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Nel giardino delle attrici castratrici

L’inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)

Al di là del bosco c’è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita – in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta

A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c’è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott’acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure “la fotografia subacquea è così bella“. La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora – che in effetti spesso è frastornante – eppure c’è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall’acqua. E poi c’è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine – in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l’epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l’ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c’è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio?)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e – al contrario delle collegiali bianche – non parlava un buon inglese. D’altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t’insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l’unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l’approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C’è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po’ ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n’è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.

 

Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un’arroganza da autrice, mi sembra un po’ sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L’inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.

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A Dunkerque il cinema resiste

Dunkirk (Christopher Nolan, 2017)

Hai mai visto una spiaggia della Manica, quando il mare è così basso che sembra un deserto? Hai visto la schiuma strisciare spinta dal vento? Hai sentito l’urlo degli Stuka, il gemito di chi sta affogando nella stiva di una nave che cola a picco? Hai guardato il cielo e chiuso gli occhi, pensando che stavolta toccava a te? Sai quanto poco dista Dover da Dunkerque, una ritirata da una vittoria, un eroe che lotta per resistere da un vigliacco che ha paura di morire, un congegno meccanico di precisione da un capolavoro? Adesso che sai tutte queste cose, perché le hai viste e le hai sentite in un sogno di una settimana, di un giorno, di novanta minuti – torna pure a casa e scrivi che Dunkirk in fondo non è quel gran film che tutti dicono: che non c’è storia e non ci sono personaggi: solo gelidi meccanismi di attesa che scattano senza pietà per intrappolare gli spettatori. Che Nolan, per carità, regista sublime: ma noi volevamo vedere la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi cattivi, gli inglesi flemmatici, i francesi disperati – e lui anche stavolta è come se si mettesse davanti coi suoi trucchi, con le sue musiche a effetto, coi suoi orologi da sincronizzare. Che tanta tecnica può lasciare freddi, tanta lucidità può dare la vertigine: e che la Dunkerque del tuo cuore alla fine resta ancora quella del lungo piano sequenza di Espiazione

Nell’ultimo momento c’è chi si tappa le orecchie e chi prende la mira.

Ogni sconfitta può sembrare una vittoria, se la inquadri nel modo giusto. Il desiderio condiviso, e comprensibile, di salutare in Dunkirk il film dell’anno, è il rovescio di una constatazione amara: non è che ci siano tutti questi capolavori in giro per le sale ultimamente. Sia Hollywood che il cinema d’autore europeo sembrano navigare a vista, mentre le corazzate della serialità televisiva dilagano nel bacino dei giovani spettatori (quelli che se non si fanno una sensibilità cinematografica adesso, tra cinque anni in sala non verranno più: o al massimo per vedere la maxipuntata di un prodotto seriale come un cinecomic). Dunkirk è, tra le altre cose, un disperato manifesto di vitalità del cinema: non tanto per il feticismo della pellicola 70mm, ma per la sintassi così orgogliosamente antitelevisiva. In questo ricorda un film apparentemente diversissimo, Gravity: si tratta di due film brevi, senza tempi morti, che chiedono allo spettatore una specie di apnea: fai un bel respiro e ci risentiamo tra un’ora e mezza. Nolan ci promette lacrime, sudore e sangue (in realtà pochissimo), ma ci dice che la tv non è invincibile, che il cinema resisterà, perché c’è qualcosa che soltanto il cinema può fare.

 

Sangue e nafta

E però il cinema non è solo Nolan: non sei obbligato a condividere le sue ossessioni; ti è concesso restare diffidente nei confronti di un orologiaio che concepisce ogni film come un meccanismo di precisione. Non tutti vengono perfetti: quando oscillano un po’ sbilenchi puoi criticarne i difetti più evidenti, irridere le ambizioni eccessive del progettista. Altre volte sembrano girare a meraviglia, al punto che hai la sensazione che non si fermeranno mai. In questo caso puoi sempre obiettare che non c’è niente di così profondo in un meccanismo che funziona; è vero, c’è un momento vero la fine del film in cui l’ansia per la sorte dei personaggi cede il posto a una strana soddisfazione pre-intellettuale, il sollievo di chi vede un puzzle completarsi tessera dopo tessera, il piacere che si prova a unire i puntini e scoprire il senso del disegno. Non è esattamente quel tipo di sensazione che ci si aspetta di provare mentre l’Inghilterra lotta per la libertà del mondo, ma è qualcosa che rende i film di Nolan diversi da tutti gli altri, e non è poco. Nel momento in cui tutti sembrano considerarci spugne emozionali, da imbevere e strizzare a piacere, lui almeno lavora su stimoli diversi. Alla fine ci strizza anche lui, ma qualcosa rimane. Su quella spiaggia, ci siamo stati. Per una settimana, per un giorno, per un’ora. Abbiamo visto la marea riportare i compagni a riva, abbiamo provato a saltare la fila, abbiamo creduto di potercela fare remando fino a Dover: abbiamo deciso che non entreremo mai più in una camera stagna. E intanto, dall’altra parte, ci siamo chiesti fino a che punto potevamo spingerci senza spia nel serbatoio e senza un sonar per gli U-Boot; il punto in cui il coraggio sarebbe diventato irresponsabilità e follia. Magari Nolan non è tutto il cinema, ma il cinema ha parecchio bisogno di lui. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 21:30, 22:40); Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (21:15), al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

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Aspettando il re, trovando una mamma

Aspettando il re (A Hologram for the King, Tom Tykwer, 2016)

Un giorno potresti ritrovarti a vivere in una baracca dall’altra parte del mondo.
Un giorno potresti ritrovarti dietro il volante di un’enorme automobile, in una bella casa, con una bella moglie.
Un giorno potresti chiederti: ma come ci sono arrivato?

Certi film – li riconoscevi dalla locandina – servivano soprattutto a viaggiare. Per il pubblico si trattava di un’alternativa low budget a viaggi veri che non si poteva permettere: film-safari con zebre e rinoceronti e selvaggi. Certi film funzionavano così. Aspettando il re sembra voler perpetuare la tradizione, individuando in Tom Hanks l’Homo Occidentalis per eccellenza, in perenne crisi esistenziale ed economica, e calandolo in una delle mete turistiche tuttora più difficili per gli occidentali: l’Arabia Saudita (ricostruita in Egitto). La prima scena dice tutto: unico non-musulmano su un aereo di linea, mentre gli altri pregano il loro Dio Hanks sogna di vivere nel video di Once in a Lifetime, Talking Heads. Lo seguiremo in un albergo, nel fatiscente cantiere di un nuovo polo tecnologico che è ovviamente un luogo di smarrimento metafisico oltre che una metafora delle vacue velleità delle dinastie dei petrodollari. Insieme a lui cercheremo di capire come si può passare anche solo qualche giorno in un Paese in cui in teoria è vietato bere alcool; grazie a lui daremo una sbirciatina alle festicciole delle ambasciate europee e addirittura riusciremo per qualche istante a intrufolarci alla Mecca, città proibita agli infedeli. Non ci capiremo un granché, proprio come succede ai turisti veri, ma alla fine ci sentiremo comunque arricchiti. Non troveremo Dio ma magari l’amore (caccia via), proprio come in quei vecchi film con gli esploratori biondi e le dive un po’ esotiche. Quest’ultima cosa magari non era prevista nell’omonimo libro di Dave Eggers, ma evidentemente lo sceneggiatore e regista Tom Tykwer ne sentiva l’esigenza.


A Hologram 
è l’ultima aggiunta al suo catalogo, sempre più simile al risultato di un esperimento surrealista: estrarre sei film a caso da Imdb e immaginare che li abbia girati tutti lo stesso autore. Nel suo caso sono usciti: Lola corre, l‘ultima sceneggiatura di Kieslowski (ambientata in Italia!), Profumo, un thriller con Clive Owen e Naomi Watts, e poi un fecondo sodalizio con le sorelle Wachowski, con cui ha realizzato Cloud Atlas e la serie Sense8. Dopodiché avrebbe davvero potuto girare qualsiasi cosa, noir thailandesi o documentari sull’Amazzonia. In questo senso A Hologram è un viaggio deludente, non tanto per la destinazione, ma per il punto di vista che sceglie di adottare che è quello dell’occidentale in assoluto più standard e spaesato: l’Americano.

 

 

La storia del manager in trasferta, oberato dai sensi di colpa per aver collaborato alla delocalizzazione e allo smantellamento del Made in USA, sembrava già un po’ datata quando uscì il libro – cinque anni fa: ora, con la disoccupazione statunitense in costante calo, suona sinistramente affine a certe tirate elettorali di Trump. All’angoscia vagamente beckettiana evocata da Eggers, Tykwer sovrappone la sensibilità paranoide che ha mutuato dalle sorelle Wachowski; in un paesaggio che è già surreale di suo, tra deserti e grattacieli, non serve molto per suggerire che il venditore di ologrammi Hanks sia vittima di un gigantesco scherzo, un meta-ologramma. Ma chi si aspetta un finale sconvolgente e rivelatore si prepara a una delusione: a un certo punto è come se sulla sceneggiatura fosse caduto un po’ di zucchero, se non un’intera zuccheriera. Tykwer sembra sinceramente preoccupato non soltanto per il suo protagonista stanco e disperato, ma per tutti i cinquantenni che lo hanno seguito per più di un’ora, condividendone ansie e disagi a dire la verità più americani che universali (il college della figlia, status irrinunciabile!)

 

 

Alla fine non si tratta più di portare in viaggio gli spettatori, ma di confortarli: quella cisti non è necessariamente un tumore, quell’affanno è più panico che infarto; gli affari possono andare male, non è la fine del mondo: e anche i matrimoni, ma se guardi bene da qualche parte c’è già qualcuno disposto a medicarti e consolarti. È un film che in sostanza smette di guardarsi intorno e comincia a cercare la mamma: ma almeno la trova incarnata nelle forme antihollywoodiane di Sarita Choudhury. Vent’anni fa era la Tara di Kamasutra: oggi ne ha cinquanta, è una bellissima signora e non è affatto difficile capire perché l’uomo-Tom Hanks si senta attratto da lei. Quello che alla fine della visione rimane non spiegato è cosa possa aver trovato lei in un americano spaurito e senza direzione. Nei film di una volta sarebbe stata una domanda inutile: l’uomo bianco era affascinante in quanto bianco. Aspettando il re è al cinema Monviso di Cuneo da giovedì 31 agosto a martedì 5 settembre alle 21.

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Ultimo treno per il ’96

T2: Trainspotting (Danny Boyle, 2017).

Se stai leggendo questo, è perché circa 20 anni fa hai scelto la vita, dopotutto. Hai scelto un lavoro. Una carriera. La famiglia. Il televisore full hd 42 pollici. Hai scelto la lavatrice, la macchina, lo smartphone e l’apriscatole elettrico. La buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita. Hai scelto il mutuo a interessi fissi. La prima casa. Gli amici. Già, gli amici.

Magari quando hai sentito che usciva il seguito di Trainspotting ti è venuto voglia di risentirli, gli amici (a parte quello che sta in galera, certo). (E quello che non ti perdona un pacco da vent’anni). (Poi c’è quello che sta morendo, quello che si è trovato la fidanzata bulgara ed è il destino più pericoloso di tutti – a questo punto forse ti era passata la voglia di andare a vedere il seguito di Trainspotting 2).

Se stai leggendo questo, forse hai anche tu una cameretta dove non torni dagli anni Novanta. Un disco che non oseresti mettere sul piatto – hai paura che ne moriresti. E un po’ di voglia di drogarti, ma hai perso tutti i contatti – i cosiddetti amici. E poi lo sai anche tu, che più che voglia di drogarsi è… nostalgia. Quella che ti prende alle spalle, certe volte, davanti a uno scorcio di città o a due foto ingiallite.

Cosa ha riportato insieme Ewan McGregor, Danny Boyle (che per anni non si sono parlati), con lo sceneggiatore John Hodge e l’autore Irvin Welsh (che non ha scritto niente ma fa un cameo)? A parte i soldi, intendo. Anche se i soldi, in effetti, non sono mai stati irrilevanti. Cioè parliamoci chiaro, Trainspotting non era Amici Miei. Le bravate consistevano nel rompere la testa a una ragazza con un bicchiere senza un motivo, il cameratismo serviva a dividere la siringa e si fermava davanti al primo vero mucchio di soldi da dividere. Quindi cosa c’era da rimpiangere? Trainspotting era un film sull’eroina. I personaggi erano esili, intercambiabili, il film non pretendeva di farteli piacere e infatti non ti erano piaciuti; T2 vent’anni dopo li rianima, ma al posto dell’eroina pretende di recuperarli con la nostalgia. Ma certo.

Chi non ha nostalgia per il 1996? Quel momento in cui qualsiasi cosa venisse dalla Gran Bretagna sembrava oro, e con due trucchi da videoclip Boyle sembrava la punta di diamante del cinema giovane mondiale. Ovviamente adesso siamo tutti più sgamati e non ci incanta più, Danny Boyle. Così come i tuoi amici del paese, ora che hai girato la tua parte di mondo, non sei così sicuro di volerli rivedere. C’è stato un momento in cui erano tutto per te: lo yin, lo yang, i punti cardinali. Ma è stato vent’anni fa, cosa ne sapevi in fondo. T2 è un film realizzato senza troppe pretese di verosimiglianza (Begbie evade e nessuno lo va a cercare a casa sua) da una gruppo di persone che non si stimano e che stanno già immaginando dove scapperanno con l’incasso. È un film di truffatori senza truffe – come nel primo episodio, verso la fine i soldi piovono un po’ dal cielo (e prendono direzioni inaspettate, ma logiche). È un film molto cinico, ovviamente: ma anche il cinismo che era merce così preziosa nel ’96 ormai te lo regalano al discount.

È un film che in mancanza d’altri argomenti si mette a fare il moralista, come se volesse porgerti il conto per tutta la gioiosa amoralità del primo episodio, il che sottopone i personaggi già non troppo spessi a torsioni incomprensibili: Begbie deve diventare un buon padre, ma è anche un assassino; Spud non farebbe male a una mosca ma continua a fottere tutti, e così via. T2 è un film che si atteggia a vecchio duro; che ti guarda di sbieco e ti dice: non sei meglio di me, anche tu non hai avuto più niente di meglio del 1996. Ma si sbaglia: io ho avuto tante cose in seguito e le rimpiango tutte più volentieri di Trainspotting. Un bel lavoro, una carriera, la famiglia, il televisore, eccetera. Non sono neanche andato a vederlo al cinema, figurati. Ma lo fanno giovedì 27 luglio all’Arena di Alba alle 21:45 (e si noleggia già su Youtube a €3,99). Here comes Johnny Yen again…

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Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)

2:22 – Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).

Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?

Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?

Grand Central ha già qualcosa di metafisico.

Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l’interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un’ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell’impostore di molte madri), Get Out sull’invidia etnica… 2:22 è un film sull’apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po’ irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell’anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern.

Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti.

Oppure: ieri è mancato Martin Landau, e Attivissimo ha notato che i commossi necrologi pubblicati su molti giornali contenevano tutti la stessa informazione sbagliata: il che significa che tutti la copiavano dalla stessa fonte. La cosa curiosa è che qualche anno fa successe la stessa cosa con Lelio Luttazzi, proprio nella stessa settimana dell’anno, e fui io a notare il fenomeno. Curioso, no? Sarà un pattern? (o sarà che in luglio nelle redazioni c’è ancora meno gente del solito e si scopiazza a tutt’andare?) Insomma i pattern sono veramente interessanti e non è che 2:22 sia il primo film che li scopre (lo stesso Hitchcock con La donna che visse due volte stava affrontando la questione). Semmai il problema è che ne infila troppi, creando un grado di complessità che non è poi in grado di sbrogliare: un tipico problema della fiction recente, sia al cinema che in tv. Ci sono le costellazioni e gli incidenti stradali, le rotte aeree e i fatti di cronaca, e dopo un po’ si perde un filo. Anche i riferimenti ad altri film sono troppi (si va dal Giorno della marmotta all’Esercito delle 12 scimmie), e finiscono per suggerire l’insicurezza degli sceneggiatori e del regista. Il risultato è confuso, e malgrado l’impegno degli attori si dimentica quasi subito. È un peccato, perché pochi film come 2:22 riescono a restituire l’impressione di vivere in una grande metropoli moderna, un meccanismo apparentemente caotico che invece ogni giorno ti regala lo spettacolo di qualche incredibile coincidenza che forse non lo è, forse è il risultato di un’altissima forma di sincronizzazione. E almeno ho scoperto cos’è l’apofenia.

2:22 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all’Italia di Saluzzo (20:00): sconsigliato a chi ha paura di volare.

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C’è un giudice anche in Yemen

La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana’a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent’anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un’occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt’altro che banale. Paga senz’altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen – uno dei paesi più cinematografici del mondo – e di non lesinare in quanto a esterni. Sana’a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate sono un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po’ di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha – e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.

 

Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all’ingiustizia più palese, e un’avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l’approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell’autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.

La sposa bambina è all’Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.

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Tutti gli uomini del cardinale

Il caso Spotlight (Spotlight, 2015, Tom McCarthy)

C’erano una volta i quotidiani. Uscivano una volta sola al giorno, e per stamparli serviva un sacco di gente. Alcuni andavano in giro per il mondo a intervistare persone, ad accorgersi dei fatti. Altri lavoravano per ore e ore chiusi in grandi sale illuminate, senza finestre. Nel seminterrato c’era un enorme archivio di ritagli. Lì c’era semplicemente tutto quello che era successo, anche se trovarlo non era facile. C’erano una volta i quotidiani. Scoprivano le cose. E ne dimenticavano altre.

Buongiorno, sono una vittima. Non piaccio a nessuno. 

Liquidato da alcuni come un film necessario, ma un po’ troppo convenzionale, Spotlight è un oggetto molto più curioso di quanto non appaia a prima vista. Per essere un film sul più grande scandalo di pedofilia della Chiesa cattolica, è notevole quanto poco compaiano sullo schermo sia i bambini sia i preti. Non c’è nessun sadico bavoso in sottana, nessun paperino che piange nascondo rintanato in un angolo. L’orrore è del tutto verbale, riportato da vittime che non sono più bambini da un pezzo – uomini ingrassati, nervosi, non proprio quel genere di persona che ti muove all’empatia. Addirittura il regista sceglie di staccare prima che si mettano a piangere. È una scelta antispettacolare davvero inusuale: un film che invece di commuoverti vuole farti ragionare, pazzesco. Spotlight sulla carta si era scelto i cattivi più facili su cui infierire – i preti pedofili – e invece di segnare a porta vuota, decide di parlare d’altro: di giornalismo, soprattutto.

Alla fine, per una buona metà del tempo
ci sono loro in un ufficio che si spiegano le cose. 

Spotlight parla di abusi dei minori ma potrebbe parlare di scommesse sul baseball, e lo farebbe con lo stesso stile procedurale e quasi documentario che tradisce il transito del regista in una delle officine più importanti e sottovalutate della fiction americana, Law and Order. Quei telefilm ubiqui senza scene d’azione o scene madri, tutti investigazione e procedura, che gratificano lo spettatore non tanto mostrando la punizione del cattivo, ma affermando che con tutte le sue imperfezioni, la Legge funziona e l’Ordine esiste.

Come i detective e i magistrati di L&O, i giornalisti di Spotlight non hanno mai illuminazioni improvvise: non fanno che intervistare testimoni, passarsi informazioni, patteggiare con gli avvocati, spiegarsi le tecnicalità amministrative o giudiziarie. Certo, L&O va giù liscio che è un piacere in 40 minuti: confezionare due ore di investigazione senza annoiare invece è una sfida che forse McCarthy ha perso. In compenso è riuscito come pochi a descrivere una metropoli moderna, Boston, come una grande “piccola città”: un organismo collettivo che convive col suo marciume interiore espellendo ogni tanto qualche “mela marcia”, e che più dei suoi panni sporchi teme le minacce esterne (il nuovo direttore del Globe, ebreo e senza famiglia!)

Aspetta, forse ho sbagliato film.

Il momento storico è cruciale: nell’alba del secolo, la carta sta cominciando a cedere al digitale. Alcuni reporter non hanno ancora un cellulare: una fotocopiatrice accesa al momento giusto può valere uno scoop. Gli annuari stampati, gli immensi archivi di ritagli, tutto è ancora meravigliosamente analogico e cartaceo. Ma è un mondo agli sgoccioli. Il fastidio per il nuovo che avanza e non può più essere arginato è percepibile nel momento in cui crollano le Torri, e il team dei giornalisti è costretto a smembrarsi per seguire la Storia, mandando all’aria mesi di lavoro. È ironicamente proprio un prete sul pulpito a spiegare una delle possibili lezioni del film: no, dice, internet non ci ruberà il lavoro. Anche quando l’archivio diventerà grande come tutta la terra, e immediatamente disponibile, ci sarà sempre bisogno di sapere quel che davvero vuoi cercare. Dopo aver setacciato tutta la metropoli, il team investigativo del Boston Globe troverà le verità più scomode proprio nel proprio seminterrato. E il vecchio cronista scoprirà il nemico peggiore: sé stesso.

Spotlight si giocherà qualche oscar accanto a un film che gli somiglia come il gemello cattivo, The Big Short. A monte di entrambi c’è una sfida: raccontare al pubblico medio una storia importante e difficile. Completamente opposto è il modo in cui i due registi dispongono dei loro cast d’eccezione: McKay, il regista di Big Short, li lascia liberi di gigioneggiare a loro piacimento: McCarthy li mette al lavoro come se fossero onesti lavoratori di una fiction con un lavoro da portare a termine. Tanto è pessimista e sarcastico Big Short, tanto è composto e a suo modo epico Spotlight: il primo si guarda intorno disperato, accumula tentativi di spiegazioni e metafore inconcludenti. Il secondo regge la barra in mezzo alla tempesta e continua a dirti che ce la possiamo fare: il giornalismo può essere indipendente, può essere di qualità, può spiegarci le cose e migliorare il mondo. Anche per questo, più di Keaton o di Ruffalo il personaggio a emergere è il direttore, interpretato da Liev Schreiber e vicino all’ideale di boss che chiunque vorrebbe avere avuto – un tizio inflessibile e mite che ti propone un lavoro anche difficile, ti dà tutto il tempo che ti serve, e nel momento del dubbio ti dice le sole dieci parole che ti servono: non prendertela con te stesso, capita a tutti noi di brancolare nel buio per mesi e anni. Ma l’importante è ritrovare la luce, e tu stai facendo un ottimo lavoro. Sarà anche per questo messaggio, tutto sommato rassicurante, che Spotlight è piaciuto persino al nuovo cardinale di Boston.

O forse il fatto che i preti bavosi siano lasciati fuori dal cono di luce? Due anni fa, un altro film di denuncia come Philomena di Stephen Frears mi lasciò un gusto amaro: non avevo apprezzato l’apparizione finale di una suora mostruosa, l’incarnazione di tutto il male che fino a quel momento era stato soltanto descritto a parole: un modo un po’ troppo facile, osservavo, di catalizzare l’indignazione del pubblico. Spotlight se non altro mi ha fatto capire meglio la scelta di Frears. È un film onesto, un film che non vuole tirar pugni allo stomaco ma spiegare quanto sia importante avere un giornalismo professionale, e direttori tutti d’un pezzo, alieni a qualsiasi condizionamento ambientale. Ma è pur sempre un film che parla di mostri senza neanche provare a mostrarne uno. Spotlight è al cinema Stella Maris – Moretta di Alba (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00) e all’Aurora di Savigliano (21:15).

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Uomo nero inferno bianco

The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015)

Incredibile chi puoi trovare nella merceria di Minnie in una notte di bufera. Anziani generali del Sud, ex schiavi criminali di guerra. Cacciatori di taglie, sceriffi, boia e malviventi da impiccare, tutta la filiera del crimine e della giustizia. Cowboy che tornano dalla mamma per Natale e stallieri messicani che sanno suonare il pianoforte. Gente di ogni tipo, razza e qualifica – anche se qualcuno magari non è proprio chi dice di essere. Ma nella bufera che differenza fa.

Sotto la neve saranno tutti uguali.

E se Tarantino a questo punto della sua carriera sbagliasse un film? Se riempisse un’intera sceneggiatura di frasi a effetto solo per il gusto di sentirle recitare in otto accenti diversi? Se abbandonasse gli intrecci romanzeschi, le prigioniere nei castelli dei suoi ultimi due lavori, per tornare al cinismo datato delle Iene – criminali più o meno paranoici che si torturano a vicenda? Se Tarantino facesse un film meno ispirato del solito, ce ne accorgeremmo?

Non resteremmo comunque storditi dagli attrezzi di scena, da quel luccicante feticcio che è il 70mm, dal coraggio con cui questo figlio di Hollywood continua a ignorare le regole di casa e ricreare un cinema che non sarà il più originale del mondo, ma è completamente a sé? Da anni gioca in un campionato a parte, per forza vince sempre. Nessun altro regista avrebbe preso in mano soggetti come Basterds Django, nessun altro sarebbe riuscito a farne due film non ridicoli. L’Odioso Ottetto, viceversa, sulla carta sembrava un’idea meno folle: un delitto nella stanza chiusa, calato in quel preciso contesto storico che continua a tormentare gli spettatori americani: la guerra civile tra le razze, mai dichiarata, mai terminata.

Ad avere dei dubbi, stavolta, era lo stesso Tarantino. Quando una bozza di sceneggiatura cominciò a circolare abusivamente, sembrava tentato di mandare tutto all’aria. Due cose pare gli abbiano fatto cambiare idea: la prima fu una lettura pubblica che andò benissimo, e che ha lasciato fin troppo il segno nella realizzazione. L’Ottetto che alla fine Tarantino ha girato, malgrado la ricercatezza della fotografia, è quasi un radiodramma. Verso il finale, dopo un colpo di scena escogitato per prendere alle spalle chi ha letto la vecchia bozza, ci si sorprende a domandarsi come abbia fatto il regista ad arrivare alle tre ore. La storia non è più complicata del solito, Tarantino semplicemente non ha fretta – lui può permetterselo – e anche i suoi infreddoliti attori sembrano innamorati delle frasi che recitano. Tutti se le rimasticano nel loro accento preferito. È un film di dialoghi che sembrano monologhi.

L’altro fattore che ha convinto Tarantino a girare l’Ottetto è stata l’insistenza di Samuel Leroy Jackson. Così come Joy è un film che David O. Russell doveva a Jennifer Lawrence, The Hateful Eight somiglia a un compenso per tutti i servizi che questo attore grandissimo ha reso a Tarantino – che effetto fa rendersi conto che non gli aveva ancora dato un ruolo da protagonista? E ripensando alla carriera di Jackson tra Spike Lee, Star Wars e Marvel (Per il Guinness dei primati è l’attore più profittevole in attività), che effetto fa pensare che in vent’anni l’Academy Awards si sia vagamente ricordato di lui solo con una nomination per Pulp Fiction? Se la metti in questi termini, anche l’ultima polemica sulla mancanza di candidati afroamericani all’oscar sembra meno pretestuosa.

Ma l’esclusione di Jackson dal quintetto degli oscar era abbastanza prevedibile: se c’è una cosa che i giurati dell’Academy malsopportano non è tanto il colore della pelle, quanto l’ambiguità morale. Un cattivo può anche vincere l’oscar – Forest Whitaker ci riuscì impersonando un dittatore genocida – purché sia chiaro a tutti gli spettatori che è il cattivo. Non è il caso del maggiore Marquis Warren, che nel labirinto etico allestito nella merceria di Minnie si ritrova alla fine investito di una assurda missione di giustizia. Eppure è uno dei personaggi più inquietanti che Tarantino abbia mai inquadrato – ancora più inquietante quando scopri che nel primo abbozzo non era che una versione più matura e scatenata del vecchio Django. Il regista famoso per la violenza farà ancora esplodere qualche testa e colare tanto pomodoro alla vecchia maniera: ma il vero orrore sta nelle parole, l’inferno non è mai stato tanto verbale. L’inferno sono gli altri, diceva un suo collega: una baracca isolata nel gelo, dove un uomo nero racconta a un vecchio padre come ha torturato a morte il figlio. Stai iniziando a immaginarti la scena, vero?

The Hateful Eight è al Cityplex di Alba alle 16, 17, 19, 21 e 22; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:40, 19:10, 21:30 e alle 22:30; all’Impero di Bra alle 18:30 e alle 21:30; al Fiamma di Cuneo alle 15:40, 19:10 e 22:30; al Multilanghe di Dogliani alle 21:35; ai Portici di Fossano alle 18:15 e 21:30; al Bertola di Mondovì alle 18 e alle 21; all’Italia di Saluzzo alle 15:30, 18:30 e 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30.

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Non hai bisogno di un principe (quando hai un mocio miracoloso)

Joy (David O. Russell, 2015)

Joy ha un sogno: spiccare il volo, portare luce nel mondo. Joy ha due ipoteche sulla casa, tre figli a carico, una madre rimbambita dalle soap e un ex marito appoggiato nel seminterrato che studia ancora da cantante. Joy ha un’idea: nessuna donna dovrà più strizzare il mocio con le mani. Joy ha un incubo che si chiama famiglia: un padre che vuole insegnarle gli affari, una matrigna che sceglie male gli avvocati, una sorellastra invidiosa che paga le fatture sbagliate. Joy ha una via d’uscita: diventerà una star delle televendite, fonderà un impero, e poi busserà a Hollywood e si farà realizzare un film su misura – così che tutti sappiano che ha sempre avuto ragione lei. E tutti vivranno soddisfatti o rimborsati.

Joy è anche il terzo film che David O. Russell gira con Jennifer Lawrence, quello che finalmente sembra tagliato per lei. Come se il regista sentisse di doverle qualcosa: quando la provinò per il Lato Positivo stava cercando una 40enne. Lei aveva 21 anni, lo convinse e poi ci vinse l’oscar. Persino più bizzarra, benché indimenticabile, la sua presenza in American Hustle, dove recitava quasi un mini-film a parte. Stavolta i comprimari sono gli altri – Bradley Cooper, anche lui alla terza presenza di fila, è in scena pochi minuti (ma sono fondamentali). Fa piacere ritrovare anche De Niro: Russell sembra l’unico direttore che riesce a trovargli ruoli dignitosi. Il regista che era famoso per i litigi con gli attori sembra aver fondato una piccola compagnia – sarebbe bello se si aggregasse anche Isabella Rossellini. C’è aria di famiglia ed è proprio quella che serviva a dare il tono alla fiaba.

Certo, spiace un po’ che l’occasione a Russell di lavorare coi suoi attori preferiti stavolta sia stata fornita da una dea americana delle televendite, l’inventrice Joy Mangano: lei voleva né più né meno che un’agiografia sulla donna che si è fatta da sola, lui gliel’ha confezionata senza mezze misure. L’idea di base – una Cenerentola emancipata, che non ha bisogno di principi ma di brevetti magici – è portata avanti con tanta convinzione che ci si è pure inventati una matrigna e una sorellastra.

Qualche spezzone di finte soap dovrebbe esprimere l’autoironia dell’operazione, ma è un espediente meccanico, a un continente di distanza dalle finezze di un Ozon. Russell ha la mano un po’ più pesante, non riesce a dissimulare un certo tono rancoroso così tipico delle autobiografie dei self-made men (e delle self-made women); nella seconda parte sembra cedere il microfono alla committenza.

Forse è il primo film che parla di televendite senza prendersene gioco: anche perché a cantarne le lodi non c’è una Vanna Marchi qualsiasi, ma un estatico Bradley Cooper: quando scandisce “Qualità, Valore, Convenienza”, tu per un attimo ci credi, e in quell’attimo potrebbe venderti un set di coltelli. Niente di male, ma fa un certo effetto pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di I Heart HuckabeesJoy magari è un film più riuscito – certo meno irrisolto – ma è anche quel tipo di spettacolo di cui Russell dieci anni fa ci avrebbe voluto mostrare gli strappi, le cuciture, le crepe.

Joy è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:35), all’Impero di Bra (20:10, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:10).

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La vendetta è un piatto a 40 sotto zero

The Revenant (Alejandro González Iñárritu, 2015)

Il Sud Dakota secondo Iñárritu.

Dieci anni dopo il fattaccio, Hugh Glass cacciava ancora il castoro dalle parti di Williston, North Dakota. A chi gli pagava da bere raccontava la storia di quando si era trascinato per duecento miglia fino a Fort Henry, tallonato dagli Arikara, sospinto solo dal desiderio di fare la pelle ai due ragazzi che lo avevano abbandonato mezzo morto dopo lo scontro con l’orso. A ogni racconto la bestia diventava più grande, le ferite più profonde, gli agguati aumentavano, e la steppa si corrugava, rivelando al suo interno rilievi alpini, innevati nel mese di giugno.

Il Sud Dakota com’è davvero.

“Ma poi li hai ammazzati?”

“Chi?”

“Quei due ragazzi, alla fine li hai ammazzati?”

“Fitzgerald e Bedger? Ah, no”.

“E perché no?”

“Bedger era un ragazzino, e quanto a Fitzgerald…”

“Non avevano la stessa età?”

“…Si era già arruolato. Se gli avessi torto un capello mi avrebbero impiccato. Ci siamo messi d’accordo con 400 dollari, e mi restituì il fucile. Questo qui”.

“Non erano 300 dollari?”

“Infatti”.

“Ma hai appena detto 400”.

“Mi sarò sbagliato. Figliolo, quando hai visto la morte in faccia, e hai sopravvissuto a una bufera di neve accucciandoti nella carcassa di un cavallo…”

“Ma era giugno”.

(Se vi è piaciuto Il viaggio di Arlo, non perdetevi la versione per adulti, col mille per cento di sangue e cicatrici in più, e un’animazione digitale ancora più raffinata – l’orso sembra vero! Padre e figlio si scambiano le parti, c’è un po’ più di sangue e di visioni dall’oltretomba, e Di Caprio presta la voce – il rantolo – a un mammuth ferito ma non domo).

Il salvaschermo più costoso mai realizzato

Per ritrovare la via verso Fort Henry, Glass aveva preso come riferimento la Thunder Butte, la Rocchetta del Tuono – una collina di 800 metri che è l’unico rilievo di rilievo nel Sud Dakota. Tutto il resto è pianura, pianura e ancora pianura. Per girare The Revenant, Iñárritu ha esplorato le cime innevate della Columbia Britannica, girando solo con la luce naturale a 40 gradi, col rischio di ammazzare Di Caprio di broncopolmonite – e quando è arrivato l’inverno ha semplicemente cambiato emisfero, spostando il set in Terra del Fuoco. Per sfuggire agli Arikara che controllano il fiume Missouri, i suoi attori si inerpicano su un sentiero alpino che li porta a un valico di almeno millecinquecento metri – non cresce più l’erba. In sostanza stanno scalando le montagne rocciose, contro ogni verosimiglianza, perché al regista interessava una storia vera di sopravvivenza e di vendetta, ma anche quei paesaggi mozzafiato da salvaschermo di windows.

A Iñárritu interessa il cinema vero, quello senza green screen e altri trucchetti, quello che si fa con la pellicola, e l’esposizione naturale, e gli animali veri, e le ferite e i colpi di tosse veri – come se tutta questa verità non costasse comunque milioni di dollari. Gli interessa il ritorno alla naturalezza, anche se l’orso che cerca di finire Di Caprio battendolo come un materasso è un prodigio di computergrafica. Con l’ipocrisia ingenua e inconsapevole di quei milionari che sognano il ritorno alla natura ma hanno più in mente il triathlon – a proposito, c’è anche il saggio capo indiano che si lamenta perché il viso pallido gli ha tolto tutto. E nessuno che gli dica: senti nonno, tra venticinque anni potrei anche capire, ma siamo nel 1820, “tutto” cosa? A momenti non c’è un solo viso pallido in tutto il Dakota, e comunque appena arriva lo scotenni e gli rubi il bottino di caccia, a chi la vuoi raccontare? Non ci hai fatto gli affari anche tu, coi bianchi, finché t’è convenuto? Eh, ma questi bianchi sono cattivi sul serio. Rubano le donne, impiccano per divertimento, aggiungendo un cartello di spiegazione come i nazisti – anche se nessuno sa leggere in un raggio di trecento miglia.

È difficile sfuggire a The Revenant, alla sua fotografia da National Geographic, al titanismo essenziale del suo eroe, maschiaccio di poche parole laddove pare che il vero Hugh Class fosse un affabulatore, magari pure un contaballe. Questa parte del suo ruolo se la prende Tom Hardy che prosegue il suo stato di grazia: un antagonista nervoso e rapace che non sta in scena per più di mezz’ora, ma ha più dialoghi di tutti gli altri personaggi messi assieme. Iñárritu ha coraggio da vendere, e anche stavolta non si può che dargliene atto. Dopo due ore senza una sola scena in interni, cominci a capire quello che intendeva Cimino mentre affondava sul ponte dei Cancelli del cielo: i film dovrebbero essere viaggi, dovrebbero prenderti di peso e portarti in un altro luogo, in un altro tempo.

Cosa sta succedendo allora a Hollywood, se Cimino sprofondò e Iñárritu ha preso 12 nomination? Siamo entrati in una nuova età del cinema, o il nuovo regista pazzo è un po’ meno pazzo, un po’ più paraculo di quanto non voglia sembrarci? Disprezza i fumettoni, ma il suo eroe sembra avere lo stesso fattore rigenerante di Wolverine. Vuole le luci naturali, ma sa che la gente verrà a vedere l’orso finto. Vuole la storia vera, ma poi se la reinventa da capo a piedi, ricattandoci col sentimento più a buon mercato – l’amor paterno. Il vero Glass era un fanfarone che si fece duecento miglia per trecento dollari e un fucile. Il Glass del film deve attraversare canyon e ghiacciai per vendicare un figlio. È una storia talmente costruita che alla fine Iñárritu se ne vergogna – e anche stavolta, come in Birdman, il finale manda un po’ a gambe all’aria il film.

Vorrebbe essere profondo, vorrebbe essere autocritico, vorrebbe rivedere le sue stesse premesse. Ha fatto sanguinare Di Caprio, ha opposto bianchi sterminatori a pellerossa in armonia con la natura, e alla fine ci ha ricordato che la vendetta è un buon trucco per costruirci attorno un film – ma che resta sostanzialmente una cosa sbagliata, ragazzi, mi raccomando non vendicatevi a casa. Che gli puoi dire? Bravo è bravo. Ma resta lì sospeso nel bianco delle sue bufere fantastiche, né troppo pazzo né troppo furbo per arrivare davvero al punto. The Revenant è al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:10), all’Impero di Bra (19:45, 21:45), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Baretti di Mondovì (21:00), all’Italia di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30)

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Il giornalista che si sparò due volte

La regola del gioco (Kill the Messenger, Michael Cuesta, 2014)

Nel 1996 sul sito web del californiano San Jose Mercury News apparve per qualche giorno un’elaborazione grafica che sconvolse l’opinione pubblica americana: una specie di distintivo della CIA su cui si specchiava un fumatore di crack. Corredava il titolo di un reportage che sarebbe diventato un libro e un caso nazionale: “Dark Alliance. The Story Behind the Crack Explosion“. La storia era già uscita in tre puntate sul cartaceo, ma internet – forse per la prima volta – avrebbe fatto la differenza. L’immagine elaborata dalla redazione esplicitava qualcosa che il reporter Gary Webb non aveva voluto scrivere: dietro lo spaventoso boom del consumo di crack, che aveva devastato i quartieri più poveri della metropoli, c’era la CIA!? Una parte della comunità afroamericana, reduce dai disordini del ’92, non faticò a convincersene. Alla pagina web del Mercury cominciarono a puntare altri siti non professionali – la parola blog ancora non esisteva – liberi di fantasticare qualsiasi ipotesi di complotto: la CIA aveva inventato il crack per distruggere la gioventù afroamericana, la CIA aveva domato la rabbia dei neri coprendo South Central con quintali di polvere bianca…

Webb in realtà aveva portato alla luce qualcosa di più circoscritto, ancorché esplosivo: seguendo il processo di un mitico trafficante di LA, Ricky Ross (detto Freeway, “autostrada” per le quantità di crack che riusciva a trasportare quotidianamente), aveva scoperto che il suo fornitore nicaraguense, Danilo Blandon, era un informatore dell’agenzia antidroga federale. Blandon trattava con Ricky Ross partite di cocaina così ingenti che trasformarle in crack era diventata una necessità logistica; coi proventi finanziava la guerriglia dei Contras, che si opponevano al governo sandinista del Nicaragua, combattendo una guerra che il presidente Reagan non voleva perdere ma che il Congresso non gli consentiva di finanziare. Tutto questo sotto gli occhi della CIA, che però – come Webb puntualizzò ogni volta che ne ebbe l’occasione – non era attivamente coinvolta nello spaccio (continua sul nuovo bellissimo e velocissimo sito di +eventi!)

Webb era un buon giornalista, già vincitore di un Pulitzer, ma le sue fonti erano perlopiù trafficanti e spacciatori, in Nicaragua e in California. Il Mercury gli diede la possibilità di firmare una storia che i grandi quotidiani USA non volevano o potevano stampare: una volta pubblicata, si dedicarono con un certo zelo a demolirla. Il Los Angeles Times formò un team di più di venti persone, che ripercorsero la pista di Webb e trovarono qualche errore fattuale – del resto in venti è più facile. Il Washington Post, il quotidiano che tutti associamo al Watergate, all’eroica lotta di due cronisti contro un presidente, nell’occasione praticò nei confronti di Webb quello che da noi si chiama metodo Boffo, potendo contare su anonime fonti governative – alla CIA non dovevano essere così contenti di passare per trafficanti.

Ma a rovinare Webb fu il suo stesso quotidiano, che dopo aver venduto il suo reportage nel modo più sensazionalistico possibile, lo scaricò, dissociandosi dagli articoli già pubblicati e rifiutando di stampare gli altri già pronti. Webb non avrebbe mai più trovato un giornale disposto a lavorare con lui. Divorziò, continuò ad approfondire la sua pista, trasformò Dark Alliance in un libro pieno di storie e di dati, e 11 anni fa si sparò alla testa. Due volte. Pare che sia possibile, non è l’unico caso (naturalmente c’è chi sospetta la CIA, ma l’ex moglie è convinta che Webb si sia suicidato). Benché molte delle scoperte di Webb siano state confermate, Dark Alliance è ancora materiale controverso negli USA. I quotidiani che lo screditarono non hanno cambiato la loro versione: Webb riponeva un’eccessiva fiducia nelle versioni dei trafficanti che incontrava, gente disposta ad accusare i gringos della CIA di qualsiasi misfatto. La vita tragica di Webb ha ispirato un libro, Kill the Messenger, che l’anno scorso è diventato un film: un’ottima occasione per Jeremy Renner (che oltre a interpretarlo lo produce). Se il suo umanissimo Gary non diventa una figura memorabile non è certo responsabilità sua.

La storia era complicata e Peter Landesman, già sceneggiatore di Parkland, decide di risolvere ogni ambiguità nel modo più semplice: adottando acriticamente il punto di vista del giornalista. L’ansia di semplificare non rende nemmeno un buon servizio: Webb visitò il Nicaragua più volte per approfondire, ma nel film sembra esserci andato una volta sola, fidandosi delle prime fonti che ha incontrato. L’inchiesta vera e propria è sbrigata in una ventina di minuti, dopodiché il film decide di scegliere la via meno complicata, concentrandosi su ciò che accade a Webb e alla sua famiglia. La moglie intiepidisce, il primogenito scopre vecchi altarini e fa una scenata, lo spettatore sbadiglia. Ogni tanto la CIA tira qualche brutto scherzo, ma la tensione cala subito. A un certo punto irrompe Ray Liotta, un po’ a gratis: racconta la sua storia di ex combattente per la libertà e narcotrafficante e scompare, non se ne parla più. Non è neanche la prima volta che gli capita – ormai Liotta sta diventando un McGuffin vivente, i registi lo usano per alzare la tensione. Il film poi abbandona il protagonista molto prima del suicidio, attenuandone lo spessore tragico: un’altra scelta più facile che efficace. Uno degli spunti interessanti viene buttato lì nei titoli di coda: qualche anno dopo le dimissioni di Webb, molti documenti che dimostravano le sue tesi vennero de-secretati, ma l’opinione pubblica era distratta dalle avventure del pene di Bill Clinton.

Con tutti questi limiti (a cui aggiungo una Mary Elizabeth Winstead caporedattrice carinissima ma un po’ fuori parte), Kill the Messenger è un film da vedere, se non altro perché è una storia di cui da noi si è parlato poco. Si racconta il giornalismo americano da un’angolazione meno celebrativa del solito, in un momento storico in cui tornano d’attualità i disordini razziali e le macchine del fango – impossibile non pensare a quel Tom Harper che sulle colonne del Sunday Times qualche settimana fa cercava di trasformare Edward Snowden in una spia russa, attingendo (per sua ammissione) soltanto a fonti del governo britannico. Il giornalismo è anche questo. Certo, Sorkin ce l’avrebbe raccontato meglio. Ma non è che può sempre raccontarci tutto lui. La regola del gioco è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:35); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15)

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L’uomo che comprò la lotta libera

Foxcatcher (Bennett Miller, 2014)

 

Tutto quello che puoi vedere fino all’orizzonte è del signor Du Pont. Filantropo, filatelista, ornitologo. Al tempo in cui nostri antenati morivano per la loro libertà, i suoi antenati facevano affari coi cannoni, e ora tutto questa terra è sua, ed è suo tutto ciò che ci cammina sopra e che ci vola. Gli uccelli da catalogare, i cavalli della madre da detestare, i trenini giocattolo, i fucili automatici, i lottatori da allenare e le medaglie che vinceranno. Nessuno può dire di no al signor Du Pont. Finanzia la polizia di Stato e il comitato olimpico. Ma quel che desidera davvero, nessuno lo ha ancora capito. 

 

Foxcatcher arriva nelle sale qualche settimana dopo Whiplash. È difficile immaginare due film più diversi sugli stessi argomenti: eppure il Mark Schultz intepretato da Channing Tatum sembra animato dalla stessa ambizione divorante e fine a sé stessa del batterista di Chazelle. Anche sulla sua strada c’è il maestro sbagliato. Ma gli allievi e i maestri di Whiplash sono musicisti iperattivi e sopra le righe; i lottatori di Miller lottano per prima cosa contro un muro di impassibilità che li isola dal mondo. Mark guarda in basso, prende tempo, cerca la risposta giusta, ha sempre paura di sbagliare. Il suo sport consiste nell’afferrare a mani nude un altro uomo e tenerlo a terra finché un arbitro non fischia, eppure anche quegli avversari è come se Mark non li toccasse davvero. Non sono che un’estensione di sé stesso, la conseguenza tangibile dei suoi sforzi: se si è ben allenato vanno giù a comando, se ha sbagliato tutto lo afferrano e lo portano via con sé. Come il protagonista di Whipash, Mark non ha amici. Ha però un fratello lottatore e allenatore (Mark Ruffalo) dalla cui stretta non riesce a liberarsi, un mentore inquietante che pagherà la sua amicizia a peso d’oro, e un unico vero nemico, che prende a pugni allo specchio fino a infrangerlo. 

 

Tra i ritmi sincopati di Chazelle e quelli rallentati di Miller ognuno sceglierà secondo il suo gusto. Se il primo film mi ha tenuto, come si dice, inchiodato per un’ora e mezza, il secondo è stato una delle esperienze più angosciose degli ultimi anni, al punto da farmi desiderare più volte di alzarmi e prendere qualche minuto di pausa, non perché non fosse un bel film – ma per stemperare il senso di tragedia ineluttabile che grava sui personaggi senza abbandonarli per 120 minuti. Capote in confronto era una commedia: in quel caso l’istrionismo di Philip Seymour Hoffman ti faceva tirare il fiato. Stavolta non c’è requie: il lottatore frustrato e il milionario paranoico che cerca di adottarlo sono due corde tese che potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento. Ci si sente a disagio come quando ti invitava a casa il compagno di classe ricco ma senza amici, vorresti trovarlo simpatico – ti converrebbe anche – ma c’è qualcosa che suona terribilmente stonato e tapparsi le orecchie non serve a niente. 

 

Ai tre attori della sua tragedia, Miller chiede qualcosa di molto particolare: devono recitare male, o meglio interpretare personaggi che non riescono a reggere la parte. L’irriconoscibile Steve Carell è un milionario che non riesce a indossare gli abiti eroici che si è fabbricato. Ciondola per il set con l’aria di un’aquila smarrita, ti aspetti che si tolga la maschera da un momento all’altro. Channing Tatum sa di essere di fronte all’occasione della vita: film drammatici su atleti dal collo taurino non è che se ne producano tutti gli anni. E però il suo ruolo è proprio quello di un atleta che di fronte all’occasione della vita è terrorizzato dalla possibilità di fallire. Entrambi, per quanto notevoli, vengono surclassati da Mark Ruffalo. Il suo Dave Schultz, fratello e allenatore di Mark, è l’unico soffio d’aria fresca che tira per tutto il film. Qualsiasi cosa che fa tradisce dolcezza, compreso afferrarti da dietro la schiena e mandarti al tappeto. Ma anche a Dave tocca recitare una parte, a un certo punto – e proprio davanti alla cinepresa Dave si blocca, non ce la fa. 

 

Come tutti i biopic degli ultimi anniFoxcatcher pretende di raccontare una storia vera ma non riesce a raccontarla giusta. Tra le varie forzature, degna di nota è quella scena semibuia in cui si lascia intendere qualcosa di più di una tensione omoerotica tra Mark e il milionario suo ospite. Al Mark vero quella scena non è andata giù, tanto da ispirargli una serie di tweet molto ingiuriosi nei confronti del regista – poi cancellati. È in effetti una scena che sembra congegnata più per far discutere che per farci capire cosa sta succedendo tra i due. 

 

Foxcatcher è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:45. Portatevi qualcosa di caldo.

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Whiplash è sadico come un talent show

Altro che autostima, sette ottavi e pedalare.

Whiplash (Damien Chazelle, 2014)

 

“Hai fatto un buon lavoro”. Quante volte te lo sei sentito dire. Quante volte ci hai creduto davvero? Dopotutto, se il tuo lavoro fosse così buono, non sarebbero così contenti. Comincerebbero ad aver paura di te – è pericoloso, chi sa fare un buon lavoro. Ma loro tu non ti preoccupare, perché hai fatto…  Un buon lavoro. La senti l’intonazione? La senti sul serio? E allora dimmi: ci senti invidia o condiscendenza? Un buon lavoro. Forse una sfumatura di gratitudine, perché il tuo non è un lavoro così buono dopotutto. È un lavoro passabile, un lavoro che non farà sfigurare i loro lavori mediocri. “Hai fatto un buon lavoro”, che frase criminale. Quanti talenti ha sedotto e sviato. Tu non vuoi fare un buon lavoro. Tu puoi fare di meglio. Ma poi?

 

Quando in giro si è cominciato a parlare di Whiplash come di un gran bel film – e non c’è dubbio che lo sia – molti musicisti si sono premurati di informarci che il mondo della musica non è così atroce e competitivo, e soprattutto il jazz non è così – lo stesso Bird non veniva preso a piatti in testa se sbagliava un assolo, come racconta per giustificarsi il demoniaco maestro di musica del film. Era una polemica tutto sommato prevedibile, anche se già un po’ surreale. Probabilmente anche ai tempi dello Squalo qualche ittiologo si sentì il dovere di scrivere ai giornali che i pescecani non attaccavano i motoscafi.

 

In Italia la discussione è scesa a livelli avvilenti. Goffredo Fofi su Internazionale lo ha definito “una favola per gonzi di destra”, anche se ha ammesso che “tecnicamente, è un buon film”. Però antipatico, perché racconterebbe “per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers”. È un’analisi un po’ semplice: forse se per affrontare la cultura USA si deponesse ogni tanto il modellino “maggioritario e a tratti totalitario”, e ci si addentrasse un po’ nei dettagli, si potrebbe notare nel film lo scontro tra due concezioni educative: il cosiddetto “self-esteem movement”, che ha portato le scuole americane a distribuire medagliette per ogni “buon lavoro” svolto, e il fantasma di un approccio diverso, militaresco e pseudo-darwiniano, che più che a scuola vediamo trionfare nei posti di lavoro e soprattutto nei talent show.

 

Secondo Fofi “ce la fa”. Boh.

Che parlino di musica o di ristorazione, il motivo per cui guardiamo i talent è il motivo per cui ci siamo fatti ipnotizzare dal maestro di Whiplash: i professori sadici sono terribilmente sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo decoder e biglietti di cinema. Forse ci piacciono proprio perché sono all’opposto dei nostri ex prof, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Noi poi abbiamo sempre la sensazione di non essere diventati quei personaggi di successo che i nostri maestri vedevano in noi, e a quel punto forse ce la prendiamo con loro, troppo buoni, troppo illusi, e rimpiangiamo di non avere avuto caporali che ci prendessero a ceffoni in pubblico. È un’ipotesi come un’altra. 

 

In ogni caso, non c’è dubbio che certe società siano più competitive di altre: e se quella americana lo è, perché un film non dovrebbe raccontarla? Fofi però sembra non aver fatto caso al distacco critico con cui Chazelle guarda al protagonista del film e alla sua ossessione per la batteria. Un “winner”? Soltanto perché [SPOILER] alla fine del film riesce a suonare davanti al pubblico un assolo di Buddy Rich, a portare a termine il suo numero da pappagallino ammaestrato? E poi che succederà? Nei film di “winner e losers”, di solito parte la fanfara e il pugile suonato ma glorioso chiama il nome della moglie o fidanzata. Il batterista di Whiplash non ha la fidanzata, non ha un amico, ha un papà comprensivo che disprezza e un maestro stronzo che difficilmente lavorerà più con lui. Sul serio la sua è una success story? Sarebbe come prendere il caporale di Full Metal Jacket per un personaggio di propaganda… ah, ma Fofi lo fa. 

 

“Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket”.

 

Il film in cui il soldato debole [SPOILER!] si tira un colpo in testa prima ancora di arrivare al fronte, non prima di aver fatto fuori anche il sergente cattivo… uhm, forse Fofi ha preso un abbaglio. D’altronde capita ai migliori. 

 

Proprio mentre sto archiviando Fofi, ecco piombare da Wired un articolo che definisce Whiplash, mettetevi seduti, “ideologicamente sbagliato”.

 

“Ideologicamente sbagliato”.  

 

Il tizio che scrive questa roba (“Sì perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata quanto patologicamente ambiziosa“)… il tizio che scrive questa roba, dicevo, ha appuntato in petto la medaglietta di “Staff Editor della Sezione Idee” di Wired. Purtroppo essa non riesce a trattenere neanche un milligrammo del timore reverenziale che provo per il maestro Fofi, sicché la mia prima reazione sarebbe piantarmi davanti a questo Staff Editor e dirgli: ma cosa hai scritto, ma ti rendi conto? Nel 2015? “Ideologicamente sbagliato”? Sei un viaggiatore nel tempo? Una Guardia Rossa ibernata nel ’69 e scongelata in circostanze da chiarire? Lo sai cosa vuol dire ideologia? Credi che ce ne siano di giuste e di sbagliate? Sapresti definire la tua ideologia? Ammesso che tu ne sia in grado, pensi che al lettore medio di Wired fotta sega della tua ideologia? Eh? Eh?

 

Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.

Grazie, basta cazzate adesso.

 

No, ma buon lavoro, davvero. Signor Staff Editor Sezione Idee, probabilmente della vita ne sai già troppo per farti insegnare qualcosa da Whiplash, però… ti aspettavi di uscire “caldo” dalla storia di un ragazzo che per suonare meglio di chiunque altro rinuncia agli affetti, al rispetto dei compagni, alla salute, a ogni altra cosa? Non ti ha assalito nemmeno per un istante il sospetto che il film non sia una success story ma la sua parodia? che il “freddo” di cui tu parli sia l’esatta sensazione che Chazelle voleva farti sentire, dopo averti fatto ascoltare e soffrire un monumentale, inutilissimo assolo di batteria di nove minuti? Ma a te piacciono gli assoli di batteria? Li ascolti mai? Non li ascolta nessuno. Secondo alcune teorie hanno inventato il tasto skip apposta. Questo è “l’opera d’arte in sé?” “il raggiungimento della perfezione espressiva”?

 

Whiplash non è un film particolarmente originale, ma ci si domanda se poteva essere migliore di così, come certe partiture di jazz dell’età dell’oro. Ha semplicemente il ritmo giusto;non c’è una nota messa lì senza un motivo, senza che prima o poi sia ripresa nel tema principale. Finché dura non esiste nient’altro: un attimo dopo cominci a pensare: ma cosa ho ascoltato? Non è un raccontino a tema, per quanto Fofi e i suoi allievi si arrangino a vederlo così. È un film che ti pone delle domande: sul serio vorresti un maestro che tirasse fuori la bestia che hai in te?  Sei sicuro che sarai felice, dopo? La risposta tocca a noi, ma non dobbiamo per forza portarcene una già pronta da casa. 

 

Whiplash si può finalmente vedere a Cuneo, alla Sala Lantieri, venerdì sabato e domenica alle 21. Speriamo che si senta bene. 

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Il lungo e folle volo di Iñárritu

Questa per esempio l’hanno girata senza luci che non fossero quelle già presenti in strada.

Birdman, o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)

 

Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?

Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c’era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?

“Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare”.

Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno  mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?

 

Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava secondo me un maggiore approfondimento, magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.

Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l’unico che ti vuole bene qui dentro. L’unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l’idea è geniale, e non è vero un cazzo. L’idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent’anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed  riuscito a farsi cacciare a calci pure dall’universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos’ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell’ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l’idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare – coraggio, dimmi che non l’hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione. 

 

Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?

 

Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti.

Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?

 

“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.

“Arrivo, arrivo”.

 

(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).

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Tutti pazzi per la mitica Amy

HO CAMBIATO IDEA NON VOGLIO SAPERE COSA PENSI

Gone Girl (David Fincher, 2014)

 

Io e te ci vogliamo bene e non ci lasceremo mai. Soprattutto non ci volteremo più le spalle, mai più. Mai più tempi morti – nessuno resterà in casa da solo quella mezz’oretta necessaria a organizzare un piano di fuga. Gli oggetti appuntiti piano piano scompariranno – non tutti in una volta, ciò potrebbe insospettirti. Le videocamere di sorveglianza faranno il resto. Buffo, ormai inquadrano più gli interni che gli esterni.

Le hai riconfigurate tu?

Hai fatto bene.

 

Caro Babbo Natale: non chiedo molto per cominciare il 2015. Forse mi basterebbe una mezz’ora da solo con qualcuno che lavori nella distribuzione italiana. Non gli chiederei le solite cose come “Perché avete tradotto Gone Girl con l’Amore bugiardo?”, perché la risposta la so e se ci fossi io al posto suo per riempire due sale in più l’avrei chiamato Se mi tradisci scompaio, o Tutti pazzi per la Mitica Amy. Non gli chiederò semplicemente il motivo per cui l’uscita è stata ritardata quanto basta da permettere a tutti i fincherofili di guardarselo in una buona versione piratata e sottotitolata. Cose che capitano, si sa, inutile parlarne. Ma una cosa vorrei davvero saperla davvero ed è: perché proprio a Natale?

 

Come è potuto succedere, come ha potuto farsi strada tra panettoni pinguini draghi e orsacchiotti il film più sadico e anti-famiglia dell’anno? Un film che se ci porti la ragazza e le stringi la mano puoi misurare dalle sue pulsazioni quanti mesi vi restano ancora da sopportare assieme? Non si poteva veramente riempire la sala piccola con nient’altro – c’è in giro un bell’horror con un clown che insegue i bambini sugli scivoli al parco e se li mangia, non è già un po’ più natalizio di Gone Girl?

 

Coraggio, fammi quel tuo sorrisetto scemo…

A Natale sono due anni che cerco di recensire i film che escono nelle migliori sale della grande provincia di Cuneo. Non ero un grande esperto prima, e un centinaio di film non è che possa avermi cambiato più di tanto. Non credo nel frattempo di aver visto molte cose più crudeli e, beh, sì, divertenti di Gone Girl. Era da un po’ che per motivi famigliari disertavo le sale, e all’inizio mi sembrava di intravedere una specie di tendenza: perlomeno nei primi mesi del 2013 erano ancora al cinema molti film americani di fine ’12 con nulla in comune (drammatici, fantascienza, thriller), se non la caratteristica di deludere sistematicamente le attese dello spettatore. Quello che entrava nella sala per vedere Ryan Gosling motociclista in Come un tuono e poi si ritrovava tutto un altro film. O, per dire, un film di Soderbergh sulla deriva farmacologica USA che rapidamente diventava un thriller. Ma anche un bel prodotto di SF compatto come Looper nel secondo tempo si permetteva un cambio inusitato di marcia. Anche altri film più o meno riusciti, (Silver Linings Playbook), sembravano condividere lo stesso andamento un po’ sbilenco: entravi per vedere un film d’amore e non era proprio esattamente un film d’amore; o un film di ragazzine discinte in spiaggia si rivelava qualcos’altro; il capitano Kirk invece di esplorare la galassia abbatteva elicotteri a mani nude neanche fosse Die Hard (mentre Die Hard si dava allo spionaggio), Refn contrabbandava esistenzialismi nordici in una confezione di action thailandese, e così via. Cominciavo a domandarmi se non fosse una naturale risposta alle sollecitazioni del mercato – se di fronte alla pressione della fiction televisiva, produttori e cineasti molto diversi tra loro non avessero deciso che una delle cose che lo schermo piatto a 40 pollici non può fare e il grande schermo sì è deludere platealmente le aspettative dello spettatore. Quello, e gli occhialini 3d.

 

Poi però è arrivato il 2014: un anno cinematograficamente molto più povero, mi è parso; ma mi sono perso tantissime cose. Nel 2014 di film traditori o sbilenchi non ne ho visti quasi più (anche il 3d mi pare declinante). A parte un caso eccezionale, tutt’altro che americano: Il capitale umano, venduto come un affresco sociale, che vira preso in altre direzioni. In seguito ho visto commedie che facevano le commedie, supereroi molto compresi nel loro ruolo di supereroi, film drammatici assolutamente drammatici, film action con tutti i numeri action al posto giusto, eccetera. A suo modo forse aveva qualcosa di sbilenco Interstellar, perlomeno nel modo in cui ha catturato e poi deluso molti spettatori. E poi è arrivato Gone Girl.

 

Film straordinario, ennesima conferma del talento e della sicurezza di Fincher; eppure credo che nessuno si sognerebbe di definirlo perfetto. Gone Girl è tutto tranne che perfetto: è meravigliosamente sbilenco. Parte come un amarissimo film drammatico sull’inferno quotidiano della vita di coppia: qualcosa che Fincher potrebbe benissimo voler girare – dopotutto lo amiamo per due film assai poco fiction come Zodiac e The Social Network. Poi, quando malgrado le note eccessivamente dissonanti di Raznor ormai crediamo di aver capito che film ci troviamo davanti, Fincher ci butta all’aria la scacchiera esistenziale così verosimile e sofferta, si ricorda di essere anche il regista di Fight Club o Millennium; brandisce un fermacarte e comincia a colpirci alla gola. Un lato Bergman, un lato Hitchcock (in realtà Fincher non paga debiti a nessuno dei due, o quasi) – è così assurdo che è meraviglioso. A un certo punto Ben Affleck – mai così nella parte nel ruolo del vitellone riseppellitosi in provincia – si ritrova in un commissariato che non ha la patina dei commissariati al cinema. Non ha ancora chiamato l’avvocato perché è una cosa da film e lui ancora non ci crede, di essere in un film: così come non ci crederemmo noi al suo posto. “Mi sembra di essere in una puntata di Law and Order”, ammette. Un’ora dopo il film gronderà sangue e Law and Order sembrerà Report al confronto. Ha un senso? Non saprei. Funziona, ma non so quanto sia replicabile.

 

CHE PASTICCIO, MITICA AMY!

È curioso che un risultato così sbilanciato sia stato ottenuto da un romanzo che aveva una sua simmetria; tanto più che a tradire il romanzo è stata la sua stessa autrice, Gillian Flynn; che forse è riuscita a prendersi la libertà che ad altri riduttori non avrebbe concesso. Se il romanzo era già stato accusato di femminismocidio, il film scansa quasi tutti gli spunti per ristabilire un po’ di equilibrio tra la crudeltà sociopatica di Amy e l’imbecillità del marito. Allo spettatore non viene data nessuna possibilità di scegliere: Ben Affleck può avere tantissimi difetti ma è umano; mette su pancia ma se si impegna è in grado di imparare come ci si comporta nella società dello spettacolo; può aver reagito in modo violento ma non sembra capace di crimini preterintenzionali. Amy invece non è di questo mondo: quando irrompe in scena, è come se il film virasse in un bianco e nero RKO. Del resto la Mitica Amy è un’invenzione letteraria, la Flynn ce lo aveva spiegato subito; la proiezione patologica di tutti i ragazzini dei romanzi per ragazzini e delle redattrici di femminili. È ovvio e geniale che il suo rigoroso e pianificato calendario di impegni (che fino a un certo punto include il suicidio) evapori al primo contatto con una società non borghese. Tutto quello che avviene dopo sembra il sogno allucinato di un coniuge insoddisfatto che a tarda sera si immagina cosa accadrebbe se un giorno, un giorno qualsiasi, decidesse di prendere davvero quella porta. Gone Girl è un film che finge di parlarci sul serio e poi ci prende alla gola. Non so quanto mi sia piaciuto davvero. Ma non credo di aver visto molti film migliori quest’anno. 

 

Buon Natale a tutti! Gone Girl oggi è al cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (16:40, 19:50, 22:50) e al Cinecittà di Savigliano (19:45, 22:15). Portateci il partner, ma non stringetegli la mano.

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Downey Jr senza maschera

The Judge (David Dobkin, 2014).

 

Hank Palmer (Robert Downey Jr) è il classico avvocato di successo di Chicago, che all’inizio del film sta pisciando in un classico pisciatoio di tribunale di Chicago. Entra il diavolo, no, pardon, entra David “Numb3rs” Krumholtz a cui toccherà un premio per essere ingrassato di trenta chili per un cameo di tre minuti – e gli chiede: ma non sei stanco di guadagnare un botto di soldi, di guidare belle macchine vivere in belle case e divorziare da belle mogli, solo per garantire la libertà a ricchi criminali? No non sono stanco, risponde Hank scrollandosi. Ma indovinate? Sta mentendo.

 

Se questo film ha un merito, è di mettere subito le cose in chiaro. Ci saranno tribunali e giurie, avvocati di città e avvocati di provincia, un figlio che vorrebbe essere apprezzato dal padre che vorrebbe essere rispettato dal figlio. Un Avvocato del diavolo senza diavolo, un Iron Man senza lamiere (se guardate bene Downey fa le stesse faccette, ha lo stesso Edipo conflittuale; l’apprezzabile differenza è che invece di sparare raggi gamma dai pugni, sparge in sede dibattimento ragionevoli dubbi su tutti gli indizi probanti). Una versione procedurale di Doc Hollywood – Dottore in carriera e di qualche Grisham a caso, un frullato di tanti film che abbiamo visto volentieri più o meno tra il 1984 e il 2004, e che avremmo visto ancor più volentieri se ci avesse recitato Robert Downey Jr – che però per un motivo o per un altro non c’era quasi mai, ed è una cosa che a ripensarci ti fa incazzare. Allego la lista dei film interpretati da Robert Downey Jr negli anni Dieci. 2010: Iron Man 2, Parto col folle (con Zach “Hangover” Galifianakis); 2011: Sherlock Holmes 2. 2012: The Avengers. 2013: Iron Man 3. Vogliamo dire, con tutto il rispetto per i supereroi Marvel e per Guy Ritchie, che questo è il suo primo tentativo di film serio del decennio? E vogliamo dire che è un enorme peccato?

 

Non è che sia un brutto film. È un onesto centone di un sacco di cose che di per sé non ci hanno mai portato al cinema, ma ci hanno sempre impedito di cambiare canale in seconda serata. C’è anche un fratello autistico e una giovane promessa del baseball stroncata sul nascere. Il bar in cui ci si mena e si limona la barista. Il vecchio tribunale di provincia con la balconata. Un anziano e non domo Robert Duvall, un altro che si sarebbe meritato qualche buon film in più. Un Billy Bob Thornton scolpito nella pietra. C’è Vera Farmiga e la moretta di Gossip Girl che sarebbe – gasp – sua figlia. C’è tutto e ce n’è anche troppo (due ore e un quarto). Ma questo è stato l’anno di the Wolf of Wall Street, e Downey non c’era. Non c’è mai quando servirebbe davvero. Sono contento per lui se si diverte e incassa con Tony Stark e Sherlock Holmes, ma continuo a pensare che ventidue anni fa lui ne aveva ventisette ed era già il Charlie Chaplin di Attenborough. Ma basta anche solo pensare a meno di dieci anni fa: Kiss Kiss Bang Bang, A Scanner Darkly, Zodiac, Tropic Thunder, insomma, si stava dando da fare. Poi la maschera di ferro ha preso il sopravvento. The Judge è ancora stasera alla Sala Lantieri, Cuneo, ore 21.

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Due ore di citofoni, also starring Marion Cotillard

Due ore con la faccia così.

Due giorni, una notte (Deux jours, une nuit), di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014.

 

“E col lavoro come va?”

“Mah, tira una brutta aria, bisogna stare attenti…”

“E i film a Cuneo li recensisci ancora?”

“Finché dura…”

“Ti suona il telefono”.

“Sì, lascialo squillare, sono dei belgi che mi tartassano perché…”

“C’è scritto JEANPLUC. Chi è JEANPLUC?”

“…all’ultimo comitato Recensori Cazzoni dovevamo decidere quale grande regista sociale degli anni Novanta degradare a trombone, e così…”

“Aspetta. Jeanpluc sarebbero i Dardenne? Jean-Paul e Luc Dardenne?”

“È da venerdì che mi chiamano, io non so proprio cosa dire, insomma, abbiamo votato in quindici…”

“Hai votato contro i Dardenne? Tu?”

“Non è una cosa di cui vada particolarmente fiero, ma…”

“Ma tu non capisci un cazzo di cinema, lo sai, vero?”

“È probabile, però l’hai visto l’ultimo?”

“Non ancora”.

“È un film di citofoni”.

“Di che?”

“C’è una tizia che nel fine settimana deve contattare tot colleghi e convincerli a rinunciare a un bonus di mille euro. Se decidono di tenersi il bonus, lei perde il posto”.

“Ah, sì, avevo letto, è uno spunto geniale”.

“Ma infatti poteva uscirci un film pieno di umanità”.

“Non è uscito un film pieno di umanità?”

“È uscito un film di citofoni. C’è la Cotillard che va di citofono in citofono…”

“Scommetto che è bravissima”.

“Bravissima, non è da tutti discutere con citofoni per due ore. Aggiungi che i modelli standard della Vallonia sono particolarmente brutti, c’è un tastino bianco e poco più, e anche l’arredo urbano è generalmente squallido – ma questo se conosci i Dardenne lo sai già”.

“Marciapiedi sbeccati?”

“Muri a secco, aiuole steppose, le solite cose. E insomma la Cotillard va in giro sui marciapiedi sbeccati a spiegare la cosa ai citofoni. A volte le aprono altre volte no. Ogni collega è diverso, qualcuno piange, qualcuno diventa violento, ma il punto è che la Cotillard deve spiegare a tutti la situazione: se lunedì voti per il bonus io perdo il posto. Lo spiega credo dodici volte. Ogni volta suona il citofono, chiama, spiega la questione, poi c’è un po’ di gelido imbarazzo, poi lei dice che le dispiace e che non spetta a lei decidere… dodici volte”.

“E poi?”

“Poi votano e finisce il film”. 

“Finale a sorpresa?”

“Un po’, ma non è questo il punto. Il punto è che ci arrivano dopo centotrenta minuti. Centotrenta minuti di citofoni. O di attori non molto più espressivi di un citofono”.

“E che t’aspettavi? Esplosioni? Combattimenti? È un film dei Dardenne”.

“M’aspettavo banalmente un fine settimana un pelo più eccitante dei miei. Sai, quella vecchia regola per cui se la tua vita è più interessante di quella dei personaggi che vedi al cinema, non ha molto senso andarci”.

“È la vita, la vita è arida e scorre tra muri a secco e su marciapiedi sbrecciati. Come Rosetta…”

DUE ORE CON LA FACCIA COSI’.

“Come Rosetta, appunto”.

“Gran film”.

“Vero, ma sono passati, quanti? Quindici anni? E siamo ancora alle ragazze valloni abbarbicate ai loro posti di lavoro come cozze”.

“Vorresti che cambiassero argomenti? Dinosauri, astronavi? La crisi dell’occupazione non t’interessa più?”

“M’interessa, m’interessa. Ma si poteva fare in 40 minuti”.

“Non capisci un cazzo di cinema”.

“Poteva almeno spiegarci cosa fa di mestiere, questa qui. Due ore e un quarto e manco si capisce che lavoro facciano esattamente, è davvero realismo? È un realismo molto più astratto di quel che vorrebbe essere. Poteva usare più i bambini, farci commuovere”.

“Quanto sei banale”.

“Cioè almeno Rosetta era una stronza che per servire in un chiosco di waffles avrebbe venduto la madre. Ma la Cotillard che manda giù antidepressivi ogni tre per due…”

“Cos’è, non ti va la depressione? Pensi che la classe operaia non se la possa permettere?”

“Senti, la depressione è oggettivamente un problema al cinema. I depressi sono i personaggi meno simpatetici in assoluto”.

“E allora?”

Ciao, tu sei il dodicesimo a cui racconto la stessa cosa, e la sai già benissimo, ma io te la racconto di nuovo per filo e per segno perché questo è il grande realismo sociale cinematografico e VORREI ESSERE IL VOSTRO CAPO PER LICENZIARVI IO Camusso perdonami.

“Sembrano normali, eppure passano il tempo a lamentarsi, a bloccarsi, a piangere, è difficile non trovarli fastidiosi. Però se a un certo punto del film mi fai capire che hanno davvero avuto un problema, e che lo stanno superando faticosamente, magari io come spettatore mi vergogno un po’ di averli liquidati con freddezza, e da questa minima vergogna può scattare un quasi spontaneo moto di simpatia…”

“E quindi alla fine scatta!”

“No. Non scatta mi dispiace. La Cotillard è bravissima ma resta una pera cotta che scoppia a piangere per niente. Dopo quaranta minuti cominci a pensare che in effetti, chi vorrebbe mai lavorare con una tizia così? Cioè se la scelta è tra mille euro e una collega così tutti i giorni tra i piedi, tutti i santi giorni, ma scherzi?”

“Cosa sei diventato”.

“Sono diventato un lavoratore che torna casa stanco, vuole guardarsi un film tranquillo e scriverci su due stronzate, e invece si deve sciroppare due ore e un quarto di belgi inespressivi al citofono. Non ce la faccio fisicamente, mi dispiace tanto, ma è così”.

“Il neoliberismo è duro per tutti”.

“Esatto, quindi a questo punto o io o i Dardenne. Non è niente di personale, ma nella situazione attuale non li reggo. Avrebbero potuto fare un film divertente, con tanti personaggi grotteschi che lottano per la sopravvivenza. O un film caotico dove tutti si parlano sopra, una roba Kechiche forse mi avrebbe tenuto sveglio”.

“Ti meriti Ken Loach, ti meriti”.

“Guarda, dovevamo appunto decidere se buttare fuori i Dardenne o Ken Loach. Non c’è stata gara”.

“Non capite un c…”

“Probabilmente è così, probabilmente sono incapace di apprezzare l’indiscutibile superiorità dei Dardenne nell’inquadrare i sottoscala in controcampo o sarcazzo, ma Ken Loach non mi fa dormire, mai. Ha sempre una storia da raccontare. Il cosiddetto neoliberismo è la stessa bazza da vent’anni, ma lui trova sempre uno spunto diverso. Il whisky, Cantona, l’Irlanda… Ken Loach si ingegna”.

“È solo più paraculo”.

“Ma avercene. Registi un minimo paraculi che ti promettono che avrai un po’ di conflitto sociale ma ti farai anche due risate. Invece no, i Dardenne ti sbattono in faccia la realtà cruda, manco un contorno di patate, e ti dicono: mandala giù. Io comincio ad avere un’età, non vado mica al cinema per impressionare le universitarie o farmi una cultura sul disagio. Ce l’ho già quella cultura”.

“Sicuro?”

“Quanta mi basta per alzarmi ogni mattina senza xanax. Non ce ne sta un grammo di più, fidati”.

“A Cannes è piaciuto”.

“Ma infatti, per loro è puro turismo, salgono su dal Casino, si guardano due ore di marciapiedi e citofoni e poi tornano al Carlton in limo. Buon per loro. Vedi la differenza con Loach? Quando vedi un suo film, ti immagini i suoi personaggi seduti in sala con te. I Dardenne non fanno film per la gente che mostrano nei loro film”.

“Sei diventato un vecchio stronzo, lo sai?”

“È il neoliberismo”.

“Che patetica scusa”.

“Ora scusa, devo dare gli annunci. Due giorni è una notte, il nuovo deprimentissimo capolavoro dei Dardenne, è nelle sale nel luogo dove meno te lo aspetteresti, ovvero al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo. Affrettatevi a procurarvi i vostri biglietti per le proiezioni delle 15:15, 17:30, 20:00″.

“Sei ridicolo”.

“Scusa, sto lavorando”.

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La spia e la sua pancia

 La spia – A Most Wanted Man (Anton Corbijn, 2014).

 

Lo spionaggio non è più quello di una volta. Ora si chiama antiterrorismo, si combatte con strumenti simili ma il nemico si è fatto più sfuggente, impalpabile. Günther è un artigiano dell’intelligence tedesca, con qualche errore alle spalle e una battaglia quotidiana con l’alcool ormai persa. Esiliato ad Amburgo, riesce a fiutare con la sua piccola squadra una pista di denaro che da onesti filantropi islamici arriva ad Al-Qaeda: gli serve soltanto un amo per far abboccare il pesce grosso, e forse la fortuna per una volta ha deciso di stare dalla sua parte, servendogli Yssa, un profugo ceceno con un padre importante. La storia funziona, anche se diciamo la verità: mi accontenterei anche di molto meno, perché Günther è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e io un film con Philip Seymour Hoffman me lo guarderei anche se fosse l’autobiografia di un impiegato del catasto celibe. Il film ha in realtà un cast notevolissimo (Willem Dafoe, banchiere allupato; Rachel McAdams, attivista radical di buona famiglia; Robin Wright, gelida emissaria della Cia), ma PSH finisce per reclamare tutta l’attenzione per sé.

 

“Che dici, facciamo l’accento crucco?”
“No, dai, sembreremmo ridicoli”.
“Parla per te”.

A questo punto non è solo l’apprezzamento per un attore straordinario – meglio arrendersi: io non saprei proprio dire se Hoffman fosse davvero bravo come tutti dicono. Probabilmente sì, ma se tra tante ottime interpretazioni ne avesse infilato qualcuna scadente, se in un film ogni tanto si fosse letteralmente dimenticato di recitare, non me ne accorgerei nemmeno. Per fare un esempio, in A Most Wanted Man PSH recita con un forte accento tedesco. È una scelta incomprensibile: il suo personaggio è un tedesco che vive in Germania, e la maggior parte del tempo discute altri tedeschi che parlano, come lui, in inglese, ma senza accento tedesco. Persino Daniel Brühl – qui degradato a caratterista – non ha l’accento. PSH ce l’ha, e non se ne capisce il motivo. Si vede che gli andava di recitare così. Qualsiasi altro attore sarebbe riuscito fastidioso, lui no.

 

La naturalezza con cui riempie di vita il suo personaggio ha come sempre del miracoloso, ma potrebbe essere tutta autosuggestione. O la pancia. Nel suo ultimo anno di vita PSH ne portava una ormai assolutamente antihollywoodiana, che ogni tanto spunta da una camicia o una maglietta della salute, e da sola conferisce al film una profondità realistica che forse Anton Corbijn non aveva nemmeno calcolato. Prima ancora di essere un asso dell’antiterrorismo Günther è un corpo che suda, che sbadiglia, che ha sete o sonno o voglia di fumare. Quando abbraccia paterno il suo confidente, dà veramente la sensazione di un padre con la barba ruvida e il fiato nicotinico. Quando a metà film gli capita di stendere un tizio al bar, riesce a essere al contempo efficace e patetico. Il copione gli serve un’abbondante quantità di sequenze in cui deve semplicemente guardare il vuoto mentre fuma o beve o anche niente – probabilmente nei capitoli corrispondenti il personaggio di Le Carré rifletteva sulla situazione o sulla sua missione.

 

In che razza di bettole mi porti.

Queste scene silenziose, che con altri attori sarebbero probabilmente risultate pretenziose e irritanti, PSH riesce a farle funzionare. Soprattutto quella sequenza finale che non dovrei raccontare, in cui poi non è che faccia molto: caccia un urlo, si ficca in macchina, comincia a guidare, spegne la macchina – ma nel frattempo noi spettatori siamo nella macchina con lui, fissiamo come lui il parabrezza senza guardarlo veramente, e riflettiamo su come vanno le cose e su quanto siamo stati stupidi a provare a ingannarle coi nostri piccoli piani; quanto siamo stati sciocchi a fidarci ancora, a dispetto di tutto, di qualcuno o di qualcosa. Il sapore plumbeo della sconfitta, ce lo fa sentire in bocca. A most wanted man è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:45, alle 17:20, alle 20:00 e alle 22:45.

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Un amico americano ad Atene

Ci sarà pure una via per uscire da questo film.

I due volti di gennaio (2014, Hossein Amini)

 

Lo sapevate che gennaio ha due volti? Io per esempio no, non lo sapevo. A dire il vero non lo sa neanche adesso, dal momento che nel film il titolo non è affatto spiegato. Sarà senz’altro un riferimento a Giano, che però è un Dio latino, mentre questo film è ambientato in Grecia, boh, partiamo bene. Rydal (Oscar Isaac) è un Ripley in minore, installato all’ombra del Partenone in attesa che qualcuno scriva un romanzo su di lui. Nel frattempo attira turiste americane con le poesie e le frega col cambio dollaro-dracma, quel tipo di giochino che oggi non si può più fare e l’economia ne soffre, maledetto euro. Sul luogo di lavoro incontra MacFarland (Viggo Mortensen), un Gatsby in minore che approfitta della necessità di scappare dai creditori per mostrare l’Europa alla giovane moglie (Kirsten Dunst). Eccitante, nevvero? Nevvero? Eh, lo so. L’alternativa era un altro film di un vecchio di Hollywood che per salvare una ragazzina ammazza un sacco di gente – la settimana scorsa era Mickey Rourke, quella prima Liam Neeson, questa settimana toccava a Denzel Washington, e allora mi son detto, proviamo Viggo. È un film tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, hai visto mai.

 

Braccato dalla polizia per tutta l’Ellade, Viggo non si cava neanche il panama.

La Highsmith è un’autrice inglese amatissima dai registi (cominciò Hitchcock in persona a trarre un film dal suo primo romanzo), nota soprattutto per aver creato l’amorale e camaleontico Ripley negli anni Cinquanta – quando l’omoerotismo non era proprio moneta corrente nel genere noir. È proprio il richiamo a Ripley – esplicito sin dalle locandine – a condannare il film, attirando gli spettatori verso una delusione inevitabile. Ci sarà pure un motivo se Ripley è già stato interpretato da Alain Delon, Dennis Hopper, Matt Damon e John Malkovich, e questo Rydal non se l’era ancora filato nessuno. Per quanto Amini, già navigato sceneggiatore (Jude, Le quattro piume, Drive) sognasse di realizzare questo film da una vita, alla fine è proprio la scrittura la cosa meno convincente di un prodotto elegante, ben confezionato, in certi momenti perfino bello da vedere, ma che sembra già concepito per il pomeriggio della casalinga. Quel tipo di fiction concepita per essere compresa completamente anche da chi ha gli occhi fissi sull’asse da stiro e si guarda una scena su una dozzina – ecco, I due volti di gennaio è un po’ così. Non c’è molto da guardare. Manca del tutto l’aspetto omoerotico, che per quanto la Highsmith smentisse, è il pepe di tutti i film in cui appare Ripley; in compenso c’è un complesso di Edipo buttato lì un po’ brutalmente. Sono sicuro che nel romanzo i due protagonisti avessero un po’ più di tempo e sfumature a disposizione per sviluppare un rapporto padre-figlio: ad Amini il tempo è mancato, o forse non è stato capace di trovarlo. La Dunst sta a ruota dei due, senza aver molto l’aria di credere in quello che fa, ed è difficile darle torto. 

 

Menzione speciale, comunque, per Viggo Mortensen. Magari tra qualche anno finirà anche lui a uccidere gang che rapiscono ragazzine – è il destino di ogni professionista a quanto pare – ma nel frattempo riesce a dar forma a un tipo di americano all’estero mai così pasticcione ed antieroico. Mortensen uccide solo per errore e sempre le persone sbagliate; braccato dalla polizia ellenica, reagisce facendo tutto quello che può fare un turista per farsi notare (ubriacature moleste, scenate con la moglie in pubblico, ecc). Alla sua anabasi assiste, divertito e incredulo, il coro greco dell’indotto turistico, incerto se denunciarlo o spennarlo ancora un po’. Gli eroi hollywoodiani non passano di qui. I due volti di gennaio è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00; 22:30), al Fiamma di Cuneo (21:10) e ai Portici di Fossano (21:15)

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I nostri cari piccoli assassini

Ti ho portato in questo sfondo anonimo e suggestivo perché devo dirti una cosa molto grave.

I nostri ragazzi (Ivano De Matteo, 2014)

 

Capita in tutte le famiglie – ricche, o meno, perfette o meno. Capita, a un certo punto, che ci venga ad abitare un perfetto sconosciuto. Di solito si prende la stanza del piccolo, quello tanto carino che è scomparso all’improvviso senza neanche salutare. Si disfa dei giocattoli e si mette a tappezzare le pareti di cose incomprensibili. Non è chiaro chi sia, cosa faccia, cosa guardi sul monitor, cosa scriva sul cellulare; dove passi i pomeriggi e a volte le nottate. La mattina dice di andare a scuola, ma le versioni sue e degli insegnanti non coincidono mai. È fragilissimo, eppure hai la sensazione che potrebbe uccidere qualcuno a mani nude. Non ha affetto da mostrarti, solo favori da chiederti. Sa che non potresti rifiutarti. O postresti?

 

Ti lascio per un attimo fatina su Rai Yoyo e ti ritrovo che prendi a calci i barboni.

I nostri ragazzi comincia e finisce col botto, e nel mezzo fa quel che può per non perdersi. È un buon thriller psicologico senza esorbitanti pretese, che arriva nelle sale nel settembre 2014 scontando la sfortuna di assomigliare un po’ troppo a un altro film, molto più ambizioso, di cui negli ultimi mesi si è parlato tantissimo: Il capitale umano. Il confronto è inevitabile: di nuovo un romanzo non italiano (stavolta è La cena del danese Herman Koch: per favore, continuate così, questi innesti stanno funzionando); di nuovo due famiglie a tavola e due adolescenti nei guai. Ma è un confronto terribilmente ingiusto, che serve soltanto a evidenziare quello che Virzì era disponibile ad aggiungere e che a De Matteo non interessava. Il primo non poteva rinunciare a fornire ai suoi personaggi coordinate politiche, sociali, geografiche, senza preoccuparsi di scadere nel macchiettismo e anzi aggiungendo siparietti satirici gratuiti (ma irresistibili); a De Matteo la politica non interessa, non interessa la geografia, né la satira dei costumi. Persino gli adolescenti, che da un certo punto in poi si prendono il film di Virzì e lo portano a conclusione: persino loro sembrano ai bordi dell’occhio di bue di De Matteo; animali incomprensibili dietro le cui azioni rituali (fumare – messaggiare – limonare alle feste) si nascondono pulsioni oscure su cui non sembra lecito indagare.

 

A De Matteo interessavano soltanto i quattro adulti (facciamo tre e mezzo, la Bobulova non ce ne voglia): il modo ovviamente imprevisto in cui reagiscono a uno choc che mette in discussione il loro sistema di valori eccetera. Il rischio di girare un film di tinelli è corso con consapevolezza, tanto più che De Matteo decide di demandare agli arredatori una buona parte della caratterizzazione dei personaggi. Intuiamo il progressismo della coppia Lo Cascio – Mezzogiorno dalla quantità di libri alle pareti (affastellati senza nessuna cura degli accostamenti cromatici); l’insensibilità di Gassman dalla luce gelida e ambulatoriale del lunghissimo corridoio che percorre tra studio e camera del bambino. E poi naturalmente ci sono gli attori, con tutto quello che non riescono a lasciarsi dietro tra un film e un altro, e ci fanno immaginare una Mezzogiorno più imbronciata di quanto probabilmente non sia, e quanto a Lo Cascio… ecco, parliamo di Lo Cascio.

 

L’altra faccia di Lo Cascio (sì, è uguale).

Lo Cascio non è probabilmente l’attore italiano più dotato della sua generazione, ma lo scherzo che gli ha fatto il destino è eccessivo. Dieci anni fa, grazie a Marco Tullio Giordana si ritrovò a dar voce, e corpo, a un personaggio che rappresentava un po’ tutto quello che l’Italia progressista pensava di sé: l’Impastato entusiasta e cocciuto dei Cento Passi, e soprattutto l’antipsichiatra basagliano della Meglio gioventù. È trascorso persino meno tempo di quel che sembra, la sinistra ha passato quel che ha passato e non è colpa di Lo Cascio se quei film sembrano invecchiati peggio di altri. Fatto sta che sia nel Capitale umano che in questo film, Lo Cascio sembra stato invitato proprio a riprendere quei personaggi e a ribaltarli nella loro parodia. Se il critico cinematografico del Capitale era poco più che un cammeo (ma già abbastanza ributtante), il pediatra dei Nostri ragazzi sembra davvero il lato oscuro di quell’eroe modesto e sorridente che apriva i manicomi e risolveva gli anni di piombo con un sorriso e tanta buona volontà. Anche stavolta entra nel film indossando un camice e dispensando sorrisi, ottimismo e battutine. Il problema è che è tutto lì, un personaggio che dietro i sorrisi e le battute e l’ottimismo nasconde un vuoto che verrà fuori pian piano: un vuoto in cui si aggira un Lo Cascio diverso, per quanto può essere diverso Lo Cascio: ma come si era già capito nel Capitale, più di tanto non può. Al limite si dibatterà come un matto in camicia di forza, urlerà forte, butterà oggetti per terra, questo tipo di cose.

 

E a quel punto istintivamente ti verrà voglia di rivalutare Gassman, il gelido e ambulatoriale Gassman, con quel modo di esprimere i sentimenti muovendo un singolo nervo sotto la guancia. Qualcosa di molto simile succedeva in fondo al Capitale Umano, quando ti capitava di pensare che il meno stronzo di tutti fosse proprio il pescecane (in quel caso era Gifuni): asettico, calcolatore, ma ancora in grado di distinguere Bene e Male. Con meno capriole, I nostri ragazzi ci porta alla medesima conclusione. Può essere una coincidenza, o la somiglianza di due istantanee scattate quasi nello stesso momento a una sinistra presa a pugni dalle circostanze. Quel che importa è che i personaggi progressisti-con-tanti-libri-alle-pareti non ci fanno una bella figura. Per qualche spettatore riflessivo sarà il pretesto per un ennesimo esame di coscienza; per chi trovava irritanti i sottointesi volemosebbene della Meglio Gioventù è persino una buona notizia. 

 

 

I nostri ragazzi è al Cityplex di Alba (20:00; 22:00), all’Impero di Bra (20:20; 22:30) e al Fiamma di Cuneo (21:00).

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La rabbia è faticosa

Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours
Party People 
gli vorrei bene anche se stesse di spalle
per tutto il film.

Philomena (Stephen Frears, 2013)

 

Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni…

 

Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L’Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?

 

Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però ‘ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d’infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati – come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un’anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori – ci credereste? Eppure è così. Avete sentito dire, poniamo, di Mauro Inzoli?

 

La vera Philomena (si chiama davvero così) ricevuta dal capo della ditta.

Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state “eseguite rigorose ricerche”. Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.

 

Quando l’anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po’ scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.

 

Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.

Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l’amministrazione del perdono – e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l’anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.

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Il lato oscuro del casolare in Toscana

Anche quella vestita in rosso, non sono sicuro di come si chiami, ma è bravissima.

Le meraviglie (Alice Rohrwacher, 2014)

 

C’è stata una guerra qualche tempo fa. Non se la ricorda più nessuno. Chi ha vinto ha riscritto la Storia; chi ha perso e non ci ha rimesso la pelle si è rintanato da qualche parte, nelle foreste e nei buchi ancora agricoli d’Europa, ad aspettare la fine del mondo. La fine purtroppo tarda a venire e i figli crescono, selvaggi e interdetti. La tv continua a cantare che non c’è mai stata nessuna guerra. E se papà e mamma si fossero inventati tutto? 

 

Il secondo film di Alice Rohrwacher ci ha fatto stare molto in pensiero. Quel poco che se ne sapeva era preoccupante: il casolare in Toscana, la natura incontaminata, la tv contaminatrice, Monica Bellucci, i bambini e gli animali. Le creature più difficili da gestire su un set. Ingredienti che ci sono stati miscelati già altre volte, ma il risultato non ci aveva mai soddisfatto. I casolari soprattutto: perché sempre casolari voi registi italiani? perché non potete raccontare la realtà post-industriale o il terziario avanzato che sniffa e smignotta? – No aspetta, l’anno scorso a Cannes c’era La grande bellezza, almeno quel terziario lì per un po’ lo abbiamo coperto. È impossibile non ripensare al precedente di Sorrentino, quando verso la fine anche la Rohrwacher comincia a piazzare ingombranti animali simbolici. Sarà anche un po’ questione di gusti: il cammello della Rohrwacher che all’improvviso si rimette in piedi per me ha una pregnanza che la giraffa di Sorrentino si sogna. Riesce veramente per un secondo a contenere tutto il film, laddove i fenicotteri in balcone mi sembravano complicazioni barocche: aggiungiamo pure questi, qualcosa vorranno dire. 

 

E comunque anche la Bellucci, a modo suo, brava.

In comune i due film hanno un tema che ci ossessiona da anni – la decadenza – e poco altro. La grande bellezza puntava a Roma come al centro di tutto, offrendo al suo pubblico uno specchio deformato ma comunque intrigante. Le meraviglie si tiene ai margini, racconta la storia di una civiltà dimenticata e dimenticabile (i babyboomers che ritornarono alla terra negli anni ’70) e questo lo condanna a un gramo destino di film d’essai. Eppure chi non ce l’ha un vecchio amico o parente che a un certo punto è scappato in montagna? Le Meraviglie è un film che va visto, proprio perché prende un feticcio cinematografico e culturale (il casolare) e lo demistifica senza pietà, al punto che forse non comprerete mai più un vasetto di miele bio in vita vostra. E soprattutto non è quel film compiaciuto e noioso che temevamo che fosse – intendiamoci, se avete voglia di azione magari Gozzilla o gli X-men saranno una scelta più assennata, ma questo film non consiste di due ore di bambine estatiche che mangiano api. C’è una storia che procede con un certo ritmo, lasciandoci qualche volta persino col fiato sospeso; i personaggi hanno tutti un cammino da percorrere, non fanno nulla di inspiegabile o gratuito.

 

Ai più piccoli piace saltare su e giù nelle pozzanghere di fango, ma quelle vere, e dopo due anni di Peppa Pig anche questo è molto demistificante.

È vero che i grandi parlano poco, in lingue diverse: ma sono i reduci sbandati di una brigata internazionale (più di Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo e Sam Louwyck portano tutte le rughe della sconfitta), tornati da una battaglia di cui hanno poca voglia di parlare. I ragazzini invece non hanno ancora le parole. In compenso sono molto bravi. Dopo Alex Bisconti (La mafia uccide solo di sabato), Matilde Gioli (Il capitale umano), Francesco Bracci (Noi 4), ancora un film italiano che decide di appoggiarsi sulle spalle di un’attrice giovanissima, che lo regge persino con disinvoltura: si chiama Maria Alexandra Lungu e adesso sembra anche a me di conoscerla da una vita. È soprattutto grazie a lei e ai suoi giovanissimi colleghi che il film può indugiare sullo sfacelo di una generazione senza sembrare mai veramente disperato: è sbocciata tanta vita in mezzo al fango, ora basta aspettare il sole e qualcosa ne verrà fuori. Le meraviglie a Cannes ha vinto il gran premio della Giuria. Lo trovate al cinema Fiamma di Cuneo alle 17:40, alle 20:15 e alle 22:40.

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Il flagello di Lars Von Trier

Nymphomaniac II (Lars Von Trier, 2014)

L’altra sera mi sono spaventato, c’era un canale che trasmetteva vecchi film di Woody Allen a ripetizione e ho avuto paura che gli fosse successo qualcosa. Mentre controllavo su internet mi sono rimesso a guardicchiare Manhattan, uno di quei film che tutti hanno visto così tanto che alla fine è come se l’avessi visto tanto anch’io. In realtà era da un sacco di tempo che non lo vedevo e mi sono sorpreso, davvero, di trovarlo così bene invecchiato. Non sto dicendo che sia un film attuale; può darsi che non lo sia più: gli adulteri sono un po’ passati di moda, almeno nei film, e gli intellettuali oggi hanno tic diversi, probabilmente anche a Manhattan. E però è uno di quei film in cui c’è meravigliosamente tutto, anche se lo apri in una sequenza a caso; e in una sequenza famosissima ho anche trovato il migliore giudizio sul porno esistenziale di Lars Von Trier. 

Ma siccome non vengo da Philadelphia e non ho studiato ad Harvard; e senz’altro Von Trier non è Bergman, mi viene il sospetto che tutto questo sia perversamente consapevole; ovvero alla fine della fiera di quattro ore non è da escludere che l’intento programmatico del regista fosse proprio nobilitare le proprie inibizioni psicologiche e sessuali collegandole non già a fondamentali questioni filosofiche, ma a un po’ di fuffa culturale, molto spesso di seconda e terza mano: la serie di Fibonacci, santo cielo, ne vogliamo parlare? Perché i registi e gli scrittori hanno il debole per la serie di Fibonacci e non, poniamo, per la sezione aurea? Siete proprio sicuri che non potrebbe sprizzare simbologie erotiche anche la sezione aurea, a strizzarla per bene? Non sarà semplicemente che per capire Fibonacci basta saper fare uno più due, mentre il pi greco è molto spesso un concetto troppo astruso per chi si iscrive a cinematografia? Molta della cultura sfoggiata da Seligman è trovarobato del genere: due o tre trucchi su dove pigliare i pesci, due citazioni dal Doktor Faustus che il regista sente il dovere di esplicitare, proprio come le matricole che hanno paura che gli interlocutori non colgano i riferimenti: ehi, ho appena letto il Doktor Faustus! E ho scoperto che Beethoven era negato con le fughe. Bene Lars, ma se hai voglia di flagellare a sangue il sedere di un’attrice (o una controfigura), perché non ti limiti a farlo senza ammazzarci col silenzio di Dio, e la morte del padre, e la responsabilità di allevare i figli, eccetera eccetera? Cioè non dico di non aver apprezzato il tentativo di levare al sadomaso tutta quella patina burlesque insopportabile da dominatrici della domenica: però alla fine voglio almeno provare un po’ di vergogna di aver pagato il biglietto per vedere un sedere che sanguina; e invece me lo annacqui con tutte le visioni e i sensi di colpa e kierkegaardismi non dico adolescenziali, ma… quanti anni avevate l’ultima volta che avete provato a leggere Kierkegaard? Ecco. 

Joe è ninfomania: brucia tutto e poi va via.

 

Cos’è poi la ninfomania per Von Trier? Una pulsione autodistruttiva che parte dall’infanzia e si prende, grosso modo, tutta la vita, a scapito di lavoro e famiglia e affetti e salute. Non procede da un trauma infantile; non è il precipitato di un’alienazione sociale; Joe ci è nata, e noi no. Lei chiede troppo al tramonto, noi ci rassegniamo a un timido riflesso del sole all’alba. Forse davvero Von Trier gioca con noi come il gatto col topo: mentre Joe passa la nottata a raccontare di quanto sia stata una ragazza cattiva, non abbiamo altra scelta che entrare nel timido Seligman, e far combaciare la sua curiosità con la nostra. Come Seligman, all’autodafé di Joe non possiamo che reagire con una sentenza assolutoria. È la normale dinamica di una coppia che discute: se il tuo interlocutore comincia a denigrarsi, istintivamente scatta in noi l’impulso di consolarlo. La notte sarà lunga e ci sarà il tempo per scambiarsi le parti: di fronte all’estremo tabù (la pedofilia) Seligman si ritrarrà per un istante, ma alla fine… non vi racconto come va a finire, ma le mie due reazioni. La prima: ok, mi hai fregato, la mia equanimità era accecata da una curiosità che forse era già desiderio. La seconda (sulle note dei titoli di coda): che trabocchetto da due soldi, Lars Von Trier. E un sedere è stato frustato a sangue per questo? Insisto sul finale perché leggo in giro che sarebbe una cosa toccante, drammatica, eccetera. Per me è la conferma di avere assistito a una lunghissima, estenuante barzelletta alla scandinava. E la canzone… non vi dico qual è, ma immaginate che un personaggio di un film dica di chiamarsi “Marinella”, e che alla fine del film anneghi in un fiume, e a quel punto parta De Andrè con la canzone omonima, ecco, siamo a questi sofisticati livelli di tesina del liceo artistico. 

A che servono gli elenchi telefonici, oggigiorno.

 

Un mese fa feci un maldestro paragone con Jeune et jolie di Ozon, dicendo che parlava con delicatezza più o meno dello stesso argomento. Ripensandoci, non è affatto vero: l’Isabella di Ozon non è particolarmente ninfomane. Ma si prostituisce. Tutto il contrario di Joe, che passa di lavoro in lavoro senza che l’idea di monetizzare il suo sesso l’attraversi mai. Ecco, questo è interessante: anche perché verso la fine Joe si mette a fare una professione persino più discutibile. A rifletterci è incredibile che in un film dalle ambizioni quasi enciclopediche non si parli mai della possibilità di scambiare sesso per denaro. Di pedofilia sì, di sadomaso sì, di prostituzione no. Ho controllato: pare che in Danimarca prostituirsi non sia più un reato dal ’99. Dallo stesso anno è la legge antiprostituzione svedese, che criminalizza i clienti e non le prostitute (poi imitata da Norvegia e Islanda). Forse anche il più scandaloso Von Trier ha i suoi tabù, dopotutto: ancora più stridenti in un film così apparentemente liberato, in cui gli organi sessuali conquistano il primo piano, talvolta liberi persino dalla necessità di eccitare lo spettatore (da questo punto di vista il threesome con gli africani è la scena più divertente – divertente come dovrebbe essere il vero backstage di un porno – anche se l’idea che Joe debba avvalersi di un interprete per approcciare due africani in un parco britannico tradisce un razzismo o un provincialismo che francamente – ma poi si alza qualcuno a dire che Von Trier non si può giudicare per i contenuti perché i contenuti sono volutamente antirealistici, sarebbe un po’ come voler giudicare la merda d’artista dall’odore – e finiamola qui, allora: può darsi che la merda di Von Trier sia buona, almeno come concetto, ma io purtroppo sento anche la puzza. Sarà che sono nato a Modena, problema mio).

 

Nymphomaniac II non è ancora programmato in nessun cinema della provincia di Cuneo: chi si sentisse offeso può rimediare recandosi all’UCI di Moncalieri alle 14:00, alle 16:45, alle 19:30 e alle 22:15 (sempre con quel caratteristico ritardo delle sale UCI). Oppure potete flagellarvi in casa da soli, chissà cosa sia più soddisfacente.

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Chi ha più voglia di un pornoVonTrier?

Finalmente un treno regionale brutto, come i regionali veri! Questa è la pornografia!

Nymphomaniac I, (Lars Von Trier, 2013)

 

Che senso ha buttare via la religione e tenersi il senso di colpa? Se lo chiede il timido Seligman, all’inizio della lunga conversazione con la signora che ha trovato sanguinante in un vicolo. Dice di chiamarsi Joe e di essere, dall’infanzia, irredimibilmente cattiva. Ninfomaniaca, addirittura. Ma cos’è questa ninfomania?

 

Non è nemmeno una malattia. Lo sapevate? Dal 1992 l’Organizzazione Mondiale della Sanità non la riconosce più come tale; tre anni più tardi è stata cancellata dal quarto volume del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che preferisce parlare di “Ipersessualità”, sia maschile che femminile. Anche su quest’ultima non c’è un vero consenso: è un disturbo ossessivo-compulsivo? Una dipendenza? Negli USA esistono i Sessuomani Anonimi, con programmi di recupero modellati su quelli degli alcolisti, perlomeno nelle serie tv e nei romanzi di Palahniuk: da noi no, credo, ma non me ne intendo. 

 

Probabilmente neanche Lars Von Trier, che finalmente ha fatto dono al mondo del suo film porno-d’autore. Come ricorda l’ottimo Bernocchi, l’idea di girare un porno gli frulla in testa da tantissimo tempo – forse fin da quando lo conosciamo, i tempi delle Onde del destino e di Dogma. Già allora la buttava lì, forse per ravvivare un po’ il gelido imbarazzo delle sue conferenze stampa: e poi sapete che c’è? una volta o l’altra faccio un porno. Certo, perché no. Ora, non voglio dire che a metà Novanta fossimo verginelli appena usciti dal collegio: i miei ricordi sono vividi ancorché un po’ sgranati, come le vhs troppo videonoleggiate. Magari ci sono altri motivi per cui quella che nel 1996 poteva sembrarci una grande idea, avanguardistica e iconoclasta, oggi ci lascia un po’ più che perplessi: sgomenti. Dite la verità, dai: voi come l’avete vissuta la notizia: “sta per uscire nelle sale un film di cinque ore di Von Trier con scene di sesso esplicito tra controfigure di attori famosi”? Per me è stato più o meno quando mi avvisano che devo pagare una tassa in più: buongiorno, siamo l’Ente Preposto all’Aggiornamento Culturale e le notifichiamo che ci deve cinque ore di vita: cinque ore che passerà guardando coiti altrui ripresi senza entusiasmo da un regista tormentato e depresso. Così impara a farsi piacere Dogville, Manderley addirittura. No, per dire che io sono uno di quelli che una volta Von Trier se lo andava a guardare volentieri. Qualcosa non va. 

 

Potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, che alla fine ha il solo torto di restare fedele ai suoi temi, alle sue ossessioni eccetera (anche se mi sembra sempre meno rigoroso, sempre più incerto, stavolta per esempio fa il citazionista ma in modo un po’ maldestro, a un certo punto toglie il colore per fare Bergman ma è come mettersi i baffi finti per fare Chaplin, cioè proprio non basta, capisci? In altri casi sembra voler fare il verso a Greenaway, è un auto-paragone impietoso). Dicevo, potrebbe anche non trattarsi di Von Trier, ma di tutto quello che gli è successo intorno. Il concetto stesso di pornografia, che nel ’95 era eversione, era l’anti-Hollywood, il realismo estremo, dogmatico, e oggi cos’è? la cosa più normale del mondo. Ne è passato di liquido sotto i ponti.

 

Questa potrebbe realmente essere la citazione di un porno (che non ho visto).

Per dire, alla fine degli anni ’90 nella mia città (non Cuneo) c’erano ancora i cinema porno. Erano una specie di specialità locale, i turisti fotografavano le locandine sbianchettate. Ci andavano perlopiù vecchietti e persone in cerca di partner occasionali. Il consumo di pornografia era, per così dire, “sociale”. Ma era uno spettacolo al tramonto. Trionfava il modello di consumatore completamente opposto, quello dei videonoleggi: un solitario manovratore di telecomando, nell’oscurità della propria cameretta. Da allora ci sono state due o tre rivoluzioni tecnologiche: il passaggio ai dvd; il peet-to-peer su internet; flash e i siti alla youtube. Un economista ci direbbe che la pornografia è diventata una commodity: come l’acqua potabile e la luce elettrica, anzi ancora più comoda, visto che per raggiungerla non dobbiamo nemmeno alzarci dalla sedia. Entrare in un videonoleggio o in un sex shop a metà Novanta richiedeva ben altra determinazione. Oggi guardare un porno è diventato maledettamente facile. Risultato?

 

Diciamo subito che la paventata disintegrazione della società e della famiglia e della civiltà occidentale fin qui non c’è stata. Non vi è stata una particolare recrudescenza dei crimini sessuali, nemmeno tra i minori. Qualcuno afferma di soffrire di forme di dipendenza dalla pornografia – e però anche su questa sindrome gli specialisti litigano: forse non esiste. Senz’altro tra centinaia di milioni di utenti in tutto il mondo vi sarà chi ne consuma in modo patologico (ammesso che su internet abbia senso parlare ancora di consumo). Ma la maggior parte degli utenti, oggi, consulta pornografia per un tempo ridicolmente breve. Qualche mese fa un popolare sito porno ha messo on line le statistiche, da cui si evince che la visione di un utente medio duri più o meno tre minuti (ma è in lieve aumento nell’ultimo anno). Come dire che la maggior parte degli utenti trova la visione di un porno piacevole ma – dopo nel giro di pochi minuti – insostenibile

 

La mia scena preferita, fin qui.

Può darsi che sia sempre stato così: il fatto che le nostre modalità di fruizione in passato fossero più lente non significa che ci divertissimo di più. Pensiamo a quel che è successo coi quotidiani: una volta ne leggevamo di più, ma eravamo più informati? No: ci mettevamo semplicemente più tempo a trovare cose che ci piacessero. Era così con la musica (dedicavamo più ascolto agli album, o ai programmi radio) e probabilmente con la pornografia. Ci serviva più tempo per trovare la roba interessante. Quello che ha veramente accelerato i tempi è l’aumento vertiginoso della biblioteca a disposizione (per questo mi pare che oggi abbia più senso il verbo “consultare” che “consumare”) e il motore di ricerca. Non dobbiamo più accontentarci: se ci piacciono brune coi piedi lunghi, possiamo rapidamente digitare e ottenere “brune coi piedi lunghi”. Questo rende il nostro rapporto con la pornografia sempre più breve e, in fin dei conti, soddisfacente. Pensavamo che l’abbondanza di internet ci avrebbe portato a insane abbuffate, ma fin qui non è andata così; ormai ci basta qualche snack ogni tanto.

 

E proprio in quel momento, dalla Danimarca tormentata il dinosauro dogmatico si risveglia e ci fa sapere che ha pronto per noi un pranzo nuziale di cinque portate. Noi che ormai, al cinema, quando c’è una scena di sesso di più di trenta secondi, ridiamo dall’imbarazzo. Se vi ricordate cos’è successo con Adèle, e del modo in cui una stupenda scena di sesso era stata presentata come interminabile – otto minuti, vi rendete conto? Ormai in sala facciamo fatica a sostenere la visione di due molto graziose ragazze che fanno sesso per otto miserevoli minuti. 

 

Pubblicità ingannevole.

Devono aver tratto simili conclusioni anche i produttori di Nymphomaniac che, non paghi di aver tagliato il film in due parti, hanno provvisoriamente accantonato un’altra ora di girato, che probabilmente riusciremo a recuperare in dvd. Il risultato com’è? Boh, non saprei. Davvero. Chi ha già visto la seconda parte ne parla abbastanza bene. Io ho visto solo la prima e non credo di poter già esprimere un giudizio sensato. Senz’altro non ha senso prendersela con Von Trier per l’antirealismo di molte scene, che sembrano progettate in laboratorio piuttosto che studiate dal vero. Il fatto che tra una situazione astratta e artificiale e l’altra faccia capolino un po’ di sesso molto crudo mi ha fatto realmente ricordare i vecchi porno con la trama, ma non so quanto l’effetto sia voluto: però se davvero è riuscito a citare Joe D’Amato fingendo di citare Bergman, complimenti. Mi domando se valga la pena di guardare un film di Von Trier così – anche dopo aver visto la seconda parte, quando uscirà, mi resterà la sensazione di essermi perso qualcosa (tipica anche questa di certe esperienze cinematografiche anni Ottanta, quando finalmente riuscivi a guardare Otto settimane e ti dicevi: tutto qui? Ma no, impossibile, avranno censurato un sacco di roba). Sarebbe più saggio probabilmente aspettare il dvd – e mentre scrivo questa cosa una voce dentro di me bisbiglia: non lo guarderai mai quel dvd, non troverai mai cinque ore di spazio per i tormenti sessuofobi o sessuomani di Lars Von Trier. Con tutte le cose interessanti che ci sono in giro, su internet e altrove.

 

Che altro dire. Fin qui è un film che ti fa apprezzare altri film, per contrasto. L’estasi libera dai sensi di colpa di Adèle. La leggerezza e l’attenzione al dettaglio con cui Ozon in Jeune et jolie affronta un tema molto simile; al confronto Von Trier sembra perso in una controriforma tutta sua. Stacy Martin è inquietante e molto a suo agio nel ruolo della giovane ninfomane (che nella seconda parte si evolverà in Charlotte Gainsbourg). Uma Thurman, contrariamente a quanto poteva farvi pensare il poster, non gode, anzi non fa sesso proprio; ma compare in uno sketch tragicomico che mi spinge a riflettere una volta ancora sul senso dell’umorismo di Lars Von Trier. Può darsi dopotutto che non ce l’abbia, allo stesso modo in cui Refn non vede i colori. Mettiamo che esista una sindrome che ti rende incapace di capire le barzellette. Passi la vita a sentire barzellette e a notare che la gente ride. A un certo punto provi anche tu a raccontarle, tanto più o meno le regole le capisci, la teoria è facile. In pratica racconti storie assurde e il pubblico prova disagio: sei un artista. 

 

Nymphomaniac Volume I si può guardare al Cinecittà di Savigliano alle 20:20 e alle 22:30. È vietato soltanto ai minori di 14 anni.

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Dodici anni di solitudine

Tornò a casa, scrisse il libro, fu invitato a molti reading, forse aiutò diversi schiavi fuggitivi, denunciò invano i suoi sequestratori, e un giorno scomparve. Nessuno sa dove. Forse lo presero gli schiavisti. Forse dopo dodici anni così non riusciva più a stare in famiglia. Chi lo sa.

12 anni schiavo (12 Years a Slave, Steve McQueen, 2013)

 

Una sera hai bevuto troppo. Ti svegli in catene e scopri che non sei più un essere umano. Ora sei una massa di muscoli senza storia o diritto di parola, a cui è consentito solamente sopravvivere. Un lotto di carne evasa da rispedire in Georgia; la tua famiglia non saprà mai più nulla di te. Perché ci sono così pochi film sulla schiavitù? Wikipedia ne conta appena una trentina, inclusi titoli che hanno poco a che fare con gli schiavi d’America. La stessa fonte conta 180 film sulla Shoah, esclusi i documentari. Perché la schiavitù è nove volte meno cinematograficamente interessante? È semplicemente l’effetto di un senso di colpa ancora non rielaborato dal pubblico bianco americano? Forse c’è qualcosa di più, se anche l’afro-britannico Steve McQueen ha preferito affidarsi a una fonte eccezionale come l’autobiografia del “free negro” Solomon Northup. Nato libero nello Stato di New York, carpentiere e violinista, Northup nel 1841 è vittima di un sequestro di persona. La sua identità viene cancellata e sostituita con quella di uno schiavo fuggitivo. Northup (Chiwetel Ejiofor, che debuttò con Amistad e difficilmente sarà mai più tanto vicino all’Oscar) non è il solo ad avere perso la sua libertà in questo modo, ma è tra i pochissimi che riuscì a riconquistarla, dopo dodici anni, e l’unico che pubblicò la sua storia. C’è persino chi ha criticato McQueen per avere scelto un’angolazione tanto particolare: l’avventura di Northup è una traiettoria eccentrica rispetto alla storia del popolo afroamericano. I suoi compagni di schiavitù sono satelliti lontani con cui è entrato in contatto per un fatale errore, e che non potranno seguirlo verso la libertà. Ognuno – ce ne accorgiamo più volte nel film – ha un suo destino che non può essere diviso con altri.

 

E d’altro canto Northup ha il grosso pregio di assomigliare a noi, nati liberi, terrorizzati dalla sola idea di perdere il nostro status. Solo il suo punto di vista poteva fornirci quel biglietto per l’inferno (e ritorno) che McQueen voleva staccare. I film sulla schiavitù, forse, non si fanno perché è difficile riuscire a sintonizzare il pubblico sulla stessa onda delle vittime: con la Shoah è più facile? Ma anche nei migliori film sulla Shoah (Spielberg, Polanski), fate caso all’importanza di quei momenti in cui il cittadino medio-borghese scopre all’improvviso di aver perso il suo status di essere umano. McQueen aveva bisogno di qualcosa del genere: mostrarci un afroamericano educato, una bella casa, splendidi figli, una moglie intraprendente. La stragrande maggioranza dei neri nati schiavi non aveva nulla di tutto questo, ma noi non riusciremmo a empatizzare con gente nata e morta nelle baracche. Tarantino ha risolto lo stesso problema inventandosi un pistolero supercool, ma solo a Tarantino è concesso di risolvere in questo modo i problemi.

 

I suoi schiavi li tocca continuamente. Vorrebbe possederli di più, neanche lui sa come.

Il punto è che se non esiste nel film un nero eccezionale, educato come Northup o esplosivo come Django, lo spettatore rischia di identificarsi più facilmente coi bianchi – dal momento che è molto spesso un bianco anche lui. Magari non vorrebbe, perché è uno spettatore civile e democratico, ma non è così difficile sentirsi addosso i panni dello schiavista buono e imbarazzato (Cumberbatch), o del carnefice frustrato (Fassbender). Quest’ultimo sembra proseguire il viaggio nella solitudine intrapreso nel precedente film di McQueen, Shame: il coito è ancora una volta un combattimento facile che ti lascia vincitore di un corpo inerte e sconosciuto. Non sorprende che McQueen abbia reso espliciti i rapporti tra lo schiavista e la schiava Patsey (Lupita Nyong’o), a cui il testo del 1853 alludeva soltanto. Più curiosa è la scena – molto intensa – in cui Patsey chiede a Northup di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze. Neanche questa c’è nel testo originale, forse. Dico forse perché può darsi che lo sceneggiatore John Ridley abbia equivocato un passo del libro in cui era la moglie del padrone, gelosa, a chiedere a Northup di uccidere Patsey. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l’alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto.

 

“Dunque, dovresti pronunciarla più o meno così”.

12 anni schiavo è un film che ti mostra cose orribili con una fotografia smagliante, dove tutti – negrieri, schiavi incolti, carpentieri – parlano un inglese stampato, di gusto ottocentesco, che il doppiaggio fatalmente tradisce. È un dettaglio iperrealista (sul set c’era anche un esperto di accenti del XIX secolo), che finisce col rivoltarsi nel suo contrario: non sembra vero che tutti parlassero così. Il libro è ovviamente scritto in un inglese del genere (fu riveduto e corretto da editori bianchi abolizionisti), ma gran parte dei dialoghi non sono riportati in forma diretta. Qualcuno storcerà il naso: quanto a me in questo caso ho preferito l’eloquenza al realismo. Non mi importa se i veri schiavi e i veri negrieri balbettavano: mi sembra giusto che McQueen e Ridley trovino le parole appropriate per ciascuno di loro. Il discorso che mi ha convinto di meno è l’unico che è fedelmente ripreso dal libro: quello di Brad Pitt, il ricco attore-produttore bianco senza il quale un film così difficile non sarebbe mai stato girato. Gliene siamo tutti grati, ma forse avrebbe potuto risparmiarsi il cattivo gusto di comparire sul finale nel ruolo dell’eroico salvatore. In un film dove Giamatti o Paul Dano si contentano di stare cinque minuti in scena e dar voce a odiosi negrieri, Brad doveva proprio riservarsi l’unico ruolo positivo?

 

Eppure il suo discorso ha una funzione fondamentale. A differenza di quel che può lasciare intendere la locandina, Northup non tenta mai la fuga. Un tentativo narrato nel libro viene rimosso nella sceneggiatura. L’unica strada verso la libertà ammessa nel film è quella interiore: Northup deve rimanere umano, ricordare la sua libertà, i tempi in cui sapeva leggere e scrivere: finché dopo dodici anni di solitudine finalmente il caso gli mette davanti un uomo che questa umanità la sa riconoscere. Quest’uomo è Brad Pitt, e il suo discorso dice, semplicemente, che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Lo ha scritto Jefferson in cima alla Dichiarazione. Ma è d’accordo anche lo schiavista Fassbender, salvo ribadire che i negri non sono uomini. Chi ha criticato la mano leggera di McQueen nei confronti della religione (strumento di asservimento degli schiavi…) forse non ha fatto caso al fatto che anche il fondamento dell’uguaglianza, più volte difeso nel film da Northup e da altri, è religioso: senza nozioni di evoluzionismo o dna, l’unico garante di questa uguaglianza è quell’Ente supremo che Jefferson prudentemente aveva lasciato in controluce. Siamo tutti uguali perché Lui ci ha creato così: è davanti a lui che lo schiavista dovrà rispondere di aver frustato una povera ragazza. Forse non è lo stesso dio arcano evocato dagli schiavi negli spiritual, ma è ancora oggi un assioma che la società non discute, non se lo può permettere. Tutto il resto sono dispute nominalistiche, anche oggi, quando ci diciamo convinti che tutti i cittadini siano uguali – ma non tutti sono degli di essere chiamati nostri concittadini. Quelli che raccolgono i pomodori per pochi euro alla giornata quasi sicuramente non lo sono. Possiamo passare due ore al cinema a vedere un film di schiavi senza neanche sprecare un pensiero per loro.

 

12 anni schiavo è al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Aurora di Savigliano (21:15).

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Tempi duri per Llewyn Davis

“Il film non aveva una trama e a un certo punto ci siamo posti il problema. Ecco perché ci abbiamo messo dentro il gatto” (Joel Coen).

A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, Joel e Ethan Coen, 2013).

 

Come you ladies and you gentlemen, a-listen to my song.
Sing it to you right, but you might think it’s wrong.
Just a little glimpse of a story I’ll tell
“Bout an East Coast city that you all know well.
It’s hard times in the city,
Livin’ down in New York town.

 

 

 

Timberlake, dove lo metti, sta. La nausea della Mulligan è piuttosto credibile. 

Tempi duri a New York per Llewyn Davis. Senza un dollaro in tasca, senza un posto dove posare la chitarra e il sedere; un partner che ti armonizzi il ritornello; qualcuno che ti spieghi dove stai sbagliando, un gatto fuggito da riportare ai tuoi ultimi amici. Tieni duro Llewyn Davis, il vento freddo che spazza Washington Square forse è un annuncio di primavera. Sta per sbocciare l’ultima grande stagione del folk, non mollare Llewyn Davis. Forse sei vittima di un incantesimo, e un estraneo a migliaia di miglia se la spassa col tuo destino. Forse questo non è semplicemente il tuo show; non sei che la comparsa che fischia nell’ombra e nell’ombra ritorna. Cosa stai facendo della tua vita, Llewyn Davis?

 

John Goodman mai così inquietante, irradia luce opaca su tutto il film.

A proposito di Davis è un film che può lasciare estasiati o sgomenti. Se non vi piace il folk; se non apprezzate i primi dischi di Dylan; se mantenere lo sguardo su un menestrello per quattro strofe e altrettanti ritornelli rientra nella vostra idea di noia, non provateci nemmeno. Ma anche chi colleziona i dischi di Phil Ochs o Van Ronk può rimanere interdetto dallo sguardo raggelante che i Coen buttano sul Greenwich Village del 1961. Un attimo prima che tutto esploda, il loro eroe immaginario Llewyn Davis è tentato dal fallimento; pronto a partire con la prima nave, il destino lo ributta a terra e lo aspetta in un vicolo. Chi ha il palato per le storie di sventura e fallimento apprezzerà immensamente A proposito di Davis.

 

Ma vi ricordate se era maschio o femmina? Perché anche questo ha la sua importanza.

Non so se sia il caso di A.O. Scott, il critico del New York Times che lo ha messo al primo posto nella Top10 del 2013. Alle pendici della stessa classifica, sei film ex aequo presentati come variazioni di un edonismo senza scrupoli “Just look at all my stuff!” It’s capitalism, baby! Grab what (and who) you can, and do whatever feels good. We’re all going to hell (or jail, or Florida) anyway. Il grande Gatsby, The Wolf of Wall Street, The Bling Ring, Spring Breakers, Pain and Gain e American Hustle: sei storie di avidità e autoaffermazione. Nel frattempo i Coen guardano come sempre altrove, e si inventano il biopic senza senso di un cantante senza direzione e senza pubblico, uno dei 999 che non ce la farà. Vittima di oscure maledizioni, Davis attraversa le leggende degli altri senza rendersene conto; ama il folk ma non la gente (in inglese è la stessa cosa); incide un successo e non se ne accorge; sfigato parente di re Mida, trasforma in merda ogni cosa che incontra. In un 1961 parallelo, Holly Golightly e Paul Varjak non trovano più il gatto e proseguono ognuno per la propria strada, e di chi è la colpa. 

 

A proposito di Davis è allo Stella Maris di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:00); ai Portici di Fossano (21:15).

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Nani, pasticche, mignotte, Scorsese

C’è senza dubbio una metafora, ma FUCK YEAH NANI AL BERSAGLIO

The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013)

 

Se il sesso è droga; se il denaro è droga (la più forte di tutte);  se la cocaina, non c’è dubbio, è droga: riesci a immaginare una scena più drogata di Leonardo Di Caprio che tira cocaina dal fondoschiena di una puttana con banconote arrotolate? Non credo che gli daranno l’oscar per questo. Non credo che gliene fotta più di tanto. The Wolf of Wall Street sembra una riunione d’affari finita male, o bene, dipende dai punti di vista. All’inizio c’erano delle idee sul tavolo, si trattava di prendere la biografia di un lupo della finanza e magari approfittarne per qualche metafora sulla società, sulla corruzione non più solo economica ma esistenziale, fisiologica, la speculazione che entra nelle vene e brucia le tue cellule, corrompe e distrugge le parole che ti escono dalla bocca… finché qualcuno probabilmente non ha mascherato uno sbadiglio e qualcun altro deve aver detto Ehi, perché non facciamo un break? Giusto dieci minuti. Una mezz’ora. Un martini. Una pista. Perché non chiamiamo un paio di mignotte? Un paio a testa, intendo. E un deejay? Uno scimpanzè? Due nani da lanciare contro un bersaglio? Tre ore dopo il baccano era tale che i vicini hanno chiamato i federali. Ma chi è che ha cominciato? Chi è che ha mandato tutto, non figurativamente, a puttane?

 

Alè, baracca.

Io un sospetto ce l’ho, anche se probabilmente è sbagliato. Cosa ci faceva Jonah Hill a quel tavolo? Da quando in qua è entrato nella cumpa di Scorsese? Chi l’ha invitato? Sorpresa: si è invitato da solo, accettando il minimo sindacale. Hill è un attore davvero simpatico, fisiologicamente portato a ruoli di commedia, al punto che gli basta mettere il naso fuori da un cappuccio kkk in Django per trasformare all’istante l’omaggio di Tarantino a Griffith in uno sketch di Monty Python. In questo film però gli tocca un ruolo cruciale che una generazione fa Scorsese affidava quasi sempre a Joe Pesci: il deuteragonista, l’amico che prima o poi tradirà l’eroe o ne sarà tradito. Hill ovviamente non ha quella luciferinità mediterranea che Pesci portava con sé sul set: d’altro canto questo è un altro ambiente, la finanza, un altro tipo di mafia (non meno micidiale, voleva dirci Scorsese? Ce lo voleva dire? Ehi, c’è qualcuno che mi sta ascoltando qua dentro? Chi è che ha invitato le majorettes, fuck). Hill non può che essere un simpatico pacioccone, che si sposa la cugina perché i bambini del quartiere cominciavano a guardarla; che prima di incontrare l’anticristo della speculazione gestiva, naturalmente, un negozio di giocattoli. Anche la sua tossicodipendenza ha un carattere infantile: l’iniziazione al crack in un cesso di ristorante è la trasformazione di due adulti in dodicenni. Tutto questo è verosimile e altamente simbolico (la speculazione è una regressione a uno stato di egotismo infantile, fuck), ma è anche necessario, perché Hill arriva alla corte di Scorsese dopo anni di commedie da sballati (Superbad, Facciamola finita), insomma il pacioccone che si droga è ormai il suo ruolo specifico.

 

Ma quanto si saranno divertiti

Inserito in un film di Scorsese, però ha un effetto imprevisto; ci aspettavamo una torbida epica di squali della finanza, ci ritroviamo con due ore e mezza di orge e fattanze, e alcune delle scopate più tristi e squallide mai messe in pellicola. In mezzo a gente che sniffa e scopa a caso più volte distinguiamo Di Caprio che fora la quarta parete cercando di spiegarci la genialità di un qualche trucco da speculatore… per interrompersi quasi subito: dai, non ci capite nulla e non ve ne può fregar di meno, beccatevi un’altra scena di pasticche e mignotte. Bring on the dancing girls! Tutto ha senza dubbio un valore simbolico, ma dopo un po’ viene il sospetto che Scorsese abbia semplicemente voluto girare la stoner comedy più grossa e costosa di tutte. Avete presente quei film che vanno molto adesso, di maschi più o meno giovani che fanno festa a Vegas o altrove, ecco, come se Scorsese si fosse detto fuck, lo so fare anch’io un film così. Maledetto Jonah Hill, sei stato tu? Non si vanno a disturbare gli anziani registi ufficialmente disintossicati, lo sai che prima o poi ci ricascano. Hill in un film di Scorsese è come aggiungere al solito mix di sostanze una vecchia pillola degli anni Ottanta che chissà se fa ancora qualche effetto.

 

A volte sembra Pain and Gain, cioè Micheal Bay che cerca di imitare Scorsese.

Eccome se lo fa. In fin dei conti Scorsese le stoner comedies le faceva già quarant’anni fa – in realtà non erano affatto comedies, ma Mean Streets o Who’s Knocking at My Door erano già, indubbiamente, film stonati: centrati su compagnie di amici che perdono tempo a bere e a donne, al punto che potremmo persino riconoscergli la paternità del genere – la soggettiva raso pavimento non l’ha inventata lui? A Scorsese quella roba piace da sempre, gli è congeniale tanto quanto la mafia o i falsi racconti di formazione. Questo rende The Wolf forse il film più quintessenzialmente scorsesiano di tutti: è la biografia (Toro Scatenato, Casino, The Aviator) di un personaggio deviato sin dalla prima scena (Taxi Driver, Re per una notte, Goodfellas), i cui talenti coincidono inestricabilmente con i vizi. Il personaggio otterrà uno straordinario successo (Toro, Re), sposerà una bionda che gli causerà problemi (Casino) e poi commetterà ineluttabili passi falsi che lo porteranno a fare i conti con la legge (Taxi, Toro, Goodfellas), ma a non imparare nessuna lezione: Taxi, Toro, Re, Goodfellas, Aviator, non c’è un solo film di Scorsese in cui l’eroe si riscatti nel finale. Al limite può chinare il capo e accettare le manette o un programma di protezione, con tanta nostalgia per i tempi in cui se la spassava, fuck, quelli erano i giorni. Insomma se volete una morale, se volete un riscatto esistenziale, un fervorino finale su quanto è alienante e disumana la finanza, o la mafia, o la droga – state chiedendo al cineasta sbagliato. C’è chi può uscire da una dipendenza quando vuole: c’è chi resta cocainomane anche dopo dieci anni che si è disintossicato. Non è dipendenza psicologica: è la candida ammissione che quella roba era incredibile, meglio degli spinaci di Braccio di Ferro, la cosa migliore che ti è capitata, anche se poi hai scelto di sopravvivere. Ma da qualche parte nascosta sai di averne ancora, per quei momenti in cui tutto il resto rischia di crollarti addosso. Magari ci sei seduto sopra in questo momento.

 

Alla fine Scorsese è i Rolling Stones: cosa ti aspettavi? Cosa credevi? Può fare cose uniche, persino miracolose alla sua età: un paio di scene sono esilaranti, poetiche, struggenti (l’arresto durante le riprese dello spot; il breve sguardo del federale in metropolitana). Ma a volte vuole solo stare alzato con gli amici, bere sniffare, dire parolacce, suonare il rock’n’roll. È fatto così, e non ti deve mica piacere per forza. 

 

(Comunque Portofino-Ginevra via terra si fa in cinque ore con il traffico, cioè: che modo stupido di affondare un impero. Fuck).

 

The Wolf of Wall Street è al Cityplex Cine4 di Alba (17:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 16:30, 18:00, 21:30, 22:00); all’Impero di Bra (16:30, 20:30); al Cinecittà di Savigliano (17:00, 21:15); dura due ore e mezzo.

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La Brianza è un groppo in gola (che non va né su né giù)

Avendo cinque minuti di pellicola in più, magari potevate raccontarci come si è assortita una coppia così.

Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014)

 

Quanto costa una vita intera? Nulla: un’imprudenza, un sentiero di notte, una jeep che sbanda, un cellulare spento. Oppure cinquecentomila, ma facciamo anche settecento, novecento; un lotto in centro, un teatro, tutti i tuoi sogni di essere una persona migliore, la faccia che guarderai allo specchio da quel giorno; e un bacio. Per chi li pagheresti. Per la persona che ami o per quella che ti fa sentire più in colpa? C’è qualche differenza? A diciott’anni, forse c’è. A quaranta, a quaranta magari mi capirai. Ma non te lo auguro.

 

Del film ormai avete letto tutto. Avete fatto male, scordatevi tutto: le polemiche preconfezionate sulla Brianza, le tirate sulla crisi-dei-valori, sulla civiltà-del-denaro eccetera. Ognuno poi ha il diritto di vendere il proprio prodotto come può, ma Il capitale umano è un film più intelligente di quello che vi stanno presentando in tv e sui giornali. Che poi leghisti cari è troppo facile prendersela con Virzì: chi ha le palle per denunciare i pregiudizi coi quali William Shakespeare sfigurò i sani e operosi cittadini della Verona medievale? Il Capitale umano non parla di Brianza più di quanto parli di Connecticut o di qualsiasi altro distretto imborghesito del mondo; non demolisce la nostra generazione (senz’altro povera di valori e assetata di denaro) più di quanto non demolisca qualsiasi altra; a Romeo e Giulietta in fin dei conti è andata bene. Fossero invecchiati, avrebbero senz’altro costretto i figli a un matrimonio d’interesse. Se pensate di trovarvi davanti all’ennesimo romanzo di una grande famiglia spietata e decadente, potreste uscire delusi: non so se quanto Virzì Piccolo e Bruni ne siano consapevoli, ma il pescecane della finanza esce dal film meglio di quasi tutti i comprimari. Forse erano così convinti che bastasse metterlo a capotavola di consiglio d’amministrazione per renderlo il Cattivo; non hanno spinto il pedale del grottesco, e il risultato è un Gifuni mediamente stronzo, ma assolutamente umano.

 

Ok, lei è bella e bravissima, ma un’altra cosa che non ho capito bene è perché fingono di stare assieme per sei mesi.

Quel che è riuscito a fare Bentivoglio col suo bauscia, invece, ha del miracoloso. Sul suo personaggio il film rischiava tutto. Sappiamo che Virzì arriva al drammatico dalla commedia all’italiana – sappiamo anche che non è stato un movimento così brusco; che il dramma se lo portava dentro sin dal primo film. Ma da quel tipo di commedia Virzì portava un gusto grottesco dei personaggi, soprattutto secondari, che la sensibilità per le stratificazioni sociali e culturali rendeva spesso dei bozzetti: il professore de sinistra, il figlio di papà, il pancabbestia, eccetera. Potevamo pensare che passando al thriller Virzì avrebbe rinunciato ai bozzetti (già negli ultimi due film erano più rari, benché indimenticabili). Ci sembrava giusto. Anche se ci sarebbe dispiaciuto, perché diciamo la verità: a noi i bozzetti grotteschi di Virzì sono sempre piaciuti; sono uno dei motivi per cui Virzì ci piace più di tutti i suoi compatrioti, ormai, e forse questo non fa di noi dei veri cinefili ma non ce ne frega niente, noi daremmo dieci Jep Gambardella o come cavolo si chiama per un altro prof Iacovoni. Anche se all’estero nessuno se li filerà mai, i tuoi leghisti in cravatta verde e il Va’ Pensiero che gli suona in tasca, i tuoi critici teatrali sudici o sociopatici. C’è un personaggio che sta in scena tre secondi tre – la sorella dello speculatore – ed è perfetta, noi amiamo Virzì per queste cose. Detto questo, non puoi pensare che uno stereotipo di bauscia possa reggere la prima mezz’ora di un thriller. In teoria, perlomeno. Poi ti ritrovi davanti a Bentivoglio, conciato com’è conciato. Ha a disposizione una paletta ristrettissima, deve parlare come Faso di Elio e le Storie Tese attraverso un ghigno congelato da caratterista di commediaccia sexy. Non puoi provare angoscia per un tizio così.

 

Non puoi?

 

È una scena che sembra ritagliata da un altro film, però è divertente e mi ha fatto tirare il fiato.

E invece ce la fai. Bentivoglio ce la fa. Non so come ne sia in grado, avrei voglia di tornare a rivederlo soltanto per capire come fa. Dopo venti minuti siamo in pena per lui. Lo vediamo andare a sbattere contro un muro che si è venduto e comprato da solo, e vorremmo fermarlo. Dopo un’altra ora di film lo odieremo. Ma sarà troppo tardi; per un attimo siamo stati dalla sua parte, abbiamo perso l’anima con lui. Che altro dire. Basterebbe Bentivoglio a chiudere la discussione, e invece è solo il preludio. Puoi credere anche solo per un’istante che Valeria Golino sia una psicoterapeuta della mutua? Puoi. Puoi empatizzare con Valeria Bruni Tedeschi che fa la ricca annoiata? Chi se lo sarebbe aspettato da lei, lo so, eppure puoi. È passata più di un’ora e gli unici che non ti hanno particolarmente colpito sono i giovani. Stanno sullo sfondo, fanno le cose antipatiche da giovani. Poi tocca a loro e ti si rovescia tutto il film – magari anche lo stomaco: capisci che tutti groppi in gola che ti hanno apparecchiato fin qui ti servivano solo a preparare quel vuoto in pancia che si prova a 18 quando fai una cazzata veramente grossa.  C’è di nuovo un Romeo e una Giulietta che si fottono la vita in 24 ore, e potrebbe, dovrebbe andare a finire altrettanto male.

 

Il Capitale umano è un thriller vero: un congegno spietato, realizzato senza rinunciare a frecciatine di costume che qualcun altro giudicherà non equilibrate. Io mi dichiaro vinto nel momento in cui Valeria Bruni Tedeschi prende il controllo e si scopa Nostra Signora dei Turchi – la buona vecchia commedia all’italiana, commerciale, industriale, che profana il cadavere del teatro sperimentale sussurrandogli Ti Perdono anch’io, lo sai cos’eri per me? Un buon sottofondo per pomiciare, niente più, il Fausto Papetti dei ricchi sofisticati. Un giorno forse se ne accorgeranno anche gli assessori leghisti. Si sveglieranno sul divano all’improvviso davanti a un vecchio Virzì su Rete4 e finalmente lo guarderanno, finalmente si renderanno conto che l’egemonia culturale di sinistra non ha mai avuto un accusatore altrettanto feroce. Filosofi, sindacalisti, insegnanti, radical-chic, no-global, non ne ha risparmiato uno solo: avreste dovuto adottarlo, coccolarlo, invitarlo alle sagre della polenta, ma veniva da Livorno e andava da Fazio, forse da lì l’equivoco. Il Capitale umano non contiene rivelazioni sconcertanti sulla crisi di valori dell’occidente, ma mostra a ogni adulto di che nodi sono fatti i cappi che ci stringiamo al collo: è l’insoddisfazione che ci fa commettere cazzate, le cazzate ci sprofondano nel senso di colpa, dal senso di colpa riemergiamo adulti e disponibili a pagare qualsiasi prezzo, a coprire qualsiasi crimine. Che altro dire. Tenete il cellulare sempre acceso, perdio, sempre, magari c’è qualcuno stanotte che ha bisogno esattamente di voi. Per quanto disperati possiate sembrare a voi stessi. 

 

Il capitale umano è al Cityplex di Alba (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:35, 20:10, 22:35); all’Impero di Bra (18:20, 20:20, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30). Non ci sono molte scuse per non andarlo a vedere, a parte Peppa Pig.

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Tram desiderio, ultima fermata San Francisco

Ieri
Ieri

Blue Jasmine (Woody Allen, 2013)

 

Cosa succederà quando diventeremo poveri? Non dico che non ce lo meritiamo. Ma poveri davvero, capisci, come quelli che viaggiano in classe economica? Quelli che hanno case brutte piene di mobili da quattro soldi tanto la maggior parte della giornata la passano fuori a… lavorare? Tu ce la faresti a lavorare? Dico sul serio. Lo sai usare un computer? Io non so neanche come si accende, dovrei fare un corso. Non si potrebbe semplicemente trovare qualche uomo ricco e bello con una casa vuota da arredare, e ricominciare da capo?

 

Guardando Blue Jasmine a un certo punto ho avuto un brivido; non mi capitava da tantissimi film di Woody Allen (e io amo guardare i suoi film). Siamo a una festa un po’ “mista”, un ricevimento vagamente inverosimile, e Jasmine si annoia. A un certo punto entra in una sala vuota e incontra Peter Sarsgaard. Nessuno li vede. Escono su un terrazzo assolutamente sgombro. La musica insulsa all’improvviso non si sente più. Sarsgaard apre la bocca e in due minuti ha già riconosciuto le Roger Vivier ai piedi di Jasmine e si è accreditato come diplomatico in carriera, vedovo, con una casa da arredare e un futuro in politica, e io ho avuto un brivido: allucinazione, Woody Allen ci sta mostrando un’allucinazione. Siccome in tutte le scene in cui non sta con Sarsgaard la Blanchett sembra una matta, l’idea appare più che sensata. Una di quelle cose di cui poi ti vanti con gli amici, eh, ma io l’avevo capito subito che Jasmine stava sbroccando… no. Mi sbagliavo. Nessuna allucinazione. Jasmine incontra davvero il principe azzurro a una festa. 

 

Oggi

È uno snodo abbastanza improbabile, ma Allen non scrive film realistici, forse non lo ha mai fatto. Puoi anche assegnargli un tema di attualità (lo scandalo dei Madoff), e dopo un po’ ti accorgi che invece di approfittarne per raccontarci un po’ di presente, è andato a ripescare i classici, il Tram chiamato Desiderio. Ai tempi di Match Point c’era chi ne magnificava la capacità di tuffarsi nella amoralità contemporanea, senza badare al fatto che si stava semplicemente ricucinando un buon vecchio Dostoevskij. Ad Allen il presente non interessa, a questo punto sarebbe ingiusto fargliene una colpa. Anche se non ha quasi mai la volontà o la necessità di ambientare i suoi film in un mondo che non sia simile al nostro (sempre però visto un po’ da lontano, senza riferimenti cronologici precisi), Allen più che un realista rimane un autore tragico che, dopo aver messo in scena per vent’anni le sue riflessioni sul destino dei mortali su uno sfondo di grattacieli, ultimamente sta provando sfondi diversi. Ma la tragedia resta sempre la solita (Jasmine è condannata già prima che si alzi il sipario) e lo sfondo è soltanto uno sfondo. Così è comprensibile – anche se un po’ triste – che negli ultimi anni i suoi impresari cerchino di attirare l’attenzione reclamizzando soprattutto l’originalità dei fondali: Woody does London! Paris! Rome! San Francisco!  Un giorno lo ritroveremo a Hong Kong, magari farà l’Edipo Re con un sottofondo ragtime e ci sembrerà una cosa incredibile e nuovissima.

 

Domani

Una volta ho letto che gli abitanti di Hong Kong hanno un problema con le distanze. Nascendo e crescendo in una città di grattacieli, davanti agli spazi vuoti si trovano in difficoltà. Probabilmente è una sciocchezza, e comunque Woody Allen è nato dall’altra parte del mondo, a Brooklyn; e ha vissuto gran parte della sua vita a Manhattan. Anche se negli ultimi anni ha dimostrato che può ambientare i suoi film altrove, qualche problema con gli spazi vuoti forse ce l’ha. Magari è più facile accorgersene in California che a Parigi o Londra o Roma. Tutti ci ricordiamo quella vecchia scena in cui tenta di spostarsi con un’automobile a Los Angeles; la più grande prova d’amore per Annie Hall, ormai fuori tempo massimo. Le auto nei suoi film sono spesso armi improprie, quasi mai mezzi di trasporto affidabili. Una delle premesse dei soggetti alleniani è che i personaggi possano incontrarsi per caso, attraversando la strada: devono dunque abitare tutti nello stesso grande quartiere.  La possiamo prendere come una convenzione teatrale o come una forma di manhattania che non si nota veramente finché Allen non pretende di ambientare una tragedia nella West Coast, senza derogare alla sua aristotelica unità di luogo. A un certo punto Jasmine costringe il principe azzurro ad accostare e mollarla tutta sola sullo sfondo della Baia. Nella scena seguente la troviamo in un negozio a Oakland. Avrà preso l’autobus? Un taxi? Ci piace immaginarla mentre scarpina verso la meta, ma solo il ponte è lungo sette chilometri. Nella scena successiva è a casa di sua sorella, a San Francisco, comprensibilmente un po’ provata. Il mondo fuori Manhattan è una prateria ostile e non misurabile, che non si ha più tempo per cercare di capire.

 

Così come non riesce a raffigurarsi uno spazio più vasto della metropoli, Allen sembra in difficoltà anche quando prova a ritrarre una classe media off Manhattan. Per risolvere il problema ricorre a un espediente notevole: ritaglia un personaggio da un altro film (la Poppy di Happy-Go-Lucky di Leigh, Sally Hawkins), e la piazza sul set: forza, scuoti i braccialetti, fa’ qualcosa da ceto medio: la maestra d’asilo? E perché non la commessa in un supermercato. Avrai senz’altro un fidanzato unto di grasso che guarda la boxe e mangia la pizza dal cartone. Anche Baldwin nei panni del finanziere maneggione-farfallone sembra arrivare precotto da un altro set, ma probabilmente è quel che capita quando sei Woody Allen e tutti gli attori del mondo sono disposti a lavorare a parametro zero per te: che gli attori siano forse più perfetti del necessario. Compresa la Blanchett, che alla ricerca dell’Oscar grosso ci dà una classica interpretazione alleniana, nel solco del Branagh di Celebrity: balbetta, ostenta nevrosi, straparla. Ne risulta uno dei ritratti più impietosi che un regista abbia mai fatto di sé stesso: Woody Allen calato nelle forme e nei panni di un’arrampicatrice sociale rovinata, terrorizzata dallo spettro della povertà, incapace di accettare che il tempo delle mance generose e dell’idromassaggio è finito. Blue moon era la nostra canzone. Non si capisce quanti anni abbia realmente, sembra una Stella scappata da qualche filodrammatica con gli abiti di scena. Per il viaggio che l’aspetta non c’è una Louis Vuitton abbastanza solida. E gli sconosciuti hanno smesso di essere gentili da un pezzo.

 

Blue Jasmine è dovunque: al Fiamma di Cuneo (15:10, 18:00, 21:10); al Cityplex di Alba (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); all’Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). E dire che una volta qui era tutto cinepanettone.

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Giovane, carina, molto occupata

Vi state sensibilizzando sull’odioso fenomeno della prostituzione minorile?

Giovane e bella (François Ozon, 2013).

 

Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l’ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun’altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.

 

Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz’altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all’amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile. 

 

Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro alle sei dev’essere a casa.

L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).

 

Qui c’è una lievissima metafora

Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.

 

Gonna give you some terrible thrills.

Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.

 

Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.