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Un angelo chiamato Gabriele

27 febbraio: San Gabriele dell’Addolorata (1838-1862)

Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell’Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l’ho appena fatto. 

L’episodio che ho in mente è l’incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un’esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l’ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele. 

I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po’ a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia. 

Gabriele diventerà l’amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L’Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po’ più smorte, fragili e sexy. 

La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera).  La tbc insomma nell’Ottocento contribuisce a svecchiare l’immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all’invenzione dello pneumotorace, all’introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.

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Una cosa imbarazzante sul mio vaccinismo

Ovviamente si parla molto di vaccini, ovviamente ognuno ha opinioni molto nette e le squadre a questo punto sono fatte già da un po’, ad esempio io non posso che essere un vaccinista. E in effetti da che io mi ricordi mi sono sempre vaccinato, e ho sempre ostentato con fierezza la cicatrice dell’antivaiolo (sì, sono così vecchio). Appena ho avuto prole sono subito corso a vaccinarla, non contentandomi delle dosi obbligatorie ma aggiungendo anche le facoltative perché alla fine una meningite non è uno scherzo.

Negli anni nulla sembra avere scalfito la mia fede nei vaccini: nemmeno un ciclo di sottocutanee che da ragazzino mi gonfiavano l’avambraccio in stile Popeye e che evidentemente non mi hanno protetto dalle crisi allergiche (o se l’hanno fatto beh, evidentemente ero molto allergico prima). Avendo avuto l’opportunità, nella vita, di studiacchiare un po’, so che l’obbligo vaccinale è sempre stato un problema eminentente politico, sin dai tempi in cui i rivoluzionari lo introducevano e i restauratori lo abolivano. So persino che la diffidenza nei confronti del vaccino non è una novità postmoderna, ma ha una lunga storia (qui dettagliata mirabilmente da Erik Boni). 

Sono abbastanza sicuro che i vaccini oggi funzionino, ma anche se non ne fossi sicuro sarei vaccinista lo stesso, tanto l’opzione vaccinista si adatta alle mie idee politiche. Quel che mi piace veramente dei vaccini non è nemmeno che siano un’alternativa a basso costo ai farmaci, ma il modo in cui mettono spalle al muro i liberali libertari e tutto il loro supposto libertinismo. Il fatto che il vaccino funzioni soltanto se lo fanno tutti costringe la massa a farsi gregge e getta onta su chi non vuole starci. Niente salvezza individuale: o ce la facciamo tutti, o non ce la fa nessuno. Oltre a debellare il Covid, abbiamo l’opportunità di stroncare finalmente il calvinismo, che tanti più danni ha fatto all’umanità e all’ambiente. Il fatto che l’obbligo vaccinale incontri le resistenze di molti supposti populisti non mi scandalizza affatto, anzi mi dà l’opportunità di riconoscere in controluce l’individualismo che coprono con le patacche dell’ideologia del momento. Le fake news che si inventano (i microchip, il 5G, la trasformazione dell’individuo in un automa) non sono che rigurgiti del loro inconscio e li osservo da distanza con un certo piacere mentre sussurro verrete assimilati. La resistenza è inutile. Insomma sono un vaccinista, ben fiero d’esserlo, e lo sono sempre stato, da che io mi ricordi.

Perché mi ricordo male.

Potrei dire che a questo serve avere un blog, ma a chi? Ce l’ho soltanto io un blog da vent’anni, un album in cui invece di fotoritratti imbarazzanti ci sono tutte le idee che ho avuto, talvolta un po’ più imbarazzanti. Ed ecco, se vado a cercare cosa pensavo dell’obbligo vaccinale nel mio lungo passato, tutta questa foga vaccinista non risulta. Di vaccini non ho quasi mai scritto – del resto non è mica obbligatorio avere un’opinione su tutto, nevvero? Evidentemente sui vaccini non l’avevo. Poi a un certo punto è successo qualcosa, non soltanto a me – è stato come se il dibattito pubblico si fosse all’improvviso polarizzato, costringendomi a scegliere tra due sole opzioni: proVax o noVax. Il blog mi consente anche di capire più o meno quand’è successa questa cosa: nel 2014. Pochissimo tempo fa, tutto sommato. L’evento scatenante: la procura di Trani stava indagando su due casi in cui l’antimorbillo aveva causato autismo e diabete, almeno secondo i genitori denuncianti. Ma in controluce, nel 2014 ciò che mi spaventava veramente era il grillismo. Per quanto io possa raccontarmi una storia più lunga e complessa, il momento in cui sono diventato vaccinista è il momento in cui ho visto un partito noVax vincere le elezioni. Mi domando a quanti sia successa la stessa cosa, e se in tanti casi come questi la nostra legittima curiosità per le idee più estreme (il complottismo a base di microchip e 5G) non ci faccia perdere la bussola: è persino probabile che Grillo e il suo movimento abbiano contribuito a ingrandire molto più le fila dei vaccinisti che quelle dei noVax, semplicemente polarizzando un grande centro moderato che fino a quel momento sulla questione non aveva idee precise, e forse senza Grillo non le avrebbe mai avute (lo stesso Grillo in seguito mostrò di aver capito questa cosa, mantenendo sull’argomento una posizione abbastanza moderata). 

Che prima del 2013/14 io facessi parte di un centro moderato senza idee precise lo dimostra almeno un pezzo del 2008 in cui dei vaccini si parla soltanto soltanto di striscio: l’obiettivo polemico era il sensazionalismo dei telegiornali, che al tempo mi sembrava sempre più schizofrenico, diviso com’era dalle necessità di allertare lo spettatore e di offrirgli una rassicurazione immediata. Non so nemmeno di che virus si parlasse ai tempi: forse l’aviaria. Chissà come avrei reagito se fosse diventata pandemica davvero. Chissà come l’avremmo presa tutti, al tempo, senza servizi streaming e coi social network ancora in stato embrionale. Suppongo che avrei bloggato un sacco. Meglio così.


Veniamo alle buone notizie. E’ da un po’ che vi parliamo della nuova influenza, ebbene, pare che non ci sia nulla da temere, infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che si tratterà di un’ORRIBILE PANDEMIA. Moriranno appena MIGLIAIA DI PERSONE VACCINIAMOCI TUTTI SUBITO, VACCINIAMOCI PRESTO COSA FAI LI’ VECCHIETTO, CORRI A VACCINARTI. Insomma, l’allarme è praticamente PANDEMIA! rientrato. PANDEMIA! Basta così, i nostri 40 secondi di pilloline ve li abbiamo fatti vedere, speriamo sia passato un PANDEMIA! messaggio rassicurante.

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Garantita contro il colera e l’ateismo

31 dicembre – Santa Catherine Labouré (1806-1876), veggente, designer del gadget più diffuso nell’Ottocento

Disponibile anche in italiano

Nel marzo 1832, a Parigi, durante i festeggiamenti di metà quaresima, un arlecchino all’improvviso si leva la maschera e prima di accasciarsi rivela un volto paonazzo, innaturale: la folla scoppia a ridere, ma di lì a poco i carretti delle ambulanze cominceranno a caricare decine di persone ancora nei costumi della festa. Il colera è arrivato in città.

Farà settemila morti in due settimane, diciannovemila entro l’anno. L’unico rimedio conosciuto e raccomandato dalle autorità è un bagno caldo con aceto, sale e mostarda. Anche linciare repubblicani bonapartisti e legittimisti può servire; non è escluso che siano loro ad avvelenare i pozzi. Alunna di una centralissima scuola elementare in Place du Louvre, la piccola Caroline Nenain è l’unica della classe che sembra avvertire i sintomi. Le suore della Carità scoprono che è anche l’unica a non avere ancora indossato la Medaglia Miracolosa raffigurante la madonna com’era apparsa alla consorella Catherine Labouré, due anni prima. Fortunatamente le sorelle hanno ampie scorte di medaglie, sono loro che le distribuiscono: Caroline guarirà non appena se la sarà messa al collo. È l’inizio di un successo mondiale che farà della medaglietta il gadget più diffuso dell’Ottocento. Si calcola che ne siano state distribuite almeno un miliardo.

Una da qualche parte devo avercela anch’io, in qualche cassetto abbandonato in un trasloco. Potete facilmente procurarvene una anche voi, facendo domanda su un sito che non vi linko, ma è a portata di google. Non costa niente, però ve la mandano con un bollettino da compilare. “…non è una fattura, si tratta di un suggerimento per una possibile offerta libera e del tutto volontaria che aiuterà a portare avanti questa campagna di diffusione della Medaglia Miracolosa“. Dicono sempre così, e poi magari cominciano a mandarti il giornalino una volta al mese, e chissà, magari vendono i tuoi dati a frate Indovino, o al messaggero di Sant’Antonio, o San Giuseppe, appena scoprono che sei uno di quelli che compila i bollettini c’è mezzo paradiso pronto a invadere la tua buca delle lettere.

Nella primavera del 1832 la medaglia era appena stata coniata dall’orafo Vachette (quai des Orfèvres 54), sulla base delle indicazioni di padre Jean-Marie Aladel, confessore di Catherine, che al tempo era ancora una novizia. Aladel conosceva già da mesi le visioni della ragazza, e per molto tempo era rimasto scettico; solo quando Catherine lo aveva informato che “la vergine era dispiaciuta” si era deciso a chiedere udienza al vescovo di Parigi per chiedere l’autorizzazione a forgiare la medaglietta che Catherine descriveva nelle sue visioni. Il vescovo da parte sua aveva altre preoccupazioni: dopo la rivoluzione del 1830 la sua posizione era piuttosto precaria. La medaglietta avrebbe potuto aiutarlo, purché i miracoli arrivassero in fretta: nel frattempo non era il caso di divulgare le visioni di Catherine, altrimenti sarebbe stato necessario fare un processo per omologare la visione, mandare tutto a Roma, e a Roma sono lentissimi su queste cose. All’inizio insomma la medaglia sembrò spuntare dal nulla.

L’iconografia non era poi così originale: sul verso appaiono, riconoscibili a ogni cristiano di media cultura, due sacri cuori. Quello di Gesù si riconosce dalla corona di spine, quello di Maria dalla spada che, come le aveva annunciato Simeone, “ti trafiggerà il cuore” (Luca 2,35). Sopra c’è una M che sorregge una croce, un rebus abbastanza facile. Il tutto contornato di dodici stelle che, per dirla col lessico giornalistico, sono un vero giallo: benché infatti anche in questo caso il riferimento alle scritture sia molto chiaro (la corona delle dodici stelle della donna “rivestita dal sole”, in Apocalisse 12,1), Catherine non sembra aver mai parlato di stelle. Forse sono un’aggiunta di padre Aladel, forse l’orafo sentiva semplicemente il bisogno di un motivo che incorniciasse l’ovale. La scelta avrà una conseguenza enorme e imprevista, se è vero che il giovane disegnatore Arsène Heitz stava proprio leggendo un libro sulla medaglia miracolosa nel periodo in cui disegnava bozzetti per la bandiera del Consiglio Europeo; ne propose diversi, ma alla fine la giuria laica e inconsapevole scelse proprio la corona di dodici stelle in campo azzurro, che poi fu ripresa dagli altri organismi europei e oggi è la bandiera della UE che gli ucraini nei cortei sventolano con allegro coraggio e i forconi italiani strappano rabbiosi dai pennoni degli edifici pubblici (non si potrebbe semplicemente fare uno scambio? i forconi per tre mesi in Ucraina, gli ucraini al loro posto in Italia, vediamo chi cambia idea su cosa). Gli euroburocrati non se ne erano resi conto – e continuano a smentire – ma hanno messo un simbolo mariano sulla bandiera federale: se aggiungi che la scelta fu presa proprio un otto dicembre, festa dell’Immacolata Concezione… però tutte queste cose le racconta Vittorio Messori, e forse andrebbero ricontrollate una per una.

Catherine, con i suoi gadget

Di tutto ciò Catherine è innocente: lei le dodici stelle non le aveva proprio viste. Aveva visto invece la Madonna raggiante custodire un pianeta nella mano, e aveva sentito una voce dire “Questo piccolo globo simboleggia il mondo intero e ogni anima in particolare“. Ogni anima è un mondo, non è mica una brutta immagine: ma nella medaglietta non c’è. Ci sono i raggi che “simboleggiano le grazie che la Santa Vergine ottiene per coloro che le domandano“: però il pianeta non c’è più, Aladel lo ha rimosso. La spiegazione più semplice tira in ballo la politica: il globo era una delle insegne regali. Nella prima metà dell’Ottocento era ancora universalmente collegato alla monarchia assoluta, quella che i francesi avevano appena liquidato con la rivoluzione del 1830. Il vescovo in quell’anno aveva dovuto lasciare la sede due volte onde evitare linciaggi e saccheggi; non era veramente il caso di mettere in giro medaglie di gusto monarchico-legittimista (di lì a poco anche i legittimisti saranno accusati di diffondere il colera). Eppure al globo Catherine ci teneva particolarmente: fino alla morte insistette affinché almeno la cappella del suo convento in rue de Bac si dotasse di un altare con la Madonna e il globo.

La cornice sul recto della medaglia non è stellata, ma reca l’iscrizione “O Marie, conçue sans péché, priez pour nous qui avons recours à vous“: o Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ci affidiamo a voi. Così aveva udito Catherine, e così fu inciso nella medaglietta: sfidando l’autorità ecclesiastica, che non aveva ancora definito il dogma dell’immacolata concezione. D’altro canto il modello per la medaglietta fu una statua dell’Immacolata (opera settecentesca di Edmé Bouchardon) esposta nella chiesa di Saint Sulpice, insomma, l’immacolata non era esattamente un concetto originale. Il successo della medaglietta però ebbe l’effetto di sbloccare l’antico stallo tra maculisti e immaculisti e a ridare vigore a questi ultimi: il papa Gregorio XVI concesse la festa dell’otto dicembre, ma a decidersi una volta per tutte e a proclamare il dogma fu Pio IX nel 1854. Per la prima volta un dogma veniva dichiarato da un papa e non da un concilio: dunque il pontefice si considerava infallibile? La cosa avrebbe richiesto un altro concilio, ma nel frattempo a troncare la discussione intervenne la Madonna stessa, che apparendo nel 1858 all’ignara Bernardette Soubirous, le si presentò in perfetto occitano: “Que soy era immaculada concepciou“. Ora uno degli argomenti che si sentono spesso, a favore di Bernardette, è che non fosse culturalmente in grado di inventare quello che stava raccontando: era una pastorella analfabeta, non aveva mai sentito parlare del dogma dell’immacolata concezione. Sarà. Però al collo aveva una medaglietta miracolosa in cui Maria era definita “concepita senza peccato”, ovvero immaculada. Certo, Berardette era analfabeta. Magari nessuno le aveva spiegato cosa stava scritto in quella medaglietta. Ma insomma di apparizioni mariane poteva aver già sentito parlare, visto che ne portava al collo un’effigie. Dal canto suo, suor Catherine non appena seppe di Bernardette e delle apparizioni di Lourdes dichiarò: “È la stessa”.

L’altro miracolo importante a cui è associata la medaglietta è la conversione dell’avvocato Alphonse Marie Ratisbonne durante una gita a Roma nel 1842. Professando un orgoglioso ateismo, il giovane di belle speranze accetta la sfida di un’amica di famiglia, che le propone di indossare la medaglietta e di recitare una preghiera di San Bernardo. La notte stessa nella sua camera d’albergo vede una croce, ma al risveglio l’ha già dimenticata. Il giorno dopo, mentre cerca affannosamente di vedere il papa (è l’ultimo desiderio prima di lasciare l’Urbe), segue incautamente l’amico nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte: lì ha una visione mariana che gli cambia la vita per sempre. Doveva lasciare l’Italia, salpare per l’oriente, vedere un altro po’ di mondo prima di tornare a casa e sposare una nipote; decide lì per lì di battezzarsi e farsi monaco. Non c’è neanche bisogno di catechizzarlo perché all’improvviso conosce tutti i dogmi della fede cristiana. Alla conversione miracolosa verrà date ampia risonanza anche perché Alphonse Marie (fino a quel momento Alphonse Tobias) era di origine ebraica: e poche ore prima di infilare la medaglietta fatale aveva visitato il ghetto di Roma, scandalizzandosi per le condizioni in cui vivevano gli ebrei della città. Poi gli appare la madonna e da lì in poi tutto gli è chiaro, compresa la segregazione.

Ratisbonne dopo la cura

Dopo una breve militanza nei gesuiti, Ratisbonne fonderà il proprio ordine, con la priorità della conversione di musulmani ed ebrei. Terminerà i suoi giorni in Palestina. Il racconto della sua conversione, steso da lui medesimo, è un altro di quei memoriali ottocenteschi che sembrano invocare l’arrivo di Freud. Per quanto dichiari a ogni pagina di non aver mai ricevuto nessun tipo di cultura religiosa, né ebraica né cristiana, Ratisbonne inciampa nell’idea di Dio continuamente. Racconta per esempio di aver troncato di netto i rapporti col fratello maggiore, che si era convertito qualche anno prima, e che aveva dedicato un saggio monografico proprio su San Bernardo – tu guarda la coincidenza. Del fratello Alphonse non voleva più nemmeno sentir parlare (poi andranno in Palestina assieme). Alphonse ammette ancora di aver partecipato almeno a una riunione di ebrei che avrebbe avuto come oggetto una riforma dell’ebraismo, anche se garantisce che per tutta la riunione non si discusse mai di Dio, né della sua legge: e si capisce che lo dice con rammarico. Quando l’amica di famiglia gli propone di pregare San Bernardo, accetta con allegria, e per un attimo gli balena l’idea di uno scambio: purtroppo non conosce nessuna preghiera ebraica da insegnare all’amica.

Tutto insomma contribuisce a proiettare la figura dell’ateo devoto: quel tipo di persona che, con la scusa di ribadire che non esiste, ha in bocca dio continuamente. Sono i più facili da convertire, di solito stanno soltanto aspettando la spinta giusta. La signora che gli mise al collo la medaglietta conosceva il suo pollo, per così dire. Ma ancora oggi è abbastanza facile tracciarli, gli atei così. Sono loro stessi che escono allo scoperto, con lunghi discorsi che all’orecchio annoiato dell’esperto suonano come un semplice grido: convertimi convertimi! non subito, ma presto! Il resto del tempo stanno spiegando la religione ai papi o la scienza agli scienziati, o viceversa, a un certo livello è uguale. C’è poco da fare ironia, magari siamo tutti così. È piuttosto plausibile che una certa tensione verso l’assoluto, una certa ansia di sottomissione a una divinità, siano eredità ancestrali, genetiche magari: poi subentra l’educazione, e soprattutto in certi contesti si tende a reprimere anche queste inclinazioni: non si rutta a tavola e non si pensa a Dio. Prima o poi, però, come sappiamo, salta fuori tutto; alcuni riescono a sublimare dedicandosi ad altre speculazioni metafisiche: la filosofia, la matematica magari. Altri non ce la fanno. Rimane in loro questo vuoto pazzesco e non sanno come gestirlo. Potrebbe capitare a chiunque. Se almeno si potesse capire per tempo se siamo quel tipo di persone… forse un giorno basterà un analisi del dna… ma nel frattempo. Nel frattempo potreste replicare l’esperimento di Alphonse: accattatevi la medaglietta su internet, ripetete la preghiera di San Bernardo, vedete come va. Se non avete allucinazioni nel giro di una settimana, forse non siete quel tipo di persone. Magari un giorno ci provo anch’io. Appena trovo la medaglietta. Da qualche parte deve pur essere, non butto mai via niente. In ogni caso non c’è fretta, come diceva quello [2013].

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Il film più spaventoso che guarderò quest’anno

Dici che sei mia figlia e sei un’attrice, uhm, specie quest’ultima cosa mi lascia perplessa.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Una volta ho letto di un paesino in Olanda che in realtà non è un paesino vero, è un’enorme casa di cura per malati di quella malattia, quella che ti mangia i ricordi. Poche cose mi fanno più paura. All’inizio sembri soltanto un po’ più sbadato del solito. Ti distrai, cambi argomento e sembra quasi che lo fai apposta. A volte lo fai apposta per non far capire che non ti ricordi più di che argomento stai parlando. La tua mente elabora strategie per tenerti in sella anche se non reggi più il ritmo di una banale conversazione. Finché a un certo punto non ti ricordi più esattamente con chi stai conversando, chi è quella brava giovane? Qualcuno ti ricorda che è tua figlia. Ah. Ma certo, naturalmente.

 

Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Descrive un inferno dal vestibolo. D’altro canto, qualcuno ha davvero voglia di entrare a guardare com’è fatto l’inferno? La persona a te più cara potrebbe svegliarti nel cuore della notte e non riconoscerti. Tutte le notti. Quanti ricordi devi perdere prima di non essere più te stesso? Una volta ho letto di un paesino in Olanda, appunto, che in realtà non è un paesino vero, ma un’enorme casa di cura. Telecamere in tutte le strade. E un sacco di personale di servizio – giardinieri, vigili urbani – che in realtà sono dottori e infermieri. È una storia che mi ha scosso perché, effettivamente, come posso essere sicuro di non vivere in un posto del genere già in questo momento? E come puoi esserne sicuro tu che mi leggi? Ti ricordi cosa stavi facendo cinque minuti fa? A cosa stavi pensando un attimo prima di cliccare qui sopra?

 

D’altro canto come faccio a essere sicuro che tu esisti. Se io vivessi laggiù mi avrebbero tolto internet da un pezzo. Però avrei ancora l’illusione di scrivere, magari su una rete chiusa al pubblico, con qualche infermiere che viene a complimentarsi nei commenti. Probabilmente scriverei lo stesso pezzo all’infinito, senza mai pubblicarlo. Oppure lo pubblicherei una dozzina di volte, con qualche variazione. Di cosa stavamo parlando?

 

Ok magari sei davvero mia figlia, ma un’attrice? Siamo seri su.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? Still Alice è un film misurato, mettiamola così. Il tema – una delle malattie più spaventose – si prestava a tutta una serie di possibilità cinematografiche che i registi hanno scartato, optando quasi sempre per le soluzioni più banali (i ricordi sono girati, indovinate, in super8). In sostanza è un film dove Julianne Moore – ovviamente bravissima – perde la memoria. Alec Baldwin rimane forse un po’ troppo ingessato nel ruolo del marito che a un certo punto non ce la fa più. Kristen Stewart invece è la figlia di Alice, un’attrice fallita – la sua migliore interpretazione, ah ah ah – no, in realtà almeno nella versione doppiata i suoi monologhi sono un po’ imbarazzanti. Molte scene sono efficaci nell’esprimere un orrore quotidiano che è più spaventoso di quello di tanti horror contemporanei, ma alla fine la sensazione è che i registi si siano contentati di descrivere un inferno dal vestibolo. I malati possono comportarsi in modo molto più osceno di così. Possono picchiarti perché nel cuore della notte si svegliano e non ti riconoscono. Possono prendere un figlio per un padre, un nipote per un marito. I malati di quella malattia.

 

Quella che mi fa più paura di ogni altra al mondo.

 

All’inizio il Manitoba era minuscolo.

C’è un posto in Olanda di cui ho sentito parlare, dove i pazienti sono convinti di vivere una vita normale. Hanno le loro case, i loro amici. Ma le case sono quartieri di una clinica, gli amici sono altri pazienti, e i dottori sono giardinieri e vigili travestiti. Pare che vivano meglio così, più a lungo e con meno medicine. Mi domando se ci possa essere internet, in un posto così. Magari una rete interna. In effetti i primi stadi della malattia somigliano in un qualche modo alla nostra esperienza on line. Tu accendi per controllare la data di scadenza del bollo e, wow, guarda che video di gattini! Postato dalla Columbia Britannica. Che poi tra parentesi dov’è? In Canada credo, fammi controllare – giusto. Ma perché si chiama così? Ah, ma a un certo punto anche gli Stati Uniti dovevano chiamarsi “Columbia”, ecco, questo non lo sapevo! Un attimo.

 

Perché sto controllando la voce Columbia di wikipedia?

Dov’ero un attimo fa? Cosa stavo cercando?

In questi casi a volte lambiccarsi è inutile, meglio andare a controllare la cronologia. Dunque. Kristen Stewart?

Perché sono andato a controllare la bio di Kristen Stewart? Non mi piace nemmeno.

Ha sempre quel broncetto che – no, un momento. Diamo un’occhiata all’ultimo film che ha fatto. Ah, certo, naturalmente.

 

Posso anche credere che tu sia mia figlia, ma un’attrice la so ancora riconoscere che ti credi.

Still Alice (Richard Glatzer, Wash Westmoreland, 2014)

 

Quanti ricordi puoi perdere prima di smettere di essere te stessa? In uno dei momenti più tranquillamente atroci del film – il film più spaventoso che ho intenzione di vedere quest’anno – il dottore spiega ad Alice che i pazienti intellettuali rendono più difficile il lavoro ai dottori. La memoria se ne va lo stesso, più o meno alla stessa velocità, ma la mente dell’intellettuale conosce più trucchi per tenersi in sella. Forse la cultura, l’istruzione, in fin della fiera consistono in questo: un repertorio di trucchi per ricordare meglio le cose. Se hai studiato sai come girare intorno a un argomento all’infinito. Dopo un po’ la gente penserà che ci stai scherzando su. Tu stesso penserai che ci stai scherzando su, e che se solo volessi potresti ricordare benissimo quella parola. Quella data. Quel volto. Quel ricordo.

 

È un po’ come quando ti perdi su internet – esiste un posto in Olanda dove i pazienti vivono in una clinica a forma di paesino – beh, immagino che passino il tempo a discutere un po’ come noi discutiamo su Facebook, di tutto e di niente. Non si sa bene chi abbia cominciato la discussione, ogni tanto in cima compare un video di gatti e ci mettiamo tutti a guardarlo, poi ci rimettiamo a parlare di qualcosa o di qualcos’altro ma senza mai concludere nulla, e del resto che dovremmo concludere? Non ci ricordiamo neanche bene come siamo arrivati qui, e però adesso ci siamo e almeno non stiamo picchiando qualche famigliare perché non lo riconosciamo più.

 

Still Alice si sporge sul bordo dell’inferno, ma non guarda troppo a fondo e forse è un bene. Non c’è niente di davvero interessante laggiù. L’aspetto realmente spaventoso della malattia è il suo primo manifestarsi, con una dimenticanza occasionale, un lapsus, una parola che hai sulla punta della lingua. E allora controlli internet – uh, guarda, c’è un video di cani che interrompono i padroni mentre fanno yoga. Sono buffi.

D’altro canto se continuo a guardare video su internet la recensione quando la scriverò?

La recensione di cosa, poi? Devo ancora guardare il film.

Scusate, è un periodo che sono così distratto – facciamo che se ne riparla domani.

 

(Mentre cercavo di scrivere la recensione in effetti Still Alice è sparito dalle sale di Cuneo. Lo trovate ancora a Moncalieri alle 19:50).

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Fassbender canta! (ma a Moncalieri lo doppiano).

In un qualche modo il mascherone riesce sempre a essere straordinariamente espressivo.

Frank (Lenny Abrahamson, 2014)

 

Otto mesi di reclusione in campagna, torture psicologiche e cibo razionato, sessioni di 14 ore; cosa succederebbe oggi a un folle come Captain Beefheart, se infliggesse ai suoi musicisti le privazioni che portarono la Magic Band a realizzare nel 1968 l’acclamato e invendibile Trout Mask Replica? Se tra i giovani adepti del guru musicale di turno ce ne fosse uno con uno smartphone e tanta voglia di condividere qualsiasi stravaganza su twitter o facebook, come andrebbe a finire? Il guru diventerebbe più o meno famoso? E per i motivi giusti o quelli sbagliati? Ma esistono motivi giusti?

 

Frank è un bel film di Lenny Abrahamson che gravitando intorno all’eterno conflitto tra genio e mediocrità, successo e integrità, ispirazione e malattia mentale, si permette di dire un paio di cose niente affatto banali. L’omonimo protagonista è il leader di una band avantgarde che non toglie mai la testa da una inquietante maschera di cartapesta (ispirata al personaggio di un cabarettista inglese, Frank Sidebottom – il film era nato come un biopic su di lui, poi ha preso tutta un’altra strada). Sulla sua strada incontra Jon, giovane tastierista alla ricerca del proprio talento, che forse semplicemente non esiste. Amadeus? Pallottole su Broadway? Siamo da quelle parti, ma c’è qualcosa di nuovo: i social network, per esempio. Due mondi entrano in collisione: Frank è un fantasma della storia del rock, ispirato ad artisti schizoidi come Captain Beefheart o Daniel Johnston (anche se Fassbender gli presta un timbro vocale vagamente Jim-Morrisoniano). Jon è un giovane due-punto-zero; se lo prendono a coltellate non si difende ma si fa un video-selfie e lo posta immediatamente su youtube. Tra i due non potrà mai funzionare, o no? Andatelo a vedere.

FASSBENDER SINGS! Le canzoni non sono davvero malaccio, se vi piace il genere.

Dove?

All’UCI di Moncalieri (15:25, 20:10, 22:35; ma cominciano sempre molto in ritardo).

Uh, lontano. In lingua originale, almeno? Perché è un film dove Fassbender recita in una maschera di cartapesta, passando da un momento all’altro dal semplice dialogo al canto. Quindi, insomma, in lingua originale avrebbe più senso…

No.

C’è solo a Moncalieri ed è doppiato.

Seh, vabbe’, chi voglio prendere in giro. 

Probabilmente è inutile lamentarsi – perlomeno, saranno dieci anni che ci lamentiamo – io a questo punto preferirei parlarne con qualcuno che ci lavora davvero, nella distribuzione, qualcuno che davvero sa come funzionano le cose. Perché non ne faccio mica una questione di integrità artistica, santo cielo, io se Interstellar esce il sei novembre in tutto il mondo non ho nessuna difficoltà a vedermi Interstellar doppiato. Ma anche se gli cambiassero il titolo, cosa vuoi che freghi a me. Mi dici che se lo intitoli Amore e Buchi Neri ci riempi dieci sale in più? Anche solo cinque sale in più? Ma figurati, per salvare la nobile industria del cinematografo puoi intitolarlo anche Se mi cucini ancora polenta io cambio galassia, mi farò una risata cogli amici su facebook ma poi ci vado lo stesso

 

L’originale Frank Sidebottom (persino più inquietante).

Ma me lo spiegate che soldi intendete fare con un film di nicchia come Frank, distribuendolo doppiato non solo a sei mesi dalla sua uscita in patria (non ci sarebbe niente di male), non solo quattro mesi dopo che lo abbiamo visto al Biografilm Festival di Bologna, ma due mesi dopo che è stato reso disponibile on line in Gran Bretagna? A quel punto è chiaro che cominceranno a circolare copie piratate perfette. È chiaro che qualcuno si prenderà la briga di sottotitolarle. E quindi, insomma, qual è il senso di uscire a novembre con Frank senza neanche farci sentire Fassbender che mugugna sotto la maschera? Che pubblico avete in mente, esattamente? Quelli che erano venuti per vedere De Sica nella sala di fianco e non hanno trovato poltrone libere? Perché quelli che invece avevano sentito parlare di Frank a questo punto l’hanno già visto anche due o tre volte comodi comodi a casa loro, risparmiando pure sette euro. Li vogliamo biasimare?

 

Sul serio: vorrei parlarci, con qualcuno che questi problemi se li pone di mestiere, e chiedergli se davvero siamo messi così male – va bene la crisi, ma gli studenti universitari in aperitivo dalle sette alle dieci, possibile che non ce li avessero sette-otto euro per vedersi Frank fresco, appena uscito? Vogliamo provare davvero a scucirglieli? Un film del genere, che tra le altre cose è un manifesto dello snobismo, sembra fatto apposta per attirare i puristi della versione originale e allontanare tutti gli altri. Se non lo hai capito, probabilmente non lo hai visto. E pazienza. Ma vuoi provare almeno a venderlo? Non dovrebbe essere il tuo lavoro? Boh. 

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HIV Texas Cowboy

Ok, magari non qui, ma in certe scene è sexy vi giuro.

Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013).

 

Dottore, te lo dico un’ultima volta: posa quella siringa e lasciami andare. Non sono una delle vostre cavie fottute. Non è ancora mutato il retrovirus che si porterà Ron Woodroof nella tomba. Forse avete sentito parlare di Dallas Buyers Club come del film in cui un bellone di Hollywood riscatta un passato di orribili commedie romantiche in serie, perde millanta chilogrammi e si sistema in uno dei ruoli preferiti dalla giuria degli Oscar: il sieropositivo macilento ma non domo. E a questo punto magari in voi sta già suonando un allarme: film ricattatorio, buoni sentimenti, moribondi che si abbracciano con soprani in sottofondo. Disattivate quell’allarme. Dallas Buyers Club è un western. E Matthew McConaughey (che è sempre stato un ottimo attore; purtroppo le commedie romantiche pagano di più) è un vero Texas cowboy a cui puoi togliere tutti i chili che vuoi – gliene restano abbastanza per mandarti al tappeto. Gli sguardi che ogni tanto gli riserva il transgender Rayon (Jared Leto, anche lui memorabile) sembrano tradire il punto di vista del regista: troppo facile commuoverci con sieropositivi gentili o raffinati, oggi soffrirete e piangerete per un puttaniere omofobo che puzza di rodeo e vive in una baracca.

 

Voglio però ricordarti com’eri (Uno studio comparato delle locandine dei suoi film, da Cracked.com)

Com’è vero che la morte tira fuori qualcosa di diverso in ogni uomo. All’inizio del film Ron ha un mese di vita e potrebbe benissimo spenderlo in coca e spogliarelli. E invece lo ritroviamo in biblioteca davanti a un lettore di microfilm (la postazione internet degli anni Ottanta). Da spacciatore di sostanze “non approvate” a uomo d’affari, contro un nemico che è sempre meno l’Aids è sempre di più lo Stato, l’odioso tiranno che impedisce a ogni buon cittadino di curarsi e arricchirsi come vuole. Ron è talmente texano che a un certo punto chiede un’ordinanza restrittiva per il governo federale –  gli Stati Uniti d’America devono stare lontani dal suo motel!

 

Qui è quando s’innamora e noi con lei

Prima di diventare un film, Dallas è stato un soggetto proposto e rifiutato per vent’anni. Affinché la “storia vera” diventasse una storia vendibile, è stato forse necessario rendere Ron molto più cowboy di quanto non fosse l’originale: metterlo in groppa a un toro (benché appassionato di rodeo non ne cavalcò mai uno), togliergli la figlia, affinché in una scena topica rimpiangesse di non averne mai avute; enfatizzarne l’omofobia, tema caro a Vallée; e soprattutto mettergli contro l’intero Dallas Mercy Hospital, il ranch dove i malvagi dottori sperimentano intrugli nocivi per arricchire le multinazionali.

 

Farfalle.

Le cose sono ovviamente più sfumate di così; persino nei titoli di coda si ammette con una certa onestà che l’AZT, il veleno che secondo Ron stava facendo una strage, è ancora oggi uno degli ingredienti del cocktail di farmaci che tiene in vita milioni di sieropositivi. E d’altro canto la macchina farmaceutica, vista dall’individuo, è davvero un Moloch spaventoso contro cui ribellarsi: Ron ha la sfortuna di ammalarsi nel momento in cui i sieropositivi cadono come mosche, le multinazionali stanno cominciando a sperimentare farmaci su di loro, e il rischio di accelerarne la morte è calcolato. Di fronte a un destino tagliato così male, Ron si ribella e ha almeno la fortuna di trovare la persona giusta: in una clinica messicana, un medico radiato ma ancora abbonato a Lancet, che gli fa provare il peptide T, non ancora approvato negli USA. Pensa se invece incontrava un Vannoni. 

 

“Matthew McConaughey… GHIGNA STUPIDAMENTE PER 90 MINUTI!” “Esatto, è tutto quello che succede” (NY Times). (Da Cracked.com).

In effetti quello che può lasciare disorientati alla visione di Dallas non sono gli aspetti ripugnanti dell’eroe – a quelli siamo abituati, al cinema e soprattutto in tv è una gara a chi ci propina l’eroe più moralmente discutibile. È che Dallas è un film che mette in discussione le istituzioni farmaceutiche; il che può avere un senso in generale, ma si adatta male al nostro essere spettatori italiani negli anni ’10, in una fase di particolare recrudescenza di santoni e ciarlatani. Almeno Ron non ha mai chiesto allo Stato di rimborsare i farmaci che trafficava.

 

Dallas Buyers Club è al Vittoria di Bra alle 20:15 e alle 22:30 e al Fiamma di Cuneo alle 21:10; francamente non so se resisterà oltre giovedì (magari poi torna nelle sale dopo gli Oscar). È il tipico film di nicchia che molti preferirebbero guardare in lingua originale. Non abbastanza per farlo programmare in una sala della provincia di Cuneo, questo si sa. Ma abbastanza per rendere la versione sottotitolata in streaming un’alternativa interessante, ancorché illegale. Come può difendersi la distribuzione italiana da una concorrenza così sleale? Magari una settimana dopo il debutto nelle sale americane si potrebbe mettere in commercio una versione on line sottotitolata: qualche spilorcio continuerebbe a rubare, ma molti pagherebbero volentieri anche sei o sette euro, come al cinema. Oppure si può lasciare tutto com’è, doppiare l’accento texano di McConaughey, e terrorizzare i potenziali ladri di contenuto con qualche spot terrorizzante all’inizio dei dvd. Se hanno scelto questa seconda strada si vede che funziona.