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Aa presidente

Questa cosa dei femminili dei sostantivi è oggettivamente poco interessante – persino io che studio e insegno grammatica di mestiere, mi devo proprio sforzare per trovarla interessante. Siete anzi liberi di dichiarare che è cosa noiosa e che non vi interessa. 

Una volta. 

E poi non ne parlate mai più, e non vi si vede più in calce a qualche thread a infastidire gente che se ne sta interessando (e che in linea di massima ha studiato la questione un po’ più di voi). Perché chi trova davvero un argomento noioso, di solito fa così: se ne disinteressa.

Se invece non perdete occasione per ribadire che bastaaaa, che noiaaaaaa, è proprio un’ossessioneeeee: ecco, sì, confermo: è un’ossessione, vostra. E ora una notizia: non esiste nessuna ossessione di sinistra per il “politically correct”. Chi lo dice è pregato di citare qualche concreta proposta legislativa sul linguaggio inclusivo. Ne troverà poche o non troverà niente. Troverà invece nelle prime dieci pagine di google centinaia di opinionisti di destra ossessionati dal politically correct, con interventi che di solito si possono sintetizzare in bastaaa che noiaaaaa. – l’idea che in questi anni la sinistra invece abbia parlato di grammatica inclusiva invece che di salari è risibile. Vera Gheno avrà parlato di grammatica inclusiva: è il suo campo, ne parla, che altro dovrebbe fare? Altri avranno parlato di salari, ma per qualche motivo nessuno ha deciso di selezionarli, inquadarli, prenderli ad esempio di ciò che la sinistra fa. Il politically correct è un’ossessione della destra: un fantoccio di paglia che si è costruita col tempo, accumulando episodi per lo più marginali, per il 90% interpretati male (“genitore uno genitore due”, lo schwa, persino il “petaloso”). Esiste una sinistra che si preoccupa solo di queste innovazioni grammatiche? Sì: nei sogni degli opinionisti di destra. Esistono linguisti che si preoccupano in particolare dell’inclusività della lingua e che fanno proposte per rendere l’italiano più inclusivo. Questo non risolve certo i problemi del mondo e nessuno lo pretende. 

Parte della noia che provo per l’argomento è dovuta dal fatto che, malgrado tutti ne parlino come di cosa di sconvolgente attualità, questa manfrina del politically correct la sento ripetere da che son nato, e sono nato in un altro secolo. Mi facevo già la barba quando Irene Pivetti diventò presidente della Camera e si faceva chiamare “il presidente della Camera” – se ne discuteva già allora, perché non la presidentessa? o la presidente? Ora, ciò che rende molto noioso il dibattito è che ormai le squadre sono fatte: la sinistra vuole i femminili e li vuole svelti (“la presidente”), la destra vuole una specie di maschile professionale sovraesteso che però non è mai stato formalizzato (“il presidente”). Dalla mia distanza, mi piace mantenere una certa neutralità e ricordare che stiamo parlando di linguaggio, ovvero di un terreno dove ogni scelta è arbitraria. Questo spiega alcuni paradossi: per esempio, aa Meloni che “sceglie”, letteralmente, il genere con il quale vuole essere chiamata, fa qualcosa di vagamente simile agli attivisti woke che si scelgono i loro pronomi. Se siamo davvero liberi di scegliere il nostro genere grammaticale, anche aa Meloni lo è. Probabilmente anche in questo caso la nostra libertà è vincolata alla comunità dei parlanti, che possono recepire i desideri daa Meloni ma anche, magari in un secondo momento, mandarla a quel paese. Dipende un po’ da tutti, da quanto ci interessa il problema. Ah non v’interessa? E allora non dovevate leggere fin qui, è già il terzo paragrafo, non lo rileggo nemmeno i

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Continuerò a nominare le donne con l’articolo determinativo, anche se oggi è sbagliato

Buongiorno a tutte e tutti. Non è che abbia nulla di importante da aggiungere sull’argomento, ma siccome vedo si continua a parlare di schwa, e se ne parla soprattutto grazie ai detrattori dello schwa (perché è così che funziona, sempre, ma tanto non mi ascoltate), ora mi metterò sulla scia. Ne approfitto per dare una spiegazione a chiunque si ostini a venire a leggere qualcosa qui. Nessuno me l’ha chiesta, nessuno forse la leggerà fino in fondo, ma insomma prima o poi sento di dover spiegare perché mi ostino a scrivere certe parole in un certo modo. La fondamentale questione che affronterò qui sotto è l’articolo determinativo davanti al cognome femminile, che per una questione di linguaggio inclusivo molti tendono a eliminare. Io no. 

A meno che qualcuno non riesca a farmi cambiare idea – ma lo sapete quant’è difficile – io continuerò a usare l’articolo determinativo davanti al cognome femminile. Questo in pratica significa che laddove mi capitasse di scrivere un pezzo in cui compare, per fare un esempio, l’attrice Isabella Rossellini, io cercherei per quanto possibile di scrivere sempre nome e cognome per esteso; ma se per brevità dovessi eliminare il nome, la chiamerei “la Rossellini”, mentre se scrivessi soltanto “Rossellini” probabilmente starei alludendo al padre regista. Ora, non c’è dubbio che questa abitudine – che quando ho imparato a scrivere era considerata una buona abitudine – possa essere intesa in senso discriminatorio: io però ci ho ragionato molto e ho deciso che non la sto usando in questo senso e che quindi continuerò a usarla. Perché?

Non lo faccio perché io creda, come si credeva fino a qualche decennio fa, che le donne siano in qualche modo meno ‘proprietarie’ del loro cognome: per me la Rossellini ha gli stessi diritti di suo padre di chiamarsi così. Si tratta di una questione pratica, perché è la pratica che mi orienta sempre in queste situazioni: così come lo schwa mi sembra poco pratico, allo stesso modo abolire l’articolo mi toglie un sistema molto semplice per distinguere, in un testo scritto, una persona di sesso maschile da una persona di sesso femminile. E veniamo al nucleo del discorso: distinguere non è (necessariamente) discriminare. A chi mi chiedesse: perché ci tieni tanto a far capire sempre e comunque che la persona di cui tu parli ha un determinato sesso?, risponderei: non è che ci tengo tanto, ma se la lingua che sto usando mi dà la possibilità di veicolare con lo stesso numero di parole un’informazione in più, perché me ne devo privare? non vedete quanto sono già lunghi i pipponi che scrivo? Se ho la possibilità di mostrare a tutti i lettori, con due lettere, che una persona di cui sto parlando è una donna (o un uomo), perché devo rinunciarvi, col rischio di dover poi precisare nel paragrafo successivo che appunto, si tratta di una donna (o di un uomo)? Per me è una questione di praticità e basta.

Non lo faccio perché io voglia discriminare le donne, né in modo negativo né in modo positivo: voglio solo un modo pratico per riconoscerle (e per riconoscere gli uomini). Se da domani si decidesse di togliere l’articolo alle donne e metterlo agli uomini per me andrebbe ugualmente bene (salvo che no, non funziona così: la scrittura è un’abitudine, e rompere le abitudini è complicato per me che scrivo e per voi che leggete). Purtroppo in italiano non si è omologato come in altre lingue l’uso di anteporre sempre l’appellativo al cognome: se scrivessi, per dire, in francese, “Mme” e “M” mi toglierebbero d’impiccio. Così in inglese Mr e Ms. In italiano “signore” e “signora” non sono altrettanto elastici: una situazione più equa sarebbe introdurre l’articolo anche davanti ai cognomi maschili, alla milanese; se qualcun altro lo propone posso anche provarci, ma alla fine la soluzione che abbiamo è più economica. 

Non lo faccio per litigare – sul serio, in realtà a me piace litigare, ma spero di trovare sempre argomenti più interessanti, e a tal proposito devo dire che in questi giorni, tra una pandemia e una probabile guerra in Ucraina, questa idea che qualcuno possa preoccuparsi tanto per l’uso di uno schwa in un documento, che qualcuno stia veramente in ambasce per via del linguaggio inclusivo mi suona quasi divertente: qui siamo oltre all’orchestrina del Titanic, siamo a quelli che ascoltavano l’orchestrina e avevano da ridire sull’acconciatura del batterista. Allo stesso modo, mi è già capitato di notare che qualcuno si risentisse perché scrivevo un cognome femminile con “la” davanti, ma in tutti i casi era gente già arrabbiata con me per motivi più seri. 

Non lo faccio per oppormi a un movimento che lotti per la maggiore inclusività e pariteticità nella lingua italiana, non avendo io nessun reale motivo per oppormi. La lingua cambia ed è molto probabile che questa mia abitudine (che ripeto, quando cominciai a scrivere era una regola) molto presto venga interpretata come un vezzo, e magari un vezzo che riveli il sessismo inconsapevole della mia generazione. Posso capirlo e mi sta bene: sono cose che succedono continuamente, ci basta aprire qualsiasi libro o giornale di trent’anni fa per trovare già espressioni che oggi suonano strane e a volte fastidiose. E allo stesso tempo quelle espressioni sono vere, sono il motivo per cui studiare testi del passato è straniante e affascinante, e modificarle equivarrebbe ad alterare subdolamente il passato.

Siccome nel mio passato ho scritto molte cose imbarazzanti ma (grazie al cielo) nulla di davvero incriminante, non modificherò nulla: e non modificherò nemmeno il modo in cui scrivo adesso, ormai è una questione di coerenza. Lo so, è la coerenza dei testoni, del resto quando cominci a fare una cazzata, più passano gli anni più costa fatica ammettere che hai fatto una cazzata. Verso i 45 anni si arriva a un punto di rottura, molta gente si converte in quel momento perché dopo è praticamente impossibile, l’energia necessaria ad ammettere la cazzata diventa così grande che ti distrugge. Quel punto di rottura, credo proprio di averlo sorpassato: l’idea di aggiornarmi per far piacere agli inclusivisti di oggi mi ripugna un poco, temo che sia persino fatica sprecata in un momento storico in cui ti basta dare un calcio a un sasso e ci trovi sotto un tizio che ti spiega come scrivere correttamente per non offendere qualcunə. Mi conviene restare dall’altra parte, un museo vivente degli usi e costumi linguistici del secolo scorso. Magari con questa scusa qualcuno mi verrà a trovare più spesso. 

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Un consiglio a chi odia lo schwa

22 aprile – Santə Alessandra, Apollo, Isacco e Cordato, martirə in Nicomedia nel 303.

Alessandra è una leggendaria moglie di Diocleziano, che avrebbe tentato di difendere i cristiani presso l’imperatore persecutore per eccellenza; quest’ultimo, dopo averla torturata un po’ con le sue mani l’avrebbe fatta decapitare. Non sono poi tanti i casi in cui il torturatore-persecutore della martire è il marito (che in una versione alternativa non è il solito Diocleziano, ma il re persiano Damazio). Alessandra non solo ha le carte in regola per essere considerata patrona delle vittime dei mariti violenti, ma si trova anche tradizionalmente inserita in un gruppo di martiri dell’altro sesso (Apollo, Isacco e Cordato dovrebbero essere dei funzionari o dei servi che avevano cercato di difenderla). I martirologi a questo punto dovrebbero recare la dicitura “Santi Alessandra, Apollo, Isacco e Cordato”, con il maschile plurale che è il genere tradizionalmente adottato nel caso un insieme contenga elementi di entrambi i generi grammaticali (è il cosiddetto “maschile sovraesteso”). Io qui invece ho usato lo schwa, perché volevo vedere che effetto faceva.

Diocleziano

Lo schwa (che in italiano si può anche scrivere scevà) è “una vocale centrale media, che nell’alfabeto fonetico internazionale viene indicata con il simbolo ə“. Da qualche mese sta circolando in alcuni ambienti on e off line la proposta di utilizzarlo in tutti i casi in cui l’italiano preveda il maschile sovraesteso. La prassi vuole che in tutti i casi in cui questi casi si usi il genere maschile (che in fondo non esiste, è un “non femminile”); ma appunto, la prassi si può sempre cambiare. All’esigenza di stabilire una parità tra i due generi grammaticali si sovrappone (e in certi casi si confonde) la messa in discussione della binarità di genere, che nei Paesi anglofoni ha ispirato la proposta di pronomi personali “gender neutral”, come “they” al singolare, per indicare qualcuno che potrebbe essere sia “he” sia “she” ma anche non riconoscersi in nessuno dei due. Rispetto ad alcune proposte avanzate negli ultimi 30 anni, come l’asterisco, Lo schwa introduce un’evoluzione importante: lo schwa non viene proposto soltanto come un segno grafico, ma anche fonetico. Non si tratta di una semplice convenzione grafica, ma di modificare effettivamente la fonetica della lingua italiana. Negli ultimi giorni il comune di Castelfranco Emilia ha fatto parlare di sé annunciando che da qui in poi lo userà nei documenti pubblici.

Per quel che vale il mio parere – non molto – lo schwa non mi sembra una soluzione efficace a un problema che comunque c’è. Le mie ragioni sono abbastanza banali: è un simbolo scomodo. Scomodo da trovare sulla tastiera (ma quello si potrebbe risolvere, anche € all’inizio era introvabile) e scomodo soprattutto da leggere: da lontano sembra troppo simile a una a minuscola, e molte volte mi è già capitato di percepirlo come una a, prima di rendermi conto che lo stavo leggendo male. Quando provi poi a scriverlo su un foglio o su una lavagna, ti rendi conto che è oggettivamente difficile tracciare uno schwà che non si possa confondere con una a – in effetti il relativo successo di una proposta del genere è anche un segno di tempi in cui la scrittura è sempre più digitale e sempre meno manuale. Non escludo che parte del mio fastidio derivi da un’incipiente presbiopia, ma insomma a me lo schwa non piace, come non piacciono tutti i simboli poco leggibili perché poco distinguibili da altri più usati. Capisco comunque e rispetto le ragioni di chi lo usa, e capirei e rispetterei anche chi non lo vuole usare, se soltanto riuscisse a spiegarsi civilmente e non brandisse armi inesistenti o citasse regole grammaticali che conosce spesso per sentito dire.

I motivi per cui lo schwa non mi piace sono anche quelli per cui fino a qualche giorno fa pensavo che non avrebbe mai vinto la sua battaglia (a questi motivi però ne va aggiunto un altro, credo decisivo, che rivelerò soltanto in fondo al pezzo). Che lo schwa fosse diventato materia di dibattimento lo avevo scoperto leggendo gli interventi della sociolinguista Vera Gheno. All’inizio lei stessa ne parlava come di un’ipotesi scherzosa e forse si limitava a includerla in un elenco di soluzioni possibili (l’asterisco, il punto, lo spazio, la “u”, ecc.), ognuna delle quali presentava pregi e difetti. In questo come in altri casi comunque non dipende dal linguista decidere chi vincerà: la Gheno non si è mai stancata di ricordarci che la lingua la fanno i parlanti, che insomma dipende tutto da noi e dalla nostra volontà di innovare o no. Sempre a lei, in un secondo momento, mi pare che si debba l’osservazione che lo schwa stava prendendo piede, seppure in ambienti molto circoscritti, proprio a causa dei suoi limiti, proprio perché era un simbolo difficile da trovare e da pronunciare: questa difficoltà richiedeva impegno, e questo impegno finiva per gratificare gli attivisti che lo usavano. A questo punto se siete ingegneri un po’ state soffrendo (oppure, se state soffrendo, sapete che siete un po’ ingegneri dentro); se invece avete una formazione più umanista, può darsi che stiate già annuendo mentalmente, perché gli umani spesso seguono queste strade tortuose e non previste dagli ingegneri: invece di passare dalla via comoda, un sacco di gente si affolla su quella difficile, e lo fanno esattamente perché è difficile, perché richiede disciplina e sancisce il tuo ingresso in una comunità di iniziati che ti riconoscono anche dalle vocali che adoperi. I motivi per cui non credevo che la schwa non avesse una chance sono diventati i motivi per cui potrebbe invece farcela. Però.

Però un conto è vincere il derby con l’asterisco e con altri astrusi simboli non pronunciati: un altro conto è ritrovarsi sulla carta intestata di un comune italiano. Può davvero lo schwa uscire dalla nicchia, e diventare il ventisettesimo carattere del nostro alfabeto? Dipenderà da molte cose, più sociali e politiche che linguistiche perché alla fine davvero la lingua si adatta a chi la parla: ok alle elementari non ve lo spiegavano così… ma alle elementari avevate bisogno di sicurezze. Dipenderà molto da quanto se ne parla, e questo mi sollecita un consiglio a tutti gli odiatori dello schwa: non lo sopportate, vi sembra un brutto scherzo, volete che scompaia? E allora non usatelo, non leggetelo, ma soprattutto non prendetevi gioco dello schwa. Lo so che sembra uno zimbello perfetto: ma più lo prenderete in giro, più lo spargerete in giro. Più la gente lo vedrà, più lo riconoscerà, e troverà sempre meno strana l’idea che qualcuno lo usi davvero. Se davvero quel che vi preme è la purezza della lingua italiana e del suo vocalismo, lo schwa dovete fare voto di non pronunciarlo mai: e di proibire ai vostri cari di pronunciarlo non solo in vostra presenza.

Se invece la vostra priorità è sfottere il politically correct, presto o tardi il politically correct vincerà, e i vostri figli vi chiameranno genitorə. Non è davvero la prima volta che un fenomeno linguistico si impone grazie all’avversione di una parte dei parlanti – forse è uno dei motivi per cui a un certo punto abbiamo smesso di parlare latino. Pensate a quanti concetti storici o estetici hanno adottato un nome che all’inizio era considerato uno sfottò: il barocco, l’impressionismo, i macchiaioli, il cubismo, i fauves, il punk, i no global: tutti nomi coniati per prendere per il culo minoranze che dopo un po’ li hanno rivendicati come bandiere, e adesso stanno sui libri. Per fare l’esempio più vicino a noi (così vicino che riguarda di nuovo Vera Gheno), pensate cos’è successo a “petaloso”. La parola non esisteva; una collaboratrice della Crusca si limitò a osservare che era ben formata, e che il successo della parola dipendeva come sempre dalla disponibilità dei parlanti a farla propria. Si vide presto che i parlanti non avevano tutta questa necessità di usare la parola “petaloso”, salvo un ristretto ma agguerrito circolo di attivisti di destra che si mise a rovesciare sull’innocuo neologismo una carica polemica degna di fenomeni ben più interessanti, arrivando a coniare il concetto di “sinistra petalosa”. Da un punto di vista linguistico, il risultato è che oggi “petaloso” esiste, (per esempio su treccani.it) soprattutto grazie a loro. Ecco, se volete che lo schwa resti all’ordine del giorno, non avete che da seguire lo stesso sentiero.

Se invece non volete che prenda piede, rimanete immobili. I neologismi son come le vespe, agitarsi è controproducente. Mentre fate il vostro esercizio di immobilità, magari provate a indagare sulle ragioni della vostra aggressività, perché davvero, anche quando litighiamo per un accento, sotto quell’accento c’è sempre qualcosa di più interessante. Parlo per me: ogni volta che infierisco contro la barbara usanza di togliere l’accento da sé stesso, io lotto contro una concezione elitaria della lingua, che difende i suoi privilegi tendendo ad accumulare nei manuali di ortografia eccezioni su eccezioni, non importa quanto astruse. Voi, invece, quando reagite con tutto questo fastidio a un banale grafema, cosa state difendendo realmente? La superiorità del genere maschile sul femminile? Faccio fatica a crederci, manco Pillon o Adinolfi secondo me ci credono più davvero. La vostra infanzia, le 26 lettere appese a quella parete che sosteneva le vostre certezze elementari? E scusate se ve lo chiedo: siete per caso del nord Italia? Perché lo schwa, diciamolo: suona un po’ troppo napoletano.

Ecco, questo credo sia il vero motivo per cui potrebbe non farcela. Se vuoi lanciare un fenomeno linguistico prima o poi devi prendere Milano, e a Milano lo schwa non è che suoni alieno, anzi. Suona heimlich, diremmo in quella lingua in cui la stessa parola può significare sia “domestico” sia “inquietante”. Smorzare i plurali con una vocale muta o quasi muta significa rinnegare una settentrionalità acquisita col benessere, accettare il proprio destino di capitale della diaspora meridionale, di Seconda Napoli, e abbracciare finalmente la lingua rimossa dei nonni e degli zii. Forse sarà inevitabile, ma come si dice: ha da passare una nottata.

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L’annosa questione del dentisto

Io poi lo so che il patriarcato è esistito e tuttora resiste, e negarlo, oltre che ipocrita, sarebbe anche di pessimo gusto; e tuttavia a volte mi sembra un bersaglio troppo facile – ma non è neanche questo il problema, non c’è niente di male a indicare bersagli facili – ma se in alcuni casi fosse il bersaglio sbagliato?

La Repubblica. Che poi spaccare i social mi sembra sempre una cosa ottima.

So anche che molti maschi su questi argomenti non ragionano. Cominciano a veder rosso, a indignarsi a caso, a fabbricarsi competenze linguistiche raccattate sonnecchiando al liceo. I peggiori fanno le battute, e sono sempre le stesse battute da quando ero piccolo. Ero piccolo nel secolo scorso e già “dentisto” non faceva ridere, cogliono, “dentista” è già maschile. Lo so. 

Quante cose che so. 

Lavoro da tanti anni e ho avuto tanti capi. Alcuni uomini, altri erano donne. Con gli uomini è semplicissimo, si chiamano dirigenti. Se volevo sottoporre qualcosa alla loro cortese attenzione, era sempre la cortese attenzione del dirigente. Facile, naturale, svelto. 

Con le donne c’è sempre il piccolo problema. Che per carità, è un’inezia davvero. Ma proprio perché è un’inezia, non si risolve mai, come quel piccolo bottone scucito. 

Il dirigente o la dirigente? E fin qui, basta chiedere. (E infatti glielo chiedi, ma siccome è un’inezia dopo un po’ ti scordi come ti ha risposto. Ma non osi richiedere, e vivi nell’angoscia. Cioè non è vero, magari fossero questi i motivi per angosciarsi al suo cospetto. Ma c’è sempre questo disagio, questo bottone che non è al suo posto e lo sai, e preghi che non ci facciano caso).

(Dirigenta non fa ridere, cogliono).

Ma senti questa: fino a qualche anno fa, d’estate al/alla dirigente subentrava il presidente della commissione d’esame, che spesso era una donna, e quindi: egregio presidente, egregia presidente, o egregia presidentessa? Lo so che è una sciocchezza, ma insomma, quale usare per non dare una cattiva impressione?

A questo punto lo so cosa mi state per rispondere: basta chiedere. Ma certo, ma infatti, che male c’è. Ho forse paura in quanto maschio di chiedere a una superiore donna (superiora?) come vuole essere chiamata? No, in coscienza no, passo la vita a chiedere cose alle donne che stanno sopra, sotto, intorno, non è un problema chiedere. Ma ecco, il problema è che chiedere alla volta diventa pretendere. Abbiamo questo problema del genere dei sostantivi professionali e vogliamo che siano le donne a decidere. Tante volte mi sono sentito pensare: le donne dovrebbero finalmente mettersi d’accordo. Facciano la loro assemblea generale, la costituente, decidano una volta per tutte se il rettore o la rettore o la rettrice o la rettora. Insomma si mettano d’accordo e decida il matriarcato, almeno su questo specifico argomento.

Ma perché dovrebbero mettersi d’accordo? Perché dovrebbero avere sull’argomento opinioni meno contrastanti di quelle dei maschi? Abbiamo mai preteso dai maschi una simile compattezza? No, i maschi si sono trovati la lingua già tagliata a loro misura. Ecco, se c’è ancora qualcosa di davvero patriarcale, in tutta questa faccenda, forse è la nostra pretesa di avere una risposta precisa, da un’entità collettiva femminile che dovrebbe cucinarci e servirci una soluzione bella e pronta, qualsiasi soluzione andrebbe bene. E quindi insomma donne, rispondete: il direttore, la direttore o la direttrice? (direttora non fa ridere), (e comunque il femminile di cantore è davvero cantora). 

Le donne però non sempre ne hanno voglia – è un problema? Ti rispondono: faccia lei. 

È una risposta tremenda. 

“Commissario o commissaria?” “Faccia lei”.

Ma cosa devo fare, scusi. Perché mi tocca decidere una cosa così. Su che fondamenta linguistiche o storiche o sociali devo decidere lì per lì se sei un commissario o una commissaria, una figura che poi io spero sempre d’incontrare poche volte all’anno, mentre lei è commissaria/o molto più spesso, non può deciderlo lei? Anzi, non potete decidervi una volta per tutte?

No. 

No perché?

Perché non è così che funziona la lingua. Specie in Italia. Non c’è nessun parlamento che legifera, nessuna corte suprema che sentenzia. La lingua è libera, la gente s’immagina da qualche parte un consesso di grammatici occhialuti che borbotta su che misure adottare per respingere petaloso, e invece è tutto il contrario, i grammatici sono naturalisti estrosi in giro per i prati ad acchiappare neologismi effimeri e pittoreschi col retino di farfalle. Ti verrebbe voglia di agguantarne uno per il collo, senta adesso lei mi dice se il mio boss è un dirigente o una dirigente, e se mi denunzia mi devo trovare un avvocato o un’avvocato con l’apostrofo o un’avvocata o un’avvocatessa. Ma niente, quelli alzano le spalle, non spetta a noi, sarà l’uso a prevalere come sempre, e cioè?

Cioè continueremo a litigare su questa cosa per generazioni e generazioni, e a usare questo argomento come pretesto polemico persino quando a Sanremo non c’è un Morgan a dare di matto. E qualcuno continuerà a scrivere “dentisto” 🤣🤣🤣🤣 voglio morire. 

E quindi, ricapitolando: il femminile di direttore non può deciderlo una donna tra tante (con che autorità?), e sarebbe ingiusto pretendere che lo decidesse una comunità femminile (forse che abbiamo aspettato che si riunisse una comunità maschile per i nomi maschili)? Si può chiedere ogni volta a ogni singola professionista come vuole essere chiamata, ma è faticoso per noi e anche per lei, anzi è proprio quella piccola fatica che ti fa sospettare che il mondo del lavoro non sia a misura delle donne, come le forbici non sono a misura dei mancini. C’è una soluzione? Continuare a discuterne finché un’opinione prevarrà sulle altre. Sì, ma quale opinione dobbiamo avere noi? Quale opinione devo difendere io?

Non lo so. 

Mai detto di sapere tutto, eh

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