto è chiaro che non stiamo più parlando di una competizione tra i due, quanto di una gara che ognuno stava ingaggiando con sé stesso, e con le aspettative che ormai il pubblico ha nei suoi confronti. Salvini da questo punto di vista ha giocato in difesa, recitando senza sbavature il ruolo di Matteo Salvini: ma non è quello che i suoi elettori pretendono da lui?

E quindi ci troveremmo di fronte a un esempio lampante di gioco win/win: entrambi vincono, entrambi ci guadagnano. E allora perché io spettatore mi sento defraudato? Mi aspettavo davvero che almeno uno stramazzasse al suolo? No, onestamente non ci speravo: queste cose non succedono, da Vespa poi. Però devo ammettere che per quanto basse fossero le mie aspettative, sono rimasto deluso, in alcuni momenti persino disgustato. Non tanto da Renzi e Salvini, che stavano facendo il loro mestiere. Forse nemmeno da Vespa, che si limitava a contare i minuti e a prevenire quei corpo-a-corpo che sul ring diventano anti-spettacolari. Quelli che mi hanno messo davvero in imbarazzo sono i “giornalisti”.

Lo scrivo tra virgolette perché la considero una citazione: a un certo punto Vespa ha annunciato che nella seconda parte del dibattito ci sarebbero stati i “giornalisti”. Voi li avete sentiti? Uno in effetti a un certo punto ha osato fare una domanda, ma è stata un’eccezione. Gli altri si sono fatti un’ora e mezza di diretta tv per niente e umanamente mi spiace per loro; immagino che sia faticoso rimanere per tanto tempo sotto i riflettori cercando di mantenere un’aria concentrata, contenere gli sbadigli eccetera. Poi spero che abbiano protestato, perché, insomma, che ci sono andati a fare? Già.

E allo stesso tempo, che ci aspettavamo da loro? Cosa avrebbero dovuto fare? Le domande. Quelle scomode, quelle che avrebbero dovuto mettere in difficoltà i due duellanti. Ma come Vespa ha prontamente capito, non ce n’è stato bisogno: i due le domande se le stavano già facendo tra loro e sembravano già abbastanza ‘scomode’. Un intervento terzo sarebbe stato ridondante. Renzi e Salvini non solo hanno vinto, ma hanno sconfitto i giornalisti, li hanno ammutoliti. Alla fine anche la loro tacita presenza ha avuto un senso: hanno rappresentato per un’ora e mezza la sconfitta del “giornalismo” da talk-show. Nessuno ha dato loro la parola perché nessuno ne sentiva il bisogno; i politici le domande se le sanno fare da soli.

Ora immagino un’obiezione: forse i giornalisti non dovrebbero semplicemente fare le domande, forse da loro ci aspettiamo qualcosa di più. Il fact-checking? Ho letto qualcuno proporre un fact-checking, magari approfittando dei break pubblicitari per appurare se quanto dicevano i due fosse vero o falso. Sono un po’ scettico. Il fact-checking è una cosa delicata: se lo fai in diretta rischi di commettere ulteriori errori davanti a due contendenti che non vedono l’ora di strumentalizzarli. Ma non credo nemmeno che avrebbero accettato un rischio del genere: un tizio super partes che a un certo punto del duello si mette tra i due e si mette a contare per filo e per segno tutte le affermazioni false? Non è così che funziona in tv, perlomeno da noi. Il fact checking si può fare sui giornali del giorno dopo: ecco una delle tante cose a cui i giornali possono ancora servire. Giusto.

E tuttavia.

E tuttavia, davvero possiamo permettere che i politici in televisione affermino tutto quello che vogliono senza che nessuno mai si alzi a chiedere, semplicemente: ma cosa sta dicendo costui? Anche questa è una domanda retorica: Porta a Porta funziona così, e funziona da così tanto tempo che ormai in Italia un’intera generazione, se cambiando canale inciampa in Via col vento, si domanda cosa sia questo film che ha rubato la sigla a Bruno Vespa. Ma in generale i talk italiani sono così. Se vuoi un politico, lo devi ascoltare e al massimo ogni tanto annuire. Se vuoi più azione puoi mandargli contro un altro politico, e a quel punto le domande se le faranno da soli, e anche al fact-checking dovranno pensarci loro. Non è un’iperbole, ieri a un certo punto Renzi ha deciso di interpretare il ruolo di fact-checker di Salvini, con risultati non sempre soddisfacenti: per più di una volta gli ha permesso di affermare serenamente che grazie a lui i morti annegati nel Mediterraneo sarebbero diminuiti. Ecco, quando parlavo di disgusto mi riferivo a cose del genere: possibile che nessuno in quel momento abbia osato chiedergli in che modo li stava contando, i morti annegati nel Mediterraneo? Ormai sappiamo che il famoso “pull factor” non esiste; sappiamo che non basta chiudere i porti (o dichiarare i porti “chiusi”) per evitare che la gente in Libia si imbarchi. Quindi Salvini è davvero convinto che basta mandare meno navi a contare meno morti annegati per risolvere il problema? Ovvio che no, ovvio che sta semplicemente prendendo in giro i suoi interlocutori. Davvero nessuno poteva farglielo presente, in quel momento, se Renzi in quel momento pensava ad altro o non voleva insistere? Davvero l’unico limite alle sparate di uno dei due contendenti dev’essere l’attenzione dell’altro? E se a entrambi conviene dichiarare il falso su un argomento?

La cosa più disgustosa è successa alla fine, e almeno su questo livello io posso dichiarare un vincitore: a disgustarmi di più è stato Matteo Salvini che ha chiuso il dibattito facendo con le mani il segno delle forbici, a indicare il trattamento che gli piacerebbe riservare nei confronti dei molestatori dei bambini. Dove il linguaggio verbale non poteva arrivare, il gesto è arrivato forte e chiaro e a quel punto non c’era comunque il tempo, né lo spazio, né l’opportunità di alzarsi e domandare: onorevole Salvini, ma a chi la vuole dare a bere? Lei non castra nessuno. Non ne ha il potere, non ne avrebbe la forza, le mancherebbe il coraggio. Tutto quello che ha osato fare è proporre in parlamento una cosa che dietro un nome minaccioso (“castrazione chimica”) nasconde una banale cura ormonale: una terapia che in teoria, solo in teoria, dovrebbe inibire gli atteggiamenti violenti dei maniaci sessuali. Niente forbici, onorevole Salvini, non siamo all’asilo e non ci vanno nemmeno i suoi elettori. Ecco, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli così. Non poteva essere il suo avversario, che doveva coprirsi e non poteva rischiare di passare davanti ai telespettatori assonnati come un difensore dei maledetti pedofili. Non poteva essere l’arbitro-presentatore. Avrebbero potuto essere i giornalisti, ma a quel punto forse si erano addormentati anche loro: e li capisco.

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Renzi va al centro ma il centro non c’è

Su Renzi quante se ne possono dire, quante ne avrete già dette.

Su Renzi, in particolare, che lascia il PD proprio quando quest’ultimo arriva al governo – e ci arriva grazie a delegazioni parlamentari composte per la maggior parte da uomini scelti da Renzi – insomma proprio nel momento in cui tutto per un attimo sembra volgere al meglio, e basterebbe restare un po’ tranquilli per recuperare una centralità ormai data per smarrita – proprio in questo momento lui se ne va, perché è Matteo Renzi, non può stare tranquillo per definizione: zaino in spalle eccetera eccetera. Lasciando a ogni commentatore politico la facoltà di indovinare se si tratta di una mossa geniale o disastrosa, come se appunto si trattasse di una mossa, di qualcosa che Renzi poteva anche scegliere di non fare o fare diversamente.

Io per me continuerei a ripetere che il ragazzo è un missile, ma i missili hanno una vita sola e il grande pregio, una volta esplosi, di togliersi di mezzo, quindi la metafora non funziona più. Allora possiamo buttarla sul sociologico; possiamo notare che Renzi è figlio di un medio-industriale e che non fa altro che riprodurre nell’agone politico la traiettoria esistenziale di questo tipo specifico di figli che, quando ereditano la ditta dal papà, hanno tante idee nuove e amici con idee ancora più nuove e così dopo qualche soprassalto la ditta comincia a colare a picco. A quel punto la rivendono e col cash, anche se avevano giurato Mai Più, ne fondano un’altra dove finalmente faranno di testa loro senza i lacci e i lacciuoli e gli amici sbagliati. E anche in questo caso non si tratta di una mossa, di una scelta: è che altro non sanno fare, in casa scalpitano, in piazza vedono i figli degli altri padroni a cui è andata meglio e non ci durano; e poi non è detto che la seconda volta non funzioni, in fondo fino a qualche anno fa bastava azzeccare un prodotto per camparci di rendita, una generazione almeno.

Per esempio, questa volta Matteo Renzi si è messo in testa di mangiarsi l’elettorato residuale di Forza Italia e non lo nasconde, anzi, lo scrive proprio nel logo: Forza Italia, Italia Viva. È un’idea spudorata, ma ecco, è una cattiva idea? A livello di battuta lo abbiamo sempre detto, che Matteo Renzi è il figlio politico che Berlusconi non ha avuto – anche perché se l’avesse avuto, l’avrebbe divorato come tutti gli altri. Potremmo anche raccontarci che doveva finire così, con un Renzi di centrodestra, e che se ci siamo arrivati in modo tanto contorto è a causa dell’unica vera anomalia politica italiana: la Mediaset. Davvero, non sarebbe filato tutto più liscio se Renzi invece di prendere al bivio la strada del Partito Popolare avesse seguito Buttiglione e fosse cresciuto come amministratore nella Casa delle Libertà, magari vincendo le comunali a Firenze contro un insipido candidato ulivista, un qualsiasi ex centrocampista della Fiorentina? In teoria sì, in pratica sappiamo benissimo che Renzi nel medio termine sarebbe finito come finiscono tutti quelli che rischiano anche solo in teoria di fare ombra al capo: Casini, Fini, Alfano, Toti, c’è una lunga teoria di teste in quel corridoio (notate: sono tutti maschi. Le donne restano). L’unica possibilità di succedere a Berlusconi era tenersi a una rispettosa distanza, e Renzi c’è riuscito, magari senza accorgercene. Così il PD, tra tante incombenze, si è incaricato perfino di costruire la carriera di un futuro leader del centro moderato. In un periodo in cui gli altri partiti diventavano fan club, solo il PD poteva sobbarcarsi il compito di creare dal nulla il suo futuro concorrente, e in particolare è stato il PD di Bersani a non lasciarsi mancare un’occasione, arrivando nel 2012 a indire una consultazione primaria in deroga allo statuto pur di consentire a Matteo Renzi la possibilità di farsi notare.

Se davvero fosse andata così, sarebbe andata male? Di un centrodestra moderato ci sarebbe tanto bisogno. In fondo il vero rischio è che l’elettorato residuale travasi direttamente nella Lega, e se c’è un modo di arginarlo, viva Matteo Renzi che si presta. Sì. Temo però che questa ricostruzione sia viziata dal solito errore: parlare del Centro come se il Centro esistesse: come se racchiudesse non solo leader politici fondatori di minuscoli partitini dalla vocazione maggioritaria, ma anche milioni di elettori che quei partitini prima o poi li voteranno. Sarà anche così, ma allora perché per vent’anni hanno votato Berlusconi? Se erano così moderati, perché quando Berlusconi si è alleato coi leghisti hanno votato la coalizione di Berlusconi coi leghisti? Se sono l’argine al fascismo, perché quando Berlusconi ha spruzzato nelle liste un po’ di Forza Nuova e Casa Pound, non si sono trattenuti dal votare una coalizione di Berlusconi coi leghisti e Casa Pound?

Insomma io a questa storia del centro moderato non ci credevo tanto ai tempi di D’Alema che voleva lavorarci, non ci credevo affatto ai tempi di Veltroni che voleva conquistarlo, come faccio a crederci adesso che ci sta provando un missile? I missili una sola cosa sanno fare. Vabbe’. Dipenderà molto da come la prendono ad Arcore, si vedrà parecchio da come lo tratterà la D’Urso in tv. Nel frattempo tutti gli opinionisti di estrema destra che Berlusconi aveva cacciato dopo le elezioni sono più o meno rientrati nel palinsesto, il che mi lascia pensare che tra i due Mattei abbia scelto quello più lombardo e performante (qui poi ci sarebbe un lungo discorso da fare su quanto Salvini sappia fare il suo sporco mestiere di imbonitore meglio di Renzi, ma ne parliamo un’altra volta, una volta in cui mi verrà voglia di fare complimenti a Salvini, magari anche mai).

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Renzi, la trattativa, il retroscena, la polpetta

“Questa è la storia di un governo mai nato, dell’altra strada che poteva prendere questa legislatura, dei protagonisti che hanno fatto nascere e morire, nel giro di una settimana, il governo Fico sostenuto da una maggioranza Cinque Stelle-Pd. È una storia di dominio (quasi) pubblico nei palazzi romani, ma che si tace appena si varca l’uscio e si cammina nel Paese reale, tra gli elettori e i militanti. Un po’ per il rimpianto di quel che avrebbe potuto essere la storia di questi ultimi dodici mesi, se non ci fosse stato il governo gialloverde. Un po’ perché nel frattempo il solco già enorme tra Pd e Cinque Stelle è diventato una voragine. Un po’ perché non tutti i protagonisti di questa vicenda l’hanno raccontata giusta, in quei giorni. Ecco perché questa è una storia senza nomi e cognomi, né virgolettati”.

Questo è un retroscena di Linkiesta e io non credo a una parola. Niente di personale, non credo mai a nessun retroscena, per principio. È un voto che ho fatto qualche anno fa ed è già impressionante il numero di puttanate da cui mi ha protetto. Per cui se prima potevo avere la vaga impressione che ci fosse stato, verso le idi del marzo scorso, una specie di abboccamento tra dirigenti del Pd e del M5S, ora ci credo già un po’ meno. I retroscena sono post-verità fabbricati a posteriori e l’ultima preoccupazione di chi li fabbrica è spiegare davvero cos’è successo ieri. Allora a cosa servono? A far succedere qualcos’altro domani.

Posso sbagliarmi, non sono un esperto, ma l’unico senso di questo retroscena è la campagna delle Primarie PD, che sta entrando nel vivo. Voi magari non ve ne eravate accorti, ma i  “protagonisti” che all’improvviso decidono di vuotare il sacco a un giornalista di Linkiesta probabilmente sì. Per una curiosa coincidenza, Renzi non è più il villain che mette i bastoni fra le ruote. Scopriamo oggi che almeno in un primo momento sarebbe stato tentato dal miraggio di approdare alla Farnesina in un eventuale governo Fico: girare il mondo, parlare in inglese a tutti. È un depistaggio verosimile, come tutti i depistaggi professionali. Il punto in cui la verosimiglianza cede è probabilmente quello che sta a cuore del depistatore, ovvero il cancelletto. In un momento tanto critico, Renzi avrebbe avuto paura del giudizio dei suoi stessi sostenitori più fedeli, che alle prime avvisaglie di un accordo col M5S avevano già messo in giro l’hashtag #SenzaDiMe. Insomma, Renzi che si fa dettare la linea da un cancelletto. La beviamo?

Che Renzi sembri in difficoltà, dal quattro dicembre e anche prima, è pacifico. Ma non al punto da confondere una cassa di risonanza, come Twitter, con un luogo reale di elaborazione e condivisione politica. Renzi non ha mai aspettato un cancelletto per prendere decisioni, anche e soprattutto quando erano decisioni che potevano disorientare la sua stessa base (ad esempio la scelta di succedere a Letta a Palazzo Chigi). I cancelletti arrivano dopo: li spingono i suoi sostenitori e riflettono il suo pensiero. E quando un pensiero non c’è, di sicuro non lo producono loro. Mi sembra impossibile che i renziani si siano messi a cinguettare #SenzaDiMe senza che Renzi gliel’abbia chiesto. Ma è esattamente quello che vuole dirci la talpa che ha raccontato questa storiella a Linkiesta: il renzismo come un mostro di Frankenstein che a un certo punto prende il controllo sul suo creatore; un Mr Hyde che a un certo punto lo soggioga e gli impedisce di prendere le decisioni più razionali.

Questo non è un retroscena contro Renzi, ma contro i renziani. Più nello specifico: mi sembra una polpetta sotterranea contro la mozione Giachetti. Io ovviamente non nutro per il personaggio nessuna simpatia; lo trovo anche un po’ inquietante, mi sembra il tizio che viene sempre mandato avanti quando c’è da perdere una battaglia, e Renzi ha questa cosa che per tutta una serie di motivi di battaglie ha deciso di perderne parecchie. Invece chi detta questa roba a Linkiesta sembra quasi aver paura che vinca: ecco, questo è piuttosto strano.

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Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Sono giorni convulsi in libreria. Molti stanno per partire per le vacanze, molti non chiuderanno le valigie soddisfatti se prima non saranno riusciti a infilarci venti chili di volumi freschi di stampa, da consumare sotto l’ombrellone. Ma non è questo il vero motivo per cui c’è una coda alla cassa. In nove casi su dieci la fila ha preso forma dietro un acquirente che ha chiesto se può pagare con la Carta Del Docente.

Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell’app che stampa i buoni, procedere con l’autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l’elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l’app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti a spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.

Non è il caso di farsi prendere dal panico. L’allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l’anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c’è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l’è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una “misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine”, uno “spreco di risorse preziose”. In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po’ in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all’ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l’anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù…

È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C’è un nuovo governo che chiude i porti ai naufragi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all’anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo determinato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l’autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un’impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.

La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app… (continua su TheVision).

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Lo Stato deve ricominciare a finanziare i partiti. Seriamente.

[Questo pezzo è uscito martedì su TheVision]. I Cinque Stelle sono al settimo cielo, o almeno ci tengono a mostrarlo. Hanno sbocciato lo champagne in piazza Monte Citorio, alla faccia della sovranità alimentare. Cosa si festeggia? L’abolizione dei vitalizi, nientemeno. “Per quanto tempo abbiamo aspettato che questi privilegi venissero cancellati! Ora ci siamo!”, cinguetta giulivo il vicepresidente Di Maio. In realtà è solo una delibera dell’ufficio di presidenza della Camera, al Senato per ora non cambia nulla. Inoltre i vitalizi sono già stati aboliti da Monti nel 2011, delibera riduce soltanto i vitalizi già assegnati, ricalcolandoli col metodo contributivo. Ah, e forse è incostituzionale. Ma non importa: champagne. Bisogna festeggiare, e bisogna farlo proprio nel momento in cui l’alleato-rivale, Matteo Salvini, soffre di un piccolo problema di liquidità: 49 milioni di rimborsi elettorali alla Lega che non si trovano più. Salvini in questo paio di mesi ha rubato la scena a Di Maio e al presidente del Consiglio, tale Antonio Conte, ma quei soldi sono il suo punto debole. Il decreto sui vitalizi non porta un granché nelle casse dello Stato, ma come mossa propagandistica è un colpo sotto la cintura al leader leghista. Lui non trova 49 milioni, I 5Stelle con una delibera ne hanno già recuperati 40. Champagne.

Salvini in effetti si trova in una posizione difficile. La sua linea di difesa è accusare la Lega di Bossi, ma anche in quel partito Matteo Salvini era un dirigente importante, un eurodeputato già primatista per assenteismo. Quando Bossi e il tesoriere Belsito finiscono nei guai, Salvini quatto quatto fonda una nuova Lega indistinguibile dalla vecchia, che si costituisce parte civile nel processo. Salvini si considera danneggiato da chi ha riempito i conti del partito truccando i bilanci: però continua a incassare centinaia di milioni dagli stessi conti. “Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato”, gli scrive l’avvocato di Bossi. Salvini i soldi li ha incassati comunque, e probabilmente li ha anche già spesi. Del resto non si porta un partito dal 4 al 17% in quattro anni gratis.

In tutto questo tempo Salvini non è mai rimasto fermo, anche il suo più acerrimo oppositore glielo deve riconoscere. Si è girato l’Italia in lungo e in largo, mentre a Bruxelles continuano ad aspettarlo invano; a ogni città una felpa diversa, son soldi anche quelli. Ha riorganizzato il partito, ha conquistato la ribalta sulle tv e su internet con campagne virali ed efficaci; tutto questo ha un costo. Il che non significa necessariamente che Salvini abbia speso molto: l’appoggio della Mediaset gli ha senz’altro fornito un grosso aiuto. In generale, poi, tutti i partiti hanno drasticamente ridotto le spese elettorali, e questo può averlo favorito nel momento in cui si trovava un gruzzoletto su un conto e preferiva spenderlo prima che venisse sequestrato. La democrazia italiana è diventata all’improvviso scalabile, e il successo repentino della Lega salviniana e del M5S ne è la prova. Cosa sta succedendo? Perché i partiti hanno smesso di stampare manifesti, organizzare eventi, investire in comunicazione?

Perché mancano i soldi.

Il buco della Lega è solo la punta dell’iceberg. Persino Forza Italia è in difficoltà, Berlusconi non paga più i debiti. Ma prendiamo il PD, erede delle due più radicate tradizioni politiche della Repubblica Italiana: non se la passa bene. Non trova più la sua identità, non trova più la sua unità, ma fa anche una certa fatica a trovare i soldi. Continua a licenziare i propri dipendenti, in un progressivo ridimensionamento che sembra non aver fine. Anche nelle regioni dove è più radicato, le Feste dell’Unità (talvolta ribattezzate “Democratiche”) sempre più spesso chiudono in rosso. È il tramonto di un modello che si basava sul volontariato degli attivisti, giovani operai e pensionati, e poi col tempo sempre meno giovani e operai e sempre più pensionati. Era chiaro da almeno vent’anni che le Feste non avrebbero retto il passaggio di consegne a una generazione più precaria e meno attivista: c’era il tempo per trovare nuove forme di autofinanziamento, ma i quadri del PD non sembrano essersene molto preoccupati.

Può darsi che considerassero i ricavi delle feste delle briciole: il grosso delle entrate arrivava dallo Stato, ma ecco: i dirigenti del PD hanno fatto di tutto per ridurre anche quello. Fu il governo Letta, nel 2014, a ottenere dal parlamento la sostanziale abolizione dei rimborsi elettorali. Non era una semplice concessione al pauperismo del Movimento grillino: già in una delle prime Leopolde Renzi sosteneva che il finanziamento pubblico andasse “abolito o drasticamente ridotto”. Ma a quel punto dove avrebbe trovato il PD i soldi per fare politica? Guardando alla trionfale campagna di Obama, Renzi chiedeva di favorire il finanziamento privato “attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità”. Insomma si immaginava che gli imprenditori gli avrebbero dato una mano contro Berlusconi, che tenerezza – ma in quel momento era in fase crescente, Marchionne si era incuriosito, Farinetti era entusiasta. Sembra passato così tanto tempo (continua su TheVision).

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Crepuscolo del preside sceriffo

[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision]. Il preside-sceriffo ha i giorni contati. In realtà non ha mai fatto in tempo ad appuntarsi la stella sul petto e appoggiare gli speroni sulla scrivania. L’Italia non è mai stata quel tipo di Far West, e ormai è tardi per cominciare.

Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell’istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d’accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una “posse) per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un “comitato di valutazione“, nominato da docenti e genitori.

Più tardi aveva preso piede l’espressione “chiamata per competenze“, e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla “chiamata diretta”, ma “chiamata per competenze”, ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle “competenze” dei candidati, certificate dal curriculum. Ma “chiamata per curriculum” sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout “competenza” negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la “competenza” dei candidati all’insegnamento, previa lettura del curriculum.

Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: “i presidi potranno formare la loro squadra“. Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l’immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d’Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.

Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant’è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell’allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l’appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che “la meritocrazia è di sinistra“; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.

Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio… (continua su TheVision).

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Che cultura ti fai col bonus cultura

[Questo pezzo è apparso ieri su TheVision]. C’è stato un mattino, sulla fine della primavera, in cui i nati nel 2000 e nel 2001 si sono svegliati con 500 euro in meno. Il Consiglio di Stato si era appena accorto che il governo Gentiloni non aveva lasciato scritto dove avrebbe preso i 200 milioni di copertura necessari; il neoministro Bonisoli, bocconiano di area 5Stelle, ha pensato bene di farsi conoscere al grande pubblico con una dichiarazione roboante e piuttosto maldestra: facciamo venire la fame di cultura ai giovani, rinuncino a un paio di scarpe. Ben fatto ministro Bonisoli, ora tutti immaginiamo i tuoi figli calzati con scarpe da 500 euro.



Persino in questa fase di luna di miele, in cui gli esponenti del nuovo governo raccolgono applausi anche quando suggeriscono schedature su base razziale, l’uscita di Bonisoli deve essere stata giudicata disastrosa se nel giro di 48 ore ha dovuto rimangiarsela: da qualche parte i 200 milioni sono stati trovati, il bonus ci sarà anche nel 2019. In commissione cultura i senatori 5Stelle non hanno smesso di borbottare: è solo una mossa elettorale, se davvero si tratta di promuovere la cultura tra i giovani ci vorrebbe qualcosa di più strutturale. Sagge parole che non costano nulla: senz’altro si può fare qualcosa di più “strutturale” che infilare 500 euro in tasca ai 18enni (con l’obbligo di spenderli in sei mesi), ma cosa?



Bisognerebbe fare un ragionamento più ampio sul concetto di cultura; servono idee, serve tempo. Cinque anni fa Matteo Renzi non ne aveva: doveva svecchiare l’immagine della sinistra e ampliare il suo bacino elettorale in tempi brevissimi. I bonus un po’ a pioggia, ai giovani, ai docenti, agli impiegati, non erano una misura né strutturale né elegante, ma facevano notizia e all’inizio sembravano funzionare. Oggi il M5S, ancora impegnato in una delicata campagna per i ballottaggi, non si trova in una situazione così diversa: per gareggiare con le sparate quotidiane di Salvini non può permettersi di scoprirsi su nessun fronte; se la cultura giovanile non è la sua priorità, Di Maio non può nemmeno rischiare di passare per il politico che ha tolto ai diciottenni 500 euro di libri, o addirittura di scarpe – Bonisoli, ma che ti ha detto il cervello? Proporre ai 18enni di fare a meno delle scarpe. Maria Antonietta in confronto con quella cosa della brioches fu una grande comunicatrice (in realtà non disse mai quella cosa delle brioches. L’ho scoperto su Wikipedia).



Insomma il bonus elettorale resta, e la discussione su cosa sia la cultura e su quale sia il modo migliore di promuoverla è rimandata a data da destinarsi. Se vi va possiamo cominciarla qua sotto, gratis. Partirei da un’osservazione empirica: a 18 anni, non so voi, ma io non è che ne capissi molto in generale. Ero un coglione. In altri Paesi europei mi avrebbero aiutato a uscire di casa o a trovare un lavoro; ma se mi avessero infilato in tasca 500 euro e mi avessero costretto a spenderli in “cultura”, li avrei spesi in stronzate. Per fortuna nessuno si era già fatto venire questa buffa idea. E siccome avevo comunque fame di “cultura”, qualsiasi cosa fosse, mi avreste trovato spesso in biblioteca. Nelle città in cui mi è capitato di vivere ce ne sono di meravigliose: le amministrazioni di sinistra in particolare ci hanno investito, aggiungendo al tradizionale prestito dei libri anche quello di CD e DVD originali (tutti con la loro brava scritta “proibito il noleggio”). Ho una grande nostalgia per i miei pomeriggi di ozio in quegli ambienti luminosi e tranquilli, ma mi domando se non rischio davvero di sembrare quel tipo di persona che cerca di infilare il gettone telefonico nell’Iphone, una volta Renzi li descriveva così. Che senso ha insistere su un luogo fisico, ancorché pubblico, oggi che la cultura tende a smaterializzarsi – noleggiare CD e DVD, nell’era di Spotify e Netflix? Un’app che produce voucher è meno scenografica di una biblioteca, ma forse è più adatta ai tempi, così come uno smartphone è più comodo di una cabina telefonica (continua su TheVision).


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Sì, non ho votato il PD; no, non mi sono ancora pentito

[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ciao, forse ci conosciamo. Sono più o meno il responsabile di tutto ciò che sta andando storto in Italia negli ultimi tempi. Hai presente quei poveretti in mezzo al mare? Se annegano li avrò sulla coscienza. Ti ricordi qualche settimana fa, quando un ministro dell’economia in pectore non escludeva di uscire dall’euro a causa della “teoria dei giochi” (scrisse proprio così), e lo spread schizzò alle stelle? Sono stato io.

No, non sono George Soros. Neanche sul suo libro paga, fammi controllare – no.

Durante gli ultimi vertici internazionali non hai avuto anche tu la sensazione che l’Italia fosse rappresentato da un prestanome imbarazzato che si tinge i capelli e mette a curriculum anche le visite alla fidanzata? No, sul serio, chi ce l’ha messo a Palazzo Chigi un tizio così? Indovina: sono stato io. E così via. Di’ un solo guaio successo negli ultimi due mesi: l’ho fatto succedere io. Proprio io.

Che non ho votato il Pd.

Eppure lo sapevo. Me l’aveva pur spiegato un sacco di gente, con ottimi argomenti. Le scorse elezioni non erano elezioni qualsiasi: stavolta era in gioco molto di più. La nostra permanenza in Europa, l’Europa stessa, la democrazia – la nostra umanità. Ricordo molto bene tutti questi discorsi, rivolti a quel bacino di elettori che in passato aveva votato Pd e che questa volta si sarebbe rivolto ad altre creature: principalmente il M5S, ma non solo. Si tratta di discorsi ai quali sono stato sensibile tante altre volte: benché abbia sempre odiato l’espressione “turarsi il naso” o “votare col mal di pancia”, più o meno è quello che mi è capitato sempre di fare, salvo stavolta: e proprio stavolta, guarda che casino ho combinato.

Adesso ogni giorno c’è qualcuno in tv o sull’internet che mi suggerisce di fare autocritica. L’altro giorno Virzì, intervistato dal Foglio, mi ha spiegato che i 5stelle sono fascisti, e che avrei dovuto arrivarci prima – no, non ho votato 5Stelle; ma ho comunque fatto perdere il Pd: avrei pur dovuto capirlo che se perdeva il Pd i 5Stelle avrebbero rivelato il loro fascismo latente alleandosi con la Lega. Queste cose si sapevano già. È un lungo discorso che si può mirabilmente riassumere in una vignetta di Staino, nata apocrifa ma poi confermata dall’autore stesso: “Fascisti, razzisti, incompetenti. Com’è stato possibile tutto questo?” “Sai, mi stava sulle balle Renzi”. Insomma tutto questo – la catastrofe umanitaria, lo spread, le figuracce internazionali – è successo perché sono antirenziano.

Magari è davvero così.

Faccio parte di un cospicuo insieme di elettori che non si trovava a suo agio, per usare un eufemismo, con molte delle proposte di Renzi. Appena ci fu l’occasione di farglielo capire (il referendum del 2016), ne approfittai. A quel punto Renzi sembrò fare un passo indietro, ma il Pd a quel punto continuò a sembrarmi un oggetto distante. In particolare la dottrina Minniti mi sembrava indifendibile, e così quando si è tornati a votare non ho votato il Pd. Per molti osservatori avrei comunque dovuto scegliere il meno peggio, il voto utile – è un discorso che capisco, ma a quel punto davvero un voto al Pd non mi sembrava più utile: al contrario, mi sembrava un voto perso… (continua su TheVision).

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Popcorn, vaccini e ghigliottine (100 anni di orgogliose sconfitte)

Sono abbastanza convinto che Renzi non abbia mai detto “Ora tocco a loro e pop-corn per tutti”, come pure ha virgolettato ieri la Stampa. Se poi davvero la frase gli è scappata, sarà successo in una conversazione privata che sarebbe scorretto strumentalizzare, come hanno fatto immediatamente i suoi avversari interni. D’altro canto è per vero che Maria Antonietta non ha mai detto “Che mangino brioches” alla folla che chiedeva il pane (ma l’aneddoto è geniale, una volta sentito non si riesce a dimenticarlo); San Lorenzo non ha mai detto “Voltami, son cotto” ai pagani che lo arrostivano; e Voltaire non avrebbe mai dato la vita per difendere le opinioni dei suoi avversari, poco ma sicuro. Sono tutte storie messe in giro, fake news, e se hanno resistito così tanto è per un motivo che dovrebbe preoccupare anche Renzi. Non sono vere, ma sono efficaci. I popcorn di Renzi  in un qualche modo somigliano a quello che per Berlusconi fu “la culona inchiavabile”: una frase mai detta ma che sintetizzava così felicemente il personaggio a cui era attribuita che a un certo punto alcuni berlusconiani la rivendicavano con orgoglio.

C’è che qualsiasi accostamento tra Renzi e il cibo
in qualche modo funziona.

Io non credo che Renzi abbia parlato di popcorn: neanche in privato. Sarebbe stato come ammettere che il suo rifiuto a ogni trattativa, orgogliosamente rivendicato dal quattro marzo in poi, più che una strategia assomiglia alla reazione puerile di un ragazzo escluso dai giochi, che si siede sugli spalti e spera che i contendenti rimasti si picchino a sangue. “Popcorn per tutti” contiene in sé tutto un mondo di sbruffoneria, introducendo anche l’idea di una piccola corte di amici che i popcorn dovrebbero prepararli e gustarli col capo. È a ben vedere una parodia dell’hashtag #ToccaALoro, e Renzi francamente non sembra così autoironico. Certo, se nei prossimi mesi succederà qualche disastro, è probabile che l’espressione gli sarà ritorta contro: hai voluto i popcorn? In realtà no, Renzi non li ha voluti: ma ha pur sempre lasciato intendere che i disastri erano inevitabili o che il suo Pd almeno non avrebbe mosso un dito per evitarli. Una nuova crisi dello spread, una catastrofe umanitaria nel mediterraneo, sono tutte eventualità non così implausibili con Salvini e Di Maio al governo, ma Renzi non sta dando l’impressione di preoccuparsene più di tanto. Nei piani, questo atteggiamento dovrebbe riconciliarlo con gli elettori, una volta che si stancheranno delle promesse non mantenute da M5S e Lega. Si fa un torto a definire questo scenario “strategia del popcorn”? Magari sì, però funzionerebbe: facile da ricordare, scoppiettante, un po’ irresponsabile e non troppo sano.

Nei prossimi mesi, se il governo Di Maio-Salvini va in porto, due partiti populisti che si presentavano alle elezioni come diretti concorrenti troveranno un terreno comune e occuperanno i palazzi del potere. Gestiranno le forze dell’ordine. Avranno la possibilità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la Rai, che tende sempre a riposizionarsi secondo la maggioranza, mentre difficilmente il conflitto di interessi della Mediaset sarà ritoccato. Con o senza il “benevolo” Berlusconi, Lega e M5S avranno tempo e agio per modificare la legge elettorale a loro piacimento: in fondo lo fanno tutti i partiti che vincono le elezioni in Italia. Tutti questi rischi, una buona parte del Pd ha deciso di correrli; ha pensato che ne valesse la pena. Questa idea che l’avversario politico si combatta non ostacolando la sua ascesa al potere, da dove viene? Purtroppo non è un’innovazione dei renziani, anzi: è uno dei tratti che più li accosta alla tradizione della sinistra italiana.

La strategia del popcorn ha nobili precedenti. Il più immediato è il vaccino di Montanelli… (continua sul Post).

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Players win and Renzi plays

Matteo.

Un attimo.

Matteo dovresti andare via.

Ho detto un attimo.

È già da molto tempo che sei qui.

Sto per andarmene.

E hai già perso molto.

Sì ma all’inizio avevo vinto molto.

Hai perso più di quello che hai vinto.

È così…

È così.

…se me ne vado adesso.

No, Matteo, no.

Perché se invece adesso vinco…

Ma non vinci più Matteo.

E perché non dovrei vincere, sentiamo.

Non funziona così.

Hai visto come ho ridotto Di Maio? Il M5S? Hai visto come li ho mandati a sbattere?

Non li hai mandati a sbattere.

Si sono rimessi a chiedere il referendum sull’Euro, capisci? Li ho fregati.

Hai chiuso al M5S e loro a questo punto si preparano a un’altra campagna elettorale. Slegano il Beppe, è normale.

è orgoglioso

Grazie a me.

Cos’hai ottenuto, Matteo?

Stavano mettendosi a ragionare, e io…

Stavano calando nei sondaggi.

Li ho mandati a sbattere!

Gli hai fatto slegare il Beppe. Così risaliranno nei sondaggi. E se si va a votare?

E se si va a votare magari vinco io.

Non vinci tu, Matteo.

Ho dimostrato di essere più affidabile.

Non è una gara che vince il più affidabile.

E chi lo sa. Magari al prossimo giro…

È patologica questa cosa, Matteo.

Ma ti ricordi che all’inizio vincevo?

È un po’ questo il problema. Quella voce nella testa che ti dice…

Se all’inizio vincevo, perché non posso vincere di nuovo?




C’è gente che si è rovinata ascoltando quella voce, Matteo.

Stai insinuando che mi lasciassero vincere per illudermi? Perché sapevano che comunque alla fine avrei lasciato alla cassa anche la camicia? Stai dicendo che sono stato un pollo tutto il tempo?

Sto solo dicendo che dovresti andartene.

Se ora me ne vado sarebbe come ammettere che sono stato un pollo tutto il tempo.

Mentre se resti…

Mentre se resto e faccio un ragionamento serio sulle forze in campo, io…

Quali forze in campo, Matteo? Hai tagliato i finanziamenti ai partiti e stai giocando contro il primo gruppo editoriale italiano e una startup che per prendere un voto spende un decimo di quel che spendi tu

Ma che ragionamenti sono.

Sei tu che volevi fare un ragionamento serio sulle forze in campo. Alle ultime elezioni non avevi i soldi per i manifesti.

Le elezioni non si vincono più coi manifesti. C’è internet.

Tu non stai usando internet benissimo, Matteo.

Forse c’è qualcosa da rimettere a posto, ma…

Va bene, allora esci un attimo a rimettere a posto le cose. 

Se esco un attimo non mi fanno rientrare più. Ci avrò fatto la figura del pollo.

Mentre se giochi un altro gettone…

Magari è quello buono.

Neanche se fosse una slot, Matteo. Neanche se ti stessi giocando i tuoi soldi, e non l’immediato futuro di un Paese popoloso. Neanche se fossi da solo in un bar alle cinque del mattino con quel che resta dello stipendio che hai tirato la settimana scorsa, Matteo. Neanche in quel caso…

Io ci provo.

…Sarebbe una buona idea

Cosa ho da perdere?

Now I’m down a little, in fact, I’m down a lot
I’m on a roller coaster ride that I can’t stop
Yeah, my luck has changed, but she’ll come back
That’s the beauty of a game of chance
I can’t lose forever, but I’m doomed to try
Because I keep on hearing a voice inside

Players win and winners play
Have a lucky day

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Perché non ti dai pace, Matteo Renzi?

E dunque ieri sera Matteo Renzi – quello che si era dimesso da segretario del PD, dopo la batosta elettoraleera in prima serata su Rai1, intervistato da Fabio Fazio. Matteo Renzi, che in teoria nel suo partito non ricopre più nessun incarico, a Fabio Fazio non ha raccontato le sue avventure di senatore del collegio di Scandicci, ma ha spiegato che un confronto con Di Maio lo farebbe con lo streaming. Poche ore prima sul Corriere, lo stesso Di Maio aveva pubblicato una letterina-ultimatum in cui i punti salienti di un eventuale accordo si leggevano con chiarezza: reintroduzione dell’articolo 18, assunzione di 10.000 nuovi agenti di polizia, ridiscussione del trattato di Dublino, del Fiscal Compact, eccetera eccetera. Proposte senz’altro discutibili, probabilmente non tutte attuabili, ma in un qualche modo concrete. Matteo Renzi non le ha discusse: Matteo Renzi ha spiegato che gli piacerebbe di nuovo fare il gioco dello streaming. Quella deriva da reality show per cui, giustamente, una volta si prendevano in giro i Cinque Stelle. E infatti loro hanno smesso: adesso hanno un altro tono, mettono proposte nero su bianco, insomma a loro modo stanno crescendo. Matteo Renzi invece vuole lo streaming. Probabilmente ha già preparato qualche frase memorabile, qualcosa di immediatamente hashtaggabile, come “Beppe esci da questo blog!” Forse ve lo ricordate.

Forse no.

Però continuiamo pure a prendere in giro il Movimento Cinque Stelle perché è un partito che nasconde dietro gli streaming una struttura di potere sostanzialmente opaca. Mica come il PD, un partito che elegge i suoi rappresentanti in modo autenticamente democratico.

Ma insomma ieri sera Matteo Renzi – quello che un mese fa aveva detto che sarebbe rimasto zitto per due anni – è andato in prima serata e in sostanza ha fatto a pezzi qualsiasi speranza di un accordo tra M5S e PD. Certo, la decisione non spetta a lui ma al massimo alla direzione del PD che si deve ancora democraticamente riunire perché è gente che lavora e doveva organizzarsi per il ponte (così ha spiegato il presidente del PD, Orfini).

In realtà la direzione avrebbe dovuto riunirsi più di una settimana fa ma i renziani l’hanno fatta democraticamente saltare. Tutto questo accade forse perché Matteo Renzi pensa che dopo aver detto no a Fico e Di Maio, non si potrà che tornare alle urne: e nelle urne lui non sa cosa potrebbe succedere. Perlomeno a Fazio ha spiegato così. Ovvero, di sondaggi ne sono stati pubblicati ormai parecchi, e benché sia necessario sempre premettere che in Italia non ci beccano mai, bisogna dire che sono tutti concordi su un fatto: Lega e M5S stanno crescendo, anche se litigano. L’unico momento in cui il M5S è apparso in flessione, è quando per un attimo è apparsa credibile un accordo di governo M5S e PD. I sondaggi dicono tutti così ma Matteo Renzi, senatore di Scandicci, non è così sicuro. Chi lo sa. Magari invece se si rivota a ottobre vince lui. O magari perde un po’ meno di stavolta. Cosa ha da perdere in fondo. Riproviamo (Continua su TheVision).

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Democratico, troppo democratico

Piccolo esperimento mentale. Supponiamo che da un momento all’altro un economista italiano di un certo rilievo dichiari il suo appoggio per il Movimento Cinque Stelle. Riuscite a immaginare lo stesso economista, dopo pochi giorni, tentare di dettare la linea al Movimento, magari minacciando di stracciare una tessera appena presa? Nel M5S sarebbe impossibile.

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Infatti è appena successo nel Pd, onorato all’indomani della sconfitta elettorale dall’adesione via twitter del ministro Calenda. Dopo poche ore Calenda già spiegava al Pd cosa doveva fare e non fare per non perdere la sua preziosa adesione. Provate a immaginare la stessa situazione nella Lega, o in Forza Italia – non ha senso. Nel Pd non è nemmeno la prima volta. Ogni tanto arriva qualcuno, prende la tessera e spiega agli altri cosa deve fare il partito.

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La stessa avventura renziana, in fondo, è cominciata così: appena otto anni fa anche l’allora sindaco di Firenze era sostanzialmente un outsider. Quel che è successo dopo, a ben vedere, non ha molti precedenti nella storia dei partiti italiani: in una manciata di anni, grazie a un paio di consultazioni di base (le Primarie!), l’outsider si è preso il partito di cui è tuttora, malgrado le dimissioni ufficiali, il leader più rappresentativo. È una traiettoria impensabile in partiti-azienda come Forza Italia o M5S; molto improbabile nella Lega, che ormai è a tutti gli effetti il partito italiano più vecchio in parlamento, l’unico che mostri ancora vagamente una struttura tradizionale novecentesca. Forse è la prova che il Partito Democratico è davvero democratico; di certo è la dimostrazione che è un partito straordinariamente scalabile: che chiunque abbia una visione e un po’ di sostenitori – e di finanziatori – può davvero entrare e cominciare a dettare la linea. Gli altri partiti non sono così e gli altri partiti, bisogna ammetterlo, non perdono così tanti voti (più di sei milioni in dieci anni). A questo punto si tratta di capire se quello che doveva essere il punto di forza del Partito Democratico non si sia rivelato la sua principale debolezza: se i segni di vitalità che ci sta mostrando in questi giorni (incontri, dibattiti, correnti che nascono) siano un segno promettente o gli ultimi rantoli di un’entità che non si rassegna al declino. Il Pd non è certo l’unico partito a strutturarsi in correnti, ma è l’unico in cui le correnti diano la sensazione di poter nascere, agglutinarsi, defluire, nel giro di pochi anni o mesi. Matteo Richetti ne ha appena tenuta a battesimo una, “Harambee”, affrettandosi a spiegare che si tratta di una parola swahili che non ha un vero e proprio senso: una generica affermazione di volontà e unione, una specie di “daje”, “oh issa”: non che l'”I care” di Veltroni e il “Big Bang” di Renzi alludessero a significati molto più complessi, ma insomma la sensazione è che siano finiti non soltanto i contenuti, ma ormai anche i nomi per chiamarli.

Il fatto è che in questi dieci anni di vita ormai il Pd le ha provate tutte… (continua su TheVision).

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Osanna Matteo (e addio)

La domenica delle palme mi domando seriamente cosa succederà a Renzi, e se mi devo preoccupare per lui. Che possa starsene zitto e buono a Palazzo Madama su uno scranno dell’opposizione, è una cosa che non riesco a immaginare – lui è quello che non andava alle direzioni del Pd quando era un membro della direzione del Pd, finché non è stato eletto segretario del Pd. Cioè non è che non sia in grado di stare all’opposizione: secondo me non è proprio fisicamente in grado di stare seduto a lungo mentre sente parlare gli altri. Una seduta, due, ma poi? Non ci si può nemmeno portare dentro lo smartphone.

Ecco l’agnello

Epperò lo schema è quello: #ToccaALoro (come ogni schema renziano, ha il suo geniale hashtag). Lo si è visto con l’elezione dei presidenti delle camere. Se c’era una minima possibilità di piazzare qualche mina nella terra di nessuno tra Centrodestra e M5S, di sabotare l’accordo di governo prossimo venturo, il Pd si è ben guardato dal coglierlo. È che questo Pd, oltre a non avere nessun genio tattico sul campo, ha una sola, infantile, strategia: l’arroccamento all’Opposizione. Vi guarderemo governare, ah-ah, vediamo cosa combinate. È uno schema apocalittico, ovvero prevede una catastrofe – anzi la auspica! – prima della salvezza finale. Io non credo nella salvezza finale, e trovo che le catastrofi vadano scansate giorno per giorno, senza melodrammi e con applicazione. Sono un riformista. Ho tanti amici apocalittici, ci ho sempre litigato. Di solito erano anarchici, rifondaroli, movimentisti vari, insomma mi precedevano da sinistra. Adesso a sognare la fine dei tempi e la vita-nel-mondo-che-verrà sono i renziani. Non è un buon segno.

E poi penso a Spelacchio.

L’unico albero di Natale di cui ci ricordiamo ancora a Pasqua. Ma secondo me è un simbolo eloquente. Quando il M5S vinse alle comunali di Roma, si pensava che non avrebbero potuto durare. Al primo disastro la gente avrebbe smesso di amarli. La gente evidentemente non funziona così – non pretendo di capire come funziona la gente, ma insomma guardate com’è andata con Spelacchio. La gente che sceglie il M5S, i disastri li mette in conto, ci si affeziona persino.

Il Pd continua a pensare (Renzi continua a pensare) che un eventuale governo M5S-Lega con Berlusconi jolly esploderà subito disgustando gli italiani, ma perché dovrebbe succedere? Anche se Salvini e Di Maio combinassero dei disastri, la gente ci mette del tempo a disamorarsi. Solo a Gesù è capitato di farsi condannare a morte dalla gente che l’aveva osannato cinque giorni prima. Chissà poi dove aveva sbagliato Gesù. Molti sono convinti che fu quella chiassata coi mercanti del tempio, ma forse c’erano equivoci più profondi, per esempio, riavvolgiamo un attimo il nastro, quella famosa folla osannante alla domenica delle Palme, cosa stava osannando esattamente? Cosa vuol dire “osannare”?

Buffo, non è affatto chiaro. Ovvero: il termine ebraico deriverebbe da un salmo, ma il senso dovrebbe essere “salvami”. Nei vangeli diventa un grido di esultanza, ma nell’antico testamento era una supplica. Insomma forse Gesù e i suoi seguaci di Gerusalemme non si capivano. Del resto l’ebraico ai loro tempi era già una lingua morta, e poi si sa che Gesù era un forestiero, chissà che strano accento aramaico si conservava in Galilea. Ecco, la tragedia di Renzi mi sembra quella di un uomo che a un certo punto si è visto portare in trionfo ma non ha capito il perché. Pensava che fosse amore, ma forse gli stavano chiedendo qualcosa e non ha compreso cosa. Se solo si potesse riavvolgere davvero (ma certo che si può, pensa lui).

Eh, ma solo il semo che muore dà buon frutto,
credo che la Bibbia dica così,
più o meno.

Oggi è la domenica delle palme e se Renzi va a messa non potrà impedirsi di pensare alla sua storia: osannato nel 2014, fustigato nel 2018, e secondo lui il meglio deve ancora venire. Secondo me no: e mi dispiace, ma se c’era un equivoco è un po’ tardi per capirlo. Se invece c’è da fare una colletta per trenta denari, posso anche partecipare. Niente di personale, ma come diceva il sacerdote? è meglio che paghi un uomo piuttosto che tutto un popolo.

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Muoia Sansone e… chi sono i Filistei?

Sansone, martire di Israele


Contro Sansone, eroe biblico dalla forza erculea, i Filistei nemici di Israele non avrebbero avuto nessuna possibilità: finché Dalila non glielo fece trovare addormentato sulle sue ginocchia, e non ne rivelò il segreto: la forza di Sansone era tutta nei capelli. I Filistei lo rasarono, lo incatenarono, lo accecarono e lo portarono nel loro tempio per bullarsi. Poi siccome erano i cattivi di un libro della Bibbia – e quindi sostanzialmente stupidi – si dimenticarono di rasarlo con regolarità e ovviamente il risultato fu che Sansone riacquistò le sue forze e durante una festa, sollevando l’architrave del tempio, ne schiacciò più di quella volta che ne aveva fatti fuori un migliaio a mascellate d’asino. Ma soprattutto in quell’occasione ebbe modo di dire: Muoia Sansone con tutti i Filistei.

Sansone è l’esempio biblico dell’eroe che si auto-immola per creare più danni possibili al nemico. Qualcosa di più violento e radicale del paolino Cupio dissolvi: desidero essere annullato, sì, ma solo per annullare insieme a me un più grande male che mi circonda. Mi è impossibile non pensare a Sansone in questi giorni, quando leggo affermazioni di dirigenti e militanti Pd, tutti comprensibilmente un po’ accecati dallo choc di una sconfitta (che in realtà non era così imprevedibile: però fa male lo stesso). Gli elettori ci vogliono all’opposizione, sento dire. Ancora una volta mi sembra che venga frainteso il senso di un’elezione parlamentare: non è un referendum sul governo. I cittadini eleggono dei rappresentanti alla Camera e al Senato: a questi rappresentanti spetta la decisione di sostenere o no un governo. Esistono coalizioni di governo in tutto il mondo, in particolare in gran parte delle democrazie parlamentari europee, composte anche da partiti che hanno preso percentuali inferiori al 19% del Pd (gli alleati della Dc nel Pentapartito prendevano molto meno e governavano senza che nessuno trovasse la cosa anticostituzionale).


Se cerchi “Sansone” nell’archivio del Post trovi Hedy Lamarr,
ok, non ho obiezioni.
È pur vero che gli elettori non hanno espresso una maggioranza assoluta per il Pd, ma era anche inverosimile che succedesse; tanto che già prima delle elezioni molti si aspettavano una possibile convergenza post-elettorale tra Pd e Forza Italia: una cosa che avrebbe ripugnato molti elettori di entrambi i partiti, ma che si sarebbe comunque fatta senza troppi piagnistei. Gli elettori non l’hanno voluta, ma se è per questo non hanno scelto nemmeno quel governo M5S+Lega che molti rappresentanti del Pd ora sembrano invocare così come Sansone invoca la fine per sé e per i Filistei. Gli elettori di sicuro quando hanno votato a fine inverno non hanno espresso nessun desiderio di tornare a votare a fine primavera: ma se Salvini non vuole governare né col M5S né col Pd, e il Pd non vuole governare né con Salvini né col M5S, che altro possiamo fare?

Possiamo restare calmi. A dispetto di tutti i commenti urlati di questi giorni, uno stallo di questo tipo non ha nulla di eccezionale: è abbastanza normale ogni volta che il voto popolare si coagula intorno a tre o più poli di attrazione invece che due (e no, la soluzione più sensata e democratica non è regalare un premio a chi arriva primo anche per uno scarto minimo: non è Formula 1, è democrazia). In Germania, dopo un risultato elettorale un po’ meno complicato del nostro, ci sono voluti sei mesi per trovare un accordo di governo tra i Cristiano-democratici della Merkel e i socialdemocratici che, almeno all’inizio, sembravano non aver lasciato nessuno spiraglio. In Italia una crisi al buio di sei mesi non si è mai vista: persino nei momenti più spensierati della prima repubblica, quando l’Europa non ci stava addosso e il debito pubblico cominciava a essere abbastanza grande da badare a sé stesso, non è mai capitato di tornare alle urne senza aver tentato nemmeno un governicchio di un anno o due. Questo magari non significa niente. Però i precedenti ci lasciano pensare che nelle prossime settimane molte porte che sono state sbattute in modo teatrale si riapriranno, in modo discreto, anche se il cigolio potrà urtare chi dai politici si aspetta prima di tutto coerenza. Molto dipende anche da come andranno i mercati: il famoso spread potrebbe tornare a farsi sentire e a innervosire elettori ed eletti (forse più dell’instabilità politica italiana dovrebbero preoccuparci le bizze protezioniste del presidente USA: qualsiasi governo avremo tra tre mesi, se scoppia una guerra commerciale saremo comunque nei guai).


Se è veramente troppo presto per capire come andrà a finire, possiamo nel frattempo registrare una notevole mutazione in atto: il PD, il partito che fino a qualche giorno fa era considerato il partito della responsabilità, del Principio di Realtà, dopo il pessimo risultato sta cambiando completamente pelle – sembra aver indossato la pelliccia leonesca di Sansone. Non perché Renzi si sia dimesso (peraltro, anche dimesso, continua a dettare la linea), ma perché nel giro di poche ore si è trasformato nel partito della ripicca, della recriminazione, della fantasia di rivalsa. Gli stessi dirigenti che per mesi ci hanno preparato emotivamente a una scelta dolorosa ma responsabile (pensavano che avrebbe vinto Berlusconi, e che si sarebbero messi d’accordo con lui), quando hanno vinto Salvini e Di Maio hanno improvvisamente mandato all’aria la responsabilità, il bene del Paese e tutto quanto. Governino gli altri, e vediamo di cosa saranno capaci. “Aspetto con ansia ius soli, stepchild adoption per le coppie gay e lesbiche e legge contro l’omotransfobia”, annuncia Ivan Scalfarotto, e il suo sarcasmo lascia un po’ perplessi: non solo immigrati e gay non avranno nulla di ciò (è colpa loro se il Pd ha perso?), ma è abbastanza facile immaginare che un governo Salvini revochi quei pochi, soffertissimi passi avanti che erano stati fatti fin qui: quante speranze ha di resistere il Ddl Cirinnà?

Ogni richiamo alla responsabilità – e capisco che possano suonare stucchevoli, spesso da personaggi che nemmeno hanno votato il Pd – viene respinto al mittente con un tono esasperato che imbarazza lo spettatore: sembra di avere davanti un quarantenne in crisi di mezza età che dopo una delusione professionale o sentimentale si tappa in casa dei suoi: vediamo cosa fa il mondo senza di me. Chi si comporta in questo modo di solito è realmente convinto che il mondo non possa fare senza di lui: uno psicanalista prestato alla cronaca politica potrebbe trovare definizioni molto drastiche (dov’è Recalcati quando serve?) Quel che da lontano può sembrare narcisismo potrebbe però rivelarsi una scelta strategica sensata: chi in questi giorni soffia sulle braci del rancore piddino, sbarrando la strada a qualsiasi possibilità di collaborazione col M5S, cosa immagina che succederà? Qual è il suo piano?


L’altro ieri c’è stata una direzione del Pd e Matteo Renzi, segretario dimissionario, non c’è andato. In compenso ha concesso a Cazzullo, sul Corriere, un’intervista che lascia perplessi, in cui conferma le sue dimissioni e… nel frattempo detta la linea, poi ribadita in direzione dal reggente Martina: no a qualsiasi alleanza, staremo all’opposizione. Ma è un altro il punto dell’intervista dove Renzi svela la sua prospettiva: non quando racconta a Cazzullo che nei prossimi anni ha intenzione di fare il senatore (“non ci crede nessuno”, reagisce Cazzullo, e noi con lui), ma quando afferma, un po’ a sorpresa, che nessuno dei due schieramenti vincitori ha intenzione di tornare subito al voto perché “prenderebbero la metà dei parlamentari che hanno adesso”.


Un’affermazione piuttosto azzardata (continua sul Post).

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Perché ci siamo stancati così presto di Matteo Renzi?

Come ha fatto Matteo Renzi a bruciarsi così presto? Appena quattro anni fa portava trionfalmente il Pd oltre la soglia storica del 40% alle europee (con un’affluenza all’epoca del 58%, contro il 73% delle recenti politiche). Berlusconi era un relitto, la Lega stava al 6%, gli stessi Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sembravano ormai due vecchi guru disorientati che avevano fatto il loro tempo. La vera novità era Renzi. Il Pd ormai era il suo partito, ben presto anche Palazzo Chigi sarebbe stato suo.
Qualcosa deve evidentemente essere andato storto, perché quattro anni dopo, lo stesso Pd è fermo sotto il 20%, e Renzi sembra diventato una macchietta triste, su cui i giornalisti infieriscono impietosi. La spiegazione più accreditata è che stia scontando l’esperienza di governo: il potere logora, nessun centrosinistra europeo viene confermato alle elezioni, eccetera. Questo spiegherebbe una sconfitta, ma forse non una batosta del genere.

the-vision-renzi

Aggiungi che l’azione di governo di Renzi è stata tutt’altro che disastrosa, e malgrado Bruxelles gli lasciasse esigui margini di manovra, è riuscito a redistribuire qualche risorsa. Ha infilato 80 euro nelle buste paga dei dipendenti, altri 500 nel bonus cultura dei 18enni, ha tolto l’Imu sulla prima casa – misure e misurine non sempre raffinate, ma che qualche effetto sull’aumento dei consumi possono averlo avuto. Ha anche abbassato il canone Rai (aumentando il gettito, un piccolo capolavoro che agli evasori storici però non è piaciuto). Ha ottenuto risultati notevoli nella lotta all’evasione fiscale (e nel frattempo chiudeva l’odiata Equitalia); ha investito nell’edilizia scolastica e nel sostegno della natalità. Non è tutto oro quel che luccica, in particolare il Jobs Act e la Buona Scuola sono leggi molto controverse, ma un bilancio provvisorio non potrebbe essere che positivo. Il Pil è aumentato, la criminalità è diminuita.
Tutti questi risultati Renzi avrebbe dovuto difenderli in campagna elettorale, ma non ci è riuscito. La spiegazione ufficiale è la solita, c’è un problema di comunicazione. Renzi & co. fanno un sacco di cose buone, ma non riescono a spiegarle alla gente. Forse era più facile quattro anni fa, quando Renzi era ancora un rottamatore all’assalto di un partito tradizionale, mentre adesso si trattava di giocare in difesa, di rassicurare. Ma i tempi in cui Mitterand vinceva con lo slogan “La forza tranquilla” sono ormai passati, e nel grande mercato delle notizie i messaggi rassicuranti funzionano meno degli allarmi strillati in tv e sui social. Minniti può adoperarsi in tutti i modi per dimezzare gli sbarchi, ma la gente non smette di credere che dall’Africa sia in atto un’invasione, o che la disoccupazione stia aumentando vertiginosamente malgrado l’Istat registri un lieve calo. Vince chi strilla, e Renzi – pur nato strillatore – una volta al governo doveva per forza cambiare registro, ma a quel punto non ha più trovato il suo. Se è così, la sua sconfitta era inevitabile, così com’è inevitabile la sconfitta di chiunque governerà da marzo in poi, leghista o grillino o chissà. Uno può anche pensarla così.

Io la penso diversamente. Su una cosa sono d’accordo con Renzi e i suoi: è vero che c’è stato un serio problema di comunicazione. Ma non perché Renzi non sia capace di comunicare. È che secondo me stavolta non ha proprio comunicato (continua su TheVision).

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Marco Minniti ha visto un mostro


Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.

Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere… (continua su TheVision)

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Il M5S non ha tutta questa voglia di uscire dall’Euro

La novità delle ultime ore è che finalmente Luigi Di Maio, leader elettorale del Movimento Cinque Stelle, ha voluto dirci se lui uscirebbe dall’Euro o no. Messo alle strette da Myrta Merlino all’Aria che tira (La7), ha ammesso che: nel caso in cui si arrivasse a un referendum; come extrema ratio; dopo averle provate tutte; se proprio l’Europa non ci volesse ascoltare… Di Maio voterebbe per uscire. Anche se le cose non stanno più come nel 2013, ha spiegato, l’Europa sta cambiando, ci sono molte opportunità… e a questo punto la Merlino, impaziente, ha cambiato argomento.
Insomma, è stata tutto tranne che una risposta categorica. Di Maio ha preferito dilungarsi in premesse, in distinguo, in quella cautela così tipica dei leader politici pre-Berlusconi. Se Di Maio è sempre sembrato tra i grillini il più morbido, diplomatico – insomma il più democristiano – Matteo Renzi tra i post-democristiani è sempre parso il più irruente: e anche in questo caso non ha perso tempo a replicare, via tweet“Stavolta Di Maio ha fatto chiarezza, bisogna ammetterlo: lui voterebbe per l’uscita dall’Euro. Io dico invece che sarebbe una follia per l’economia italiana”.
Dunque, i giochi sono fatti: il M5S vuole uscire, Renzi vuole restare, votate di conseguenza. Nessuna sfumatura, nessuna cautela, Renzi è così. C’è un bivio – c’è sempre un bivio per lui – e lui sa sempre da che parte stare. Il M5S promette referendum, Renzi li fa. Poi al massimo li perde. Ma se Renzi sposa la causa europeista e perde, quanto margine avranno i vincitori per fingere che gli italiani non abbiano un parere preciso sull’uscita dall’Euro? Da cui la domanda: di chi deve aver più paura, oggi, un europeista? Di un leader del M5S che glissa, prende tempo, mette le mani avanti, o di un leader del PD che abbraccia convinto la causa dell’Euro, salvo che rischia di perdere le elezioni, tornare nell’ombra e trascinare con sé anche questa causa?
Beh, in fondo perché scegliere? Possiamo avere paura di entrambi… (continua su TheVision)

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E se avesse vinto il Sì? Renzi sarebbe più tranquillo? (No)

È passato un anno da quando ce la siamo vista bella. L’Italia stava per affondare nel caos e nella recessione. Ricordate? Il 4 dicembre del 2016 gli italiani furono chiamati alle urne: ufficialmente per dare il proprio assenso ad alcune “non lievi” riforme costituzionali, in pratica per scegliere tra il Governo Renzi e la Catastrofe. Ci aveva ben avvertito Confindustria, fin dall’estate precedente: la vittoria del “No” avrebbe causato “il caos politico” e le aste dei titoli di Stato sarebbero andate deserte, con la conseguente crisi di fiducia degli investitori, fuga di capitali, svalutazione dell’Euro, recessione, pioggia di rane, invasione di cavallette. Se tutto questo non è successo, non possiamo che ringraziare la prudenza e il giudizio degli elettori italiani, che tra Renzi e l’Apocalisse hanno scelto… ehm, cos’hanno scelto?

Perché in effetti ha vinto il “No”: a quest’ora le cavallette dovrebbero essere passate da un pezzo. Qualcuno le ha viste? 

(Ho scritto un pezzo per TheVision: A un anno dal referendum la vittoria del No è stata un disastro solo per Renzi).

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Renzi sfida Renzi e Renzi perde

Forse anche voi ieri sera avete avuto la curiosità di vedere come se la cavava Matteo Renzi in prima serata su La7. Da solo, visto che Di Maio gli aveva dato buca. Anche voi a un certo punto vi sarete resi conto di assistere a uno spettacolo non imperdibile, certo, ma nel suo genere abbastanza unico: un leader politico attirato in un talk show con l’illusione di uno scontro diretto con Di Maio, poi indiretto con Di Battista, poi neanche quello, e accerchiato da un quartetto di giornalisti insolitamente agguerriti. Ne è uscito bene? Per i renziani ovviamente sì: è stato coraggioso e si è battuto come un leone. Bene, bravo, bis. Chi renziano non è – ed è anzi un po’ refrattario a farsi andare giù il personaggio – si sarà facilmente fatto l’idea opposta: lo hanno fatto a pezzi, asfaltato, e così via. Forse la verità sta nel mezzo? No, piuttosto agli estremi.
Un dibattito in TV non è un match sportivo: infatti ognuno può decidere che la propria “squadra” abbia trionfato sugli avversari, e trovare argomenti per corroborare la propria opinione. La forza deitalk show non è la sbandierata capacità di orientare un bacino di indecisi che probabilmente a quell’ora guarda altre trasmissioni, la forza dei talk show sta proprio nell’ambiguità, nella capacità di rivolgersi contemporaneamente a pubblici diversi – renziani e antirenziani, in questo caso – con messaggi antitetici: “Renzi è alla frutta!”, “No, Renzi è un leone!”. Win-win. Ha fatto bene Di Maio a tirarsi fuori e ha fatto bene Renzi ad andare. Chi dà del fifone a Di Maio non lo avrebbe comunque trovato convincente e non voterà per lui, chi detesta Renzi non avrà certo cambiato idea dopo lo show di ieri sera, perché le uniche prediche che funzionano in TV sono quelle ai convertiti.

“Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno. Non vincono, ma non perde mai nessuno. Ma io sono diverso, ho perso,” diceva Renzi durante lo spoglio del referendum, un anno fa (continua su TheVision).

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Come alienare i propri elettori e regalare le elezioni al vecchietto

Quindi Berlusconi nel 2018 potrebbe vincere le elezioni. Negli ultimi giorni chi ha letto i sondaggi – pubblici o riservati, veri o farlocchi (tanto sbagliano tutti) – sembra essersi rassegnato alla cosa. Che Berlusconi decida o no di avvalersi della faccia relativamente nuova di Salvini come candidato premier, la sostanza non cambia; l’ottuagenario già condannato per frode fiscale, già dimessosi da Palazzo Chigi in piena crisi dello spread mentre la stampa mondiale rideva delle sue “cene eleganti”, parteciperà alle sue settime elezioni legislative e potrebbe anche vincerle. Sarebbe la quarta volta in ventiquattro anni. Questo risultato senza precedenti nella storia d’Italia, Berlusconi sembra averlo ottenuto con un minimo sforzo: gli è bastato rimanere vivo, posare ogni tanto per una foto con una fidanzata giovane e un cagnolino, sopportare Salvini e in generale i suoi alleati. Il grosso della fatica sembra averlo fatto il suo apparente antagonista, Matteo Renzi; gli stessi sondaggi danno il suo Pd al terzo posto dietro il centrodestra e il Movimento Cinque Stelle.
Al contrario di B., Renzi in questi quattro anni si è dato molto da fare: nel 2012 ha perso le primarie del centrosinistra, nel 2013 ha vinto quelle del PD; ha vinto le elezioni europee, poi ne ha perse delle altre; ha sostenuto il governo Letta, poi lo ha impallinato; ha sostituito Letta a Palazzo Chigi, ma poi si è giocato la sedia con un referendum perdente; ha sostenuto il sindaco PD di Roma, poi ha impallinato pure lui; ha messo la fiducia sull’Italicum, la Corte Costituzionale gliel’ha bocciato e ha dovuto mettere la fiducia su un’altra legge elettorale che pure lo penalizzerà. Anche il suo probabile piano B (un governo di coalizione col centrodestra) sembra un’opzione disperata, se non un modo di prolungare l’agonia di una carriera politica rapidissima e già in fase calante. Matteo Renzi fino a un certo punto sembrava surfare sulla cresta di una straordinaria onda riformatrice; finché non è successo qualcosa e da lì in poi ha dato la sensazione di annaspare in una piscinetta gonfiabile. Quel che è peggio è che non sembra nemmeno aver capito cosa non abbia funzionato… (continua su TheVision).

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Finisce la legislatura, svelto! vota una legge elettorale a caso

Come forse sapete, si sta votando alla Camera l’ennesima legge elettorale – la terza in questa sola legislatura. Per evitare che venga impallinata come la penultima, il governo Gentiloni ha deciso di porre la fiducia, come fece il governo Renzi con l’Italicum tre anni fa. Come forse immaginate, la legge elettorale che verrà approvata è brutta – come del resto era brutto l’Italicum, anche se lì la filosofia era diversa. Quest’ultimo era concepito per regalare il Parlamento al leader che fosse riuscito a conquistare il 40% dei voti. Dopo le europee Renzi era convintissimo di riuscirci; pochi mesi dopo, i suoi uomini stavano già bisbigliando che forse la legge andava cambiata. La nuova legge, invece, scaturisce da un’amara constatazione: al 40% non ci arriverà né Renzi né nessun altro. A questo punto è abbastanza normale, se i partiti sono tre, che almeno due si accordino in Parlamento per rendere più complicata la vita al terzo. Specie se il terzo in questione è il M5S, che potrebbe perfino vincere la conta dei voti, ma che tra tutti è il meno disponibile alle alleanze post-elettorali.

Avremo dunque due partiti (il PD e Berlusconi +Salvini) che lotteranno come leoni fino alla mattina delle elezioni, per accordarsi come agnelli la sera dello spoglio dei voti. Questo meccanismo, che nel lessico degli osservatori politici viene chiamato “inciucio”, è universalmente esecrato, ma al momento appare abbastanza inevitabile. Nel caso i numeri lo permettessero, potrebbero esserci delle scissioni. Ad esempio, un pezzo di centrodestra potrebbe staccarsi (ricordate Alfano, tre anni fa?) e andare al governo col centrosinistra, oppure il contrario: è un fenomeno che sul finire dell’Ottocento fu battezzato “trasformismo” e che ha resistito a cinque o sei sistemi elettorali diversi. Al centro del Parlamento, nel loro dorato isolamento, i grillini continueranno a recitare il ruolo dei duri-ma-puri.

Salvo meteoriti o altre catastrofi, dovrebbe finire così… (ho scritto un altro pezzo per TheVision, si chiama: Sorpresa, la nuova legge elettorale farà schifo come le altre).

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