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La barbuta Crocifissa

20 febbraio: Santa Paola la barbuta, leggenda di Avila 

Crocefisso di Santa Wilgefortis
Museo diocesano di Graz
By Gugganij – Own work, CC BY-SA 3.0

Paola è una ragazza di Avila, Vecchia Castiglia, che si è consacrata a Dio. Un giovinastro che non è d’accordo cerca di importunarla: Paola si rifugia in una cappella e abbraccia il crocefisso, chiedendogli protezione. La protezione arriva nel modo più imprevisto: a Paola crescono all’improvviso barba e baffi. Il ragazzo, inorridito e ben poco incline alla genderfluidità, scappa effettivamente via. Paola è la variante castigliana di una figura leggendaria diffusa in tutta l’Europa cattolica (tranne che in Italia): la donna crocefissa e barbuta. Ce ne sono un po’ dappertutto e sono conosciute in ogni Paese con un nome diverso: quello portoghese, Vilgeforte, deriva evidentemente dal latino Virgo Fortis: vergine forte, coraggiosa (in Inghilterra era chiamata Uncomber, “senza pena” anche per chi la invocava, a volte contro i dolori del parto).

Una donna con la barba, quindi, è considerata più forte di una donna senza, ancorché indesiderabile. Che i digiuni scombinati intrapresi da alcune mistiche nei conventi potessero causare squilibri ormonali con annesse complicazioni tricologiche non è del tutto implausibile, ma la leggenda non sembra alludere a questo, né agli ermafroditi degli antichi miti (nessuna vergine barbuta risale a prima del 1200). La vergine barbuta potrebbe invece essere una di quelle leggende che nascono da un equivoco iconografico, ovvero in quelle situazioni in cui a un certo punto alcuni fedeli si trovano davanti un’immagine sacra che non riescono bene a spiegarsi: in questo caso una donna barbuta e crocefissa.  Ma chi avrebbe mai crocefisso una donna barbuta, e perché? 

Il Volto Santo di Lucca
Di Joanbanjo – Opera propria, CC BY-SA 3.0

In questo caso l’equivoco potrebbe essere stato generato dalla circolazione di souvenir – sì, anche nel medioevo li fabbricavano e vendevano, ma nella maggior parte dei casi si trattava di riproduzioni di immagini sacre molto famose. Ad esempio i pellegrini che transitavano da Lucca (ed erano molti) avrebbero molto facilmente riportato a casa una piccola copia del Volto Santo, il crocefisso che è il vero simbolo della città, dall’origine piuttosto misteriosa. Secondo i lucchesi risaliva ai tempi di Gesù, e non era stato scolpito da mano umana: si tratterebbe invece di un’immagine acheropita, una copia 3D del corpo di Cristo ritrovata da San Nicodemo e in seguito salpata dalla Palestina su una nave senza marinai, e ritrovata presso il porto di Luni dai lucchesi. Per molto tempo abbiamo pensato che la leggenda coprisse un’origine orientale del crocefisso, che però resta tutta da dimostrare: lo stile è meno bizantino di quanto vorrebbe sembrare, e faceva propendere i critici per un rifacimento medievale di un oggetto più antico andato perduto. Nel 2020 un esame col carbonio14 ha messo in crisi questa ricostruzione: a quanto pare il Volto Santo è davvero un oggetto molto antico, risalente più o meno all’800. Può darsi che a quei tempi e in quei luoghi fosse normale scolpire un crocefisso completamente vestito dalla testa ai piedi, con una tunica dalle maniche lunghe: non ci sono rimasti molti crocefissi dello stesso periodo, mentre alcune immagini posteriori abbastanza simili sembrano proprio basate sul Volto di Lucca, che già prima del 1000 era diventato un’immagine molto famosa e diffusa. Perlomeno da questa parte delle Alpi, dove una riproduzione del Volto sarebbe stata facilmente interpretata come un crocefisso ‘alla lucchese’. 

Nel resto d’Europa invece questa immagine, emersa dalle tasche di qualche pellegrino, lasciava perplessi: la tunica sembrava più adatta a un corpo femminile. Questo avrebbe stimolato il fiorire di leggende, tra cui si sarebbe imposta quella della figlia cristiana di un re pagano che non volendo sposare il suo promesso sposo (pagano) avrebbe pregato fino ad ottenere da Cristo quella barba necessaria a sventare il matrimonio – per essere poi crocefissa dal padre deluso e disgustato. Messa in questi termini, la storia ha avuto un discreto successo fino al Cinquecento, quando le forme più estrose della religiosità popolare sono state messe al bando sia dalla riforma protestante che dalla controriforma cattolica: anche se Vilgefortis (invocata anche contro i mariti violenti) ha resistito in qualche martirologio fino al Concilio Vaticano II, e ad Avila Santa Paola si venera ancora.

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Il papa che non volle essere grande

Arrivando a tomba già chiusa, non credo di avere molto di originale da dire su Joseph Ratzinger. In questi giorni mi tengo in allenamento scrivendo piccole agiografie, ed è anche un modo per ricordarsi com’è vacua la gloria degli uomini: trovi un papa del secondo secolo, leggi che è famoso per aver contrastato quell’eresia o quell’eresiarca, poi controlli bene e scopri che l’eresia è del secolo successivo e l’eresiarca non è mai passato da Roma, insomma è difficile trovare qualcosa di interessante da dire per tutti i papi.

Forse tra qualche secolo chi parla di Benedetto XVI si troverà nella stessa difficoltà? Non credo, e però già in questi giorni ho visto molti agiografi improvvisati isolare due episodi particolarmente equivoci: il solito discorso di Ratisbona e la solita cacciata dalla Sapienza. Per questa gente insomma è il Papa che fu criticato per aver parlato male di Maometto (ma non è vero) e perché voleva fare un discorso all’università: e non è vero neanche questo. Sono già leggende, e proprio per questo funzionano; un comunicatore professionista le poteva già liquidare al tempo come mosse false, ma in seguito avrebbe dovuto ammettere che avevano funzionato meglio di tante mosse escogitate a tavolino. Non c’è un tratto che renda riconoscibile la nuova destra conservatrice meglio del vittimismo, e in entrambi i casi, senza volerlo e magari senza capirlo, Benedetto XVI riuscì ad accreditarsi come vittima di una modernità tritatrice di valori tradizionali. 

Poco importa che lo stesso tradizionalismo di Ratzinger sia tutto sommato una cosa nuova (se non proprio posticcia): non solo Ratzinger nel suo periodo cosiddetto progressista fu uno dei teologi animatori del Concilio Vaticano II, ma anche la sua successiva virata a destra era possibile soltanto nello spazio aperto dalla Chiesa postconciliare – tutti questi nuovi tradizionalisti antigender non hanno letteralmente idea di quanto siano comunque moderni rispetto alle posizioni della Chiesa preconciliare, e di quanto poco ci avrebbe messo un Pio XII a scomunicarli tutti al minimo segno di dissidenza. Chi sta sulla frontiera disperato per l’arrivo dei barbari di solito ignora di essere barbaro di padre, di madre, a volte pure di nonna. 

L’idea che Benedetto XVI volesse imprimere una sterzata conservatrice alla Chiesa la può concepire solo l’ingenuo che non ha letto abbastanza wikipedia da sapere che Ratzinger era stato il braccio destro di Giovanni Paolo II per gran parte del papato di quest’ultimo (era il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che neanche troppo tempo prima si chiamava ancora Santa Inquisizione); la sua elezione fu immediatamente interpretata dai vaticanisti competenti nel segno della continuità – prova ne è che Benedetto mantenne l’anticomunismo radicale del predecessore anche se nel frattempo il comunismo aveva smesso di costituire una minaccia: del resto non è che puoi cambiare idea a ottant’anni, non è per questo che ti nominano papa. 

La svolta a destra fu soprattutto percepibile nei simboli: il ritorno dell’ermellino rosso, le famose scarpette di Prada (che non erano di Prada, neanche esse), perfino la scelta di un nome così tradizionale che nel 2005 era uno choc – per la maggior parte dei cristiani viventi era uno choc che potesse sussistere un papa diverso da Giovanni Paolo. La stessa apertura ai lefebvriani, che a mio irrilevante parere non la meritavano, ma che in effetti impediva loro di giocare lo stesso gioco vittimista che i vedovi di Ratzinger stanno giocando in questi giorni. La messa in latino, molto auspicata da gente che il latino non lo capisce ma tanto a messa non ci va (in linea di massima il vedovo ratzingeriano è uno che in una parrocchia media italiana non ci passa neanche a Pasqua e Natale). Tutte sciocchezze, viste da lontano: addobbi barocchi per chi non riesce a vedere la trama, ora qualche malizioso potrebbe far notare che stucchi e addobbi sono esattamente la specialità del Vaticano. Ma il Novecento ci aveva abituato a pontificati più interessanti e lo stesso Ratzinger, alla fine, non passerà alla storia per aver subito questa narrazione di pontefice conservatore perseguitato dalla modernità: il suo contributo più interessante è proprio quello più innovativo. 

La cosa più importante che ha fatto Benedetto XVI è avere rinunciato a essere Benedetto XVI: è anche la maggior rottura rispetto al papa precedente, alla visione escatonica di Giovanni Paolo II, il papa che non voleva rinunciare al suo ruolo prima di morire e che fino a un certo punto non credeva di dover morire. Non tutti i papi possono essere grandi papi, ma immagino che ci voglia una certa umiltà e autoconsapevolezza per accettare che non è capitato a te: questa umiltà e autoconsapevolezza, Joseph Ratzinger è riuscito a conservarla sul soglio papale oltre gli ottant’anni. Per questo sarà ricordato, più che per il cappellone rosso e le babbucce.

Per il resto, il suo pontificato dimostra quanto è difficile riuscire a conservare la Chiesa cattolica nella modernità tanto quanto il pontificato successivo dimostra quant’è difficile innovarla. La modernità è un cambio di paradigma che rende normali cose prima impensabili, ma soprattutto considera scandalose cose prima praticabili e praticate. Da grande inquisitore, il cardinale Ratzinger aveva potuto osservare da un punto di vista privilegiato questo cambio di consapevolezza che dagli anni Ottanta in poi ha reso migliaia di ecclesiastici, prima irreprensibili, passibili colpevoli di abusi nei confronti di bambini e adolescenti. Cosa poteva fare? 

Fino a un certo punto, credo finché gli è stato possibile, Ratzinger ha taciuto: perché concedere anche solo un caso significava ammettere indirettamente di averne insabbiate altre migliaia. A un certo punto questa strategia non era più praticabile: Ratzinger è stato probabilmente l’uomo che lo ha capito e che ha messo, nel frangente, la proverbiale “faccia”. Non era ancora stato eletto, anzi l’ammissione di una certa “sporcizia” nella Chiesa può essere stato il momento in cui ha fatto capire ai cardinali di essere in grado di prestarsi, quasi ottantenne, a un ruolo di capro espiatorio che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque altro (compreso Bergoglio, che a quanto pare nel 2005 implorò i colleghi di non eleggerlo).

Ratzinger accettò questo fardello, lo portò su di sé per otto anni in cui furono scoperchiati diversi scandali, e per tutto questo tempo reagì in un modo che personalmente trovo molto discutibile, ma allo stesso tempo non credo che esistessero altri modi per un papa di reagire: scaricando la colpa sulla modernità. Ovvero, se preti e suore toccavano i ragazzini e le ragazzine loro affidati, la colpa era della modernità che aveva portato un vento di lussuria anche nei collegi e nei conventi. Quando? Più o meno a partire dagli anni Sessanta, e quindi dallo stesso Concilio Vaticano II. Prima, niente lussuria, niente abusi. 

Chi in questi giorni voglia opporsi alla figura di Ratzinger come grande intellettuale può fermarsi su questo punto, perché per difendere l’idea che gli abusi del clero siano più un problema di modernità che di clero bisogna bendarsi più e più volte; ignorare tutti gli studi che dimostrano statisticamente quel che poi è abbastanza ovvio, cioè come i colpevoli di abusi svolgano professioni o attività a diretto contatto coi minori, ma anche mettere di nuovo a tacere voci che nella Chiesa denunciano il problema da un millennio, a partire almeno dal famoso Liber Gomorrhianus di San Pier Damiani. Il papa che ai tempi recepì le critiche di Pier Damiani con una certa moderazione fu accusato da talune malelingue di essere lui stesso un sodomita; il Ratzinger che di fronte a scandali sistemici continuava a mantenere l’idea che i collegi traboccassero di purezza e santità fino all’arrivo dei juke-box e delle minigonne, ecco lui stesso senza accorgersene non riusciva a non ispirare l’idea di essere il padrino di un’enorme confraternita millenaria di sodomiti in incognito, decisi a mantenere il segreto sul vero motivo per cui da secoli non vogliono cedere il controllo delle scuole. L’ermellino rosso, appunto, e le babbucce, e quello sguardo malizioso da cattivo del film… 

E d’altro canto cosa avrebbe dovuto fare Ratzinger? Voi cosa avreste fatto al suo posto, sul suo Soglio? Annunciare urbi et orbi va bene, scusate, fino a trent’anni fa fustigare i cattivi studenti non era un reato, e anche abusarne un po’ era considerato un peccato, sì, ma non così grave: tanto che chi sin da giovane sentiva questa inclinazione (magari dopo essere stato abusato a sua volta in un collegio) si orientava facilmente verso una carriera ecclesiastica? Come dire che ogni cultura è relativa, quel che era morboso oggi non lo è più, quello che ieri non lo era oggi invece lo è, ecco questo relativismo è difficile da accettare persino per i woke multicolore di oggi, immaginate quanto può esserlo per un papa. 

Nemmeno Francesco, che è così tanto più simpatico, può uscire al balcone e dire va bene, ogni istituzione culturale preposta all’insegnamento dei giovani ha avuto nei millenni la sua percentuale di abusatori, è un problema noto sin dalla Grecia classica ma per molto tempo non è stato IL problema, è chiaro che se sovrapponete le categorie di adesso con quello che abbiamo fatto per secoli possiamo risultare un’istituzione internazionale che garantiva ai pedofili copertura e contatti, ma è un po’ come paragonare Cortés a Hitler… ah ma voi volete anche paragonare anche Cortés a Hitler? Insomma così relativisti non siete neanche voi. 

La modernità non è il superamento dei paradigmi; è essa stessa un paradigma e forse col tempo avrà anche la sua Chiesa: ma non può essere quella cattolica che lotta per restare rilevante in Europa (e soprattutto in America e Africa, dove il relativismo è un avversario molto relativo: quello prioritario non è nemmeno l’Islam, ma il protestantesimo e in generale il turbocalvinismo di gente come Bolsonaro).

(E contro il turbocapitalismo di gente come Bolsonaro, io se c’è da difendere i cattolici, con tutti i loro enormi difetti, non credo che mi tirerò indietro).

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Un pezzo su Sanremo non me lo paga nessuno, comunque ecco gli appunti

2/2

Cioè hanno fatto la versione techno da autoscontro di Amandoti dei CCCP e l’hanno fatta cantare a una spagnola al festival di Sanremo, è un siparietto comico?



3/2
La metto giù da cretino. Checco Zalone fa un numero di repertorio (a naso è fine anni ’90) in cui recita la parte del viados. Probabilmente tra tante cose sue è stata scelta perché c’era l’orchestra, e far suonare all’orchestra la sigla delle fiabe su disco “A Mille ce n’è…” è un richiamo irresistibile per il pubblico di una certa età. Gli altri hanno anche il diritto di restare freddi.
Il bersaglio satirico primario, diciamo il livello 1, è il cittadino benestante (il re della fiaba) che esecra pubblicamente i viados ma poi approfitta dei loro servizi. È una satira contro l’ipocrisia.
Checco-Zalone, ricordo, è un personaggio, un cozzalone, anzi “Che cozzalone!”: incarna lui per primo uno stereotipo: non è come Fiorello che te lo immagini in casa esattamente come in studio e ti viene l’ansia. La sua satira è sempre almeno su due livelli, e al livello 0 c’è lui che fa il viados con l’accento brasiliano: una cosa che fa ridere perché gli stereotipi fanno ridere (anche se non sono corretti), e perché l’uomo-donna fa ridere, la confusione sessuale, fa ridere (anche se secondo me è spesso un riso d’imbarazzo, ma forse proietto).
Dunque se ho ben capito la maggior parte di chi critica il numero di Checco Zalone al livello 1 non c’è neanche arrivato. Non ha capito che il vero zimbello della storia è il re che fa finta di trovare scandaloso il viados ma in realtà è un suo cliente. Non si può dire nemmeno che non abbiano capito un sottotesto, perché non è un sottotesto: è il testo, è quello che Zalone canta nella canzone. Non l’hanno ascoltata, si sono fermati all’intonazione brasileira. C’è questo problema, che l’indignazione facile ti risparmia la fatica di ascoltare letteralmente quel che ha da dire un attore, anche un attore popolare e popolaresco come Zalone.
La maggior parte di chi critica il numero di Checco Zalone gli rimprovera di usare uno stereotipo, e qui io temo di dover sostenere che non si dà comicità senza stereotipi, e mi dispiace molto perché a questo punto qualcuno proporrà di abolire la comicità e qualcuno sospirerà: ok, se per ogni numero comico dobbiamo sorbirci critiche del genere, chiudiamola qui e riapriamo tra una generazione quando tutto sembrerà completamente nuovo e un peto con le ascelle farà il tutto esaurito (a quel tempo noi saremo i vecchi noiosi che trovano tutto scandaloso).
Qualcuno sosterrà, e potrei anche dargli ragione, che tra tanti stereotipi che CZ poteva tirar fuori il viados non era né il più fresco (la frecciata a Lapo è un indizio della deperibilità del materiale), né il più adatto a un festival che come ogni festival canoro è sempre molto più genderfluido del pubblico che intrattiene. Giusto. Io magari potrei obiettare che tutti gli spettacoli in cui uomini si travestono da donna e viceversa sfruttano questo tipo di stereotipi e questo tipo di comicità, compreso cose che hanno il loro bel sigillo di approvazione Lgbtq. A questo punto dovreste spiegare al cretino perché una drag queen può lavorare su questi stereotipi e CZ no, e cercare di convincerlo che non è una banale battaglia di posizione: CZ no perché è cisgender. Poi è vero, il contesto è tutto, la stessa parola può essere becera se la dice un etero e autoironica se lo dice un non-etero. Ma questa è la fregatura: il pubblico etero continuerà a trovarla becera, continuerà a ridere di una drag perché è buffa, non perché è liberatrice. Oppure (come il re ipocrita) ne approfitterà per solleticare in sé istinti che non ha intenzione di socializzare.

4/2 

Lo so che è tanto liberatorio, ma ho paura che se non la smettiamo tutti di bullizzare Achille Lauro perché è rimasto incastrato nel suo ruolo di trasgrescio-per-famiglie – e quando dico “tutti” intendo soprattutto te, Osservatore Romano – se non la smettiamo di fare spallucce e sì vabbe’ queste cose le ha già fatte David Bowie / Jim Morrison / Panariello nei panni di Renato Zero, poi finisce che un giorno lui sbrocca davvero e chi se ne potrebbe accorgere?, un attimo prima è lì che si prende le coccole da Mara Venier e il momento dopo estrae un blackandecker a batteria e comincia a sventrare gli orchestrali impedendo loro di completare il pensiero “queste cose le faceva meglio mio cugino che nel 1997 suonava in una cover band di Marilyn Man –

(Nel frattempo Grignani fa perdere al regista dieci mesi di vita).

5/2
C’è questo giornalista mi pare del Messaggero che ogni giorno in conferenza stampa a Sanremo fa delle domande e nessuno riesce a rispondergli: Amadeus, il direttore della Rai, quegli altri, nessuno, in compenso lo odiano e lo chiamano Mattia come se fosse il ragazzino che gli porta le bibite. Dopo due giorni che stressava per capire quanto avrebbe contato il voto della sala stampa in percentuale – due giorni in cui hanno continuato ad arrampicarsi sugli specchi declinando supercazzole e dimostrando di non avere la minima idea, probabilmente in monte a tutto c’è uno stronzo con un foglio excel blindato e non lo fa vedere a nessuno (c’è sempre uno stronzo così e senza di lui crolla tutto) – oggi ha fatto notare semplice semplice che Morandi, invitando Jovanotti oltre il termine prefissato dal regolamento (24 gennaio), ha perlappunto violato il regolamento. Non ha completato il ragionamento, ma posso provarci io: ieri Morandi ha vinto la serata, se putacaso oggi batte Mahmood e Blanco scoppia un casino. Di fronte a questa evidenza conclamata, la reazione di Amadeus è da antologia, anche se dubito la rivedremo mai nelle Teche Rai: gli casca completamente la maschera da amicone e dice: io sono una persona corretta, e se tu pensi che io non sia una persona corretta, beh ieri ho fatto il 60% “e me lo voglio godere”, quindi la correttezza c’est lui. Il direttore di rete (credo sia lui) ha aggiunto che anche lui è una persona molto corretta e tranquilla, e ha fatto bene a dirlo perché in quel momento allo spettatore occasionale poteva sembrare una persona arrabbiata che aveva consentito ad Amadeus di falsare il concorso e di ammetterlo in conferenza stampa, più che teche rai potremmo vedere il filmato tra qualche ora nella sezione pornhub degli avvocati. A questo punto, considerato che la gara è falsata, che anche quel 60% viene estratto da cadaveri di gente morta addosso all’auditel dopo tre ore di cover, che Mahmood Sanremo l’ha già vinto e l’eurofestival non lo vince neanche stavolta, io propongo come vincitore morale di Sanremo duemila-duemilaventi Mattia del Messaggero, scusa Mattia ma a furia di sentirti chiamare Mattia del Messaggero anch’io mi sono scordato il cognome. (Scherzo, si chiama Marzi).

6/2
Scusate ma mi sto innerdando con l’età: era mai successo che sul podio ci fosse solo gente che aveva già vinto? E inoltre Mahmood ha già vinto il doppio di volte di Albano Carrisi (e di Gianni Morandi).

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Sergio e Bacco: santi, sposi e gay?

7 ottobre: Santi Sergio e Bacco, martiri e patroni dei matrimoni gay

Robert Lentz, 1994
Icona per il gay pride di Chicago

A Sergio e Bacco, ufficiali di una legione romana, capitò tra terzo e quarto secolo una storia di martirio tutto sommato abbastanza ordinaria, non fosse per un dettaglio che più di un millennio dopo ha intrigato alcuni studiosi e/o militanti LGBT: subito dopo avere ammesso la propria fede e aver rifiutato di sacrificare nel tempio di Giove, prima di essere deportati dall’imperatore Galerio in una provincia orientale, bastonati a morte (Bacco), e costretti a indossare calzature chiodate all’interno (Sergio), entrambi furono costretti a sfilare davanti ai compagni in vestiti femminili. Questo è molto strano, e non ritorna in nessun’altra leggenda di martiri. Punizioni del genere non erano tipiche dell’esercito romano, anche se l’imperatore Giuliano effettivamente fece sfilare in vesti femminili un reparto di cavalleria che durante una battaglia non si era battuto con troppo coraggio.   

Si sa che le torture delle storie di martiri si assomigliano un po’ tutte, per via che gli agiografi si leggevano tra loro e si copiavano spesso. Di santi frustati e bastonati ce n’è tanti, ma di santi costretti a vestirsi da donna ci sono solo questi due graduati dell’esercito, la cui amicizia fraterna è spesso sottolineata nelle icone da un altro elemento inusuale: le due aureole appaiono intrecciate. Del resto è lo stesso Bacco, apparendo a Sergio la notte prima del martirio, a dare l’impressione di non poter salire in cielo senza di lui, tradendo una certa fretta che il sacrificio si completi. Insomma Sergio e Bacco – che in Oriente diventarono santi molto popolari dopo il quarto secolo – sembrano comportarsi come una coppia. Prima o poi era destino che qualcuno avanzasse l’ipotesi: e se fossero quel tipo di coppia? E se questa fosse stata la loro vera colpa, taciuta dagli agiografi ma rivelata indirettamente dal bizzarro castigo escogitato dall’imperatore: la parata in vesti femminili, una parodia del matrimonio?

Santo Sergio
(basilica
di San Demetrio
a Tessalonica)

A mettere in nero su bianco l’ipotesi fu lo storico John Boswell nel suo saggio più famoso (The Marriage of Likeness: Same-Sex Union in Premodern Europe, 1994) che fu anche l’ultimo che riuscì a pubblicare, prima di morire nello stesso anno. Boswell aveva una cattedra di Storia a Yale, dove aveva collaborato a fondare il Centro di Studi Lesbici e Gay: era cattolico praticante dall’età di quindici anni e da venti viveva con un compagno. Studiando le manifestazioni della sessualità in epoca antica e medievale, era giunto a una conclusione contraria a quella avanzata dal più celebre Michel Foucault e dai suoi discepoli. Per i foucaultiani non ha molto senso parlare di gay prima dell’Ottocento, quando in Occidente cominciamo a sentire l’esigenza di dividere l’umanità anche a seconda delle preferenze di genere. Boswell stimava Foucault ma era di tutt’altro parere: i gay erano sempre esistiti, e se non se ne trovavano tracce per molti secoli, si trattava semplicemente di cercarle con più attenzione. Ora, gli storici soffrono appunto di questa deformazione professionale, per cui quando si mettono a cercare qualcosa con molta attenzione, prima o poi la trovano, anche a scapito del buon senso. Boswell a un certo punto decise che il termine “fratello”, nel mondo greco-romano, poteva essere inteso come un eufemismo per “amante”: una volta accettato questo, i numerosi riti in cui persone dello stesso sesso venivano riconosciuti come “fratelli” diventavano forme di matrimonio omosessuale, più o meno tollerato dalle autorità, non solo presso Greci e Romani ma anche nei primi secoli del cristianesimo (cerimonie di affiliazione fraterna sono ancora praticate in alcuni riti ortodossi), fino a una cesura che Boswell indicava solo intorno al dodicesimo secolo. 

L’ipotesi di Boswell è stata più volte smontata, anche da studiosi che riconoscono il valore pionieristico delle sue ricerche: e però non è difficile capire perché sia stata abbracciata da molti militanti LGBT. Per Foucault, semplificando brutalmente, l’omosessualità come la intendiamo oggi è un costrutto sociale: esiste finché esiste la nostra società, che è tutt’altro che una società ideale. Per Boswell l’omosessualità è qualcosa di più vicino a un dato di natura: ne sono esistiti in qualsiasi società, e hanno sempre variamente cercato di ottenere un riconoscimento della loro condizione e delle loro relazioni. Per quanto labili siano le prove, la teoria ha il pregio di venire incontro alle aspirazioni di tanti desiderosi di conciliare la propria omosessualità con la fede cristiana: magari è solo una leggenda, ma non più di qualsiasi altra leggenda di santi: esiste perché qualcuno ne ha sentito il bisogno. Nel 1996 un pittore frate francescano (e gay), Robert Lentz, dipinse per il gay pride di Chicago un’icona dei Santi Sergio e Bacco che divenne immediatamente il pezzo più riprodotto del suo catalogo. I due santi di Lentz sono trentenni di aspetto atletico, com’è lecito del resto attendersi da due ufficiali dell’esercito, ma molto diversi da quelli tramandati dall’iconografia bizantina, che invece ne sottolineava gli aspetti quasi femminei. 

Il Cameo “Rothschild”:
ritratto di Onorio e moglie e
(in seguito) di Bacco e Sergio

Lentz, forse inconsciamente, sembra aver sentito la necessità di sottolineare il rapporto paritario tra i due: quell’aspetto che non solo corrisponde meglio al nostro ideale contemporaneo, ma che si discosta di più dal modello di rapporto omosessuale che di solito associamo al mondo greco-romano: quello pederastico, che prevede un uomo adulto, libero e attivo e un ragazzo ancora imberbe, passivo e spesso schiavo. Nelle raffigurazioni tardoantiche invece uno dei santi (Sergio) è spesso raffigurato come più giovane ed effemminato – qualcosa di analogo a quanto accade con Giovita, il partner di Faustino. Nel mosaico della basilica di San Demetrio a Tessalonica, Sergio sembra davvero una santa: ha capelli a caschetto, una tunica piuttosto chic che lo avvolge fino ai sandali, occhi grandi e labbra a cuoricino. Però anche questa nostra percezione di effemminatezza, alla fine sappiamo che è un costrutto culturale: molti tratti che oggi associamo istintivamente al sesso femminile, nell’arte bizantina esprimevano semplicemente gioventù e purezza. 

A un certo punto gli stessi bizantini potrebbero aver cambiato paradigma e avuto problemi a interpretare le loro vecchie icone (magari tra una crisi iconoclastica e l’altra): capita così che a Costantinopoli un cameo che in origine raffigurava probabilmente l’imperatore Onorio e sua moglie venga ridedicato rispettivamente a Bacco – la figura maschile – e a Sergio: a quest’ultimo tocca la figura in precedenza femminile, più piccola. Chi incise i nomi dei due santi sul cameo forse aveva ancora più difficoltà di noi a riconoscere la sessualità di un personaggio che, pur ornato di orecchini, sfoggiava capelli insolitamente corti: oppure non ebbe altra scelta, se voleva salvare il cameo doveva trasformarlo in un’immagine di santi, e una coppia di santi maschio e femmina non esisteva, non era prevista. E siccome molte storie di santi non nascono prima delle immagini, ma per spiegare le immagini (vedi San Nicola), non è escluso che l’episodio del mascheramento dei sue santi non sia stato inventato da un agiografo proprio per spiegare come mai in un mosaico o in un affresco i due venivano raffigurati in uno stile che già nel V secolo poteva sembrare troppo femminile. 

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Marina e l’invidia del saio

18 giugno – Santa Marina di Bitinia, travestita

Non so di chi sia,
è convenzionale ma
è la rappresentazione più
 androgina che ho trovato.

[2013] Santa Marina vergine visse in Bitinia o da qualche altra parte, tra il terzo e l’ottavo secolo, una vita pia e abbastanza noiosa come capita alle monache, con un’importante eccezione: Marina la visse in un monastero maschile, col nome di “Marino”. Orfana di madre, Marina si nascose nel saio per restare vicina al padre che aveva deciso di entrare in un monastero. Come eccezione non è nemmeno così eccezionale: di sante travestite, soprattutto in area bizantina, ne fiorirono diverse. Santa Eufrosina, Santa Matrona, Sant’Anna, Santa Eugenia, Sant’Anastasia (che aveva fatto perdere la testa a un imperatore e si nascondeva dalle ire della di lui moglie), Santa Teodora, e chissà quante altre, l’invidia del saio era insomma una patologia diffusa e non c’era probabilmente monastero senza la sua mascotte. Un sistema per scansare i sospetti era dichiarare di essere eunuco; questo poteva spiegare la voce acuta e la difficoltà a far crescere una barba monacale. Sempre che ce ne fosse il bisogno. Nel caso di Marina, il travestimento fu così efficace che la santa fu accusata di aver messo incinta una cameriera. 

L’episodio un po’ boccaccesco fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.

Il Vangelo di Tommaso prometteva il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel Mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi l’avrebbero riaccolto/a – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.

Nove mesi dopo, la sorpresa.

Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. Questo aspetto della storia a un certo punto divenne un po’ scabroso (monaci scoprono vagina in un cadavere), sicché nacque la variante del biglietto: prima di morire Marina avrebbe lasciato scritto: “sono una donna, ciao, non fate troppi pettegolezzi”, o qualcosa del genere. Noi ovviamente preferiamo la scena in cui i monaci si trovano davanti alla vagina di un cadavere:

“Ehi, aspetta, ma l’affare dov’è?”

“Non capisco. Forse è molto piccolo”.

“Pure pare lo sapesse usare”.

“Zitto! Cerca bene, dev’esserci”.

“Ma succede così quando muori? Ti si ritira?”

“Miracolo!”

“Ma sta’ zitto! Questa è una vagina”.

“Che cosa?”

“È una vagina, ti dico”.

“Fratello, non può essere!”

“Invece è così”.

“Come fai poi a esserne così sicuro?”
“Ne… ne vista una, da ragazzino a Tessalonica”.
“A Tessalonica?”
“Da ragazzino. Quella. È. Una. Vagina”.
“Io non sarei così sicuro, fratello, di quel che hai visto da ragazzino in un bordello a Tessalonica”.

“Ehi, ritira quello che hai detto”.

Segue rissa. Per cercare di disbrigare il bandolo, i monaci tornano alla locanda fatale. L’oste cade dalle nuvole; la figlia invece confessa durante una crisi isterica, o come si diceva allora, esorcismo. San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.

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Leopardi? Quale Leopardi?

(Riassunto della puntata precedente: qualche mese fa è uscito Silvia è un anagramma, un saggio di Franco Buffoni che si propone come un atto di “doverosa giustizia biografica” nei confronti di alcuni poeti laureati che non avrebbero avuto la possibilità di esprimere la loro sessualità: “quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale”. Ma quanto ha senso ampliare la categoria della letteratura LGBT anche ad autori vissuti in periodi in cui la comunità LGBT non esisteva? E nello specifico caso di Leopardi, rimestare nel biografico non significa in qualche modo ‘recintare’ le idee di un poeta e pensatore che ha sempre voluto dare alle sue riflessioni un respiro universale? Non si rischia di distogliere l’attenzione dal suo pensiero e rimettersi a pensare ai suoi problemi, alla sua salute, alla sua… gobba?)

La gobba di Leopardi, dicevamo.

Quando leggiamo i Canti, le Operette Morali, lo Zibaldone – quando crediamo di leggere Leopardi – ce la troviamo sempre in mezzo. Sì, avrei potuto essere più allusivo, parlare di una “vita strozzata” come Benedetto Croce, o nascondermi nell’impassibilità dei tecnicismi: Leopardi soffriva probabilmente del morbo di Pott, una sindrome debilitante che gli causò terribili sofferenze e di fatto lo isolò dalla società che pure cercò di frequentare. Chiedo scusa: sono il risultato di un’educazione per lo più audiovisiva, tendo a pensare per immagini e quando leggo a Leopardi non penso “vita strozzata” o “morbo di Pott”: vedo una gobba. Mi sbaglio? Se le indicazioni di un autore valgono qualcosa sì, mi sbaglio: quella gobba non dovrei vederla, o almeno dovrei accettare che non c’entra nulla con i risultati poetici e filosofici di Leopardi.

Come affermò lui stesso, in una famosa lettera a Louis de Sinner: “È soltanto per effetto della viltà degli uomini che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche con il risultato delle mie sofferenze personali. […] Prima di morire, protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregherò i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie”. Discutete i miei argomenti, non i miei malanni (nel biopic di Martone, il personaggio interpretato da Elio Germano afferma qualcosa del genere in una gelateria napoletana: si tiene in piedi a malapena, anche impugnare il cucchiaino è un supplizio. Non c’è proprio verso che noi spettatori possiamo non vedere tutto questo, anzi, il motivo per cui siamo andati al cinema è proprio per assicurarci una volta per tutte che il grande poeta, il filosofo della vanità del tutto, era un povero gobbino infelice). 

A quel punto un’altra immagine cinematografica ci si presenta irresistibile: quella del gobbo Igor interpretato da Martin Feldman in Frankenstein Junior di Mel Brooks. La richiesta pur ragionevole del filosofo Leopardi diventa ai nostri occhi un puntiglio irrazionale come quello di Igor che a chi cerca, con molto tatto, di affrontare il problema della sua deformità, reagisce negando completamente il problema: “Gobba? Quale gobba?” 

La gobba di Leopardi, che per lui fu fonte di vergogna e infelicità, per noi lettori è molto comoda. Soprattutto al liceo, che diciamocelo: è l’unico momento della vita in cui la maggior parte di noi ha sentito la necessità di leggere una manciata di poesie di Leopardi, due o tre dialoghi, qualche pensiero. Materiale limitato ma più che sufficiente a esporre il liceale al nudo sconforto di una visione dell’universo senza scampo per l’uomo – per fortuna che c’è la gobba, col suo rassicurante retropensiero: Leopardi la pensava così perché soffriva tanto. Leopardi non sarebbe stato affatto d’accordo, ma non c’è più. 

All’inizio del secolo scorso per qualche tempo sembrò giungere in suo soccorso la cosiddetta critica idealista, che aveva il suo campione nel filosofo Benedetto Croce. Per Croce la Poesia, con la P maiuscola, era valida fuori dal tempo e dallo spazio – oggi noi diremmo dal contesto. Persino un poeta come Dante, così legato alla società del suo tempo e invischiato in un dibattito politico che oggi fatichiamo a ricostruire: persino lui andava considerato “poeta” per le pagine della Commedia che era riuscito miracolosamente a riscattare dal contesto storico, a rendere universali e comprensibili ai lettori di ogni civiltà. 

Così come avevano strappato Dante dalle guerre tra Guelfi e Ghibellini, gli idealisti non esitarono a strappare la Poesia di Leopardi dalla sua gobba, ma si spinsero ancora più in là, brevettando il concetto di “idillio”. Leopardi aveva usato il termine per alcune poesie giovanili dal contenuto estatico (L’Infinito è la più celebre), ma gli idealisti decisero che l’unica Vera Poesia di Leopardi era quella idilliaca, da recuperare anche nei componimenti più tardi e pessimisti, come il diamante dalle miniere. Il risultato fu che verso gli anni Trenta passava per “idillio leopardiano” persino una poesia crudele come Il Sabato del Villaggio, in cui i lavoratori di un piccolo borgo si preparano a un giorno di festa che invece sarà pieno di noia e angoscia per il lunedì. Gli idealisti ci vedevano un bel quadretto di genere, si esaltavano per la donzelletta con le rose e le viole e persino per il falegname che lavora fino al mattino. A furia di togliere Leopardi dal suo contesto, lo si era tolto alle sue stesse intenzioni. 

Nel dopoguerra, al declinare dell’idealismo (che ha lasciato qualche strascico nei libri di testo) è subentrata una lettura più sottile e problematica. Sul mio manuale di liceo, trovo una sottolineatura e una nota: “Timpanaro piace al prof moderno”. Cosa diceva Sebastiano Timpanaro che probabilmente avrei dovuto riferire al “prof moderno” che avrei incontrato nella commissione di maturità? Che la sofferenza di Leopardi era stata un “formidabile strumento conoscitivo”. Proprio perché aveva sofferto più di tutti noi, Leopardi era riuscito a sintonizzarsi su questo specifico aspetto dell’esistenza e ce lo aveva generosamente offerto, anche a noi maturandi felicemente fidanzati con una lunga vita davanti. Non più un Leopardi Igor, ma un Leopardi agnello sacrificale. Non più una gobba-schermo, ma una gobba-antenna, collegata con tutto il dolore e la vanità del mondo. La definizione di Timpanaro era veramente felice: ci consentiva di recuperare la tragica biografia del poeta e di ritrovare l’ironia amara nascosta nemmeno così subdolamente tra le righe del Sabato o della Quiete dopo la tempesta. Ci consentiva di apprezzare quel poco di Leopardi che leggevamo, ma soprattutto di sopravvivere alla sua tetra filosofia. 

Ora però arriva il movimento LGBT e pretende di smontare quella gobba, di interpretarla in un modo diverso, magari di piantarci un vessillo arcobaleno: tutto legittimo, ma destabilizzante. E comunque rischioso. Spulciando tra i carteggi leopardiani (testi già noti agli studiosi), Buffoni scopre che a Napoli Leopardi era uso intrattenersi “con gli scugnizzi in cambio di avarissime mance”. Anche in questo caso, non si tratta in senso stretto di una scoperta: ma fin qui i leopardisti l’avevano considerata una semplice debolezza umana, qualcosa di non interessante, che anzi avrebbe distratto i lettori e soprattutto gli studenti. Alcuni avranno anche pensato – a torto o a ragione – che nella Napoli di quegli anni gli scugnizzi erano semplicemente più abbordabili delle fanciulle, e che frequentarli non era sufficiente per determinare con precisione a quale gradino della scala Kinsey Leopardi dovesse essere assegnato. I tempi cambiano (o per dirla con Foucault, il dispositivo del Potere muta le sue forme) e all’improvviso nel 2020 la stessa circostanza diventa l’indizio probante di un’omosessualità socialmente repressa ma non del tutto nascosta. Va tutto bene, purché tra qualche anno non ci tocchi buttar vernice su qualche monumento a Leopardi – nel momento in cui qualcuno più militante farà presente che pagare gli scugnizzi non è politicamente corretto. E non c’è dubbio che non lo sia.

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E se Leopardi fosse gay? (ce ne dovremmo interessare?)

Leopardi, 1832: Non è che per l’effetto della vigliaccheria degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi dei meriti dell’esistenza, che le mie opinioni filosofiche sono state considerate il risultato delle mie particolari sofferenze, e ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che è causato semplicemente dalla mia riflessione.

Marcos Y Marcos

Studioso di Leopardi, 2020: Ecco così stagliarsi il Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”. Inutile illudersi: ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sostenere che le biografie non contano. […] Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso. Un grande poeta deve la sua grandezza anche alle esperienze e al vissuto, ergo anche alla sua affettività, al soddisfacimento o alla repressione dei desideri, alla lotta che è stato costretto ad ingaggiare con la sua contemporaneità…

Manifestanti, 2025: Toh, guarda, una statua di Leopardi! Pagava i ragazzini e pure poco! Buttiamola giù, maledetto efebofilo!

È già successo un’estate di quasi vent’anni fa. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani ventilò l’ipotesi di querelare chi metteva in dubbio la “forte attrazione per le donne” di Giacomo Leopardi, “documentata da poesie e lettere”. Questa presa di posizione seguiva la scoperta in una chiesa salentina di una lettera autografa in cui il poeta si riferiva all’amico-convivente Antonio Ranieri con espressioni come «Addio, anima mia» oppure «Ti stringo al mio cuore». Già ai tempi l’ipotesi dell’omosessualità di Leopardi era una non-notizia, per più di un motivo: non era dimostrabile (simili espressioni di affetto Leopardi le riservava anche a corrispondenti dell’altrui sesso) e non era nuova: di lettere in cui Leopardi si riferiva a Ranieri con epiteti molto teneri ce n’è ben più di una.

Gli studiosi di Leopardi non ignorano la questione, anche se per molto tempo l’hanno trattata come i proverbiali panni sporchi da non lavare in pubblico. In compenso già negli anni ’90 la questione era stata scoperta dagli attivisti LGBT: fondamentale fu un articolo di Giovanni Dall’Orto comparso nel 1996 su Babilonia (poi ripreso e ampliato sul suo sito web). Magari se ne ritornerà a parlare in questi mesi dopo l’uscita di Silvia è un anagramma, un saggio di Franco Buffoni che si propone come un atto di “doverosa giustizia biografica” nei confronti di alcuni poeti laureati che non avrebbero avuto la possibilità di esprimere la loro sessualità: “quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale”.

Buffoni è tutto meno che uno spulciatore di vecchie lettere a caccia di pettegolezzi. Poeta, traduttore specializzato in letteratura romantica inglese, romanziere, fondatore con Mauro Mieli del primo nucleo del movimento LGBT italiano: se ha un’ipotesi sulla sessualità di Leopardi, vale la pena di esaminarla serenamente. Qui raduno alcune obiezioni preliminari, che più che smontare il discorso militante di Buffoni servono a raccapezzarmi su un fastidio, temo, che condivido con altri studiosi e lettori di Leopardi per lo più eterosessuali – cos’è che ci disturba tanto, in un eventuale outing del Conte? Siamo semplicemente omofobi o c’è qualcosa di più?

Ovviamente spero che ci sia qualcosa di più – ma non ne sono così sicuro.

L’operazione di Buffoni, e di Dall’Orto prima di lui, è manifesta: dimostrare che la comunità LGBT non nasce all’improvviso alla fine del XX secolo, ma ha antecedenti illustri e documentati, o meglio, documentabili – almeno finché il Potere eteronormativo non ci mette la mano. Il che è plausibile, ma può condurre a distorsioni non meno gravi di quelle prodotte dal Potere. “Ci sarà sempre qualcuno che […] continuerà imperterrito a ritenere che Aspasia fosse la Targioni-Tozzetti”, scrive, suggerendoci che faremmo meglio a identificare la protagonista dell’omonimo canto in Ranieri. Sarà: ma non è poi così facile vedere le fattezze del barbuto amico di Giacomo nella “dotta allettatrice” che “fervidi sonanti baci” scoccava nelle labbra dei suoi bambini, che “con la man leggiadrissima” stringeva “al seno ascoso e desiato”. Perché dovremmo escludere che Leopardi si sia sentito attratto da almeno una donna nell’atto assai poco efebico di accudire i figlioli (una MILF, diciamola tutta), e che la poesia non parli esattamente di questo? Un conto è ammettere che Leopardi possa avere avuto e manifestato pulsioni omosessuali: un altro è pretendere che queste pulsioni debbano necessariamente esaurire lo spettro della sua sessualità, come se sulla scala di Kinsey non ci fossero almeno cinque gradini intermedi.

È in casi come questi che un critico eterosessuale trova inevitabile affidarsi all’autorità di un Michel Foucault: “L’omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell’anima. Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie” (La volontà di sapere, 1976). La curiosità di Dall’Orto e Buffoni per le pulsioni del Conte non sarebbe che una delle forme più recenti della sempre mutevole foucaultiana Volontà di Sapere: e a tal proposito devo annotare che in questi mesi mi è capitato di sentire più di un interlocutore affermare che un Leopardi gay sarebbe una bella notizia per tanti studenti. All’inizio ero abbastanza incredulo che uno ragazzino potesse trarre qualche tipo di consolazione dall’esempio di un poeta dalla vita breve, dolorosa e infelice – che possa sentirsi ispirato a un approccio più ottimista dall’autore del Dialogo di Tristano (“Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei”!) Come se avessimo tolto Leopardi dalla polverosa teca degli Intoccabili Poeti Laureati soltanto per consegnarlo alla vetrina pop dei modelli aspirazionali: accanto al cosmologo paraplegico, alla pittrice invalida, all’inventore figlio di immigrati, e in generale a tutti i poeti-artisti-studiosi additati agli studenti non tanto per la qualità delle loro opere o scoperte, ma perché ce l’hanno fatta trionfando contro pregiudizi sociali o handicap fisici. Tutto un pantheon postmoderno basato peraltro sulla fallacia del sopravvissuto o survivorship bias. Non riesco a pensare a niente di meno intimamente leopardiano, ma forse sono solo un etero geloso. Pensavo che proclamando “l’infinita vanità del tutto”, il Conte avesse fatto della delusione per Aspasia una figura dell’infelicità umana, e che quindi stesse parlando anche di me, a me; quando sarò costretto ad accettare che la sua infelicità è quella di chi è costretto a “nascondere il proprio orientamento sessuale per timore della sanzione della società e della legge”, potrò ancora riconoscermi in A Se Stesso senza sentirmi rimproverare di appropriazione culturale?

Inoltre: se il vero motivo dell’infelicità di Leopardi fosse l’impossibilità di vivere la sessualità che più gli aggradava, il movimento di liberazione LGBT non solo conterrebbe la risposta alle sue angosce, ma in un qualche modo risolverebbe la sua poesia. I Tristani del futuro non dovranno più nascondere il loro orientamento, e non si sentiranno più tentati dal suicidio. Il pessimismo cosmico dei nostri appunti liceali si sgonfia in un più rassicurante pessimismo sentimentale: anche l’infelicità più radicale viene ricondotta a una più gestibile insoddisfazione sessuale.

Queste obiezioni, ora che le ho messe nero su bianco, non mi sembrano così probanti. Alla fine non sono che l’ennesimo episodio di un estenuante, plurisecolare dibattito intorno a uno degli oggetti più ingombranti della storia della letteratura italiana: la gobba di Leopardi (continua).

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L’arcivescovo in guêpière

16 luglio – San Vitaliano di Capua (VII sec.), un vescovo molto distratto.

Brancati
Che patrono del cacchio

A San Vitaliano capitò, verso la fine del settimo secolo, di svegliarsi molto presto, come tutti i giorni, per il servizio mattutino; di intonare i salmi in cattedrale con gli occhi probabilmente ancora incispati di sonno; e di cominciare a udire, negli intervalli tra inno e responsorio, qualche risolino sempre meno imbarazzato, finché non capì che stava succedendo qualcosa di veramente terribile; e solo in quel momento aprì gli occhi davvero; e solo in quel momento si accorse che era vestito da donna.

Da donna come?

La leggenda non lo dice! e quindi siamo liberi di sfrenarci: reggicalze, guêpière, eccetera. Anche se più probabilmente era un semplice sottanone, neanche troppo diverso da quelli che veste un prete: ma siamo nel settimo secolo, quasi ottavo, qualsiasi indumento femminile in quella situazione sarebbe risultato piuttosto conturbante.

Bisogna anche dire che il mattutino si cantava molto presto: prima dell’alba. Con tutto questo, per arrivare vestiti da donna in cattedrale ci vuole una certa disattenzione. Vale la pena di ricordare ancora una volta che il travestitismo fu ritenuto per tutto il medioevo un peccato gravissimo (carnevale a parte), e che l’unica prova veramente trovata per bruciare Giovanna d’Arco come strega fu il fatto che si era messa in pantaloni. In seguito Vitaliano riuscì a dimostrare che si era vestito così a sua insaputa: alcuni suoi nemici, preti invidiosi che mal digerivano la sua popolarità presso i fedeli capuani, gli avrebbero sostituito nottetempo i paramenti sacri con abiti femminei; Vitaliano poi era uno di quelli che al mattino si vestono alla cieca, senza neanche accendere il lume, e così… in fondo sempre gonne sono, no? Devo dire che non è così implausibile. Meno di un vescovo col fetish degli indumenti femminili? Non saprei.

Fieni pure a noi, Fitaliano, noi capiamo le extrafakantze tegli uomini ti fede.
Fieni pure a noi, Fitaliano:
noi capiamo le extrafakantze tegli uomini ti fede.

La prima reazione di Vitaliano fu darsela a gambe in direzione Roma, dove il Papa lo avrebbe senz’altro capito e sostenuto. Ma i preti invidiosi lo inseguivano e lo catturarono all’altezza di Mondragone: lo ficcarono in un sacco e lo buttarono a mare, incuranti delle mille altre leggende in cui i santi insaccati e affogati la fanno franca. E infatti, mentre Vitaliano approdava senza grosse difficoltà a Ostia e decideva di trascorrerci le vacanze, a Capua cominciarono a infuriare carestie e pestilenze. La gente mormorava: rivogliamo Vitaliano, anche in tacchi e reggipetto. Torna Vitaliano! Ti capiamo! Chi non ha mai infilato una giarrettiera anche solo per l’effetto che fa, scagli il primo tacco dodici. No.

Mi sto inventando.
È estate, dai.

Ma insomma rivolevano tutti ardentemente Vitaliano, e Vitaliano… non tornò. Cioè, sì, ma appena per un’ospitata di una sera – più che sufficiente a far piovere e ad allontanare il morbo. Ma non si fermò, si vede che non si sentiva più a suo agio; e forse presagiva la fine. Si ritirò in eremitaggio presso due o tre cime diverse – c’è sempre un po’ di concorrenza – nei pressi di Caserta o forse più verso Avellino, dove il Monte Virgiliano fu ribattezzato, in suo onore, Montevergine. E dove poteva anche infilare un paio di mutandine di pizzo sotto il cilicio senza che nessuno avesse niente da dire.
In occasione della sua festa, gli abitanti di Capua si vestono tutti da donne comprese le donne, e poi si abbracciano e si baciano fino al mattutino e anche oltre. No.

Mi sto inventando.

Ma sarebbe divertente, insolito, e credo che gioverebbe anche al turismo, insomma io se fossi nella pro loco ci farei un pensiero. Vitaliano è patrono di tutti gli uomini molto sbadati o che fanno finta, e che si vestono al buio e certe volte arrivano a lavorare con delle mises che ma ti sei visto? Eh, no, scusa, ancora no…. Mado’ che vergogna… San Vitaliano proteggimi.

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Pelagio e il sultano malvagio

26 giugno – San Pelagio martire, fantasia omofobica

“Rodrigo!”
“Mio signore…”
“Come sta il prigioniero?”
“Neanche un graffio, mio signore”.
“Vorrei anche vedere, sai che ne risponderesti con la vita. Ma il morale?”
“Mi pare piuttosto spaventato”.
“Sì, eh?”
“Sta sempre nell’angolo della tenda, non vuole dare le spalle a nessuno”.
“Chissà per chi ci ha presi. Quanti anni avrà, secondo te?”
“Anche quattordici. Questi mori sono precoci”.
“Ma quale moro e moro, non l’hai visto? È biondo”.

“E adesso gli tagliate la gamba destra, grazie”.

“Dicevo gli occhi”.
“Gli occhi, già. Portalo qui, Rodrigo”.
“Chiamo il bardo?”
“Ma che bardo e bardo, servi una cena leggera piuttosto”.
“Subito, mio signore”.

***

[Entra il ragazzo moro (biondo)].

“Vieni avanti, vieni, non aver paura. Come hai detto che ti chiami?”
“Non ho detto niente, signore”.
“E dimmelo adesso”.
“Alì”.
“Figlio di?”
“Ibn Mohammed”.
“E ti pareva. E Mohammed tuo padre era figlio di…”
“Di un altro Alì”.
“Certo che voi infedeli, con rispetto, ma ci avete una fantasia coi nomi che non riesco a capire come possano le vostre madri riconoscervi…”
“Signore, abbiamo un solo Dio, e un profeta. Forse è per questo che abbiamo pochi nomi”.
“Ma senti il paggetto teologo, sentilo. Stai insinuando che noi cristiani abbiamo tanti nomi perché siamo idolatri?”
“No, io…”
“Anche noi abbiamo un Dio solo, sai”.
“Ma ha fatto almeno un figlio, a quanto mi risulta”.
“Ma senti che boccaccia. Lo sai che potrei farti frustare? Lo sai? Qua fuori ho tutti gli strumenti all’uopo, e i miei uomini non vedrebbero l’ora di sentire le urla di un infedele che…

[Bussa il servo].

“Che c’è?”
“Mio signore, la cena”.
“Ah già, porta qui. Cos’hai?”
“Melone e prosciutto”.
“Melone e… ma sei fuori di testa? Ma ti pare il caso?”
“Mio signore, è tutto quel che c’è in cambusa, io pensavo che…”
“Pensavi, tu pensavi, ma lo vedi il ragazzino? Ma secondo te lo mangia il prosciutto, uno così?”
“E perché no, signore?”.
“Imbecilli. Sono circondato da imbecilli. Perché è un saraceno, razza di capra di Mursia!”
“Mio signore, con rispetto, ma… è un prigioniero”.
“E allora?”

“Scusate…”
“Che c’è, ragazzino”.
“Se non è un problema, io mi contento del melone”.
“Vede signore? Si contenta del melone”.
“Non abbiamo altro?”
“In questo momento no, finché non arriviamo a Toledo…”
“Uff, Toledo. Sparisci”.

***

“Ti piace il melone?”
“Molto”.
“Devi scusare il mio servo. È un imbecille. Ce n’è parecchi, qui. Questo è il motivo per cui la Riconquista va per le lunghe, sai”.
“Perché ci sono troppi imbecilli?”
“Altrimenti avremmo già espugnato Cordova da cinquant’anni e rispedito tutti gli infedeli al di là del mare. Voglio dire, che ci vuole. Fosse per me la faccenda si sistemerebbe in una primavera. Assedi Cordova in febbraio, Granada in marzo, e… ma non voglio rivelarti i miei piani”.
“Non sarei comunque in grado di capirli, signore”.
“Hai la risposta pronta, tu. Mi piaci. Voglio dire, mi piace come rispondi”.
“Non mi frusterete?”
“Magari sì, ti frusterò, adesso vediamo, per ora mangia. Vedi Mohammed… posso chiamarti Mohammed?”
“Mi chiamo Alì”.
“Alì, già. Vedi, vorrei che tu sapessi che anche se adesso ti può sembrare tutto orribile, la prigionia, le torture eccetera… vorrei che capissi che ci siamo passati tutti – a chi non è capitato di essere dato in ostaggio, o di essere rapito in una scorreria…”
“Signore, avete impalato mio padre”.
“Tuo padre, lasciatelo dire, era un rompicoglioni che mi assillava dai tempi di Segovia. Aveva sgozzato mio cugino. Non che mio cugino non fosse anche lui un imbecille, anzi, avessi potuto scegliere tra i due non so chi avrei fatto fuori prima. Però adesso non cercare di impressionarmi con tuo papà impalato. Siamo in guerra, queste cose capitano”.
“Esiste solo la guerra?”
“Che io sappia sì”.
“Ma quando è cominciata?”
“Niente, qualche secolo fa gli infedeli sono arrivati per mare, han cacciato i Visigoti da tutta la Spagna tranne qualche castellaccio nelle Asturie, dopodiché…”
“Io avevo sentito dire che cominciò quando gli asturiani invasero il Califfato”.
“Eh, eh, certo, come no, siamo sempre noi quelli cattivi che cominciano”.
“Non è così?”
“No, avete iniziato voi. Non potevate starvene di là dal mare?”
“E prima che arrivassimo noi… non c’era la guerra?”
“Ce n’erano altre, contro i Bizantini, i Franchi… ma non è la stessa cosa. Io per dire contro un Franco non mi sarei mica messo a cavallo”.
“E perché?”
“Perché i Franchi sono tipi a posto. Oddio, puzzano di muffa di formaggio, ma a parte questo sono cristiani. Tra cristiani ci si può andar d’accordo. Ma gli infedeli sono come i corvi in un campo. O mangi tu o mangiano loro. E loro non coltivano niente”.
“Ma veramente, i giardini di Cordova…”

C'è anche una chiesa da qualche parte qui dentro.
Da qualche parte qui dentro c’è pure una chiesa.

“…sono i più belli al mondo lo so, ma dicevo per metafora. Gli infedeli vivono di rapine, di scorrerie”.
“Signore, avete al collo l’oro di mio padre”.
“Ah sì? Scommetto che prima era di mio cugino. Noi, vedi, abbiamo un sistema che funziona. I contadini lavorano la terra, e i signori…”
“…mangiano?”
“Li difendono”.
“Li difendete da noi infedeli, quindi anche di noi c’è bisogno”.
“Sì, esatto. Però se la guerra la vinceste voi – cosa impossibile – ma sai che succederebbe? L’estinzione. Fareste piazza pulita della Spagna, vi mangereste tutto finché non crescerebbe più niente”.
“Ma è già successo che vincessimo, e la Spagna è ancora qua”.
“Certo, sì, conosco l’obiezione, ma l’ottavo secolo era una cosa diversa. I musulmani di allora non erano come voi. Cioè per certe cose erano peggio, erano barbari. Ma in fin dei conti non erano molto diversi dai barbari di prima. Gente rude che passa a cavallo, uccide chi gli si para davanti, e si prende la terra. Come prima di loro i Visigoti e prima di loro i Vandali. Ordinaria amministrazione”.
“Mentre adesso?”
“Adesso vi siete raffinati, vi siete inventati queste cose, le città… ma hai presente Cordova? Mi spieghi cos’è Cordova?”
“Non ci sono mai stato”.
“Ci sono stato io da bambino, sai che sono stato ostaggio di Mohammed Ibn Mustapha, magari lo conosci”.
“Conosco Mustapha Ibn Mohammed”.
“Magari è suo figlio”.
“Ha sessant’anni”.
“Allora no. Comunque Cordova è una città enorme, ventimila abitanti, te li immagini nello stesso recinto, ventimila cristiani…”
“Ventimila musulmani”.
“Che parlano, vendono, comprano, dalla mattina alla sera non fanno che vendere e comprare, e nessuno che coltivi un feudo come si deve…”
“Ma veramente i giardini…”
“E dagli coi giardini, è un’ossessione la vostra. Lo so, bellissimi i giardini, però non è una società quella lì, è un bordello. Non può andare avanti. Gente che urla anche di notte…”
“Il muezzin?”
“E poi il bordello, la rilassatezza dei costumi… tu sei giovane e queste cose ancora non le sai, ma se sapessi quel che fanno ai ragazzini…”
“Io sono un ragazzino”.
“Per l’appunto”.
“Nessuno mi ha mai fatto niente di male”.
“Forse eri ancora troppo giovane. In un certo senso sei fortunato, ti abbiamo strappato alle grinfie di una società pervertita, se solo potessi immaginare…”
“Signore, non credo di capire”.
“Beh, ti basti pensare a San Pelagio”.
“Non so di cosa state parlando”.
“Ma già, certo, da voi è vietato parlarne. Allora facciamo così: te lo racconto io, mentre finisci il tuo melone. Potresti anche innaffiarlo col moscato, che ne dici?”
“Non so cos’è, ma probabilmente non dovrei…”
“Assaggia, assaggia, non c’è niente di male. Pelagio, oh, Pelagio, se lo avessi visto, quando suo zio a dieci anni lo cedette come ostaggio al Califfo di Andalus! Pelagio era gentile, disponibile, paziente, il più immacolato dei figli di Dio; ma soprattutto, Pelagio era…”
“Devoto?”
“…bellissimo. Due labbra di ciliegia su un incarnato pallido, tanto più prezioso nel cuore torrido della Spagna – e gli occhi, due olive more, piccole, morbide, amare, che a momenti gliele avresti strappate e succhiate, oh quant’era bello Pelagio; e il Califfo, il perfido califfo, il vizioso califfo, se ne innamorò”.
“Mi sembra tutto, con rispetto, assai improbabile”.
“E invece non poteva andare diversamente, il Califfo essando vizioso, e ricco, ed esausto ormai di ogni piacere, senz’altra legge fuorché quella abominevole di voi infedeli…”
“Ma veramente da noi i sodomiti li bruciamo vivi. Oppure li lanciamo dai minareti a testa in giù, li lapidiamo, a volte le tre cose in sequenza ”.
“Lo vedi che siete dei selvaggi? Posso finire la storia? Dov’ero rimasto?”
“Dicevate che Pelagio era bellissimo”.
“Ah, sì, altroché. Un torso snello, atletico il giusto. Due polpacci non volgari, ma pronti a indurirsi, al minimo sforzo, come due mele renette, ché il perfido Califfo gliele avrebbe morsicate”.
“Essendo perfido”.
“Tre anni crebbe in lui questa demoniaca passione, finché un giorno, rimasto solo con lui, non cedette alla fiamma che lo divorava e Pelagio, urlò, Pelagio, convertiti e ti farò visir, ti farò emiro, sultano, quel che ti pare, ma baciami, Pelagio te ne supplico! Placa questo ardore, o sarai tu a bruciare”.
“E Pelagio?”
“Giammai, gridò, che io possa morire squartato piuttosto che rinnegare la mia fede! Tu perfido califfo, covo d’ogni sozzura, se vuoi il mio corpo dovrai prima farlo a pezzi”.
“E il califfo…”
“…Lo accontentò. Gli fece tagliare le braccia ben tornite, poi le superbe gambe, poi quel che restava ahinoi! Ma fino all’ultimo taglio non smise il bel giovine di rimproverare la lussuria del Califfo”.
“E poi?”
“E poi niente, quando i cristiani si resero conto di come i califfi trattavano i preadolescenti, ripresero la Conquista con rinnovato impeto. Perciò il sacrificio di Pelagio non è stato vano”.
“E voi come fate a sapere la storia? Ci sono testimoni oculari?”
“Ce n’è uno che conobbe personalmente Pelagio e riferì la storia a Rosvita di Gandersheim”.
“Perdonatemi, mai sentita”.
“È una monaca della Bassa Sassonia”.
“Una donna rinchiusa, insomma, in un posto molto lontano da qui”.
“Uff, quanto la fai lunga…”
“E questo testimone conobbe Pelagio in libertà o in prigionia?”
“Penso che ti farò frustare un poco, adesso”.
“Non vorrei sembrare scortese, ho molto gradito la storia…”
“Grazie! Rodrigo! Porta il frustino da sei millimetri, manette e…un paio di piume d’oca. Mi piacciono i preliminari lunghi”.
“… e mi domandavo se non potrei ricambiarvi il piacere raccontandovene una a mia volta, prima che disponiate della mia vita”.
“Vuoi raccontare una storia? Tu a me?”
“Il sole è tramontato ormai, è l’ora in cui con le mie sorelle ci sedevamo a raccontare e ascoltare storie, prima che arrivasse la guerra”.
“C’è sempre stata la guerra”.
“Non ci avevamo fatto caso. E lei non aveva fatto caso a noi”.
“Sei proprio un amore di ragazzino. Sentiamo la tua storia. Ti torturerò più tardi”.
“C’era nel tempo dei tempi e negli anni passati un re della stirpe dei Sassanidi, che regnava nelle isole dell’India e della Cina”.
“Magari ti ammazzo pure. Ti faccio tagliare la testa”.
“Il suo nome era Shahriyàr…”

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Ma se invece fosse un asessuale

Naturalmente, ora che il PR del suo partito ha venduto gli scatti intimi all’industria del gossip, tutti stiamo cominciando a pensare davvero che il vicepresidente del consiglio dei ministri sia gay (sarebbe un problema?) represso (sarebbe un problema). Un outing talmente maldestro che fa venire il sospetto che sia architettato: mettiamo in scena una tua relazione etero così la gente comincerà a pensare che non sei etero, ma allo stesso tempo rifiuti la militanza lgbt, diabolico Casalino. Oppure?

Oppure potrebbe essere un asessuale. Perché esistono anche loro, e sono tra noi: persone scarsamente o punto attratte da persone di qualsiasi sesso. Il che non significa che non ne facciano, ma insomma, non lo considerano una priorità. Il vicepresidente potrebbe essere uno di loro. E sarebbe un problema, perché l’asessualità, quella sì, è davvero un tabù. Piuttosto di confessare di non avere una vita sessuale, un politico oggi potrebbe sentirsi costretto a fingere di avere una relazione, in modo così smaccato da suggerire al pubblica una doppia torbida vita sessuale che ci allontani ancor più dal pensiero che invece al vicepresidente il sesso più di tanto non interessi – potremmo mai fidarci di un politico sulla trentina senza appetiti sessuali? Più facile fidarsi di Casalino, diabolico Casalino.

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Pier Damiani e l’annoso problema della sodomia

21 febbraio – San Pier Damiani (1007-1072), dottore della Chiesa decisamente omofobo.

Cosa fareste per recuperare quel documento?

Ma cos’è che avevo scritto quella volta

Un giorno (più probabilmente una notte) avete scritto qualcosa, una cosa che all’inizio non vi sembrava neanche granché. Un appunto su un’idea che vi frullava in testa. Una dissertazione in dieci capitoli. La prima pagina di un romanzo che avrebbe funzionato. Un foglio elettronico con tutte le formule al posto giusto. La ricostruzione della carriera. Una notte avete scritto qualcosa e non ci avete più pensato per mille altre notti; finché non avete capito che quella era la pagina giusta da cui ricominciare da capo. Ma, indovinate: quella pagina non si trova più.

Avete messo sottosopra gli scaffali, rivoltato i cassetti come calzini. Tutti i dischi rigidi, tutte le chiavette, avete portato dai cinesi quel laptop che si è spento per sempre cinque anni fa. E più cercavate, più quel documento diventava interessante, necessario, fondamentale, unico. Perché è l’unico che non si trova più. Il che non è possibile; voi non buttate mai nulla. Probabilmente è nel posto sbagliato, archiviato col nome sbagliato, dove lo ritroverete quando sarà troppo tardi. Oppure lo avete prestato a qualcuno, sì: qualcuno sembrava curioso e vi siete fidati senza tenervi una copia, pazzi! A nessuno bisogna prestare i propri documenti, di nessuno ci si può fidare. Neanche di un papa. Non è un modo di dire, per esempio San Pier Damiani si fidò di un papa, e lo sapete come andò a finire, no? In effetti forse no.

Pier Damiani il dottore della Chiesa, Pier Damiani l’inflessibile, l’incorruttibile, l’uomo che in teoria riusciva a vivere soltanto in un eremo appartato, circondato dall’algido affetto dei suoi confratelli, Pier Damiani che invece per un motivo o per un altro era sempre in giro per Sinodi o a Roma a lobbizzare con questo e quel pontefice; Pier Damiani un giorno scrisse una lettera stranissima a due cardinali, una lettera matta in cui si prendeva gioco del papa in carica, proprio lui! Pier Damiani, il riformatore: ce l’aveva con Alessandro II. Stia attento, scriveva: che un papa di nome Alessandro c’è già stato e fu frustato a sangue. Ma che aveva fatto il secondo Alessandro per meritare anche solo un vago riferimento al supplizio inflitto ai ladri? Cosa poteva aver mai fatto un pontefice per meritare un’accusa infamante e neanche tanto velata da parte di Pier Damiani? Indovinate: non gli restituiva un manoscritto.

Glielo aveva chiesto per farsene una copia: e doveva averglielo chiesto in termini piuttosto perentori, se Pier confessa che altrimenti non glielo avrebbe dato. Quando era tornato a riprenderlo, niente: il documento non c’era più. Ma che c’era mai scritto, in quell’unico fascicolo autografo tra mille che Pier non poteva più andarsi a rileggere? Magari niente d’importante. Lui stesso protesta che era poca roba, nulla per cui valesse la pena litigare o perdere il favore di un pontefice. E invece era proprio quello che stava facendo: aveva aperto un contenzioso col vicario di Pietro. Non riusciva a contenersi, Pier Damiani il continente. Ma perché Alessandro non rendeva il malloppo? L’ipotesi banale resta la più verosimile: magari aveva perso tutto. Basta appoggiare il quinterno sull’angolo sbagliato della tua Cattedra; magari qualcuno viene a mettere a posto, con le migliori intenzioni del mondo lo infila nello scaffale sbagliato delle biblioteche vaticane, e bye bye Inedito del Dottore della Chiesa, vallo a ritrovare se ci riesci. Possono passare anni. Secoli.

Mi era venuto così bene quella volta maledizione

Ma siccome le vite dei santi non sono necessariamente così simili alla mia, non posso omettere un’altra spiegazione, molto più affascinante: quel manoscritto che papa Alessandro aveva tolto dalla circolazione, quell’opuscolo da cui Pier Damiani con molta fatica si era staccato, non era un brogliaccio qualsiasi, bensì il fascicolo più scottante a cui aveva messo mano, quello che oggi è (ingiustamente) la sua opera più famosa: il Liber Gomorrhianus. Avete presente il Liber Gomorrhianus, no? In effetti forse no.
Beh, è una specie di pietra miliare. Mettiamola così: sapete che la Chiesa ha questo problema dei preti pedofili, no? Ogni tanto se ne parla. Ecco: da quand’è esattamente che se ne parla? Quando è cominciato lo scandalo, o almeno quando la Chiesa ha iniziato a percepirlo come scandalo? Sono stime difficili da fare per uno storico. Di solito. Ma in questo caso no, in questo caso si può mettere una data quasi precisa: il primo a denunciare il fenomeno, in un latino ecclesiastico semplice ed elegante, fu Pier Damiani, nel Liber Gomorrhianus, indirizzato a papa Leone IX più o meno nel 1051. Quando si dice che è problema è annoso, pensate che questo specifico problema sta per compiere mille anni.

E prima non esisteva? Pier ne parla già come di una malattia morale ben nidificata. Più che i peccatori gli preme denunciare chi li copre: tutta una spaventosa rete di complicità sulla quale intende fare luce. In effetti chi voglia affrontare il Liber come se si tratti davvero del primo trattato di sessualità del medioevo rischia di restare deluso. Pier parla pochissimo dei peccati che denuncia; si capisce che ne prova un ribrezzo genuino. La sua casistica è limitata all’essenziale: secondo Pier ci sono quattro tipi di atti esplicitamente denunciati dalla Bibbia come contro natura. In ordine crescente di gravità: masturbazione solitaria, masturbazione reciproca, coito interfemorale e rapporto anale. Sono comunque tutti peccati mortali: chi li commette, secondo Pier, deve essere sollevato dall’incarico ecclesiastico. E la pedofilia? Pier ci arriva per gradi, esprimendo una riprovazione particolare per i presuli che iniziano al peccato i giovani che sono loro affidati. Oltre alla sodomia, in questo caso Pier intravede l’incesto, dal momento che il maestro è un padre spirituale, e il vincolo spirituale è più importante di quello carnale. In ogni caso, la soluzione è la stessa: chi pecca contro la natura e contro il vincolo famigliare deve perdere il suo incarico; gli deve essere impedito di confessarsi e ricevere l’assoluzione da un complice nel peccato (Pier aveva la sensazione che la cosa succedesse spesso). Ne va della salute morale della Chiesa, il papa deve assolutamente recepire la gravità del fenomeno e intervenire con severità. Il papa ringraziò, recepì, e qualche anno dopo fece sparire il manoscritto del Liber. Il primo caso di dossier sugli abusi del clero insabbiato dal clero. Notevole. Fin troppo.

Ma dove l’ho scritto accidenti, qui non c’è

E infatti le cose non andarono esattamente così. Innanzitutto giova ribadire che non siamo sicuri che il Liber sia davvero stato sequestrato da un papa: Pier Damiani si riferisce semplicemente a un documento scritto da lui, che ne scriveva tantissimi, su tantissimi argomenti sui quali un pontefice poteva essere altrettanto sensibile. Il motivo per cui pensiamo subito al Liber è il motivo per cui nelle librerie oggi si può trovare, con un poco di sforzo, un’edizione del Liber, mentre per tutti gli altri testi di Pier bisogna frequentare biblioteche molto specialistiche, ed è il solito banalissimo motivo, ovvero: pensiamo solo al sesso. Argomento che, sublime ironia, a Pier interessava pochissimo: noi invece non vorremmo parlare d’altro o studiare d’altro, e quindi se a un certo punto in una lettera si parla di un documento trafugato per oscuri motivi, dev’essere senz’altro una questione di sesso. Ovviamente si dice che il papa in questione aveva avuto esperienze sodomitiche in collegio e considerava il dossier un atto d’accusa. Quante cose si dicono, senza bisogno di provarle. Ma anche se fosse tutto vero, il papa che fece sparire il dossier non fu Leone IX (morto nel 1054), ma Alessando II, salito al Soglio nel 1061.

Quanto a Leone, sappiamo che il Liber gli era sostanzialmente piaciuto: che aveva definito la foga inquisitoria di Pier come “santa indignazione”, benché non intendesse recepire al 100% le proposte di Pier. “Noi agiremo più umanamente”, aveva scritto (“nos humanius agentes“). Leone in effetti intendeva degradare soltanto gli ecclesiastici non coinvolti in attività sodomitiche “da lunga abitudine o con molti uomini”. Ma la disponibilità papale a chiudere un occhio sulle scappatelle occasionali o sugli errori di gioventù non sconfessava affatto l’impianto accusatorio di Pier Damiani – si trattava anche di un gioco delle parti, tra due intellettuali consapevoli: a Pier toccava la parte del poliziotto cattivo, del magistrato inquisitore che chiede una pena di vent’anni per ottenerne cinque con la condizionale. Era una parte che doveva riuscirgli particolarmente congeniale: siamo tutti particolarmente spietati con i vizi che non condividiamo, e a Pier, tra tanti vizi che possono capitare a un povero cristiano, questo proprio non lo aveva. È sempre difficile parlare di sesso senza tradire una minima curiosità, una minima partecipazione: Pier non si tradisce perché davvero l’argomento non lo appassiona. Che si tratti di una pratica solitaria o di un rapporto anale con un minore, per lui la questione è molto semplice: la Bibbia dice che è male, Onan morì sul colpo, Sodoma e Gomorra furono incenerite, amen. È vero che la Chiesa non prese il suo Liber alla lettera, ma cominciò a porsi un problema dove prima non c’era nemmeno il problema. Per trovare un documento che proibisse agli stupratores puerorum di ricevere la comunione in punto di morte, Pier nel 1050 era dovuto risalire a un concilio del 305. In mezzo, settecento anni di silenzio. Dopo Pier invece qualcosa si mise in moto, anche se con la tipica prudenza dell’istituzione ecclesiastica, che vista da vicino sembra immobilismo. I sodomiti sarebbero stati esplicitamente espulsi dal clero e scomunicati solo nel secolo seguente, col Concilio Laterano III. Quanto al problema della pedofilia, c’è voluto qualche altro secolo, ma adesso se ne parla. Diciamo.

Il cast di Spotlight, un film del 2016 sul problema denunciato nel 1051 da Pier Damiani.

Un giorno – più facilmente una notte – avete perso un documento. All’inizio non vi sembrava una grande perdita, ma ora che non lo trovate più vi rendete conto che era perfetto. A dire il vero queste cose ormai succedono sempre meno, ora che tutto è sulla nuvola. Per dire, a me capita di ritrovare cose che credevo perdute e bellissime, articoli che avevo scritto per magazine on line che un giorno sono andati offline senza preavviso e figurati se l’Internet Archive si è fatta una copia: poi un bel giorno mi viene in mente una data o una stringa e bingo! Li trovo proprio sull’Internet Archive.

E fanno schifo.

Non riesco nemmeno a leggerli, buon dio, bisognerebbe chiedere all’Internet Archive di cancellarli. Chissà che schifezza aveva scritto Pier Damiani, che papa Alessandro non gli voleva restituire, e che gli sembrava un capolavoro soltanto perché non poteva più rileggerla. Io per dire qualche ora fa ho cancellato senza volere le dieci righe che servivano a finire questo pezzo e ora mi dispero, sono convinto che non troverò mai più un finale altrettanto bello e necessario, e intanto prendo tempo raccontando inezie al lettore. Era tutta una digressione finale sulla Chiesa Cattolica come prodigiosa macchina celibe, ma proprio per questo condannata ad avanzare nei secoli guidata da un’esplosiva miscela di uomini (selezionati e svezzati nei collegi): omosessuali e asessuali (ancora oggi secondo il New York Times i sacerdoti USA di inclinazione omosessuale potrebbero essere il 40% – qualche ecclesiastico col gay radar particolarmente sensibile parla del 70%). Con questa fondamentale controindicazione, che gli asessuali proprio non capiscono gli omo, e quindi questi ultimi devono in tutti i modi nascondersi ai primi attraverso tutta una serie di ipocrisie e codici di comportamento e regole che ti spiegano perché devi metterti le scarpine porpora anche se a te francamente basterebbero due sandali e via che si va. E che comunque la macchina, con qualche strappo e qualche panne ogni tanto sarebbe potuta andare avanti ancora per molto, non avessimo chiuso quasi tutti i collegi. Ecco, il pezzo diceva più o meno questo, ma lo diceva molto meglio di così. Magari se facessi control+Z per mezz’ora ritroverei quelle righe, ma quante altre ne perderei che immediatamente dopo troverei più necessarie. Quindi niente, stanotte il pezzo finisce così, chiedo scusa.

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Le frecce di Sodoma

22 gennaio – Santa Irene di Roma, la martire che curò le ferite a San Sebastiano martire

“So-do-ma!”, “So-do-ma!”, “So-do-ma!”

Questa storia ce la siamo già raccontata: comunque siamo a Firenze intorno al 1515, è un bel pomeriggio di giugno. Ma chi è che urla così? Sono i festeggiamenti per il palio di San Barnaba: i ragazzini stanno chiamando a gran voce il vincitore – che non è il fantino, ma il cavallo – anzi no, il proprietario del cavallo: Giovanni Antonio Bazzi, nato a Vercelli e residente perlopiù a Siena, soprannominato il Sodoma. Lui stesso ha detto alla folla festante di chiamarlo così!

Un San Sebastiano del Mantegna
(1456), con un buffo nodo al perizoma.

Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano.

Che sfacciato, però. E infatti appena “certi vecchi da bene” se ne accorgono (“Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?”)  anche i “fanciulli” cambiano atteggiamento. Da festosi diventano violenti e intolleranti. Basta un attimo. Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui. 


Forse la Storia ci piace perché ci fa sentire meno soli. In qualsiasi secolo ci capiti di dare un’occhiata, troviamo sempre persone che amano, odiano, combattono, si stancano, si ammalano: proprio come noi. Tutto quello che succede a noi, è già successo infinite volte e questo a volte ci dà la vertigine, ma più spesso ci è di conforto. Ci è tanto di conforto che conviene diffidare: non è vero, tutte queste persone non erano necessariamente così simili a noi. Leggiamo un aneddoto di Gian Battista Vasari su un collega che gli stava antipatico, e ci sembra di aver trovato un episodio di omofobia tale quale potremmo leggerlo domani sul giornale (“artista gay inseguito e malmenato”). Non solo, ma ci sembra anche di aver messo a fuoco il prototipo di artista queer del Cinquecento: il Sodoma è una pazza.

San Sebastiano in boxer attillati
(Antonello Da Messina)

Può anche darsi che il soprannome derivi da un intercalare piemontese,  (“su, ‘nduma!”, “su andiamo”: persino il dizionario biografico Treccani riporta questa etimologia un po’ tirata per i capelli), però lui preferiva davvero firmarsi così, e non era la più piccola delle sue stravaganze. Spendeva come un matto, si circondava di ragazzini che gli rubavano in casa, e aveva una specie di fetish per i piccoli animali (“tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane”, più un corvo canterino che gli faceva da segreteria telefonica). Il Sodoma è irriverente, non ha rispetto per nessuno. I benedettini di Monte Oliveto lo chiamano mattaccio, lui si vendica infilando un gruppo di donne nude nelle storie di San Benedetto, poi pur di farsi pagare le riveste. Certo, la Treccani nega tutto, lo definisce “irreprensibile”, ma noi la sappiamo più lunga, noi e la nostra volontà di sapere, noi abbiamo il gay radar che sfida i secoli. Tanto più che ha dipinto un San Sebastiano abbastanza famoso. E nel Cinquecento, dipingere un bel San Sebastiano nudo e sagittato doveva equivalere più o meno a un coming out, no? Le frecce naturalmente alludono alla penetrazione, come nelle raffigurazioni postmoderne del secondo Novecento; nell’espressione vagamente estatica non ci resta che riconosce un orgasmo, come Lacan (e Odifreddi) lo individuano nel marmo dell’Estasi di Santa Teresa. Tutto chiarissimo; oppure invece no.

Il Sebastiano del Sodoma guarda in alto, verso un angelo che sta per deporre la sua testa l’agognata corona del martirio. È un errore curioso che molti critici e storici dell’arte non notano, appunto perché sono critici e storici dell’arte e non sono obbligati a sapere che Sebastiano non fu martirizzato con le frecce. Ovvero, la versione ufficiale (che nel Cinquecento era ancora quella di Iacopo da Varazze) stabilisce che Sebastiano fu attaccato a una colonna e sagittato “come un porcospino”: è senz’altro l’episodio più famoso della sua vita… ma non è il martirio. La corona deve ancora aspettare.

Alle frecce, infatti, Sebastiano sopravvive grazie alle cure di Santa Irene di Roma e della sua domestica, Lucina. Queste due pie donne, venute a seppellirlo, si accorgono che respira ancora: nottetempo lo trasportano nella ricca casa di Irene (patrizia romana) e gli estraggono le frecce a una a una: lunga fatica clandestina che a noi lettori moderni sembra già accanimento terapeutico. Perché prolungare la vita a chi si è votato al martirio? E infatti appena guarito, Sebastiano corre a riconsegnarsi all’imperatore che lo ri-condanna, stavolta a morire flagellato: ed è la volta buona. Ad altri santi servono quattro o cinque supplizi prima di ottenere corona e paradiso.

Luigi Miradori (XVII sec.): Sebastiano curato dalla vedova Irene.

Le torture ridondanti dei santi della Leggenda Aurea ci sembrano un controsenso morboso: perché donare la propria vita a Dio deve essere così complesso e doloroso? Perché San Giorgio deve essere battuto, sospeso per i piedi, lacerato, tagliato in due con una ruota, risuscitato e poi di nuovo decapitato? In certi casi Iacopo si stava semplicemente sforzando di armonizzare storie divergenti in quella che oggi chiamiamo continuity: c’è chi dice che Sebastiano morì per le frecce, altri dicono che morì per le frustate, Iacopo non vuole rinunciare a nessuna storia. In controluce comincia ad apparire anche l’ambiguità del desiderio di morte del martire, che la Chiesa è molto attenta a non confondere con la pulsione suicida: è lecito agognare alla corona del martirio, ma non è concesso accelerarla; i feriti comunque si curano, come Sant’Irene curò Sebastiano.

Ancora il Mantegna: una freccia è orientata
diversamente dalle altre, ed è quella
che più lo fa sanguinare.

Il fatto che la stragrande maggioranza delle raffigurazioni di Sebastiano non si concentri sul martirio, ma su una tortura da cui Sebastiano guarì, è un dettaglio cruciale per comprendere la fortuna medievale del santo. Molto prima di diventare (ufficiosamente) il santo preferito dei sodomiti, Sebastiano era venerato da appestati e lebbrosi. L’icona tipica di Sebastiano è un’immagine di sofferenza e di violenza inaudita, ma non è un’immagine di martirio. È senz’altro una sofferenza da offrire a Dio: molto prima che lo dipingesse il Sodoma, in tanti quadri Sebastiano già guardava in alto. Ma è una sofferenza che può ancora essere curata. L’icona di Sebastiano è un’immagine di speranza. Lui fu curato da Sant’Irene: tu puoi essere curato da lui. Fino a tutto il Quattrocento, almeno, nelle pale e nei polittici italiani questo messaggio è abbastanza chiaro: Sebastiano, il soldato favorito dell’imperatore Diocleziano, è ritratto di solito in scala 1:1 con espedienti prospettici che lo rendono particolarmente vicino allo spettatore: le frecce che gli lacerano la carne potremmo toglierle noi. Forse le abbiamo scoccate noi. Forse anche lui soffre per i nostri peccati: le sue piaghe sono anche le nostre (“Le tue frecce, Sebastiano, sono conficcate in me”, si legge sotto al Sebastiano più sensuale del Perugino, al Louvre). E però già nel corso del Quattrocento il messaggio è sempre meno limpido, più intorbidito da tensioni contrastanti. Sebastiano non è più il rude soldato barbuto del medioevo, ma un bel modello efebico o muscoloso, a seconda dei gusti del pittore (o del committente). Già da fine Trecento Sebastiano ha perso il monopolio della peste e delle epidemie: molti fedeli gli preferiscono San Rocco. Per sopravvivere nelle Sacre Conversazioni deve trovare un’altra specialità, e l’Umanesimo gliene fornisce una inaspettata: i miti greco-romani tornano di moda e questo santo soldato, a volte ritratto con una freccia in mano, viene rapidamente sovrapposto all’immagine di Apollo arciere.

Il Savonarola di Fra Bartolomeo. Il suo San Sebastiano
invece è talmente peccaminoso che hanno tolto
anche le foto da Internet, giuro, non riesco a trovarne.
Consolatevi col profilo di fra Girolamo.

Anche Apollo era associato alle epidemie: la freccia era per gli antichi il simbolo di qualsiasi azione a distanza, e tale sarebbe rimasta più o meno fino alla diffusione delle armi da fuoco. Anche quando smetterà di essere decifrata come simbolo di un contagio epidemico, la freccia resta sino ai giorni nostri il simbolo dell’altra azione a distanza che incuriosiva poeti artisti e filosofi sin dall’antichità: l’innamoramento. Apollo è il dio più bello: e tale diventa Sebastiano nel nuovo pantheon greco-romano-cattolico. Tale lo concepisce un amico e collega di Sodoma, il fra Bartolomeo autore del più celebre ritratto dell’arcigno Savonarola, che quasi per sfida decide di dipingerne uno così bello che i frati del convento si sentono “portati al peccato” e decidono di disfarsene. Da questo aneddoto, e dall’altro di Sodoma che dipinge donne nude dove i benedettini non le volevano (malgrado la leggenda le prevedesse), capiamo che committenti e pittori non parlano più la stessa lingua; i primi vogliono ancora immagini devozionali, i secondi si rassegnano a fornirle ma sono pur sempre artisti, hanno vite incasinate, interessi non sempre leciti e vivono dinamiche competitive: non è che perché ha dipinto un Sebastiano bellissimo, dobbiamo dedurre che fra Bartolomeo lo concupisse. A quel punto del Cinquecento, dipingere un Sebastiano era una sfida coi colleghi e con sé stessi: significava dipingere un ragazzo nudo e bellissimo, così come dipingere un Bartolomeo significava dipingere uno scorticato. Più bello era, più riuscito risultava – anche oltre le aspettative e le necessità di chi l’affresco lo pagava.

I pittori del Rinascimento sono anche anatomisti: la figura di Sebastiano consente loro di indagare su aspetti che altri soggetti non consentivano. È l’unico santo di cui è consentito abbozzare sulla tela il pene, anche se coperto (e a volte la copertura ha una consistenza fallica: vedi quel maliziosetto del Perugino). Un pene lo abbozza persino l’austero Piero della Francesca, nel polittico della Madonna della Consolazione; per notarlo dobbiamo confrontarlo con il Cristo dello stesso polittico, a cui il pittore non osa aggiungerlo. In più di un caso i pittori, non potendo aggiungerlo, vi alludono puntando una freccia proprio in quella direzione (ed è la ferita che produce più sangue). Il messaggio è ambiguo: la freccia è il peccato, o la punizione che Dio ci riserva per esso, o la sofferenza di amore che il soggetto (passivo) deve sopportare, oppure va’ a sapere, spesso i pittori non sanno perché decidono di dipingere una cosa invece di un’altra. E dobbiamo presumere che anche i committenti non fossero tutti bacchettoni ipocriti come i frati o i benedettini: che ci fosse anche chi desiderava Sebastiani bellissimi e non troppo trafitti; non si spiega altrimenti la sopravvivenza del modello anche dopo la Controriforma, quando gli alti prelati già avevano messo nero su bianco che Sebastiano andava dipinto come nel medioevo, barbuto e magari vestito. Lo stesso Michelangelo nel Giudizio Universale non rinuncia a raffigurare un ragazzone aitante, che brandisce le frecce e sembra dire ai dannati sottostanti: io il Paradiso me lo sono sudato. Anche l’iconografia di Sant’Irene che cura il soldato ferito continua ad avere successo, e anche in questo caso Irene non è sempre una vedova in età avanzata.

All’Irene della Leggenda Aurea capita poi di scoprire in sogno che il cadavere di Sebastiano è stato gettato nella Cloaca Massima. Lo seppellisce lì nei pressi, in quelle che poi saranno chiamate Catacombe di Sebastiano.

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