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Ignoranti e felici, il film

Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, 2017)

Riuscireste a vivere due mesi senza connessioni internet? Sì, ma sarebbe un po’ scomodo. Se non aveste mai usato internet, riuscireste a diventarne dipendenti nel giro di una settimana? È abbastanza improbabile. Ve li immaginate Giallini e Gassman professori di liceo, uno tecnopatico e l’altro entusiasta digitale, che si scambiano i ruoli? Uhm, in realtà no. Ecco, beh, non ci sono riusciti neanche gli sceneggiatori di Beata ignoranza: non esattamente gli ultimi arrivati, eppure.

In questi giorni sulla mia bacheca Facebook non fanno che parlare di Sarahah. Da quel che ho capito si tratta di un social network che ti consente di ricevere e mandare messaggi anonimi agli altri utenti. Lo ripeto perché secondo me è fortissimo: in questi giorni stanno tutti provando un nuovo servizio on line che – straordinaria novità! – ti fa sentire l’ebrezza di ricevere e mandare messaggi anonimi. Sono quelle cose che mi fanno sentire decrepito, perché mi ricordo ancora bene quando tutta internet era così, un posto di anonimi che si mandavano messaggi (l’anno scorso Facebook mi ha sospeso perché il mio secondo nome non gli risultava) (in effetti il mio secondo nome, tra Leonardo e il mio cognome, era Blogspot, e finché non l’ho cancellato non mi ha riaperto l’account, che evidentemente deve combaciare con quello che risulta all’anagrafe, il che è abbastanza inquietante: avrei potuto sbattere la porta e andarmene, ma la verità è che senza il mio account Facebook ormai farei persino fatica a lavorare) (sì, a lavorare a scuola).

Ho tirato fuori Sarahah e Facebook non perché non abbia voglia di parlare del film – alla fine è un film interessante, per quanto sballato – sembra concepito da qualcuno vecchio come me, salvo che dopo essersi preso male coi blog anonimi verso il 2004 ha chiuso il pc per sempre e non ha più cambiato la sua idea di internet. E nel 2016 ci ha scritto un film. In cui Marco Giallini interpreta un professore che non è mai stato on line in vita sua e per carità, esistono, ne conosciamo tutti, è più che giusto mostrarli nei film. Questo professore dall’oggi al domani, per una scommessa, viene dotato di adsl, di account sociali e quant’altro ed evidentemente anche di amici e followers, perché dopo una settimana sta già chattando a tutt’andare. Un po’ curioso, ma si sa che nelle commedie si esagera, no? L’idea portante del film doveva essere appunto questa: mostrare un tizio che diventa dipendente da internet nel giro di pochi giorni (mentre il suo rivale speculare, Gassman, dovrebbe fare il percorso inverso). Era una idea interessante? Magari sì, ma a un certo punto qualcosa dev’essere andato storto, e basta vedere dieci minuti di film per accorgersene.

La vignetta più riprodotta del New Yorker è del 1993. Dice: "Su internet, nessuno sa che sei un cane".

È un film veramente strano. Sembra essere stato masticato, risputato e rimesso nel vassoio da un cameriere impassibile – che purtroppo è Massimiliano Bruno. Per dire: tutto comincia con una scena in cui Gassman e Giallini litigano in classe – davanti ai loro studenti! che riprendono tutto col cellulare! Dovrebbe essere lo snodo fondamentale, la crisi da cui scaturisce tutta la storia, epperò in quel momento i due attori principali non sono credibili. Si prendono a male parole, ma c’è qualcosa che stona ed è strano, è chiaro che nessuno dei due è Lawrence Olivier, ma qui sono davvero al di sotto dei loro standard professionali. Più tardi scopriremo che l’effetto era voluto: non stanno litigando davvero, bensì stanno rimettendo in scena un loro litigio precedente; cioè stanno recitando nel ruolo di due attori. Ma non sono bravi attori – cioè, no, Giallini e Gassman sono ottimi attori, ma i loro personaggi no, sono due ex filodrammatici, insomma se uno ha la pazienza di aspettare 80 minuti scopre che all’inizio stavano recitando bene il ruolo di chi recita male. Il problema è che al cinema è anche una questione di imprinting: se tu all’inizio vedi dei cani, ci resti male, e la tua voglia di dare una chance al film ne risente.

Da quel litigio parte la scommessa: Gassman deve rinunciare a smartphone e adsl, Giallini deve cominciare a usarli. Ora non importa tanto che lo sforzo degli autori di rendere una sfida del genere credibile porti viceversa il film nel Reame del Più Contorto Inverosimile (la figlia di uno dei due, non è chiaro di quale, fa la regista! e decide di fare un documentario sulla sfida! Appassionante, no?) Il guaio è che appunto il film sembra scritto da qualcuno che si è disintossicato da internet una decina di anni fa e da allora lo guarda un po’ da lontano, con sospetto, come i vegani trascinati in un ristorante di pesce. C’è un preside tutto orgoglioso perché il suo liceo è diventato “smart” grazie all’adozione del registro elettronico! Che roba, eh? Peccato che il registro elettronico sia obbligatorio in tutte le scuole pubbliche da un paio d’anni. Ma più in generale: quali sono le cose che facciamo quotidianamente, oggi, grazie a internet? Le prime che mi vengono in mente: usiamo le mappe stradali. Recensiamo qualsiasi cosa. Compriamo e vendiamo. Manteniamo i contatti con gente che avremmo perso di vista da un pezzo. Incontriamo gente che non avremmo mai potuto conoscere, con la quale condividiamo interessi. Possiamo lavorare a Ferragosto, anche se siamo al mare, come sto facendo io. E i giovani, mi dicono, guardano molto più porno.

Giallini non consulta mappe, porno men che meno, non compra né vende né scrive recensioni (si prende solo venti secondi per stroncare Tripadvisor in toto), non riallaccia nessun contatto, non si pone neanche il problema di come usare internet nel suo ambito professionale. Però si mette a giocare con un suo allievo ripetente a uno sparatutto per playstation. Da professore a gamer in punto in bianco… e va bene, le commedie esagerano. Che altro fa? Corteggia una sua collega… con un nick anonimo. Nel 2017. Non so. È come usare la macchina per attraversare la strada. Se non avessi mai usato facebook, qual è la prima cosa che farei? Storicamente, un sacco di gente cercava gli ex compagni del liceo, e poi è restata perché ha trovato vecchi amici e se ne fa di nuovi. Non sarebbe stato più credibile che Giallini si mettesse a cercare vecchie fiamme, o scoprisse anime gemelle a migliaia di chilometri di distanza? Devi usare facebook per scrivere i bigliettini? Qualcuno lo usa ancora così?

Secondo me no, ma forse non ha nemmeno così senso discuterne. Credo che i primi ad aver capito che la premessa non funzionava sono stati gli stessi autori, che probabilmente hanno riprovato a riscriverlo, a ritagliarlo, a rimontarlo, e poi forse c’era una scadenza in ballo e semplicemente hanno lasciato che Giallini e Gassman gigionassero a piacere, in barba a qualsiasi vaga pretesa di verosimiglianza (si odiano da una vita, non si vedono da 25 anni e al primo problema uno ospita l’altro in casa). Il risultato è un film molto più borisiano di Boris – o magari dello stesso genere del film nel film di Boris, Natale con la Casta: ci sono sequenze quasi surreali, a volte anche molto sofisticate, che portano avanti una trama risibile; situazioni drammatiche ai limiti della tragedia e oltre buttate lì come se fossero gag da cartone animato (a un certo punto esplode una casa); siparietti scolastici che in qualsiasi scuola vera provocherebbero ispezioni e licenziamenti (nella scuola di Beata ignoranza è prassi comune schiaffeggiare gli studenti); c’è persino lo spettro di una defunta moglie amante e madre interpretata proprio da Carolina Crescentini, icona di Boris. Ci sono, soprattutto, un paio di caratteristi che si fanno le canne dall’inizio alla fine del film, il che non è affatto inverosimile, anzi, ma assume un senso preciso nel momento in cui ci rendiamo conto che in realtà sono i due personaggi più lucidi: come se il film fosse visto secondo il loro punto di vista e probabilmente è andata davvero così. Probabilmente c’era un’idea interessante che stava evolvendosi in un film inutile, una scadenza importante che cominciava a mettere ansia, qualcuno che aveva parecchia maria in casa e ha iniziato a distribuirne, e così insomma alla fine ne è uscito un film un po’ così. Però simpatico. Gli attori sono molto simpatici. Non si capisce nemmeno chi vince la scommessa, cioè si capisce che la scommessa non era così importante, l’importante è voler bene a chi ami anche se non fa sempre figli con te. Inoltre farsi le canne è meglio che andare su facebook, e vabbe’, non è il messaggio più reazionario del mondo in fin dei conti. Dai dai dai.

Beata ignoranza si può vedere gratis a Bra il 17 agosto in via Sobrero, alle 21:30, in occasione della Rassegna itinerante di cinema d’autore. Altrimenti il 25 agosto a Limone Piemonte (ore 21:15). Oppure su Youtube a partire da €3,99.

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Uno psicanalista a Roma (un altro?)

Lasciati andare (Woody Allen, 2016)

 

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista che ha bisogno di perdere chili. Claudia (Verónica Echegui) è una personal trainer che ha bisogno di mettere ordine nella propria vita, ma che non può evitare di sconvolgere quelle di chi incontra. Se fosse un film, non potrebbero che incrociarsi. Ah, ma è davvero un film! E di Woody Allen! Di nuovo a Roma, stavolta nella magica cornice del Ghetto! Una commedia che è una sarabanda di trovate, dove si riflette ma si ride anche a crepapelle, e finalmente si rivede in forma il Maestro! Magari, in realtà no.

 

Lasciati andare (Francesco Amato, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista. Si capisce perché assomiglia non tanto a Freud (calvo, la barba bianca, a un certo punto gli mettono in bocca pure il sigaro) ma alle vignette di Freud. Anche i suoi pazienti continuano a sembrare macchiette dei pazienti degli psicanalisti delle barzellette, secondo una tradizione cinematografica italiana che data almeno da Caruso Pascoski e prosegue, purtroppo, nei tardi film di Moretti (mi ricordo che una volta, credo da Fazio, Moretti ammise che nessuno nel suo staff di scrittori era mai andato in analisi, e questo succedeva dopo che erano usciti già almeno due film in cui Moretti interpretava uno psicanalista, che vorrei dire: almeno un po’ documentarsi, no? cosa può costare prendere cinque-sei appuntamenti, giusto per capire come funziona? Beh in effetti può costare parecchio, ma non varrebbe la pena? Uno si sdraia, no guardi dottore non ho nessun problema serio, volevo soltanto fare un po’ di esperienza perché sto scrivendo un film e non vorrei cadere nei soliti stereotipi? – Tempo tre sedute e stai già confessando che a tredici anni avevi ideato l’omicidio perfetto, ovviamente di tuo padre). (Anche in Lasciati andare, come in Habemus Papam, l’ex moglie dello psicanalista è psicanalista a sua volta – in questo caso è Carla Signoris, che fa piacere rivedere al cinema).

 

 

Francesco Amato ha diretto tre film in dieci anni. Il primo (Ma che ci faccio qui!) era la storia fresca, sorprendente, di un ragazzo che scappa da Roma per fare il giro del mondo ma si ferma alla prima spiaggia; il secondo (Cosimo e Nicole) è la storia fresca, sorprendente, di due ragazzi che si incontrano al G8 di Genova e di quel che combinano in seguito. Lasciati andare è il suo terzo film ed è una delle commedie italiane migliori dell’anno. Però non è fresca, né sorprendente.

 

Francesco Bruni è lo sceneggiatore storico di Calopresti e soprattutto di Paolo Virzì, passato alla regia con Scialla, Noi 4 Tutto quello che vuoi. Nel 2016 ha scritto, con Francesco Amato e Davide Lantieri, Lasciati andare. È esagerato affermare che da una squadra di autori del genere potevamo aspettarci di più di una commedia che, in effetti, gira che è un piacere ed è divertente il giusto, ma sembra approfittare di qualsiasi luogo comune cinematografico e narrativo che incontri sulla strada? Non bastava trasformare Servillo in un sosia di Freud che consiglia best-seller e ipnotizza i pazienti; bisognava anche affiancargli la pur brava Verónica Echegui nel ruolo della classica Manic Pixie Dream Girl, quel personaggio femminile che esiste soltanto nelle sceneggiature e ha il preciso scopo di dare una scossa al personaggio maschile? E se la scelta di ambientare la storia nel Ghetto era almeno qualcosa di originale, valeva proprio la pena caratterizzare il protagonista come uno spilorcio? Ma in generale: oltre allo psicanalista freudiano-quindi-ebreo-quindi-avaro, abbiamo una personal trainer solare e un po’ pazza, e infatti spagnola; un capoverdiano che vende il fumo, un brutto ceffo dal coltello facile e l’accento balcanico, un lombardo carrierista e antipatico (Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo) e… un centravanti un po’ scugnizzo e criptogay – questo a ben vedere è un luogo comune invertito, ormai banale quanto il luogo comune normale. L’unica scelta un po’ originale è il rapinatore balbuziente di Luca Marinelli, che compare soltanto nel terzo atto e non a caso si porta a casa il film. E tuttavia.

 

Tuttavia alla fine Lasciati andare è un film divertente; Servillo è in forma (e non è meno macchietta che in altri prodotti più blasonati), la Echegui è davvero in parte, la storia è un po’ prevedibile ma funziona. Forse il vero test per una commedia del genere sarebbe quello di Woody Allen: ovvero immaginare che cosa direbbero i critici di un film come Lasciati Andare se lo avesse girato lui. Secondo me sarebbero entusiasti. È vero, psicanalista e pazienti sembrerebbero quelli delle vignette, ma non è sempre stato così con Allen? È vero, più che spiazzare gli spettatori la storia sembra andare incontro alle loro attese, ma non è il tratto tipico di tanti film dell’ultimo Allen? La principale differenza è che Lasciati Andare si sarebbe visto in molte più sale e avrebbe incassato assai di più. Lo si può rivedere comunque a Cherasco venerdì 11 agosto, al cortile di Palazzo Gotti di Salerano (ore 21:30); l’ingresso è gratuito e il regista sarà ospite! Altrimenti venerdì 18 e venerdì 25 agosto alle 21:00 al cinema Sangiacomo di Roburent.

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Finché c’è giovinezza

Passa ai ruoli drammatici, dicevano.
Si suda di meno, dicevano.

Giovani si diventa (While We’re Young, Noah Baumbach, 2014)

Hai presente quel dolorino al ginocchio che non riesci nemmeno a ricordare quando è cominciato – quel dolore trascurabile che se ne sarebbe andato presto, e invece a un certo punto non sei più riuscito a salire in bicicletta, e il medico ti ha prescritto una medicina per l’artrite? L’artrite? C’è in giro una nuova generazione di artrite che colpisce i giovani? Ok, tu non sei tecnicamente più un giovane, ma l’artrite, suvvia, tuo padre soffriva di artrite. A quarant’anni… Perché, tu invece quanti anni hai?

Hai presente quel dolorino? Non se ne andrà mai più.

Giovani si diventa non è Duri si diventa, anche se sono usciti la stessa settimana. In Duri si diventa c’è Will Ferrell che deve imparare a fare il duro perché sa che andrà in prigione. Dirige Etan Cohen che non è Ethan Coen, occhio all’H. In Giovani si diventa c’è Ben Stiller che deve imparare a sembrare giovane perché improvvisamente non lo è più – cose che succedono soltanto nei film, per fortuna. Un attimo prima era un documentarista ribelle di belle speranze, un attimo dopo è un vecchio frustrato col cappello sullo sfondo di feste a cui non lo invitano.

Naomi che balla l’hip-hop però vale tutti i $ che è costata.

Dirige Noah Baumbach e la sensazione è che qualcuno, dopo avergli fatto i complimenti per Frances Ha, gli abbia detto: peccato che manchi la trama. “Il prima e il dopo. Questi vogliono gli americani. Un prima e un dopo”. Lo stesso refrain sentirete due volte nel film, all’inizio e verso la fine. Forse Baumbach se l’è presa, al punto di decidere di autosabotarsi: dite davvero che gli americani vogliono più storytelling? E io ve ne darò più che posso: invece di limitarmi a ritrarre un personaggio umanissimo che scopre di invecchiare, gli darò un antagonista, un giovane con tutti i vezzi della fauna di Williamsburg, tranne la barba. Un compagnone supersimpatico, ma chissà se sotto sotto non è il più opportunista di tutti, eh, chissà. Vi darò l’indagine, i tradimenti, i colpi di scena, perfino gli inseguimenti (ma coi pattini. Il destino del Ben Stiller maturo è andare a rotelle). Il lieto fine, vi darò pure quello, con tanto di nota agrodolce. E con tutto questo, riuscirò a incassare meno che con Frances Ha, che era un prodotto artigianale e ha portato a casa 5 milioni di $ netti. While We’re Young partiva con un budget di dieci milioni (che oltre a Ben Stiller a rotelle includono Amanda Seyfried e Naomi Watts che balla l’hip hop) e fin qui è riuscito appena a recuperarli. Volevate un prima e un dopo? Toh. Adesso mi farete fare i film come piacciono a me?

Baumbach è uno dei registi più interessanti della nuova mia generazione. Il fatto che nemmeno lui riesca a darne un ritratto corrosivo senza cadere nel macchiettismo sfoggiato da Sam Mendes in Away We Go un po’ preoccupa. In molte sequenze di While We’re Young lo troviamo a sparare ai pesci nel barile: le ossessioni naturiste delle neo-mamme e dei neo-papà che vanno in aspettativa, quelle analogiche degli hipster viziati con una parete intera di 33giri, l’angoscia dei quarantenni che non riescono più a trattenersi dal consultare lo smartphone al ristorante. È un film che poteva graffiare e si limita a mostrare le unghiette. Alcuni riferimenti alla filmografia di Woody Allen, più che voluti inevitabili, non fanno che darci la misura del baratro – e dire che se c’è un regista che avrebbe qualche chance di colmarlo nei prossimi anni, è proprio Baumbach. C’è da sperare che il ritratto del regista terrorizzato dall’ansia di fallire al punto da minare la propria carriera sia il meno autobiografico possibile. Giovani si diventa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:35.

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Il prof Lo Cascio è sempre più laido

Lo sai cosa sei, sei un paguro. (Giuro).

Il nome del figlio (Francesca Archibugi, 2015)

 

Luigi Lo Cascio è un intellettuale di sinistra che un tempo era idealista è adesso è soltanto frustrato. Ancora? Sì. È il terzo film in un anno in cui fa si ritrova nello stesso personaggio, e ogni volta riesce a metterci dentro qualcosa di più ributtante. Stavolta per esempio è schiavo di twitter, e la fatica di pensare in segmenti di 140 caratteri, gli impedisce di aiutare la moglie a sparecchiare e di assolvere ad altri doveri coniugali. Ora io capisco che casting che vince non si cambia, ma tra un po’ siamo alla Commedia dell’Arte; c’è il serio rischio che al prossimo carnevale tra le maschere di Arlecchino e Balanzone spunti quella di Lo Cascio Prof di Sinistra Frustrato. Il suo antagonista è, per la seconda volta in sei mesi, Alessandro Gassman Pariolino Apparentemente Arrogante ma Dal Cuore d’Oro.

 

Il vero scrittore di strada gli appunti se li prende sui tovaglioli

Ci lamentiamo di Hollywood che fa troppi sequel, ma il Nome del figlio rischia di presentarsi come I nostri ragazzi 2 – il ritorno. Ancora una cena, ancora parole grosse tra parenti, guest star Micaela Ramazzotti che indovinate, fa la coatta (stavolta, purtroppo, non bisessuale, ma ci auguriamo sia un’eccezione), Valeria Golino ancora una volta madre amorevole ma oberata dagli impegni, Rocco Papaleo musicista. I nostri ragazzi era tratto da un thriller olandese, Il nome del figlio da una commedia francese: è strano che si somiglino. Vorrei però confortare chi ha espresso il timore che il film risulti incomprensibile fuori dal Raccordo Anulare. In realtà il rifacimento italiano di Le prénom non è poi così lontano dal testo originale, e lo si può serenamente apprezzare anche se si ha un’idea molto vaga del Pigneto e di Casal Palocco. Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si sono impossessati del testo in modo più sottile, ricavandone un film secondo me più interessante di quello francese, proprio per come si allontana dal modello pur rispettandone apparentemente le strutture.

 

Era sexy pure in sala parto, una cosa che non ci si crede.

Considerato che si trattava della riduzione di un testo teatrale su due coppie (e mezza) che si rinfacciano le peggio cose a cena, il rischio di un film ‘urlato in faccia’, alla Baciami ancora, era altissimo. Il modo in cui l’Archibugi lo ha sventato ha del miracoloso: è commovente vedere attori italiani che riescono a litigare per più di un’ora sbroccando soltanto quand’è davvero il momento, senza sbavate inutili. Lé prenom era un film molto più autoindulgente verso le sue origini teatrali; un tipico buon prodotto della borghesia francese per la borghesia francese (l’unico elemento estraneo, un fattorino porta-pizza, veniva scacciato al terzo minuto). In scena andava un classico gioco delle parti tutto interno a quel milieu: intellos arrabbiati contro neogollisti goderecci e rampanti. Una contrapposizione molto meno netta e divaricata di quella tra postcomunisti e postfascisti italiani. Quello che nel Prénom era una discussione oziosa e astratta sul tabù di Hitler e sul narcisismo della sinistra, condotta da benestanti contenti con un bicchiere in mano, nel Nome del figlio viene presa più sul serio: metà dei personaggi diventano ebrei figli di un reduce di Auschwitz, l’altra metà è declassata affinché il conflitto sociale scoppi davvero. Il personaggio del musicista, che nella versione francese era un trombonista svizzero un po’ fuori del mondo, qui diventa letteralmente il figlio della serva. Ma la differenza più spettacolare la fa ovviamente Micaela Ramazzotti.

 

Il Pigneto non è un arrondissement. Non può e soprattutto non vuole diventare un mondo a sé; non se la passa certo male ma sotto sotto si vergogna di non essere come Tutti, e quindi li invita a cena sotto forma di una scrittrice coatta di best-seller.  Nell’originale francese il suo personaggio era un’algida manager di una maison di moda: con questa trasformazione il film ottiene tre risultati molto interessanti. Il primo è far entrare effettivamente un po’ di aria fresca. La seconda è infilare tra una riga e l’altra del canovaccio francese un’ode alla spontaneità dei neoprolet di borgata, loro sì che sanno come si racconta una storia, mica noi borghesi e parassiti di borghesi (il fatto che questa ode la intoni forse Piccolo è un cortocircuito meraviglioso). La terza è caricare ulteriori frustrazioni sulle spalle del repellente Lo Cascio, che ovviamente invidia la scrittrice di successo perché il suo libro invece non se l’è comprato nessuno. 

 

Lo vendono così, capite? Se avete odiato Lo Cascio nel Capitale Umano e nei Nostri Ragazzi, non perdetevi le sue nuove figure di merda!

Forse parlo da uomo ferito, però l’accanimento nei confronti dello stereotipo locasciano dell’intellettuale di sinistra comincia a sembrarmi eccessivo. Se Le Prénom riservava qualche frecciata a tutti i personaggi (mostrando le unghie più che graffiare davvero), la sua versione italiana sembra molto più sbilanciata nel distribuire difetti e responsabilità. Alcuni finiscono per uscirne quasi esenti. Su Lo Cascio invece si infierisce senza pietà, quasi dovesse chiedere scusa per sempre per aver dato il volto dieci anni fa a un progressismo sorridente e ottimista nei film di Giordana. Uno stereotipo altrettanto irritante, d’accordo, ma non è colpa sua se quel progressismo ha mostrato nel frattempo tutti i suoi limiti. D’altro canto in Lo Cascio si rispecchia una fascia di spettatori che pratica orgogliosamente l’autocritica, ridendo volentieri dei propri difetti, e che al cinema ci va già. Quindi tanto vale continuare a prenderlo di mira, tanto più che bisogna attirare altre fasce di mercato: stuzzicare i coatti, confortare i borghesi, proporre pariolini simpatici, insomma andare verso il centro, verso quelli che votavano Berlusconi e non vogliono sentirsi dire che si sono fatti prendere in giro per vent’anni anche se sono i primi a sospettarlo. Vogliono vedere Renzi che se la prende coi dinosauri di sinistra, vogliono leggere Piccolo che se la prende coi radical di sinistra, vogliono vedere al cinema un tipo di sinistra come se lo immaginerebbero Sallusti e la Santanché al telefono, un disadattato schiavo di twitter che si riempie la bocca di imperativi categorici e non sa neanche dove sua moglie tiene le posate, un parassita che sicuramente insegna cose inutili (ha appena finito un corso di “metrica ariostesca”). E Lo Cascio si presta, ma a questo punto forse dovremmo smettere di prestarci noi.

 

Intellettuali e cognitari di sinistra, uniamoci! Facciamo sentire la nostra voce mentre diciamo chiaro e tondo che questo è l’ultimo film di Lo Cascio intellettuale frustrato che abbiamo intenzione di vedere. Come riparazione esigiamo un film in cui l’intellettuale di sinistra lo farà Argentero a torso quasi sempre nudo, dottore di ricerca in filologia romanza, irresistibile tombeur de femmes costretto dalle circostanze della vita ad affrontare a mani nude un commando neonazista pariolino che ha preso in ostaggio un asilo nido – un film così ci porto le classi a guardarlo, anche a prezzo ridotto è un affare, rifletteteci. Va bene voler piacere a Tutti, ma ogni tanto vi conviene piacere anche a Me.  

 

Trovate Il nome del figlio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (20:30, 22:30); all’Aurora di Savigliano (21:15). Buona visione!

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Woody Allen e la fabbrichetta dei sogni

Ho una telepatia: qualcuno in sala si è già addormentato.

Magic in the Moonlight (Woody Allen, 2014).

 

Dietro le quinte, l’illusionista è esausto. Ha montato quasi cinquanta spettacoli in quasi cinquant’anni, ha calcato le scene di New York Londra Parigi Roma San Francisco, e ancora non capisce cosa si aspettino da lui quando si alza il sipario. Trucchi nuovi non ne ha da vent’anni. Quelli vecchi li ha riciclati tutti cento volte, o mille, a un certo punto ha perso il conto. Più tardi ha smesso di preoccuparsene. Più tardi ha smesso anche di fingere di preoccuparsene. Ciononostante la gente continua a venire, quindi maledizione, toccherà inventarsi qualcosa anche quest’anno. Ma di basso profilo, per carità! Qualcosa che non stupisca nessuno – una commedia, è chiaro.

 

Ormai ogni volta che gli scappa di fare qualcosa di vagamente diverso, qualcosa che desti un interesse diverso dal solito, capitano guai. Si fa viva un’ex moglie o un’ex figlia, lo accusano di cose per le quali non è stato processato, anzi nemmeno indagato ufficialmente – la vita non è già difficile di per sé? Ci vogliamo davvero aggiungere questi periodici surplus di merda? Commedia, commedia, per carità. Qualche vecchio canovaccio, controlliamo se non l’abbiamo già usato negli ultimi dieci anni? Ma no, chissenefrega (Whatever Works è del 2009, ma la sceneggiatura è molto più antica). Ci mettiamo un prestigiatore, da quand’è che non usiamo un prestigiatore? Dal 2006? Neanche male. Del resto vorrei vedere voi, un film all’anno da quasi cinquant’anni. Cosa ci venite a fare? Cosa vi aspettate ancora, a parte lo spettacolo di un vecchio zio che invecchia in tempo reale – lo trovate rassicurante? L’illusionista non lo trova così rassicurante.

 

Firth sembra fatto apposta per questi tardi Allen, incredibile che questo sia il suo primo.

Anche lui, che credete, vi sta guardando ingrigire. Siete quelli che una volta venivate a farvi due risate raffinate. Gli stessi che da un certo punto in poi hanno cominciato ad avere pretese esagerate, a pomparsi con Bergman, con Antonioni, a citare MacLuhan in coda al botteghino. Quelli che negli anni Ottanta cominciavano a sentirsi stretta la pelle che indossavano e fantasticavano di cambiarla, e di uccidere l’amante molesta, quelli che negli anni Novanta si sarebbero portati le puttane ai funerali, quelli che da un certo punto in poi si sono stancati anche di far finta di non essersi stancati di far finta. A gente come voi va somministrato un film tranquillo; se lo ambienta nei soliti anni Venti sembrerà un Poirot televisivo, da subire sonnecchiando sul divano. Macchine d’epoca, Jazz di New Orleans, illusionismo e spiritismo – vi fa secchi in sala dopo una mezz’ora, scommettiamo? Se è proprio quello che volete. Ed è quello che volete, evidentemente.

 

Sennò potreste anche andare a vedere qualcos’altro, voglio dire – guardatevi intorno. Draghi, astronavi, ogni ben di dio. Pensate solo all’Italia. Una volta in Italia lo programmavano a settembre; usavano Venezia come trampolino. Da un po’ di tempo in qua lo piazzano a Natale. Il periodo più complicato, una ressa incredibile, ovunque cartoni 3d e trilogie, quadrilogie, dinosauri, buchi neri, e in mezzo a tutto questo l’illusionista si piglia centinaia di sale e se le porta tranquillo fino a gennaio. Altro che cinema di nicchia. L’illusionista ormai è un’industria, una delle poche che regge la crisi. Un brand rassicurante, attori di primo livello sempre disposti a decurtarsi il cachet, bella fotografia, scenari da cartolina – un’idea di cinema fuori del tempo, che è probabilmente quel cinema che vorremmo tutti che esistesse per prenderlo in giro, per preferire film diversi. Pensa solo se ci fossero sette sale in città e sei film così, che piacere ci darebbe poter scegliere l’unico disco volante, l’unico dinosauro. Ma è l’esatto contrario, il dinosauro è lui.

 

Ed è esausto. Tutto il peso del cinema mainstream sulle spalle, ma chi l’ha mai voluto? Pensare che faceva il comico, si buttò nel cinema perché in tv gli tagliavano gli sketch, e adesso guarda cos’è diventato. Un’industria, un brand, un film all’anno, un sacco di posti di lavoro, una fabbrichetta di sogni che in un qualche modo deve andare avanti anche se lui non ne può più. Probabilmente continueranno anche quando se ne sarà andato, una specie di Walt Disney per anziani. Troveranno qualche altro vecchio disco da usare come sigla, e scriveranno “Da un’idea di Woody Allen” anche se lui le idee le ha finite da un pezzo. Magari è già successo. Magari ha smesso da dieci anni e non lo sappiamo.

 

Ma più probabilmente no. Perché forse anche questa stanchezza è un’illusione coltivata ad arte, e dietro le quinte l’Illusionista è soltanto fiero di sé. Distilla disperazione da cinquant’anni, e guardate cosa ne ha fatto. Quasi cinquanta film, una dozzina di capolavori, niente male per un depresso cronico. Il lavoro gli ha salvato la vita, che altro dovrebbe farci con la vita che gli è rimasta se non scrivere ancora un altro film; dirigere altri attori, innamorarsi di altre attrici. Tra due minuti si va in scena: Emma Stone sgranerà i suoi occhioni ittici e l’universo avrà di nuovo un senso per qualche mese, fino al prossimo trucco – Quale? Uno qualsiasi andrà bene, basta che funzioni. E anche se non funziona, bah, chissenefrega.

 

Magic in the Moonlight, l’ultimo dimenticabile film di Woody Allen, questa settimana a Cuneo si prende la bellezza di sei sale – di cui cinque in provincia. Lo troviamo al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo, al Vittoria di Bra, al Fiamma di Cuneo, ai Portici di Fossano e al Cinecittà di Savigliano. Sogni d’oro.

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E Battiston si bevve tutto il film

L’altro si chiama Rok Prasnikar e se la cava bene, dai.

Zoran, il mio nipote scemo (Matteo Oleotto, 2013)

 

Nel finale dell’ultimo, ahinoi, film di Mazzacurati, a un certo punto Battiston incontra un orso nella foresta e ci va a vivere assieme. Il film è una commedia, ma quella scena vira decisamente verso il demenziale spinto. E però in un certo senso è necessaria. La metamorfosi di Battiston in un orso, intendo. Prima o poi doveva succedere. 

 

Quanto è bravo Battiston. Quanto è bello e buono e morbido, da abbracciare. E quante facce sa fare, quanti ghigni, e sa anche urlare. Quante volte ci siamo detti eh, Battiston, peccato che possa fare solo il comprimario. Il Seymour Hoffman de noantri, pardon, (consulta la wikipedia veneta) de noaltri. Quante volte ci siamo detti che ce lo saremmo visti volentieri un film tutto sulle confortevoli spalle di Battiston. Ed ecco Zoran. Ben ci sta.

 

Zoran è una coproduzione italo-slovena affidata a Matteo Oleotto, giovane regista goriziano che dopo gli studi a Roma per il suo primo lungometraggio è tornato in quel Friuli liminare al mondo slavo. In realtà, sotto la patina paesaggistica stesa sui raccordi, la scena che circoscrive e quasi claustrofobica: un mondo di una dozzina di persone che lavorano assieme, bevono assieme, e giocoforza dormono anche assieme. Ci sono due solo ragazzi, uno è autistico e l’altra è graziosa e determinata a limonarlo; situazione improbabile, non fosse che effettivamente danno l’impressione di essere rimasti gli unici due adolescenti del Friuli. Non c’è neanche un bar, si beve in una rivendita di damigiane e pneumatici. Persino i divorziati si frequentano assiduamente, addirittura si invitano a pranzo tutte le domeniche anche perché probabilmente c’è una sola tavola imbandita per chilometri e chilometri fino alla frontiera. Insomma è una provincia microcosmo. E Battiston se la beve tutta. 

 

Da bere peraltro ce n’è. Il vino scorre copioso come non accadeva dai tempi di Alcool di Tretti. Il coro canta Chi lassa il vin furlan xè propio un fiol de can. Battiston è un alcolista che lavora in una casa di riposo. Morti, sono tutti morti. La moglie lo ha lasciato è colpa sua. Vorrebbe fuggire dal microcosmo, ma come? La provvidenza gli provvederà Zoran, nipote sloveno autistico con le solite doti straordinarie che hanno gli autistici nei film. Questo è un campione di freccette, ha una bella voce bianca e un lessico ottocentesco. Va bene. Io i genitori degli autistici veri li capisco, quando poi gli girano i coglioni. Perché questa cosa dell’autistico campione di questo o quello, non è solo uno stereotipo narrativo un po’ frusto, figlio di una visione un po’ schematica della narratologia (“dobbiamo fornire un ubriacone incasinato di un opposto, uhm… che ne dite di un autistico maniaco dell’ordine?”). Pian piano è diventato un meme, un’idea che gira, se in classe hai un autistico ti chiedono subito in cosa eccelle, chissà quanta memoria ha! Battiston, forse consapevole della debolezza dell’operazione, se ne frega e gigioneggia, ma che dico gigioneggia, orsonwellseggia. Calato in un personaggio peggiore del solito, non si ferma di fronte a nessuna abiezione, senza mai riuscire a sbarazzarsi di quella maledizione che lo perseguita film dopo film: la simpatia. Dovrebbe fare un bastardo, ha studiato da bastardo, tutto quello che fa è profondamente bastardo, ma non c’è niente da fare: l’orsacchiotto ha la meglio anche stavolta. Sulla carta, il suo personaggio è talmente stronzo che non si capisce come possa sussistere in un qualsiasi macrocosmo senza che lo buttino fuori a calci o randellate. Sulla scena, diventa persino verosimile che l’ex moglie sia tentata di rimettersi con lui – ok, è un alcolista falso manipolatore e stalker… ma è così pucci. 

 

Poi c’è ovviamente (spoiler!) la redenzione finale, che ci riporta all’annoso problema del cinema italiano. Che non sono i registi – ne crescono di bravi in continuazione – non sono gli attori – simpaticissimi, bravissimi – non è la fotografia, anzi avercene – è la scrittura. C’è un personaggio X che è stronzo. Continua a fare stronzate. Al culmine della sua stronzaggine casca in un fosso, e da lì comincia la redenzione. Perché? E perché dovremmo trovare commovente la redenzione di un tizio che fin lì si è comportato male con tutti e con tutto? Perché è Battiston, ed è impossibile voler male all’orsetto Battiston. Va bene, ma… no, non è vero che va bene. Non va bene. 

 

Zoran, il mio amico scemo è al Monviso di Cuneo sabato e domenica alle 21:30. 

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Un’ultima risata

Marzocca col turbante è il più cinepanettonesco di tutti, a momenti partono le risate finte.

La sedia della felicità (Carlo Mazzacurati, 2014)

 

Qualche anno fa al mio paese ci fu una retrospettiva su di lui. L’Estate di Davide è uno dei film meno conosciuti: comincia a Torino, finisce presto in Polesine, e ha un ultimo, rapido atto nella Bari vecchia. Che io ricordi è l’unico scorcio di meridione mai filmato da Mazzacurati, e quando si riaccesero le luci fu il regista in carne e ossa a spiegarci forse il perché: raccontò di com’era stato interessante girare in luoghi diversi, spesso di prima mattina per non disturbare e soprattutto non essere disturbati. Questo gli aveva permesso di lavorare in una pace assoluta, in Veneto: a Bari invece si era ritrovato una piccola folla variegata e mattiniera molto interessata alla messa in scena, e generosa di consigli competenti; in particolare una vecchietta aveva manifestato insoddisfazione per l’ultimo ciak; secondo lei non era riuscito perfetto e aveva suggerito a Mazzacurati di farne ancora un altro. E lui per non offendere nessuno aveva obbedito – quest’ultima cosa potrei anche essermela inventata, è passato qualche anno e il cattivo istinto del narratore comincia a prendermi la mano (l’istinto del cattivo narratore). Siamo nella fase delicata in cui nascono le storie, gli aneddoti famosi, le piccole leggende. Siamo nella fase ancora difficile in cui Carlo Mazzacurati ci manca. 

 

In missione per conto della Fame nel Mondo

Comincia più o meno quando finiscono le cerimonie. C’è un piccolo crocchio di amici che si ritrova appena fuori dal cimitero e si mette a scherzare, ché ormai le lacrime chi poteva piangerle le ha piante. Ognuno istintivamente cerca di trovare qualche storia buffa in cui il defunto compaia, se non come protagonista, almeno come comparsa. Qualche ora prima era ancora molto importante ricordare quanto fosse buono, e seppellire tutte le cose cattive che avevamo pensato di lui. Adesso pretendiamo anche che fosse un tipo divertente; vorremmo vederlo scomparire col sorriso. Che cosa penserei di La sedia della felicità se fosse uscito in qualsiasi altro momento? Probabilmente oscillerei tra la delusione e la solidarietà per una mossa così sfacciata: un tentativo di infilarsi in quella zona mediana – e commercialmente decisiva – tra la commedia d’autore e il cinepanettone. Certe scene sono realmente cinepanettonesche, specialmente verso il finale: tutte le resistenze ormai hanno ceduto e vediamo in scena un orso che balla e Battiston che abbatte i nemici con una pressione del dito. Cose che ci lascerebbero perplessi anche sullo sfondo di un prodotto di Checco Zalone, ma stasera abbiamo voglia di ridere e di ricordare che Mazzacurati era anche questo: divertente. Siamo tra amici, in fin dei conti cos’è Valerio Mastandrea se non un amicone che ti fa ridere qualsiasi cosa dica o faccia. E Battiston che fa il prete truffaldino. E Isabella Ragonese: che altro chiederle se non di stare ancora un po’ tra noi a ridere e a raccontare. E chi altro c’è? Fai prima a dire chi non c’è; ci sono tutti, come facevano a mancare. Bentivoglio, Orlando, la Ricciarelli, la Vukotic, e poi Marzocca, Albanese, Balasso, il mago Oronzo – il rischio di passare per uno spinoff di Mai dire Goal è concreto ma chi se ne frega, che risate ci siam fatti negli anni Novanta. 

 

 

 

EL ME FRADEL

Negli anni Novanta, se proprio volessimo raccontarci la verità, Mazzacurati ci infliggeva storie deprimentissime di perdenti che portavano già il sapore di una crisi in là da venire, ma evidentemente molto prevedibile: gli allevatori del Toro, i ladruncoli della Lingua del Santo; e poi Vesna, e Davide dell’omonima estate: tutta brava gente con un’insospettabile disponibilità a delinquere; quasi sempre per necessità, quasi mai con successo. La sedia della felicità ricicla la vecchia formula in tono farsesco, appoggiandosi al vecchio canovaccio ebreo-russo della caccia al tesoro nascosto in una sedia, già adattato per il cinema almeno 18 volte dagli anni Trenta a oggi. La versione più famosa è quella di Mel Brooks, ambientata nella vastissima Russia sovietica. Le sedie di Mazzacurati si allontanano molto meno; se restano tutte in Veneto, ci sarà senz’altro un motivo simbolico – oltre al fatto che il regista si sentiva più a suo agio e non rischiava di dover condividere le sue scelte con qualche vecchietta. Nel Veneto poi c’è tutto il mondo che può servire a un cineasta, dalla laguna alle Dolomiti passando per tutti i non-luoghi canonici, centri commerciali e zone industriali deserte, ville palladiane saccheggiate e alpeggi incontaminati; e tutte le lingue, dal cimbro al cinese. La quantità dei cammei e alcune bizzarre coincidenze (c’è persino una teleferica) continuano a ricordarci l’ultimo film di Wes Anderson, anche lui vagamente ispirato all’opera di un romanziere degli anni Venti di origini ebraiche: la riuscita è ben diversa, ma è simile la voglia di lasciarsi alle spalle i rovelli e riscoprire il piacere del racconto. A ben pensarci, un film tanto leggero dopo il bilancio amaro della Passione suona quasi beffardo. Però non è che vogliamo realmente pensarci. 

 

Dopo un’oretta e mezza ci congediamo dagli amici. Forse abbiamo riso un po’ troppo, ma non ce ne vergogniamo; ne avevamo bisogno. Carlo Mazzacurati non c’è più, è assurdo ma è così: per vent’anni ha puntato il suo obiettivo sulla provincia italiana illusa e delusa dal benessere, quasi sempre alla giusta distanza; che è la più difficile da mantenere. Quando non ce l’ha più fatta, ci ha voluto salutare con una risata, un bacio e un lieto fine. Che altro chiedergli. Signor Regista, ci scusasse, non è venuta proprio benissimo, secondo noi; ce ne fa un’altra? Per favore. Lei che è tanto bravo e gentile. 

 

 La sedia della felicità è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:35) e all’Impero di Bra (22:30). Buon divertimento e buon Primo Maggio. 

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Noi 4, ben poco Fantastici

Noi 4 (Francesco Bruni, 2014).

 

Caro tredicenne italiano che mi sbavi a distanza sin dalla prima media, qual è il tuo problema? I tuoi genitori sono separati, embè? lo dici con un tono come se fossero morti. I tuoi genitori non sono morti. Si fanno fin troppo vivi, se vuoi la mia opinione di cinese di seconda generazione. Vengono pure ad assistere al tuo orale di licenza media. I miei non sono venuti ad assistere al mio esame. I vostri genitori vennero ad assistervi? Solo i genitori di bambini separati fanno questo tipo di cose. Passano il tempo a palleggiarsi figli e responsabilità e ricordi, con una vitalità che altre coppie segretamente invidiano. Caro tredicenne tirati su col morale: sei un trofeo, una terra di nessuno da conquistare. O preferiresti essere un bagaglio a mano, come i bambini delle famiglie noiose?

 

Citazione esplicita: Bruni si è davvero ispirato agli incredibili (però manca JackJack).

In un certo senso assomigli a questo film, ne contieni in piccolo tutte le proprietà. Sei molto più italiano di quel che vorresti sembrare. Ti piacerebbe arrivare da altrove, parlare un po’ russo come qualche parente. E però non vorresti nemmeno sembrare uno sfigato primo della classe, uno di quei film d’autore che poi alla fine magari andranno meglio di te al botteghino anche se la metà del pubblico non capisce la metà di quel che succede. La distanza tra te e il tuo pubblico altri la colmano con la spocchia, per te è un lago d’ansia: oddio, la gente mi capirà? Capirà che non ce l’ho con loro, che sono dalla loro parte, che voglio mostrare la loro vita nel 2014, che non ho pretese moralistiche o paternalismi? E d’altro canto non voglio neanche essere troppo banale. Però qualche stereotipo ogni tanto è meglio infilarlo. Tra l’altro sono molto pratici, la gente li capisce al volo, non c’è bisogno di insistere più di tanto sulla vocazione teatrale della ragazza: due treccine, una specie di caftano, e via che si va. Un cialtrone lo fai svegliare per terra in una stanza disordinata e non sua, gli metti il sedere su una moto, poi il pos gli rifiuta la carta ed è più che sufficiente, in cinque minuti hai tratteggiato tutta la personalità cialtrona che ti serve.

 

D’altro canto i miei sono sempre i soliti tre o quattro trucchetti, che noia, lo so, lo so. Sono quel tipo di film che ti mette nel trailer una scena in cui la famiglia canta in macchina, anche se poi andando a vedermi ti accorgi che la parte più russa della famiglia se ne vergogna: no, la cantata in macchina io proprio no. E d’altro canto, accidenti, gli italiani in macchina ci cantano davvero, perché non dovremmo mostrarli? Perché ci vergogniamo sempre? 

 

Che cosa vogliamo dai film che facciamo? Che pubblico vorremmo portare in sala? Che domande, più gente possibile. Cosa vogliamo dire a tutta questa gente? Ehi, su col morale, la vita è complicata, ma… boh, siamo con voi. Non ci divertiamo a farvi la caricatura, il grottesco è un pedale che non ci possiamo più permettere. Non siamo intellettuali distanti. Vi seguiamo, vi giriamo intorno, ci state simpatici. Non vi giudichiamo se vi volete rifare le tette, ce le rifaremmo anche noi per riempire venti sale in più. Siete ansiosi? Anche noi, tantissimo. Siete cialtroni? Un po’ anche noi. Vi vergognate di essere italiani? Date un occhio ai titoli, metà cognomi non finiscono con la vocale, più xenofili di così non potevamo. Vi sentite orgogliosi di essere italiani? Vi veniamo incontro, piazzeremo più Grande Bellezza che possiamo, colossei e archi in ogni centimetro di sfondo. Una Roma villaggio e metropoli, lari e penati che impicciano la metropolitana, le arcate che incombono dalle finestre di una scuola elementare, una Roma sudaticcia di metà giugno, se tutto tacesse si sentirebbe il mare. 

 

Noi 4 più che un film è quel ragazzino simpatico che si è sempre preparato; quello che all’esame interrogheremo per ultimo perché sappiamo che sarà una formalità da sbrigare in pochi minuti: sa tutto quello che deve dirci e non si attenterà mai a sbavare, a prenderci in giro, a mettere in discussione la Commissione o il pubblico là dietro. Ha bisogno di piacerci, e questo ce lo rende più simpatico: da grande non farà il coglione, se c’è da fare brutta televisione lui non scapperà da Via Teulada saltando i tornelli: la farà con dedizione e abnegazione. Ma dire che ci piaccia davvero, boh. La tesina era ben scritta; l’ha recitata bene; ma se fossero tutti come lui, che noia sarebbe il nostro mestiere. Lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:30, 20:20, 22:35); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:15, 20:30, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).

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La doppia o quadrupla vita di Walter Mitty

Ma anche le cover di Life che sembrano vere in realtà sono false.

I segreti di Walter Mitty (The Secret Life of Walter Mitty, Ben Stiller, 2013)

 

A cosa pensa Walter mentre gli parli? Cosa sta guardando mentre fissa nel vuoto? A volte semplicemente Walter è altrove, prigioniero di un film che non è mai il suo. In questi casi occorre aspettare un attimo, resettare, e tutto riparte come prima. Su Tvtropes la chiamano Daydream surprise: è quel momento di pazzia in cui un personaggio, fino a quel momento ritratto in un contesto realistico, all’improvviso compie qualcosa di folle (ad es. lanciarsi da un grattacielo). Ma è solo un sogno: un attimo dopo la storia ritorna sui binari del realismo quotidiano. Se la fantasia in questione permette al personaggio di sfogare un enorme potenziale di violenza repressa si parla invece di Indulgent fantasy segue. È il caso della sequenza più spettacolare del film, la lotta onirica tra due skater che precipitando da un ascensore sbriciolano il cemento di Manhattan; la prova della resistenza di Matrix nel nostro inconscio collettivo. Un attimo dopo siamo di nuovo nell’ascensore della Time & Life, non è successo nulla. È solo Walter che sogna ad occhi aperti. Non sarebbe Walter Mitty, altrimenti. 

 

In inglese esiste anche l’aggettivo, “mittyiesque“. Per il World English Dictionary “mitty” è un personaggio finzionale caratterizzato da sogni a occhi aperti elaborati e grandiosi. Nel gergo dell’esercito è un miles gloriosus, un fanfarone che si attribuisce successi immaginari. Ma nel 1939 Walter Mitty era semplicemente il protagonista di un raccontino di James Thurber, più famoso come vignettista del New Yorker. Un ometto insignificante che accompagna sua moglie a fare shopping e inganna il tempo immaginandosi al centro di scene d’azione che rivelano una fantasia già dominata da stereotipi cinematografici: ufficiale di marina durante una tempesta, chirurgo di fama mondiale, imputato di omicidio, pilota della RAF, condannato per fucilazione. L’intreccio è esile, ma le potenzialità sono immense, così il solito Samuel Goldwyn ne acquista i diritti.

 

Il film che esce dieci anni dopo è già completamente diverso dal racconto: ora Walter è uno scapolo svagato ma di bell’aspetto (Danny Kaye) che dopo qualche dubbio pirandelliano scopre che il complicato intreccio noir intorno a lui non è un sogno nutrito dai giornaletti pulp, ma è la realtà: compresa la bionda Virginia Mayo che sta cercando di salvare i gioielli della corona olandese eccetera. In sostanza è come se avessero comprato i diritti della metamorfosi di Kafka per girare un thriller sull’uomo scarafaggio.  Thurber si è già dissociato, ma il suo Mitty ormai è patrimonio dell’umanità: nel ’52 George Axelrod lo ribattezza Richard Sherman e gli scrive attorno la commedia The Seven Year Itch, la crisi del settimo anno: noi però la conosciamo col nome italiano del film di Wilder che uscirà qualche anno più tardi, Quando la moglie è in vacanza, con Marilyn Monroe che combatte l’afa in quei modi originali. Probabilmente Sherman è il personaggio più simile al Mitty originale: non un giovane pronto a lanciarsi all’avventura, bensì un quarantenne esposto all’Itch, il prurito che ti coglie quando ti rendi conto che la tua vita ha preso una forma precisa, e che ormai sarà sempre più difficile voltarti, provare un’altra posizione, anche solo per curiosità – ecco, proprio in quel momento qualcosa che non si faceva sentire da anni comincia a prudere. Thurber disegnava i suoi ometti alla mercé di mogli immense, che ad altre longitudini li avrebbero aspettati a casa col mattarello.

 

Il Mitty tipico della mia generazione invece è Zach Braff quando in Scrubs alzava gli occhi in quell’espressione estatica. Anche il figlio di Samuel Goldwyn, indovinate, Samuel Goldwyn Jr, a metà anni Novanta pensava a un Mitty più giovane, visto che lo immaginava tagliato su Jim Carrey. È curioso che Mitty esca nelle sale assieme alla Regina delle Nevi (o a quel che resta di lei): sono due progetti che rimbalzano da quasi vent’anni – per Mitty furono coinvolti a turno Ron Howard, Spielberg, Owen Wilson, Sacha Cohen – e in entrambi casi il problema era lo stesso: la storia. Non funzionava mai, e così registi e attori venivano risucchiati da qualche altro soggetto meglio definito. Accantonato l’intreccio pulp del vecchio film, Mitty non riusciva a diventare il personaggio di una storia tutta sua. Tre anni fa Ben Stiller entra nel progetto come attore; in seguito ne diventa anche il regista, e forse è in quel momento che il film ha preso la svolta che lo ha reso in qualche modo possibile. Il risultato che è uscito nelle sale sembra un compromesso, un po’ faticoso ma riuscito, tra un film di Ben Stiller attore, con numeri fracassoni che si richiamano al genere delle parodie demenziali, e un film di Ben Stiller regista. Quest’ultimo è un professionista meno demenziale di quanto potremmo ricordarci: ha esordito tantissimo tempo fa, con Reality bites (Giovani, carini e disoccupati), è stato il primo a intravedere il potenziale drammatico nelle smorfie di Jim Carrey (The Cable Guy) e poi ha girato soltanto altri due film, molto divertenti ma decisamente sopra la media della commedia ridanciana per famiglie (Zoolander e Tropic Thunder).

 

Vieni su da me Mitty, ti mostro il leopardo delle nevi.

Il suo Mitty sembra un Frankenstein ottenuto ricucendo due script nel tentativo di ridurre al minimo i dani. Nella prima mezz’ora è il Ben Stiller che piace ai bambini di ogni età, quello da Notte nel museo, a cui grazie agli effetti digitali succedono cose assurde e buffissime che però stavolta non sono mai davvero divertenti; è come se uscissero dal cilindro di un prestigiatore in una giornata no. Aggiungi che il dilagare dei “movie movie” ci ha un po’ resi diffidenti verso gli sketch parodici. A un certo punto il film salta su un binario diverso e nel secondo tempo Mitty ha praticamente smesso di sognare a occhi aperti: non se lo può più permettere. Sta girando il mondo alla caccia di un fotoreporter vecchia scuola (Sean Penn che si prende in giro da solo, almeno io spero che ci sia molta autoironia). Ogni tanto il primo film fa capolino con intermezzi assurdi, squali e risse aeroportuali; addirittura prende le forme di un nerd di Los Angeles che riesce a trovarti al telefono anche sull’Himalaya. Il secondo film nel frattempo non è che abbia scelto la via più originale: il cattivo è ancora una volta il responsabile risorse umane che deve curare una fusione aziendale (=cacciare un sacco di gente con la scatola di cartone). Però almeno la storia è ambientata in un’azienda vera, anche se re-inventata da capo a piedi: la redazione di Life, nel momento in cui interrompe l’edizione cartacea per trasferirsi su internet (anche lì sarebbe durata poco). È l’occasione per sciogliere un’elegia fuori tempo massimo al bel passato analogico, le foto da sviluppare in camera oscura, i telegrammi, i trentatré giri eccetera. Se non si è capito, stiamo parlando di quarantenni che cominciano a sentire quei pruriti imprudenti e tirano giù dal solaio i vecchi skateboard, le magliette dei Buzzcocks, i piani per un Interrail mai fatto. Se il vostro partner rientra anche solo vagamente nel quadro, tenetelo lontano da questo Walter Mitty: è pericoloso. Anche i ragazzini che si aspettano il Ben Stiller buffo potrebbero restare un po’ delusi. Altri meno giovani saranno felici di rivedere Shirley MacLaine, ti voglio bene Shirley MacLaine.

 

Non so a che categoria appartenesse il tizio che sedeva alla mia destra. Non ha taciuto per metà film. A un certo punto nel terso cielo d’Islanda sono comparsi stormi d’uccelli. “Vedrai che adesso disegnano la faccia della ragazza”, ha detto lui. Due secondi dopo il volto di Kristen Wiig sorrideva sullo schermo. Mi è caduta la mascella sotto la poltrona – dopo un anno di recensioni per i pregevoli cinema di Cuneo pensavo di essere diventato un po’ più esperto, e invece prendo ancora lezioni dal primo spettatore natalizio che incontro. Ne devo mangiare di popcorn. 

 

I segreti di Walter Mitty è al Cityplex di Alba (20:00 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:10, 22:40); al Multisala Impero di Bra (16:10, 20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:30, 20:30, 22:30).

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Ricotta, cioccolata e piombo

Regge sulle piccole spalle mezzo film, una prova notevole.

La mafia uccide solo d’estate (Pierfrancesco “Pif” Diliberto, 2013)

 

Arturo è un bambino normale in una famiglia normale in una città con un problema che non è il traffico. Ogni tanto qualcuno muore ammazzato. Nel garage sottocasa, nella pasticceria sulla strada per la scuola, ogni tanto qualcuno cade in un lago di sangue e il motivo pare sempre lo stesso: le femmine. Soprattutto in estate i delitti passionali non guardano in faccia a nessuno: poliziotti, magistrati, giornalisti, persino i politici. Persino Arturo: anche per lui è venuto il momento di innamorarsi, anche se è solo un bambino e ha paura.

 

A quarantun anni (no, non li dimostra) Pif si carica in spalla una macchina da presa un po’ più grande del solito, e il risultato è abbastanza sorprendente. Di solito chi passa al cinema dalla tv cerca di riprodurre sul grande schermo quello che gli spettatori conoscono già sul piccolo: peraltro di reporter prestati al cinema negli ultimi dieci anni ne abbiamo già visti parecchi, è una formula che può funzionare. Pif invece per l’occasione si ricorda di aver lavorato con Zeffirelli e Giordana, e prova a fare qualcosa di meno televisivo confinando sé stesso e la guest star Cristiana Capotondi nell’ultima mezz’ora, concentrando l’obiettivo sul vero eroe del film, il piccolo Arturo (Alex Bisconti, bravo). Una scelta insolitamente matura, e anche un po’ temeraria – lavorare coi bambini è più difficile – che coincide con una precisa scelta narrativa: il forrestgumpismo. Un giorno bisognerà trovare una parola più bella per definirlo, ma nel frattempo ecco una definizione approssimativa:

 

Dicesi Forrest-Gumpismo la tendenza a rivisitare il passato recente in una collana di momenti topici, infilando a forza i personaggi in tutti gli avvenimenti storici rilevanti. In Italia ci sguazzano un po’ gli autori di noir, ma l’oggetto forrest-gumpista in assoluto è La meglio gioventù di Giordana, dove se due ex coniugi si danno un appuntamento durante gli anni Ottanta, dev’essere per forza la sera di Italia-Germania al Santiago Bernabeu con le comparse che ascoltano la telecronaca di Martellini alla radio, cioè, hai capito spettatore scemo? Siamo negli anni Ottanta! Rossi! Tardelli! Altobelli!

 

Io invece da bambino vidi una fiction sulla mafia in cui sparavano a un tizio mentre mangiava il cannolo e il sangue usciva dal cannolo, e ogni volta che mangio un cannolo mi viene in mente.

I forrestgumpisti italiani di solito vivono in centro: tutto deve succedere nello spazio di pochi isolati. Assistono a tutti gli episodi più importanti che stanno già sui libri di Storia (in questo caso tutti i delitti illustri da Boris Giuliano a Borsellino), senza capirci mai molto: spesso sono bambini o handicappati. L’importante è che abbia già capito tutto lo spettatore. Il forrestgumpismo ci porta a spasso per la Storia contemporanea come se fossimo in gita scolastica: le cose dobbiamo averle studiate già, ora si tratta di riviverle, di provare emozioni, per cui rieccoci a Capaci da spettatori: non si capisce niente, c’è solo fumo, sembra un terremoto, ecco: abbiamo avuto un po’ di paura, abbiamo “sentito” Capaci. Il forrestgumpismo al cinema funziona molto bene. Siamo tutti contenti quando qualcuno ci racconta una storia che conosciamo già, magari da un’angolazione diversa; quanta soddisfazione nel sapere già cosa succederà a un dato personaggio, ad es. Salvo Lima; nel saper riconoscere la strage di Capaci da una gag su un telecomando. Se poi il punto di vista è quello ingenuo e fiabesco di un bambino, chi oserà mai parlare male del tuo film, rimproverandoti qualche superficialità nel descrivere un fenomeno mafioso assai più ramificato e complesso, nel trasformare capoclan e stragisti in pagliacci (sempre meglio di glorificarli come eroi maudit, come si è fatto in tv) – ok, mi arrendo Pif, hai vinto tutto. Mettiamola così: non è un film sulla mafia, è un film sull’omertà, sul crescere in una città che finge di essere sana, e scoprire uno spavento alla volta che gli adulti hanno più paura di te.

 

Impressionante l’accento della Capotondi – poi magari se sei di Palermo non ci caschi, ma da qui sembrava una principessa normanna.

Nell’ultima mezz’ora però accade qualcosa di diverso. Improvvisamente il piccolo Arturo si sveglia trasformato in Pif: il Pif che conosciamo, che 41 magari non li dimostra, ma neanche i venti che dovrebbe avere nel film. La trasformazione è improvvisa, pinocchiesca: Arturo non è davvero cresciuto. È solo diventato più grande, come Tom Hanks in un altro film; ma dorme ancora nello stesso lettino, ed è ancora bloccato nel suo amore elementare per Flora. Qui c’era un’idea meno rassicurante: crescere nella città della mafia significa compromettersi, e Arturo non ce la fa. Ci prova. Flora, lei, è cresciuta e lavora per i grandi vecchi, perché non provarci? C’è bisogno di giovani che portino idee fresche, che inquadrino i vecchi da angolature inedite, che scrivano i discorsi. Pif per un po’ ci prova.  È quel momento tipico dei vent’anni, in cui “si fanno tante caz… sciocchezze”, per amore ma anche perché è sparito qualsiasi altro riferimento all’orizzonte, e non c’è più un prete o un giornalista a spiegarti cosa fare; il momento in cui giri la tua città con un curriculum in mano e ti senti soffocare. Una situazione molto più difficile da raccontare delle epifanie dell’infanzia, e che Pif racconta molto più in fretta, forse meno sicuro di sé come attore che come regista. Mi piacerebbe dirgli che ha torto, ma il film piacerà a tutti così. E davvero per un’opera prima non ci si può lamentare. 

 

Un ultimo perfido appunto: un bambino trascinato dai genitori davanti a tutte le lapidi di tutti i martiri della mafia, secondo me, appena compie undici anni corre ad affiliarsi alla prima cosca che trova nel quartiere. Perlomeno, quel poco che ho capito di psicologia dei preadolescenti mi suggerisce ciò – poi magari mi sbaglio, eh. La mafia uccide solo d’estate è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:20; 22:35), al Vittoria di Bra (16:15, 18:15, 20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30) – ma da voi li fanno i bomboloni alla ricotta con le scaglie di cioccolato? M’è venuta la curiosità.

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Abbiamo tutti un grande Checco dentro il cuor

È la fase in cui cercano di vestirsi come i ricchi veri.

Sole a catinelle (Gennaro Nunziante, 2013)

 

Improvvisamente vi svegliate, non riscattati dalla stanchezza di secoli, e in tv c’è ancora Ballarò. Sullo sfondo operaie incatenate a un’azienda che chiude, bandiere di sindacati, e non vi par bello cambiare canale. Oppure non riuscite a trovare nemmeno la forza morale per cercare il telecomando negli anfratti del divano che vi sta masticando, che domani vi rigurgiterà belli e stravolti e pronti alle vostre otto-ore, e c’è gente che vi invidia. Quando improvvisamente una luce si irradia su di voi. È un coglione in tv. Non è un coglione come gli altri. È il coglione platonico, non brilla di luce riflessa, è una pura fonte di ottimismo e gioia di vivere a due passi oltre il baratro. È il marito di una delle operaie incatenate, ma non gliene frega niente. Lo hanno intervistato per sbaglio, e ci sta dicendo che il peggio è passato, che lui per esempio sta vendendo un sacco di aspirapolveri, suo figlio ha tutti i dieci in pagella per cui domani lo porta in vacanza, evvai! In Europa! È stato solo un secondo, poi la regia è tornata a inquadrare disoccupati menagrami. Ma adesso lo state cercando davvero il telecomando, adesso state cercando se per caso da qualche parte esiste ancora un canale che trasmette coglioni così. Al massimo anche un film. 

 

Tutta la sequenza molisana tradisce un incredibile senso di morte, e una volontà titanica di riderci sopra.

Dev’essere questa la scena che ha fatto sobbalzare anche Renato Brunetta, un uomo che se non esistesse avrebbero potuto inventarselo gli sceneggiatori di un film di Checco Zalone. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dirlo, che tutti questi operai disperati in tv portano sfiga! Ok, è un pagliaccio, ma arruoliamolo lo stesso.  Zalone esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena di Berlusconi e di Forza Italia. Che è un po’ come se Goebbels all’uscita del Dittatore si fosse congratulato con Charlie Chaplin per aver espresso in pieno la filosofia “positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena” di Adolf Hitler e del partito nazionalsocialista. E tuttavia Brunetta non ha tutti i torti, anche se probabilmente ignora l’etimo di Che-Cozzalone. Checco il cafone, Checco il cialtrone, Checco che vuole essere la leadership di sé stesso, Checco che esplode nel mercato porta-a-porta degli aspirapolvere con una bolla fatta di parenti, Checco che per ogni euro che entra ne spende due in cambiali, Checco che se avrà un cane lo chiamerà Taeg; Checco è il berlusconi che è in ognuno di noi, quello che in teoria dovremmo temere, e invece ci manca. Non dico che gli acquisteremmo un altro aspirapolvere, ma per lui siamo persino disposti a tornare al cinema. Per quanto possiamo passare la settimana a far ragionare il nostro amico o collega grillino, è con Checco che preferiremmo andare in vacanza – un coglione, ok, ma vuoi mettere il divertimento? Ovunque capita, proietta la sua ombra buffa su un mondo che capisce appena – un mondo immaginato da un bambino in un tema, dove i ricchi parlano tutti con l’accento francese, votano comunista e mangiano verdure vegane e champagne. Chi l’ha presa per una satira del “radical chic” probabilmente è convinto che Biancaneve sia un coraggioso atto di denuncia contro lo sfruttamento dei nani.

 

La battuta che m’è piaciuta meno è il gioco di parole massoneria-masseria.

Che altro gli vuoi dire a Checco Zalone? Poteva accontentarsi di occupare le sale italiane montando i soliti dieci sketch, e invece ha provato qualcosa di un po’ più ambizioso. Ne è uscito un prodotto tutto fuorché perfetto, ma ha importanza? È un film che fa ridere davvero, senza distogliere lo sguardo dalla crisi. Ha una morale e un lieto fine, senza cadere neanche per un istante nel saccarosio moschicida dei buoni sentimenti, come succedeva invece al suo rivale primaverile, il Bisio del Presidente. Zalone e Nunziante sono talmente sicuri del fatto loro che si possono concedere il lusso di non essere troppo volgari – giusto un po’ di turpiloquio ogni tanto, ma dosato alla perfezione, e un solo sketch pecoreccio giusto per ricordare a tutti che fino a due anni fa tutti questi spettatori dovevano contentarsi del cinepanettone. Al terzo film Checco è ancora poco più di una maschera (Mereghetti evoca Totò, fate i vostri conti), ma funziona che è una meraviglia, anche se tutta la macchina comica gira soltanto intorno a lui. Persino la trama nel secondo tempo è quasi accantonata, come se in sede di montaggio avessero che era più importante far ridere il pubblico che spiegargli passo per passo cosa stava succedendo. Probabilmente hanno ragione, anche se mi sarebbe piaciuto vedere un po’ di più Paolini nel ruolo di industriale cattivo (quando ti ricapita?) Particolarmente sacrificate le canzoni, al punto che ti chiedi se non avrebbe avuto più senso tagliarle e basta (poi dai un’occhiata alle classifiche di vendita dei cd e ti spieghi pure quelle). L’unico serio difetto di Sole a catinelle è che un film così esce una volta all’anno; ce ne fosse non dico uno al mese; ma se si riuscisse ogni tre quattro mesi a proporre prodotti del genere a quell’enorme fetta di pubblico che vuole ridere e basta, il cinema italiano starebbe benone. E forse spunterebbe anche qualche soldo in più per tenere aperta qualche sala e proiettarci film diversi. Sole a catinelle, se ancora non lo avete visto, è al Fiamma di Cuneo (21:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30; 22:40); all’Impero di Bra (20:20); ai portici di Fossano (21:30); al Bertola di Mondovì (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30).

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Un aspirante senza la spinta giusta

Madonna mia quanto sei brutta

Aspirante vedovo (Massimo Venier, 2013)


Più di mezzo secolo è passato e la Torre Velasca è ancora là. Spuntata come un fungo nelle notti umide e ruggenti del boom, non si è piegata a tornadi e tangentopoli e ha resistito a ogni tentativo di rivalutazione: è brutta, incredibilmente brutta, sarà sempre più brutta, e nel 2012 il Daily Telegraph lo ha inserito tra i venti edifici più brutti del mondo. Ma Dino Risi lo aveva capito nel ’59: per darci tutto il brutto del boom e di Milano, inutile darsi pena di costruire set e ambienti: bastava far scorrere i titoli di testa su quel torrione malvagio. L’incapace Nardi e l’insopportabile Elvira non potevano vivere che lassù, prigionieri reciproci intenti a torturarsi fino che morte non li separi. E se la morte non si dà una mossa, le si può sempre dare una spinta…

Cinquant’anni dopo, c’è ancora qualcuno lassù. Perlomeno di notte si vedono luci. Nuovi Nardi dribblano i fallimenti e nuove Elvire tessono trame. Non c’è motivo per non provare a raccontarle. Con buona pace dei cultori della commedia italiana, Il vedovo è un buon canovaccio che ogni tanto bisognerebbe ricordarsi di rifare – semmai la notizia è che abbiamo aspettato così tanto, al punto che il nuovo Nardi risulta nato dieci anni dopo la morte del vecchio. Non è un capolavoro indissolubilmente impregnato dello spirito di quei tempi; non è Il sorpasso, ammesso che il Sorpasso sia questo; e poi quest’anno abbiamo avuto in sala pure un tentativo di 8 e mezzo: come ci si fa a offendere se qualcuno raccatta due facce note della televisione e prova a rifare il Vedovo?  E invece c’è qualcuno che si offende. Giù le mani da Albertone, giù le mani da Franca Valeri, formidabili quegli anni. Sì.


Erano anni formidabili. Sordi faceva dieci film all’anno, e nel ’59 tra l’altro vinse David e Nastro con la Grande Guerra: insomma era al picco di una lunghissima carriera. E mentre era al picco recitava in un film al mese: alcuni di questi, come il Vedovo, realizzati palesemente con due lire. Risi, che era pur reduce dal successo della trilogia di Poveri ma belli, gira tutto in tre stanze e in una villa di campagna. Vi ricordate che Nardi, quando scopre che Elvira è ancora viva, si ritira in convento? Se ridate un’occhiata al film, scoprite che il convento non c’è: una strada di collina, un albero, un frate che cerca di insegnare ad Albertone a far rispondere gli uccelli, e via che si va. Erano gli anni del boom, la gente andava al cinema una volta alla settimana, i soldi scorrevano copiosi dai botteghini – e però Risi continuava a girare con due lire.  Oggi invece c’è la crisi, e Venier non bada a spese – perlomeno l’impressione è quella: conferenze, aeroporti, grattacieli; tutto fotografato persino con qualche pretesa artistica. Venier può trasformare la Velasca da semplice fondale a presenza granulosa e ostile; Venier può concedersi il lusso di far recitare gli attori più difficili, gli animali. Ma qualunque cosa faccia (e alcune sequenze sono fatte davvero bene) pubblico e critici preferiranno sempre il filmetto girato in pochi giorni da Dino Risi nel ’59, così come nessuna Audi Quattro sostituirà nel loro cuore la Cinquecento della loro prima pomiciata. E poi certo, De Luigi non è Sordi, ma lo sa. Il riflusso e la crisi gli hanno messo a disposizione decine di altri modelli di rampante frustrato, ma lui rimane un po’ sfuocato; è davvero difficile immaginarlo palazzinaro o faccendiere. Si capisce che qualsiasi tentazione di berlusconizzare il personaggio è stata scartata a priori: Aspirante vedovo è un film ancora meno politico dell’originale, dove i trascorsi e le nostalgie fasciste di Nardi saltavano ogni tanto fuori. Ma era più facile essere antifascisti nel ’59 che antiberlusconiani oggi. Al cinema bisogna cercare di portare più gente possibile, compreso chi Berlusconi l’ha votato per parecchio e adesso non vuole sentire rimproveri nemmeno indiretti; ma magari è sensibile a un paio di frecciatine anti-kasta (“con questa crisi c’è da far soldi a palate, eh”).


Non mi ricordo nemmeno se è Ale o Franz, però è bravo.

Anche la Littizzetto non è Franca Valeri, anche se la sua Elvira (persino meno empatica dell’originale) è il personaggio migliore che ha fatto al cinema. Certo, sostituire “cretinetti” con “gnugnu” è una delle poche cose che fanno davvero pensare a una decadenza più che culturale, linguistica: cretinetti era un’invenzione che metteva assieme frenologia e anagrafe, “gnugnu” è un’onomatopea, una resa alla non-lingua dei bambini e degli animali. Pesa come un macigno su di lei il ruolo ormai liturgico che ha assunto a rai3, la sacerdotessa della parolaccia che ci aiuta a sopportare mezz’ore di interviste a venerati maestri, dai che dopo il premio nobel c’è la Litti che dice merda fregna vaffanculo. E questa è la tv colta. Anche Aspirante vedovo è percepito come prodotto medio-alto; critici e ufficio stampa ne sottolineano per esempio l’assenza di volgarità. Allora uno curioso va a vedere come hanno fatto a girare una commedia nel 2013 senza volgarità, e scopre che i primi cinque minuti del film sono costruiti intorno a gag sulla cacca del cane. Per dire quanto ormai si sia abbassata l’asticella: a De Luigi scappa anche un vaffanculo nel trailer. Altre cose che nell’originale mancavano e che adesso si possono mostrare: topi morti, psicofarmaci, chirurgia plastica, formaggio di fossa, rumeni, vescovi mondani e intrallazzoni (bravissimo Bebo Storti). Cose che c’erano nell’originale e oggi evidentemente non funzionano: nobili in disarmo, nazisti e pedofili (l’ingegnere degli ascensori era entrambe le cose), il mambo. Cose che potevano sembrare verosimili 50 anni fa e oggi no: l’amante che si fa viva al funerale e comincia a dirigere la servitù. E ammazzare qualcuno con un ascensore poteva avere un senso. Invece il piano per assassinare la Littizzetto è in assoluto la cosa più sconclusionata e inverosimile che ho visto quest’anno al cinema – e ho visto la fine del mondo due o tre volte, zombie e robottoni e cloud atlas. 


Aspirante vedovo è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:35 e alle 20:30; al Fiamma di Cuneo e alle 22:30. È già fuori da più di due settimane; se non ci siete ancora andati magari un motivo c’è.

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Scuola di mostri

Trema, mondo degli umani.

Monsters Academy (Dan Scanlon, Pixar, 2013)

 

Chi ha paura di Mike Wazowski? Nessuno. È un adorabile occhietto verde in un mondo di mostri spaventosi. Cosa vuole fare Mike Wazowski da grande? Paura. Nel mondo dei mostri, più fai paura e più tutti ti stimano. È una promessa che si è fatto da piccolo: Mike andrà al college dei mostri e diventerà il più grande spaventatore del mondo mostruoso. Ci riuscirà? No, lo sappiamo benissimo chi diventerà il più grande spaventatore. Ma farcelo raccontare è un piacere anche maggiore del previsto. 

 

La preside mi fa paura sul serio, anche adesso.
 

Gliene possiamo dire tante, alla Pixar. Che hanno tirato i remi in barca, che non innovano più come in passato (in realtà dal punto di vista tecnico questo film è un altro passo avanti: luci e 3d non sono mai andati così d’accordo). Che dopo averci viziato con uno spaventoso tris come Ratatouille, Wall-E e Up (in soli tre anni!) non sono riusciti ad andare più in su, che ora stanno speculando sui personaggi inventati nel decennio precedente: Toy Story 3, Cars 2, ed è in arrivo un film sull’amica del padre di Nemo. È tutto quasi vero – in realtà la volontà di trasformare i film in saghe c’era da subito, ma Steve Jobs litigò coi referenti della Disney e le pratiche si bloccarono per un po’. È vero, una volta i film pixar erano imprevedibili sin dalla sinossi, Monsters Academy decisamente non lo è: sembra che gli sceneggiatori ci provino gusto a ricalcare i cliché dei film ambientati nei college (chi l’ha visto lo confronti con Pitch Perfect, la pietra di paragone). I dormitori, le confraternite, le competizioni goliardiche che diventano più selettive degli esami: c’è tutto. Come in quei cartoni non pixar che invece di inventare un mondo si accontentano di parodiare quello reale, facendo continuamente occhiolino agli adulti. È vero, Monsters Academy è un passo indietro. Di quelli che magari si fanno per prendere la rincorsa, ma sapete che c’è? Che anche così, è ancora il film più divertente dell’anno. Ed è forse il migliore prequel della storia del cinema – prima di sorridere, provatemi a dire un prequel decente (no, il Padrino II non vale). 

 

Io ero in corso con Randy, poi l’ho perso di vista, non so neanche se lo riconoscerei.

È che scrivere prequel dev’essere più difficile di quel che sembra: inventarsi una storia partendo da un finale, portare i personaggi nel punto stesso in cui sono stati inventati: una sfida che la Pixar si porta a casa in scioltezza, col colpo di genio di promuovere al ruolo di protagonista Mike, la spalla del primo film, senza per questo snobbare il peloso Sullivan, di cui scopriamo l’esordio incerto nell’età adulta, e un lato oscuro che ci farà venir voglia di abbracciarlo ancora più forte. La storia è classica, ma è così solida che verso la metà accade qualcosa d’interessante: stai guardando un film d’animazione 3d ambientato in un universo parallelo di mostri, e ti accorgi che non stai più facendo caso né al 3d né ai mostri, pur spettacolari: quello che ti interessa davvero è la storia. E la storia non corre i rischi di Wall-E o dell’incredibile Toys Story 3, ma proprio per questo è forse più eversiva, per il modo subdolo in cui intercetta un tema tipico di tutti i film d’animazione degli ultimi anni (il culto dell’autostima) e lo sottopone a una critica dall’interno. Guardiamo solo a quest’anno: abbiamo già avuto in Ralph Spaccatutto la bambina difettosa che dentro di sé sa di essere nata per correre e vincere; in Turbo, la lumachina che senza troppi sforzi trionfa a Indianapolis: più tardi arriverà Planes, il film Disney ambientato nello stesso universo di Cars in cui un modesto aeroplanino a elica decide di partecipare a una gara intorno al mondo, e indovinate chi vince. Tre film d’animazione, tre gare, tre outsiders solitari su cui nessuno avrebbe scommesso niente, ma che vincono perché… hanno creduto nel loro sogno, hanno creduto in sé stessi. La Pixar è un’altra cosa. Si muove sugli stessi terreni (basta pensare a Ratatouille o Cars), ma senza mistica da talent show. Sullivan non diventerà un buon mostro soltanto credendo in sé stesso, anzi è l’esatto contrario. Mike non eliminerà il suo handicap ostinandosi a credere in un sogno che è soltanto suo. A un certo punto l’amico proverà a dirglielo: getta i libri e scava dentro di te, vedrai che troverai il vero Spavento. Non è vero, non funziona. Questa è la vita vera, non un cartone animato – cioè, aspetta, è ancora un cartone animato pieno di mostri divertenti, eppure è un cartone animato dove Dumbo non impara a volare e rimane un freak. Un universo parallelo dove se non studi non c’è miracolo o predisposizione, sei fuori: e se infrangi le regole ti cacciano a pedate.

 

Lo doppiano i Soliti Idioti, senza strafare per fortuna (non è come Gerry Scotti in Toy Story, per intenderci).

C’è un solo modo di farcela, da quando esiste la Pixar: un solo modo per i giocattoli, gli insetti, i pesciolini, i supereroi, le auto da corsa, i cuochi i robot e i pensionati: la risposta non è dentro di noi, la risposta è sempre negli altri. Da solo sei un bambolotto, un insetto, un pesciolino sperduto nell’oceano, l’ultimo robot della terra, un ratto allo sbando o un vecchietto inutile. Da solo non vincerai mai nulla, non esistono le piume magiche di Dumbo. Fatti aiutare. Potrai arrivare da qualche parte, forse anche nel posto in cui sogni di arrivare, ma non ci arriverai mai da solo, scordatelo. Lo sappiamo sin dall’inizio, che Mike e Sullivan sono nati per completarsi, ma è meraviglioso vederli sbagliare tutto e fallire fino a cinque minuti dalla fine. Da soli non si arriva da nessuna parte: vi viene in mente un messaggio più rivoluzionario, oggi in un film per bambini? Dio salvi la Pixar e la sua scuola di mostri giocattoli e macchine che imparano il lavoro di squadra: ne abbiamo un bisogno disperato. 

 

Monsters Academy, se non lo avete ancora visto (perché?) si può guardare in 2d al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:35); al Bertola di Mondovì (21:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). In 3d, il primo 3d che non mi ha dato il mal di testa, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (22:30), al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30). Se quest’anno dovete guardare un solo cartone animato, eccolo.

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La fine del mondo (non è questo gran sballo)

C’è già la gif animata.

Facciamola finita (This Is The End, Evan Goldberg e Seth Rogen, 2013)

 

Seth Rogen (Seth Rogen) e Jay Baruchel (Jay Baruchel) sono due attori canadesi che magari di nome non vi dicono niente ma appena li vedete in video vi sembra di riconoscerli. Seth ha fatto un po’ più di carriera di Jay e vive a Hollywood; Jay non sopporta Hollywood ma è arrivato per il week-end e vorrebbe avere il suo vecchio amico tutto per sé. Seth invece lo trascina alla festa d’inaugurazione della nuova casa di James Franco (James Franco, in una delle sue interpretazioni più convincenti), dove ci sono altri vip che riconosci a malapena e Michael Cera che sniffa come un bidone aspiratutto e tocca il culo di Rihanna (Rihanna). E qualcuno secondo me al cinema ci va semplicemente per questo: vedere Rihanna che prende a ceffoni l’insopportabile strafatto Michael Cera. Jay è sempre più a disagio, e poi… finisce il mondo. Il mondo non fa che finire, al cinema, ultimamente. È il terzo film apocalittico che vado a vedere in un mese. È senz’altro il più bizzarro, ma richiede un po’ di pazienza. Ci sono due modi per approcciarsi a Facciamola finita senza liquidarlo come un film dove attori famosi che non conosci tanto bene interpretano sé stessi in assurde scenate di gelosia e scappano da implausibili mostri digitali.

 

Il primo è stonarsi, prima durante e dopo. Gli autori non ne fanno un mistero: la trama di Facciamola finita è stata buttata giù mentre si passavano la canna, sembra di sentirli mentre si domandano, boh, come funziona l’apocalisse? Come si sale in cielo? Facciamo che si apre un faretto a occhio di bue dal cielo e ti risucchia? Certo, chi non vorrebbe essere risucchiato? Ahahah, risucchiato, hai capito? L’hai capita? E passala, dai. L’altro sistema per penetrare il film è mettersi a studiare il contesto, i generi e i sottogeneri, tanto quanto basta per scoprire che Facciamola finita è una stoner comedy con molta bromance, che si evolve in un apoca-blockbuster. Insomma lo avete capito, io tra la cannabis e wikipedia non ho mai avuto un attimo di esitazione. Il cast del film è lo stesso di una commedia apprezzata anche dalla critica, Pinapple Express, che io ho snobbato, chissà perché? Forse perché in Italia lo hanno venduto al botteghino col titolo Strafumati? Per carità, dal punto di vista commerciale avevano probabilmente ragione. Insomma è una banda di amici che si divertono a prendersi gioco di loro stessi, e questo è notevole: soprattutto James Franco, che si atteggia a collezionista d’arte e poi distrugge le sue opere per barricarsi. Franco e compagni sono attori, tutto quello che sanno è mediato dal mezzo cinematografico: le loro armi sono le armi di scena, quando provano a effettuare un esorcismo usano lo script dell’Esorcista come “manuale”. Tra un colpo di scena e l’altro restano barricati nella villa a mettere in discussione i loro rapporti, sicché il modello inevitabile è quello del Grande Fratello. C’è persino il confessionale. Un grande fratello con le celebrità, la droga, e i mostri demoniaci: non male. Cosa manca? Cosa manca? Rifletti bene. Un aiutino: Rihanna viene inghiottita dagli inferi dopo pochi minuti. Cosa manca? Forse ci sono.

 

Dove sono tutte le donne?

Una commedia senza donne? Sul serio?

 

Emma spacca sei culi alla volta, se la fate incazzare.

Cioè no, a un certo punto salta fuori Emma Watson (Emma Watson) con una grossa ascia. È un momento abbastanza esilarante, ed è bello vedere la piccola Ermione mostrare più scorza di tutti quei maschietti messi assieme, ma svela anche la difficoltà di fare entrare donne in questo film. Così com’è entrata, la Watson se ne deve andare il più presto possibile. Non può restare lì, non funzionerebbe. Porterebbe una tensione erotica, e questo film non può gestire questo tipo di tensione. È un film per adulti, secondo le metriche americane, ma l’eros non c’entra nulla. È per adulti perché è una stoner comedy, un film dove si mostra la droga e la gente che si droga. Tanto la droga è occultata nel realismo televisivo, tanto è esibita in questo tipo di film. Se trovi una lattina aperta, di sicuro ci hanno messo l’ecstasy, e Michael Cera va in giro a soffiarti la coca nel naso. Un’altra cosa che esibisce questo film – tenetevi forte – è una rivista porno. Segnatevela, potrebbe essere l’ultima rivista porno che compare in un prodotto cinematografico. Ne sono consapevoli anche i personaggi: chi è che si compra un giornaletto al giorno d’oggi? James Franco. Dice che gli piace leggere. Una gag d’altri tempi. I personaggi se la contendono con molta più energia di quella spesa per cercare di trattenere Emma Watson. D’altro canto non c’è molto spazio nel loro cuore. Sono troppo impegnati a rimproverarsi tra loro per non essere stati amici fedeli, e perdonarsi, e tradirsi di nuovo, come in un reality ma di soli maschi.

 

È quella cosa che in America si chiama bromance, e che da noi ho il sospetto che non funzioni più di tanto: l’insistenza sull’amicizia virile, ai limiti dell’omoerotismo (che però alla fine viene sempre negato). Il gran bene che vuoi ai tuoi vecchi compagni di spogliatoio, pare che non ci sia altro al mondo. Miliardi di persone sono state o risucchiate in cielo o inghiottite dagli inferi, e non c’è un solo personaggio del film che mostri preoccupazione per famigliari, parenti – mamme, mogli, fratelli, fuori non c’è più nessuno che importi. Le uniche persone importanti sono dentro, e dentro è importantissima questa cosa che Seth abbia tradito Jay con James o con Jonah. Come nei reality, alla fine ti rendi conto che passano il tempo a parlare di nulla. Nemmeno di sé stessi, sarebbe già qualcosa. Ma non ricordo di aver mai visto qualcuno capire sé stesso durante un reality, di solito sono tutti concentrati a parlare alle spalle del tizio che ha imboscato la lattina di fagioli. Il film prende esattamente questa china ed è un peccato, anche perché quando qualche critico USA la definisce la commedia più riuscita e corrosiva dell’anno, io ho il terribile sospetto che abbia ragione; che il convento non stia passando niente di meglio. Facciamola finita è un film divertente, ma ci sono film divertenti che parlano dell’amicizia, dell’amore, della vita, della società, di com’è difficile crescere o invecchiare, eccetera. Facciamola finita non parla quasi di niente. Per un attimo – quando decidono di “farsi tutte le droghe” rimaste in casa, cominci a sperarci: ci siamo, adesso saltiamo di livello, e il film diventa una specie di Grande Abbuffata Americana anni Dieci. Oppure si scopre che tutta l’apocalisse è soltanto un delirio… Invece no, si mettono a ballare come coglioni e finisce tutto lì, anche la droga ne esce malissimo, come un passatempo innocuo che annoia prima della playstation. Il vero tesoro, la cosa più ambita di tutte, più della droga, del giornaletto porno e di Emma Watson, è una merendina.

 

A un certo punto si capisce che non sapevano come andare avanti e si sono detti: mettiamoci i mostri. È un limite di Hollywood, se vuoi, l’assenza di limiti. Se Evan Goldberg e Seth Rogen vogliono dei mostri in un loro film, li ottengono. Anche abbastanza spaventosi. Non importa che spostino i film in una direzione horror che ha poco senso. In passato le limitazioni tecniche avrebbero convinto i registi a farsi venire una vera idea, ma oggi… perché farsi venire buone idee quando puoi risolvere tutto con qualche bel mostro? Così alla fine Facciamola finita rimane sostanzialmente un film dove attori famosi che non conosci tanto bene interpretano sé stessi in assurde scenate di gelosia e scappano da implausibili mostri digitali. Sì, dovevo venire fumato, lo so. Lo trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:40, è vietato ai minori di 14 anni.

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Bisio, un grillino al Quirinale

Mica tanto medio, dai.

Benvenuto Presidente! (Riccardo Milani, 2013)

 

In Parlamento parlano parlano, e non concludono niente. Da mesi i tre maggiori partiti non riescono ad accordarsi sul nome del nuovo presidente della repubblica, tanto che gli onorevoli votano cognomi a caso o in codice. Durante una votazione viene eletto, per un disguido, Giuseppe Garibaldi: che però esiste davvero, ha appena perso il lavoro e viene da un’immensa provincia, indovinate quale. Ed è inoltre Claudio Bisio, che al cinema ha sfondato tardi ma sta recuperando – il nostro Louis de Funès, il clown che riflette sulla sua pelata l’italianità e la scompone come un prisma in tutti i suoi colori primari e no. Da quand’era che non assistevo a un applauso a scena aperta in un cinema?

 

Mi è capitato lunedì guardando una delle primissime scene di Benvenuto Presidente!, in cui un politico si becca un uovo in faccia davanti a Montecitorio – applausi. Non sappiamo di che partito è – non lo scopriremo per tutto il film. Però è un politico e un uovo in faccia se lo merita, è liberatorio. Ora è pur vero che il lunedì sera qui da noi c’è lo sconto, però tutti questi precari o disoccupati o esodati incazzati in sala non c’erano; la signora che si è alzata e si è messa ad applaudire a fine mese secondo me c’è arrivata abbastanza bene, s’è pure concessa il film di Pasqua in cui tirano le uova ai politici, non importa quali. Tanto son tutti uguali, no?

 

Nel film ce ne sono tre, che inciuciano tutto il tempo. Quello che si piglia l’uovo nelle schede sul casting è chiamato “il politico bello” (un Cesare Bocci molto meno bello del solito). Beppe Fiorello invece è “il politico con il pizzetto”, mentre Massimo Popolizio è “il politico ruspante”, una riedizione dello Sbardella che interpretava nel Divo. Non si capisce se siano i leader o i capogruppo parlamentari dei rispettivi partiti: comunque decidono loro per tutti. Si incontrano ogni tanto in location architettonicamente rilevanti per inciuciare, e inciuciano, inciuciano che è un piacere. Quando si accorgono di avere eletto per sbaglio Claudio Bisio, vanno a prenderlo al torrente con le Audi Nere (=arroganza) con l’urgenza di corromperlo. Pensano di riuscirci facilmente perché se l’hanno eletto a caso sarà l’italiano medio, no?

 

Non esattamente. Malgrado cerchino di vendercelo così, il personaggio di Bisio non è proprio un arci-italiano; oppure può essere utile a capire l’idea che c’è in giro dell’arci-italiano, quello che se solo riuscisse ad arrivare al Palazzo lo aprirebbe come una scatola di sardine, oggi si dice così. Per esempio: in un’Italia che non legge (ma ama sfoggiare libri intonsi alle pareti) Bisio-Garibaldi è un bibliotecario (appena licenziato dal comune per motivi di budget).Dunque un umanista? Ma no, più un animatore-matto del villaggio – qualche antico sociologo lo chiamerebbe “intellettuale declassato” – un tempo, è implicito, aveva un lavoro vero e una famiglia vera, poi ha perso tutto, la moglie è scappata e il figlio è un “gimbominchia”, un deficiente amorale impelagato in fallimentari imprese piramidali, un berluschino del crepuscolo. Garibaldi lo rimprovera più volte rispolverando l’etica del nonno: “tutto quello che fai ti ritorna indietro”.

 

In realtà non è il Quirinale, bensì la Reggia della Venaria, nei pressi di Torino. Invece Montecitorio è proprio quello vero.

Come i cittadini-parlamentari del M5S, Garibaldi ha grosse difficoltà con l’etichetta. Riceve lo Stato Maggiore in mutande, gli scappa la parolaccia, ha la gaffe facile. Non capisce le leggi che deve firmare e quindi, come la Lombardi, preferisce non firmarle, e pazienza se c’è qualcuno che ci rimette, il bibliotecario pretende che tutte le leggi siano leggibili. Come Crimi, prima o poi gli capita di appisolarsi in un’occasione ufficiale, e per l’occasione i giornali si scatenano: DIMISSIONI! Come Casaleggio, il suo consulente immagine (Remo Gironi!) si fotte dei giornali e conta i like su youtube: “Il video del tuo sfogo in pizzeria ha avuto centomila condivisioni!!!!1111!” Come tutti i grillini, ha un cuore grande così,e  in attesa di potersi calare lo stipendio sistema tutti i barboni di Roma nei corridoi del Quirinale. Come Grillo, è convinto che da qualche parte ci siano migliaia di idee bellissime per cambiare l’Italia, tutte realizzabili: Bisio le trova in uno scantinato del Colle mentre pattina coi rollerblade (…): si tratta solo di dar voce alla gente e vedrete quante idee geniali, a parte i maniaci del signoraggio delle scie chimiche della decrescita felice guardate che c’è anche del buono, sotto sotto ci sarà, bisognerà un po’ scavare ma ci sarà.

 

A Fabio Bonifacci, già sceneggiatore di alcune delle meno stupide commedie italiane degli ultimi anni (A allora mambo!, Diverso da chi?), è stato occasionalmente concesso il dono della profezia. Benvenuto, presidente!, scritto qualche anno fa ma realizzato appena in tempo per l’imminente cambio della guardia al Quirinale, anticipato da un accorato discorso sullo stato della nazione di Bisio a Sanremo, non sarà la commedia meno stupida del 2013, ma è un film che descrive alla perfezione il qui e l’ora, da un punto di vista prezioso: la pancia dello spettatore, quello che salta in piedi e applaude se tirano uova a un politico. Qualsiasi politico. Ci sono persino i Poteri Forti. Si chiamano proprio così, dato che a furia di leggerli sul giornale ci siamo un po’ tutti scordati a cosa stavamo alludendo, e quindi Bonifacci e Milani decidono di incarnarli in quattro commensali incartapecoriti a un banchetto. Non si sa cosa rappresentino: i grandi industriali, la finanza, la massoneria, boh. L’importante è che da qualche parte, in qualche stanza, ci siano ancora dei Poteri Forti che tramano, che ancora devino i servizi segreti come ai vecchi tempi. È un’immagine quasi consolante – e infatti l’Agente Segreto Deviato è un malinconico Gianni Cavina che canta Pensiero perché ha nostalgia degli anni Settanta, quando si lavorava sul serio. Storie vecchie, ma gli italiani non ci rinunciano – ci tengono, ai complotti. Non vorrebbero mai svegliarsi in un mondo in cui i Grandi Vecchi se ne fossero andati, lasciandoli soli con problemi incomprensibili. Come disse quella volta Mario Monti: “Avercene, di poteri forti”; c’è davvero ancora qualcuno là fuori, veramente potente e veramente interessato a non lasciarci sfracellare al suolo? Non si sa, ma un po’ ci si spera – forse ci sperano pure i grillini.

 

Riccardo Milani conferma dopo Tutti pazzi per amore il talento per la farsa danzante – e in effetti i suoi attori sono sempre sul punto di mettersi inopinatamente a ballare, a un certo sculetta persino il ruspante Popolizio. Il populismo però è un tema insidioso, non sempre il regista riesce a danzarci sopra con leggerezza: in particolare sprofonda in una sequenza così ricattatoria che è ambientata in un reparto di oncologia infantile. Si salva grazie a una certa diffidenza per il vero italiano-medio, che a differenza di Bisio-Garibaldi è corruttibile e disonesto come i politici che elegge. Anche nel paesino innocente, appena guardi bene, trovi qualcuno che intasca fondi UE e ti assume in nero. 

 

Qui è ancora un po’ ingessata. In seguito canta Comandante Che Guevara con la chitarra durante un’orgia a base di pizza al cannabis con i plenipotenziari della Repubblica Popolare Cinese, giuro.

Il film può essere utile per capire perché i senatori m5s non sosterranno mai un governo Bersani. In fondo Crimi e soci in questi giorni devono avere la sensazione di vivere in un film del genere – che poi non è niente di nuovo, almeno dall’Onorevole Angelina in poi (Zampa, 1947). Il canovaccio prevede che l’uomo-comune , dopo qualche tentativo di cambiare le cose condotto in perfetta buona fede, ritorni abbastanza presto al nido famigliare. Spesso, oltre ad aver constatato l’irrimediabile sporcizia della politica, si è anche reso conto di essere lui stesso corruttibile. Gli eletti di Grillo a quel momento preferirebbero non arrivarci, e quindi è comprensibile che abbiano fretta di chiudere. Non sono equipaggiati per le schermaglie politiche, non conoscono le regole della diplomazia e non ritengono di doverle imparare. Il boss ha imposto di rendicontare anche le caramelle e fa una scenata se qualcuno cena al ristorante di Montecitorio. A questo punto molti di loro probabilmente hanno solo voglia che il film finisca presto, con qualche botto. Torneranno a casa dagli amici e avranno una bella storia da raccontare. Se poi nel frattempo l’Italia va a rotoli – vabbe’, si vede che così volevano i diabolici Poteri Forti.

 

Un altro motivo per darci un’occhiata potrebbe essere Kasia Smutniak che fa la sottosegretaria alla presidenza, e per mezzo film si aggira impettita per il Quirinale come frau Rottenmeier; finché a un certo punto succede qualcosa, scrocchia i muscoli del collo si spoglia e ti salta addosso in soggettiva. E il film decolla! In realtà no, ma per dieci secondi è bellissimo, lei ti sbatte sul lettone presidenziale e ti piglia a ceffoni; poi ti ricordi di essere Claudio Bisio cinquantenne e l’erotismo si sfascia in farsa. Ma anche in questo il film riesce a interpretare correttamente istanze provenienti dal basso ventre collettivo: il sesso con la Smutniak non può che essere concepito come uno sport estremo. 

 

Benvenuto Presidente! è al Cityplex di Alba (ore 20:00; 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20; 22:40); al Multisala Vittoria di Bra (20:15; 22:30); al cinema Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione e Buona Pasqua!

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La vita non è una commedia, forse

Il lato positivo (Silver Linings Playbook, David O. Russell, 2012)

EXCELSIOR!
EXCELSIOR!

 

Patricio, Pat, è un bipolare. Non lo sapeva. Se n’è accorto nel suo box doccia, mentre stava picchiando a sangue l’amante della moglie. Ma questo è il passato, anche il ricovero coatto è il passato, anche l’ordinanza restrittiva passerà, l’importante è essere ottimisti, positivi, riempire un libretto (il “silver lining playbook”) di buoni propositi, mantenerli, e Nikki tornerà. Nikki è la moglie scomparsa. Era dal 1981 che un film non otteneva quattro nomination agli Oscar nelle quattro categorie riservate agli attori (l’ultimo fu Reds di Warren Beatty, chi l’avrebbe mai detto). Anche se alla fine la statuetta l’ha portata a casa soltanto Jennifer Lawrence. Per il suo personaggio, Tiffany, era stata opzionata Anne Hathaway che però aveva un’impegno, ed evocate tra le altre Angelina Jolie e Kirsten Dunst: dopo un provino che doveva essere una formalità, Russell ha scelto la 21enne Lawrence, assolutamente fuori parte. Non si è trattata di una scelta al risparmio: la Lawrence è un talento naturale fuori discussione (chiunque ha visto Winter’s Bone lo sa, purtroppo siamo in pochissimi che ci svegliamo nel cuore della notte davanti a Rai Movie e non riusciamo a trovare il telecomando). Ma soprattutto è la protagonista di Hunger Games, ovvero il primo capitolo di una saga per adolescenti, ovvero una montagna di soldi che deve ancora emergere del tutto. È brava, è bella, e a 21 anni ha vinto un Oscar interpretando una vedova ninfomane che incontra Pat e lo trascina in un concorso di ballo.

 

Ce l’ha messa tutta Jennifer, ha anche preso dei chili per esplicita richiesta del regista; ugualmente la cosa lascerebbe un po’ perplessi se non fosse così brava e bella che in fondo chissenefrega, i film americani sono belli perché la mantide del quartiere, quella che si fa licenziare solo dopo esserci stata con tutti quelli dell’ufficio, è Jennifer Lawrence Ventunenne. Ah, è molto bravo anche Bradley Cooper, che fin qui io avevo visto solo in tv e in commedie un po’ coglioni. Il suo Pat, sempre in bilico tra ottimismo e disperazione, era un personaggio rischiosissimo. E anche lui ha dovuto imparare a ballare – o magari sapeva ballare già e ha disimparato. Ed è bravo persino Robert De Niro, pensateci bene: da quand’è che non vedevate De Niro recitare bene in un film bello? Vi sconsiglio di contare gli anni, viene la vertigine. De Niro, se ti dimentichi un attimo quelle commedie coglione in cui fa il padre rintronato, te lo ritrovi in questo film che fa davvero il padre rintronato, e saranno i lineamenti italiani, ma è così credibile che ti mette in imbarazzo, hai voglia di telefonare a tuo padre alle tre del mattino per dirgli che gli vuoi bene. 

 

QUEST’AFFAIRE NON S’HA DA FARE

Ma insomma che film è? Una commedia? Non proprio. È un film che resta sospeso fino all’ultimo intorno al mistero di Nikki, la moglie perduta. Tornerà? Non posso dirvelo, ma davvero cambierebbe tutto. Da commedia romantica, con una trama che a leggerla ci sembrerebbe scontata (due ballerini lottano per ritrovare la fiducia in sé stessi! che idea! che palle!) a thriller psicologico. Seguendo quella che ormai mi sembra una tendenza, Russell ha deciso di ambientare il romanzo di Matthew Quick non nel Magico Mondo delle Commedie, ma in una realtà molto simile alla nostra; un luogo dove quando un uomo incontra una donna non parte mai la musica giusta, e dove ballerini non ci si improvvisa – ma se avete amato i colli dei piedi inadeguati degli Amici di Maria, scoprirete di tifare Pat e Tiffany contro ogni buon gusto, perché ci mettono il cuore, e soprattutto perché il padre ci ha messo anche un sacco di soldi, che fuori dal Magico Mondo delle Commedie sono davvero importanti. Nel 2012 hanno fatto qualcosa di simile Kathryin Bigelow, Gus Van Sant, P.T. Anderson, Ben Affleck, rifiutandosi di spettacolarizzare storie di spie, guru ed ecomostri che si sarebbero ben prestate; lo stesso Spielberg ci ha dato con Lincoln uno dei suoi film meno spettacolari e più – mettiamoci le virgolette – “verosimili”. Le virgolette hanno un senso perché la verosimiglianza non implica che la realtà non venga modificata e romanzata; anzi a ben vedere (ne abbiamo già parlato la scorsa settimana con Argo) film del genere sono persino un po’ sleali, per come rischiano di sostituirsi alla realtà vera. Nel caso di Silver Lining Playbook, oltre all’assurdità della Lawrence divorziata+ninfomane, abbiamo due psicotici che si corteggiano, da qualche parte nella nostra testa dovrebbe suonare un allarme antiatomico, però sono così bravi, sono così belli, sono così teneri quando vanno a Ballando con le Stelle sperando nella media del Cinque (su Dieci), che ti ritrovi a sperare che si mettano assieme, NO PERDIO GLI PSICOTICI NON DEVONO METTERSI ASSIEME nessuna farmacia pratica sconti famiglia sugli psicofarmaci.

 

Ma almeno non è la solita commedia. Anzi, sapete cosa sembra? Ora rischio grosso. A un film di Gabriele Muccino, però fatto in America, però fatto bene. No, non è soltanto perché i personaggi urlano e strepitano sovrapponendosi e ogni tanto parte un carrello circolare – ok, è soprattutto per i carrelli circolari. Però a me è rimasta la curiosità di immaginare cosa riuscirebbe a fare Muccino davvero, a Hollywood, se riuscisse a lavorarci bene. Mesi fa si lamentava tanto del modo che hanno laggiù di ragionare per categorie che sono comportamenti stagni: per le commedie sentimentali si applica un protocollo, per il genere drammatico un altro protocollo, ecc.. Muccino era molto italiano mentre cercava pretesti per una sconfitta professionale, però magari non aveva tutti i torti: gli americani sono fatti così. Non è solo una questione di mercato e di industria: anche la cultura è compartimentata in modo molto più stagno che da noi. Eppure proprio mentre Muccino si lamentava stavano uscendo tutti questi film, storici senza battaglie, spionistici senza i gadget di 007, sentimentali ma con gli psicofarmaci. Insomma tieni duro, Gabriele Muccino, forse i compartimenti si stanno alzando, provaci ancora. Noi tifiamo per te, non è che ci sei sempre piaciuto, eh? Però sei di famiglia, tieniti in forma, perdi magari qualche chilo, tieni duro, trova uno script di quelli fatti apposta per te con un sacco di bei personaggi che si urlano in faccia le peggio cose. Excelsior!*

(*) Tradotto in italiano fa ancora troppo Mike Bongiorno.

 

Il lato positivo è al Fiamma di Cuneo (21.00); all’Impero di Bra (20:15; 22:30); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione.

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Il pane, le rose e il single malt

La parte degli angeli (The Angels’ Share), Ken Loach, 2012

 

Una volta, mille estati fa, all’officina di mio padre si fermò un camionista scozzese con un Tir in panne. Il rosso dei capelli proseguiva sul collo scottato. In un qualche modo riuscì a farsi capire dai miei – il mio inglese scolastico non fu di molto aiuto – e in capo a un paio di giorni se ne ripartì. Di lui rimase soltanto un bottiglione di un litro e mezzo di una cosa mai vista, un liquido arancio-ruggine, dimenticato nel nostri frigo – o forse lo aveva scambiato con del vino bianco credendo di farci anche un favore. La misteriosa sigla sull’etichetta (“IRN-BRU”) sembrava alludere più a reagenti chimici che a una bibita frizzante. Ciononostante io e mio fratello provammo ad assaggiarla. Il primo sorso fugò ogni dubbio: era un reagente chimico. Oppure un crodino zuccherato. In ogni caso – decretammo dopo aver svuotato il litro e mezzo – era imbevibile.

 

Novecento estati più tardi mi ritrovai in Scozia immerso tra insegne che dicevano tutte IRN-BRU, IRN-BRU, sembrava che tutti fossero fieri di farti sapere che lì ti servivano il crodino zuccherato. Ne parlai con i miei ospiti e scoprii che il “ferro fermentato” (iron brew) non conteneva davvero ferro, macché, appena uno zerovirgolazero di citrato ferrico di ammonio… ed era la seconda bibita nazionale. “Tu ovviamente immagini qual è la prima”.

“Veramente no qual è?”

“Lo scotch”.

 

 

Racconto questa storiellina per venire incontro allo spettatore italiano, che nell’ultimo film di Ken Loach sentirà parlare di costosissimi whisky pregiati. Per la verità cosa sia un whisky lo sappiamo più o meno tutti. Ma in un paio di scene i protagonisti si attaccano a dei bottiglioni di irn-bru: ecco, quella roba mi sa che la maggior parte degli spettatori qui da noi non l’ha mai vista né assaggiata. E invece è importante, ai fini della trama, sapere di che si tratta: che ha più o meno lo stesso colore di un nobile single malt, ma non potrebbe avere un sapore più diverso: è un bibitone dolciastro e plebeo, roba da camionisti arsi dal sole. Ed è tuttavia scozzesissimo, più scozzese dei kilt turistici che i personaggi indossano per mimetizzarsi mentre vanno verso le highlands a fare il colpo della vita in autostop. Credo che uno spettatore scozzese, di fronte al solo pensiero di un malt mill travasato in una bottiglia di… stop, non voglio raccontare la trama. Però secondo me, se non sai cos’è l’irn-bru, ti perdi un po’ del divertimento.

 

Un altro prodotto britannico che invece conosciamo in tutto il mondo è il cinema di Ken Loach. Un po’ prevedibile, come è giusto che sia dopo vent’anni senza grosse pause: in una periferia disagiata (quella di Glasgow è la più disagiata del Regno Unito), uno o più proletari operai o disoccupati (la seconda) vittima dell’ingiustizia sociale (una faida famigliare) lotta per riscattarsi. Ce la farà? Dipende tutto da Paul Laverty, che da 15 anni scrive le sceneggiature dei film di Loach. Se Laverty è di buon umore magari sì, ce la fa. Ma se sia una commedia o una tragedia non lo capisci mai fino agli ultimi cinque minuti. Se l’avanzo di galera riuscirà a rifarsi una vita dipende dal suo impegno, dalla determinazione a salvare la sua famiglia… ma anche e soprattutto dalla fortuna, non siamo mica a Hollywood.

 

Insomma è il solito Ken Loach? Sì. Cioè. Dipende molto dalla nostra disponibilità a stupirci. Persino chi apprezza Loach ormai non ha veramente voglia che Loach gli proponga qualcosa di troppo diverso. Loach deve fare Loach, deve dare voce a quella massa di proletari e sub- ormai esclusi dalla rappresentazione televisiva e cinematografica. Deve farci vedere gli oggetti di uso comune del Regno Unito in tutta la loro straordinaria bruttezza, per esempio: gli infissi. Un film di Loach lo riconosci dagli infissi, sono sempre orribili. Ci sono gli infissi orribili in questo film? Altroché. Però… c’è anche il whisky. Provate a rispondere senza barare, senza guardare la trama: come ve l’immaginate l’approccio di Ken Loach al whisky? È un prodotto di lusso, che richiede un lungo e facoltoso apprendistato per essere consumato consapevolmente. Ken Loach viceversa sembra più un tizio da irn-bru: i suoi film non hanno nulla di aristocratico; non serve per apprezzarli nessuna particolare educazione al medium cinematografico; raccontano storie semplici e lasciano in bocca un retrogusto ferroso e dolciastro.

 

Spero che nessuno si offenda se paragono Loach a una bibita frizzante: mi viene in mente Andy Warhol quando esaltava la democrazia di un’altra bibita (“Una Coca è una Coca, e nessuna somma di denaro può procurarti una Coca migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone”). Tutti i film di Loach-Laverty sono più o meno uguali, tutti sono onesti, nessuno è un capolavoro. E allora tutto ti aspetteresti da loro tranne un film sul whisky in cui una botte di single malt da un milione di sterline non è descritta come un feticcio borghese, o un simbolo dell’aristocrazia, e l’invecchiamento non è una metafora del processo di accumulazione del Capitale. Se il cinema di Loach fosse semplicemente un compitino ideologico, come alcuni pensano, del whisky non si potrebbe parlare che così. Ma il cinema di Loach è per prima cosa un cinema di persone: e a una di queste persone, un bulletto di periferia incastrato in una faida infinita, capita la fortuna di avere il talento, il “naso” per il whisky. Che è tutt’altro che un feticcio, addirittura può diventare uno strumento di redenzione, ma in generale è trattato da Loach con il rispetto che si deve alle cose importanti, la famiglia il lavoro o il calcio. Il re dei degustatori è ritratto come un nobile saggio, la sua parola non è da mettere in discussione. Non è la solita tiritera sul pane e le rose, non nascerà nessun movimento per distribuire alcolici di pregio nelle periferie disagiate: Laverty si inventa un’occasione di riscatto individuale, sta al protagonista cogliere o no l’occasione, e se vuole coglierla davvero – questo è interessante – dovrà infrangere la legge. Qualcuno ha ricordato la saga dei soliti ignoti, ma questi ultimi rimediavano al massimo un piatto di pasta e ceci.

 

Se ci aspettavamo la solita lezioncina, potremmo anche sentirci a disagio: i personaggi saranno anche vittime della società, ma sono soprattutto quattro idioti senza arte né parte. Ce ne accorgiamo sin dalle prime scene, quando li vediamo in piedi davanti al giudice che li manda ai servizi sociali ed è perfino troppo buono. Questi rubano, bevono, picchiano senza sapere il perché. A portare un po’ di luce, un po’ di senso nella loro esistenza sarà il loro capocantiere, un appassionato di whisky che decide di iniziarli all’arte della degustazione. Il loro modo di riscattarsi sarà… organizzare una rapina. È inevitabile tifare per loro, ma la lezione qual è? A un certo punto una comparsa dice che è importante dare una occasione alle persone. Potrebbe essere la morale del film, ma se dai a un ladruncolo il senso del whisky, non si metterà semplicemente a rubare il whisky? Sì, ma nel farlo dimostrerà almeno un po’ di sana progettualità. Insomma, è il solito film di Loach, ma è molto più ambiguo del solito, e meno ideologico di come me lo aspettavo. Forse dovrei smetterla di aspettarmi delle cose dai film, non sono lattine di bibite, non puoi sempre dare per scontato il sapore.

 

(La parte degli angeli è al cinema Fiamma di Cuneo. Buona visione!)