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Breve invito a non speculare sui suicidi

State tutti parlando di un suicidio e non si fa. Peggio: state cercando di fare politica con un suicidio, ed è una mossa disperata. Cioè non dico che non possa funzionare – talvolta il mondo è stato cambiato anche dalle discussioni scatenate da un suicidio, abbiamo una manciata di esempi, quindi è vagamente possibile – ciò che invece è statisticamente sicuro è che discutendo di suicidi, si provocano altri suicidi: il fattore emulazione è molto forte, lo sappiamo da due secoli e non ci è consentito fingere che no.

Sarebbe cosa giusta, ogni tanto, imparare dai nostri errori: abbiamo ripudiato la guerra, abbiamo smesso di considerare il terrorismo una forma di lotta accettabile, nessuno definisce più il sequestro di persona come una valida alternativa alla pastorizia o alla disoccupazione; sarebbe ora che un mero calcolo costi/benefici ci portasse a censurare anche il suicidio come pratica cento volte più nociva che utile. 

Liquideremo dunque la pratica del suicidio come gesto antisociale, anche quando non lo è: le lettere dei suicidi, per quanto toccanti non le leggeremo (o lo faremo di nascosto), e in società non ne parleremo se non per esprimere superficiali note di biasimo. La depressione è una malattia, merita rispetto e trattamenti sanitari, non morbose attenzioni di romantici fuori tempo massimo. Per combattere chi fa violenza su di sé la faremo anche noi a noi stessi, liquidando Majakovskij come un depresso, Mishima come un fanatico, e Jan Palach avrebbe dovuto risparmiare la benzina per tirarla a un carro sovietico.  Non ascolteremo le canzoni su di loro; considereremo decadente chi le scrive e speculatore chi ci guadagna. Noi canteremo piuttosto come Battiato (e Sgalambro): Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio; questa parvenza di vita, signore, non lo merita. Solo una migliore.

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La cultura delle rape

In questo periodo si parla soprattutto di stupro e io no. Non ho molto da dire, e il sospetto che qualsiasi cosa dicessi parlerebbe meno dell’argomento che di me – cerco di spiegarmi: più vado avanti e più cresce in me la sensazione che nessun argomento quanto il sesso attraversi in controluce la persona che ne scrive, tradendo dettagli privati sulla propria età, estrazione, formazione… è buffo perché in teoria dovrebbe essere una cosa naturale, il sesso, una cosa istintiva, e invece più ne parliamo e più riveliamo la nostra cultura, che non sempre interessa chi ci ascolta. Non c’è niente come il sesso per fare litigare generazioni che in teoria non dovrebbero farlo in modo molto diverso – insomma alla fine è solo sesso, quante posizioni vuoi che ci siano, quante combinazioni? – e invece basta anche solo un film di 15 anni fa e capisci che era tutto diverso, come quando in una partita a scacchi bastano tre mosse per cambiare completamente il valore di pezzi che a volte nemmeno si sono spostati. 

Faccio un esempio: se oggi su un social qualsiasi incontrassi un tizio che dice: eh ma magari la ragazza all’inizio con quei quattro ci voleva stare, cioè come facciamo a escludere che non ci fosse andata apposta, che la cosa le interessasse? Se io senza sapere nulla di un tizio così lo sentissi dire una cosa del genere, in pochi secondi già avrei formulato un’ipotesi sulla sua età (16 anni), sulla sua cultura (assai debole), sulla sua estrazione (non ricca) e pure la prognosi: meno porno, ragazzino. Nel frattempo però starei anche rivelando la mia formazione, la mia estrazione, la mia cultura ecc… Poi, siccome sono io, ci metterei assai poco a passare dal caso specifico a quello generale, cioè ma questi ragazzini davvero possono crescere convinti che una ragazza si ficchi in una situazione del genere per divertimento? ma davvero non è che c’è troppo porno in giro, non è che in queste giovani generazioni non stia per caso saltando la percezione comune della sessualità, di cosa è accettabile e no, di cosa è piacevole o no? Se io incontrassi qualcuno su un social che fa un discorso del genere.

Ma per fortuna non l’ho incontrato.

No vabbe’ dai Ferrara tu non stai bene.

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Maria12 perdona tutti

5 luglio – Santa Maria Goretti (1890-1902)

Uno dei due ritratti autorizzati dalla madre
(tra loro non si somigliano).

[2012]. La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d’estate, col caldo che fa, c’è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c’è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio – sarà che hai caldo anche tu – sei in un’altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all’inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c’è Maria Goretti: l’ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po’ arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile: se scavi un po’ ti accorgi che sotto c’è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c’è chi compra.

Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall’altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell’uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un’altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano. [D’altro canto anche oggi non serve alcuno sforzo per includerla tra le martiri del patriarcato femminicida].

Negli anni Ottanta, in un momento di relativa bonaccia ideologica, un appena trentenne Giordano Bruno Guerri sceglie di compiere seriamente quello che in questo blog si fa per burla: irrompe nella stanza dei palloncini, prende quello già un po’ ammosciato della Virtù Eroica di Maria Goretti… e lo fa esplodere, bang! spaventando chi sonnecchiava nei paraggi. Il suo libro, Povera santa povero assassino, fa il botto: è una ricostruzione storica affidabile, vende bene, viene respinto dal Vaticano come blasfemo e sacrilego, ma costringe la Congregazione per le Cause dei Santi a convocare una commissione, che risponderà ribadendo le tesi del processo di canonizzazione: la Virtù Eroica di Maria Goretti è una Virtù Eroica, punto.

Guerri era di un altro parere. Nel giochino scemo destra-sinistra, G. B. Guerri non può che andare dalla parte di chi ha scritto tante cose su Mussolini e sul Ventennio, tiene una rubrica sul Giornale, ha organizzato celebrazioni per il centenario del futurismo, dirige il museo del Vittoriale. Però rileggere un suo libro degli anni Ottanta ti fa lo stesso effetto di guardare le prime vignette di Forattini degli anni Settanta: dalla distanza sembrano tutti di sinistra estrema. Probabilmente è vero il contrario: siamo noi che ci siamo spostati dall’altra parte, in moto rettilineo uniforme, tanto che a un certo punto Montanelli è diventato un compagno, semplicemente perché restava fermo mentre noi ci muovevamo. A rileggerla oggi, l’anti-agiografia di Guerri sembra costruita su un solido impianto marxista: prima di essere vittima del suo assassino, Maria Goretti è insieme al suo assassino vittima della miseria, del contesto socio-economico che la produce. La prima metà del libro è tutta appunto concentrata sul contesto, e fa spavento: Guerri documenta una povertà dickensiana, una barbarie alle porte di Roma, in una palude in cui il fatto di sangue è l’esito logico di una catena di circostanze inesorabilmente determinate: il vero responsabile, lo si legge più volte tra le righe, è il padrone che affama la santa contadinella e il contadino allupato. Quanto alla Chiesa, se a un certo punto riscopre la martire è ad uso propaganda: per Guerri è cruciale che, dopo tanti ritardi, il processo si sblocchi durante l’occupazione angloamericana, nel momento in cui la virtù delle fanciulle di Roma e Napoli veniva facilmente scambiata al mercato nero. Bisognava trovare un esempio di eroica resistenza al mercimonio della carne, e Maria Goretti era lì a immediata disposizione.

“Dio non vuole. No! Alessandro, tu vai all’inferno. Sì. Sì. Sì”.

Quando finalmente si tratta di parlare di Maria come persona, Guerri non nasconde di aver poco da dire: Maria non ha identità, non può averla: non ha studiato, non sa leggere, non aveva le facoltà intellettive necessarie a comprendere i rudimenti della sua stessa religione: sarebbe morta ubbidendo a un Dio che non capiva. Togliatti, lo abbiamo visto, non sarebbe stato d’accordo: Dio o non Dio, Maria non voleva acconsentire a una prepotenza, e questo significa che aveva una coscienza, un coraggio da additare ai giovani. Ma ce lo ebbe davvero, tutto questo coraggio? Scartabellando tra gli atti del processo, Guerri scopre che di fronte al punteruolo Maria aveva esclamato Sì, sì, sì. Quel triplo sì, certificato dal suo assassino (ormai pentito, quarant’anni dopo il fattaccio) aveva creato non pochi problemi ai cardinali durante il processo di beatificazione. Avevano cercato di girarlo in vari modi: “sì” poteva essere considerato la ratifica della frase precedente, “vai all’inferno”? O magari Maria stava acconsentendo a essere accoltellata? Oppure (ci fu chi lo propose) non era proprio un “sì”, magari uno strillo isterico, un “hi hi hi”? Il grido tipico di chi viene minacciato di violenza con un punteruolo…

A distanza di trent’anni la ricostruzione di Guerri sembra ancora solida: eppure c’è qualcosa nel libro che lo fa sembrare in un qualche modo datato, espressione di un periodo felice in cui si potevano ancora scoppiare palloncini per il gusto di farlo. All’inizio pensavo che fosse un problema di scarsa empatia con la vittima, ma non è così: Guerri prova sincera pietas per la “povera santa” (ma anche per il “povero assassino”); il che non gli impedisce di indagare sulle frustrazioni sessuali del secondo e su uno dei pochi misteri della prima: perché faceva la Comunione così poco spesso? (Risposta: perché fisicamente non avrebbe retto il digiuno eucaristico). A mancare è piuttosto un certo tipo di impostazione che negli ultimi trent’anni è diventata lo standard, quando si parla di vicende di questo tipo. Per Guerri i motivi che portano Maria sul calendario sono complesse circostanze storiche, sociali, politiche, e anche diversi colpi di fortuna (fortuna per i parenti, e persino per l’assassino: smisero tutti di far la fame). Oggi, se una Sarah o una Yara diventano improvvisamente famose, noi non ci chiediamo il perché. La fama si spiega da sola, è autoevidente: una persona diventa famosa perché tutti ne parlano, e tutti ne parlano perché è famosa. Se in un primo momento ancora ci sforziamo di imputare la morbosità dei media, appena sorgono i primi altarini ci arrendiamo: c’è un inconscio collettivo da qualche parte, e i media non fanno che sondarlo; ogni tanto invece è lui che sbuca sotto la crosta sottile della modernità, e si mostra per quel che è: un beghino del Seicento, tale e quale. Ma non andò così anche con Maria Goretti?

Secondo Guerri no, non ci furono altarini né una particolare devozione popolare, prima della beatificazione. La notizia di cronaca anzi rischiava di non essere nemmeno pubblicata sui quotidiani clericali, che la ripescarono in chiave polemica (qualche giorno prima erano morti due amanti suicidi, e qualche quotidiano ne aveva approfittato per lamentare il mancato diritto al divorzio). Per molti anni gli unici miracoli, le uniche apparizioni, Maria le fece ai suoi famigliari. Insomma tutto il carrozzone della piccola Santa sarebbe stato imposto dall’alto: solo quando dall’alto arrivarono le prime agiografie, i primi santini, il popolo rispose dichiarando i primi miracoli, le prime grazie ricevute. Magari è andata così davvero. Ma gli altarini che nascono spontanei alle cancellate delle giovani protagoniste di fatti di cronaca mi fanno pensare che potrebbe essere andata diversamente: che un culto di Maria Goretti, sotterraneo, popolare, potrebbe avere tenuto viva la memoria della bambina fino all’inizio della causa di beatificazione; in seguito gli stessi alfieri della causa avrebbero avuto interesse a cancellare questo tipo di devozione dal retrogusto pagano, che potevano creare difficoltà nel dibattimento.

Alla fine sto gonfiando anch’io per quel che posso il mio palloncino: secondo me le religioni esistono prima delle Chiese, che sono un tentativo più o meno goffo, più o meno elegante di dare un’aria strutturata, consequenziale, a qualcosa che nasce già spontaneamente. Per pensarla così mi basta accendere la tv al pomeriggio, c’è la Vita in Diretta e mi sembra una cerimonia. Parlano di qualche bambina scomparsa, e all’improvviso sembra scomparsa anche per me. Cosa voleva dirmi? Quale mio peccato sta espiando? Non è chiaro; Mara Venier fa il possibile per spiegarmi, ma forse certe verità sono accessibili solo a un ristretto cerchio di iniziati.

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Marco Minniti ha visto un mostro


Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.

Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere… (continua su TheVision)

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L’arte dei mostri è l’unica interessante

Non è cominciato tutto con Weinstein. Ho vaghi ricordi di discussioni precedenti – per esempio quando Bill Cosby fu processato per violenza sessuale devo aver sentito qualcuno lamentarsi del fatto che non sarebbe più riuscito a guardare un episodio dei Robinson. Lì per lì non devo aver prestato molta attenzione alla cosa (anche perché, insomma, oggi dove li trovi gli episodi dei Robinson?), ma è stata la prima volta che ho fatto caso al fenomeno.


Quando usciva un film di Woody Allen mi imbattevo regolarmente in qualcuno che, tra tanti motivi per non andarli a vedere, tirava fuori quella triste accusa di molestie alla figlia. Pensavo fosse una forma un po’ stravagante di boicottaggio. Ma poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e mi sono reso conto che molte persone intorno a me non sembrano riconoscere la differenza tra contenuto dell’opera e vissuto dell’artista – no, in realtà è più sottile di così. Non è che non la riconoscono: chiunque sa riconoscere la differenza, poniamo, tra Adolf Hitler e uno dei suoi mediocri paesaggi. È che non la vogliono riconoscere. Carino quel paesaggio, di chi è? Di Adolf Hitler? Ah, allora è orribile.


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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 


E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.


Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.

Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era esattamente un satanista e soprattutto non ha mai pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.
Charles Manson è un personaggio davvero esistito e nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre – così com’è davvero entrato in un riformatorio cattolico a 13 anni, per evaderne molto presto su un’auto rubata, e rientrarci poco dopo. Come raccontò ai giurati che lo condannarono, buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, dall’altro forse gli diede qualche elemento in più per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare quelle razziali (continua su TheVision).

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Il genere maschile non esiste

(Considerazioni di una non-femmina)

Ho letto che in Francia qualcuno sta seriamente proponendo di cambiare la regola grammaticale più maschilista di tutte, la concordanza mista degli aggettivi al maschile plurale: in pratica quella regola per cui se in una stanza in cui siedono, diciamo, quaranta studentesse brave, entra un solo ragazzo bravo, il risultato è che in quella classe ci sono quarantuno studenti bravi. La regola non è così irragionevole – non sempre è possibile determinare l’esatto numero dei componenti maschili e femminili di un insieme – però è sessista, senza dubbio.

La cosa che più mi ha colpito è che a trovarla non più tollerabile siano stati gli ex studenti, che ricordavano la reazione bullistica degli studenti di sesso maschile: (“Siamo i più forti!”, ecc.). Un insegnante della generazione precedente, diciamo di 50 anni fa, avrebbe zittito tutti quanti: è solo grammatica, stronzetti, ora aprite il diario e scrivete i compiti di punizione. Risalendo ancora un po’ più indietro, il problema non si poneva: studenti e studentesse non frequentavano le stesse aule. È un’idea consolante: la sensazione di vivere in un periodo di ostilità tra i sessi è dovuta soprattutto al fatto che oggi c’è un dialogo, un confronto che pochi anni fa era impensabile.
Che fatica però.
Qualche anno fa durante una lezione di grammatica ho pensato di risolvere il problema così: ok, sul manuale c’è scritto che c’è un genere maschile e uno femminile, ma se ci pensate bene l’unico vero genere ben definito è il secondo. Lo uso ogni volta che sono sicuro che ogni elemento dell’insieme è di sesso femminile. Invece il genere maschile non esiste: fosse per me lo chiamerei non-femminile; infatti si usa ogni volta che in un insieme non sono tutte femmine. “Una classe di studentesse” mi dice con precisione chi c’è dentro. “Una classe di studenti” mi lascia il dubbio: alcune saranno femmine e alcuni no. Ecco qua. Ho detto una bugia? Non proprio. Diciamo che ho esercitato il mio diritto a fornire una spiegazione meno sessista dei fenomeni grammaticali. La regola alla fine resta sempre la stessa, e può darsi che sia sbagliata (ma mica spetta a me cambiarla). Però almeno evito la scenetta dei ragazzi che ridacchiano e festeggiano una presunta superiorità attestata sul manuale. Forse ho solo confuso le acque: forse è tutto quel che posso fare.
È più o meno lo stesso approccio con cui affronto tutte le polemiche che girano intorno al sessismo, e devo dirlo: non è che funzioni benissimo: ma che altro posso fare? Sono un maschio eterosessuale: o sto zitto o è mansplaining. Star zitto alla lunga è faticoso, tocca ascoltare gli altri e non dicono sempre cose intelligenti, allora provo a fare una mossa laterale – mi sgamano, eh, ma almeno ci provo.
Quando mi sento dire: voi maschi avete paura di questa ondata di denunce, della nuova consapevolezza che sta portando a chi fino a qualche mese fa poteva solo sopportare in silenzio, io rispondo che beh, forse sì, ho un po’ paura: ma non in quanto maschio (sapete, il genere maschile non esiste). Quando scopro che un produttore italiano è rivenduto al pubblico delle Iene come “il Weinstein italiano”, ma non c’è nessuna denuncia, e dieci accusatrici su dodici sono anonime mentre le altre due non fanno il nome del produttore, io sì, comincio ad avere un po’ paura. Perché sono un maschio e sento franarmi addosso il patriarcato? Oppure perché sono un cittadin*, e l’idea che in Italia i sospetti molestatori seriali vengano inquisiti non dai magistrati, ma dalla trasmissione che ha difeso per anni il metodo Stamina come una sana alternativa alla chemioterapia dovrebbe spaventare chiunque, maschio, femmina, transgender, polimorfo? Il “Weinstein italiano”, capite. L’Harvey Weinstein originale è stato accusato da più di cento donne, di cui solo una manciata sono anonime. Non si tratta di semplici voci raccolte da un cronista d’assalto: la maggior parte sono denunce circostanziate che risultano agli atti. In Italia per diventare un “Weinstein” ti basta trovare dieci fonti anonime disposte a fare il tuo nome. Non mi devo preoccupare? È solo il pisello in me che si preoccupa?

Qualcuno comincia a chiedersi: ok, magari c’è stata una sottovalutazione del problema, ma ha un senso combatterla dando credito a qualsiasi voce di corridoio? Vale ancora la presunzione d’innocenza? Qualcuna ha la franchezza di rispondere: no. Non ce la possiamo permettere. È un’emergenza, evidentemente (ma quanto potrebbe durare?) In Italia i limiti temporali per sporgere una denuncia sono troppo brevi, non è che possiamo sempre preoccuparci di essere garantisti con gente che forse, dico forse, molestava. Roviniamogli la carriera e non pensiamoci più. Funzionerà al limite come deterrente – potrebbe davvero funzionare. Ma avete riflettuto un attimo sugli effetti collaterali?

Anche su TheVision leggo che Woody Allen è ancora in libertà malgrado sua figlia lo abbia accusato di cose orribili: come possiamo perdonargli anche solo un sospetto di pedofilia? Oserei obiettare che non spetta a noi perdonargli niente, così come non siamo tenuti a credere a quel che racconta sua figlia: è la rielaborazione di una cosa messa in giro da sua madre (Mia Farrow) nel momento più critico di un divorzio. Il caso Allen però è particolarmente spinoso, perché ammette soltanto due possibilità: o Woody Allen è davvero colpevole di qualcosa di orribile (ma non ci sono prove), o Mia Farrow ha fatto qualcosa di quasi altrettanto orribile, alimentando fino a oggi una voce così infamante su di lui, al punto di crescere una figlia convinta di essere stata vittima delle attenzioni morbose del padre.
Quel che è davvero inquietante del caso Farrow/Allen, è che uno dei due è senz’altro colpevole di aver fatto male a una figlia: ma sono liberi entrambi. Grazie al cielo non spetta a noi scegliere: non siamo giudici – ma se lo fossimo, a quale criterio ci affideremmo? Se mi rispondete che una madre non può mentire in quanto madre, e una figlia non può mentire in quanto figlia, io mi preoccupo. Perché sono un maschio? Forse. Forse tutto il mio raziocinio non è che l’organo di autodifesa del mio pene, ok, non posso escluderlo. Figurati se a vent’anni non ho scambiato #anch’io per un cenno di intesa un semplice sorriso, figurati se non ho allungato una mano che doveva stare al suo posto o fatto qualche altra stronzata che adesso spero di far passare sotto silenzio. Onestamente non ricordo, a volte poi ero bevuto, ah, ma anche Kevin Spacey, no? Non può essere una scusa. No.
Non posso escludere di far parte di un insieme di creature naturalmente infide e prevaricatrici (i maschi), i cui vantaggi evolutivi negli ultimi tempi si sono talmente ridimensionati che non sembra poi così esagerata chi propone di farne a meno. Quel che voglio dire, dopo aver bevuto la mia coppa di bromuro fino alla feccia, è che se pensate di cambiare paradigma semplicemente invertendolo, potreste avere una brutta sorpresa. Se per schiacciare i maschi prepotenti voi calpestate il diritto, e reclamate la legittimità della delazione anonima, alla fine potreste restare calpestate anche voi, e da un piede non necessariamente femminile. Quando si comincia a dar credito a qualsiasi accusa, le donne finiscono per farne le spese quanto gli uomini – di solito anche peggio. Erano donne, non uomini, le maestre che furono accusate di pedofilia a Rignano Flaminio. Non erano famose come Woody Allen e fecero molta più fatica a difendersi. In quel caso non furono le Iene a mobilitarsi, bisogna dirlo: fu un altro programma. Giornalisti iscritti all’albo, in ogni caso. C’erano le testimonianze dei bambini, potevano sbagliarsi i bambini? C’era la rabbia dei genitori, che è sacra: come si poteva anche solo mantenere il beneficio del dubbio? Anche allora non si poteva andare per il sottile: c’erano i satanisti, là fuori.
A chi scrive, senza scherzare, che “gli uomini perbene non hanno nulla da nascondere” (una frase perfetta da incidere su qualsiasi videocamera di sorveglianza) posso solo rispondere: ok, magari anch’io non sarò 100% perbene, ma allora chi? Chi può essere sicuro di essere al di sopra di qualsiasi sospetto, di qualsiasi voce? Il primo che mi viene in mente – sarà che è novembre – è San Carlo Borromeo, che si vantava di non avere mai dato udienza a una donna in assenza di testimoni. Dovremmo probabilmente fare tutti così (organizzarci soprattutto negli ascensori). Non è una coincidenza che lo stesso San Carlo avesse separato uomini e donne nelle chiese e piazzato una vera e propria barriera tra le navate, affinché gli uomini non molestassero le donne con lo sguardo. Il momento in cui ogni sospetto diventa reato, in cui ogni voce diventa condanna, precede di poco il momento in cui ci si copre il capo, e ci si divide in navate diverse, in aule separate. E a quel punto non si litiga più, neanche sulla concordanza del genere misto: a qualcuno sembrerà un passo avanti.

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Cesare Battisti (odiarlo è così facile)

Ancora una settimana di tregua, e poi torneremo a odiare Cesare Battisti. Il 24 ottobre la Corte Suprema brasiliana esaminerà la sua situazione, e a quel punto forse capiremo se ci sono i margini per un’estradizione in Italia di quello che ormai è diventato – suo malgrado – il più famoso terrorista italiano. Al punto che il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, di recente l’ha tirato in ballo mentre chiedeva giustizia per “gli anni dello stragismo”. Ci sarebbe quel piccolo particolare che Battisti non è uno stragista, ma l’errore è comprensibile. A Di Maio serviva un esempio famoso, un tizio di cui negli ultimi anni si è sentito parlare, una faccia vista in tv: e negli ultimi dieci anni l’onere di interpretare il ruolo d irriducibile degli anni di piombo è toccato a lui.

Ha anche la faccia giusta, diciamolo, perfetta per i titoli di un tg: troppo spesso ai fotografi ha mostrato quel tipico di ghigno da criminale impunito. Mentre i volti di tanti altri reduci dello stesso periodo sbiadiscono negli archivi cartacei, lui continua a trovarsi davanti ai flash delle macchine digitali, e a volte la cosa sembra piacergli: dopo l’ultima scarcerazione, all’aeroporto saluta i giornalisti alzando il boccale di birra che ha in mano – ovviamente scriveranno che stava brindando. Nel frattempo in giro per il mondo c’è almeno una trentina di terroristi latitanti, ma Battisti è l’unico che fora il video. Alessio Casimirri, uno dei brigatisti rossi che falciarono la scorta di Aldo Moro, ha sei ergastoli da scontare: gestisce un ristorante a Managua. Un po’ più vicino si è fermato un suo complice, Alvaro Lojacono, che ha acquisito la cittadinanza svizzera. Casimirri e Lojacono rientrano nella definizione tecnica di stragisti, ma è possibile che Di Maio non ne abbia mai sentito parlare: non hanno più bisogno di scappare e non fanno più parlare di sé.

(Ho scritto un pezzo per TheVision, sul solito caso Battisti).

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