2 marzo: San Luca Casali di Nicosia (IX secolo), che predicò alle pietre
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Ciao! Sì, so cosa è un blogger. Un blogger è una persona che scrive su un blog, ovvero un sito web dove vengono pubblicati contenuti in forma di articoli o post. I blogger scrivono su una varietà di argomenti, dalla moda alla cucina, dalle tecnologie alla politica, e condividono le loro opinioni e la loro esperienza con i lettori del loro blog.
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Questa immagine, ma soprattutto questa didascalia, divide l’internet italiana in due parti, e sospetto che la divisione azzecchi l’età mentale meglio dei documenti anagrafici. Non saprei tracciare un discrimine (nati nel 1980? 1985?) ma da un certo punto in poi è un’immagine imbarazzante: Ritratto di regista boomer che non capisce dove va il cinema. Probabilmente i giovani non fanno nemmeno caso ai capelli bianchi, che erano il punctum della composizione: Moretti era arrivato a Cannes con la chioma nera di ordinanza, il contrasto sempre più insostenibile col grigio cenere della barba. Quando sei un personaggio pubblico a un certo punto devi fare questa cosa di ammettere che ti tingevi i capelli, per quanto al di fuori possa sembrare ridicolo per alcuni è più traumatico di un coming out. In una botta sola devi ammettere che sei vecchio e che cercavi di nasconderlo. Se poi quasi nessuno ci fa caso è peggio ancora, significa che loro ti vedevano già vecchio: sei tu che ti aggrappavi al tuo autoritratto mentale, gli altri le tue rughe le danno per scontate, le vedono anche nei film dove ancora non le avevi.
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Pochi giorni prima |
Per quelli nati prima del discrimine, questo è il caro vecchio Moretti che si prende in giro da solo, con quella spietatezza che negli ultimi film si è un po’ attenuata (ma solo un po’). È il Moretti-regista-isterico di Sogni d’oro (ma anche di Mia madre), quello che vuole vincere a costo di rendersi ridicolo, e che non vuole morire. Più del Moretti che non si capacita del successo di Henry, pioggia di sangue, è quello che si fa una canna davanti alla tv mentre Berlusconi trionfa. Certo che è patetico, ma lo fa apposta. Al che i più giovani possono ovviamente rispondere: certo che lo fa apposta, ma è patetico, e il discrimine è tutto qui.
Per i vecchi quel che importa è l’intenzione; per i giovani il risultato. Moretti non ha fatto tantissimi film, così che non capita poi così spesso l’esperienza rivelatoria di riguardarli per caso senza averne l’intenzione: quella situazione in cui ogni volta mi stupisco di quanto era perfido con sé stesso e con il sociotipo che interpretava. Moretti picchiava sua madre, spintonava il padre, stalkerava sue ex, scenate dappertutto. Questa perfidia era un valore in sé, ma se i giovani non la capiscono forse il suo cinema in breve non interesserà più a nessuno. Questo mi dispiace più di altre cose, e sento che sto per rimettermi a parlare di Woody Allen, scusatemi.
Woody Allen di film ne ha fatti molti di più, diciamo anche troppi di più, diciamo che anche se gli impedissero di farne altri non sarebbe una catastrofe culturale; la vera catastrofe culturale è che non sono più in grado di apprezzare quelli vecchi. Prendono Manhattan per una prova indiziaria, non è che non capiscano che Allen in un film del genere stava denunciando sé stesso e i suoi simili, ma ne approfittano, Allen si autoaccusa e loro si autonominano giudici e lo condannano. Ammettiamo che nei trent’anni dell’abbondanza era diventato a un certo punto un topos prendere in giro la figura del borghese intellettuale sempre sull’orlo della crisi di nervi, ormai una maschera di una postmoderna commedia dell’arte. Poi a un certo punto cambia il paradigma, all’improvviso e con una certa violenza: chi ancora indugiava nel topos autocritico (ad esempio Louis CK) viene stritolato da un meccanismo che si rivela molto più spietato di loro. Si è all’improvviso convocato un nuovo tribunale e ci si rende conto che tutto questo autocriticarsi non funzionerà come attenuante, anzi, tutti questi artisti non hanno fatto che facilitare il lavoro ai nuovi accusatori. Woody Allen, ci spiegano, è ossessionato dal sesso, e dalle giovinette. Certo, rispondiamo, Allen non fa che esprimere in modo grottesco queste ossessioni che sono comuni a tutti, ehm, noi: ma a questo punto gli accusatori alzano un sopracciglio e noi siamo nei guai. Meglio cominciare a scrivere che Allen ha fatto il suo tempo, forse qualche giovinetta tornerà a metterci un like.
Com’è successa questa cosa, di chi è la colpa. Siete seduti? Perché sto per dare la colpa a internet, ai social network, ebbene sì, sto invecchiando molto più rapidamente di Moretti. Ma mi ricordo che fino a un certo punto anche su questo blog trovavo normalissimo esprimere le mie frustrazioni, la percezione del mio essere ridicolo, i miei guai e le mie colpe, e cosa cercavo? Se non assoluzioni, certo attenuanti da un giudice bonario che al di là di tutto il materiale probante avrebbe valutato le mie intenzioni. Un approccio, starei per dire, molto cattolico: non fosse che né Allen né Moretti mi sembrano particolarmente cattolici. Comunque a un certo punto ho dovuto smetterla: non potevo più mettere in mostra le mie debolezze perché c’era gente cattiva lì fuori che le avrebbe riprese, linkate, taggate, esagerate, additate, e vi giuro questa gente esiste davvero, non me la sogno, magari saranno appena una manciata di persone ma sono fastidiosi come zanzare e per evitarle ho smesso di denudarmi in pubblico. È stato un processo graduale, non saprei neanche dire quando è iniziato, fatto sta che mi sono costruito questa specie di Io pubblico che magari è pessimista ma non si dispera mai, non piange mai, non ti racconta più i suoi traumi infantili e quanto era patetico da adolescente – tutto questo fino a metà ’00 si poteva fare, ora ti prenderebbero per pazzo, non c’è più nessuna gloria nel sapersi mettere in berlina. Ora devi imparare a sanguinare per i fatti tuoi, con tutti gli squali in giro. È un mondo diverso. Ipocrita in un modo diverso. Forse preferivo l’ipocrisia di Moretti che cercava la nostra simpatia comportandosi in modo insopportabile. Era paradossale, probabilmente preferisco i paradossi.
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Il titolo è più fuorviante del solito: dei primi dieci anni (che pure furono i più ruggenti) non ho dati seri. Non è che non controllassi il contatore cinque o sei volte al giorno, eh? Ma non salvavo i resoconti, mi vergognavo. Poi verso il 2010 Blogger ha cominciato a tenere i conti da solo: prima con Google Analytics, poi (già nel 2011) con un contatore interno, che è quello che mi piace di più perché mostra una certa preferenza per il mio periodo più tardo – ci sono addirittura due pezzi dell’anno scorso, ciò mi fa sentire meno rincoglionito. Ecco quindi la sua top20, dalla prima alla ventesima posizione.
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Ridendo e scherzando, questa simpatica pagina web sta per compiere vent’anni. Di blog così antichi in Italia non ne sono rimasti molti (sì, questo è un blog, storia vecchia). In effetti mi piacerebbe poter dire che sono rimasto solo io; se non sono mai stato il più interessante e senz’altro il più remunerativo, mi sarebbe sempre piaciuto mantenere almeno questo primato. E invece niente da fare: i blog classe ’01 sono ormai tutti nel cimitero dell’internet Archive, tranne il mio e quello di Luca Di Ciacco che ha iniziato venti giorni prima di me. Luca senti ma ormai anche tu hai un’età, una professione stimolante, scrivi i libri, ma chi te lo fa fare di continuare a tenere aperto quel diario on line come un ragazzino, insomma datti un contegno dai. No scherzo ciao Luca, cento di questi giorni.
A parte questa simpatica gag che credo di avere usato già qualche altra volta, non ho molto da dire su questo incredibile anniversario che mi fa sentire ancor più vecchio di quanto già io non mi. Sarebbe bello per una volta lasciar parlare le immagini, ma il problema è che il blog non le ha. Questo ricordo di averlo notato molto presto, perché in quel periodo scrivevo su qualche rivistina e la differenza mi saltava agli occhi. Non c’è nulla che si aggrappa alla memoria come la grafica di una vecchia rivista che nel frattempo ha fatto quattro restyling ed è irriconoscibile. Ecco coi blog non è così; ogni volta che cambi la grafica, anche i vecchi pezzi vengono riformattati con quella nuova. Succede qualcosa di simile ai nostri ricordi, credo; è quello che li rende così poco attendibili rispetto ai documenti tangibili, le foto e le vecchie riviste. Se avessi almeno salvato qualche screenshot, ma no, niente, mi vergognavo a pensare che ne sarebbe valsa la pena. Da un punto di vista meramente estetico no, non valeva la pena.
“Un sito veramente qualsiasi” (2001)
Sul primo layout non c’è veramente molto da dire: era quello di fabbrica di Blogger, servizio quasi appena nato. Forse non c’era nemmeno ancora modo di cambiare i colori. I permalink c’erano ma non funzionavano. La cosa più incredibile è che ci fosse la fotina dell’autore (anche la sua barbetta, sì).
Vabbe’ dai, si vede che c’ero molto affezionato. Il banner blu in alto agli esordi conteneva pubblicità, poi a un certo punto Blogspot la tolse ma lasciò il rettangolo blu, che forse con uno speciale abbonamento premium si poteva togliere, ma non lo fece nessuno e alla fine Blogspot lo rimosse (chi fosse curioso di Rozzano può provare a leggere qui).
E insomma per tre anni dovrei aver tenuto lo stesso layout, non privo di una spigolosa coerenza, ma senza sentire l’esigenza di allineare testata e spazio di testo? Non lo so, gli screenshot li ho presi dall’Internet Archive, ho vaghi ricordi di altri esperimenti, ma l’unica notevole differenza è che nel 2010 ho cominciato a scrivere per l’Unità e tenevo che si sapesse. Saturavo le foto, tentavo di fare anche vignette, e poi ogni tanto succedevano cose inspiegabili ad esempio un mattino un mio pezzo fu linkato dal NY Times e nessuno ha mai capito il perché. Agosto – che era ancora un mese in cui la gente stava meno su internet – divenne il mese degli esperimenti.
Ma nel frattempo Blogger stava diventando una piattaforma più duttile e professionale? Ecco, sì e no. Verso il 2011 aveva aggiunto tutta una serie di font che mi consentirono di fare una cosa che avevo smesso di fare 15 anni prima, ovvero giocare coi font. Dopo tre anni di futurismo lettrista volevo qualcosa che evocasse l’umanesimo rinascimentale, gli incunaboli insomma, e così trovai questo font che su certi sistemi operativi proprio non funzionava. Sotto la voce “Tengo famiglia” credo che ci fossero le inserzioni, avevo ceduto anche a quelle. Credo sia l’anno in cui ho cominciato a scrivere le storie dei Santi per il Post. In agosto avevo compilato Le XXI notti, un altro esperimento narrativo caduto nell’indifferenza generale.
Nell’estate del 2014 crollò quasi tutta l’economia di questo blog: Liquida ritirò la sponsorizzazione, l’Unità chiuse per la seconda volta. Anche le inserzioni di Google erano inaffidabili da smartphone, dovevo toglierle. Festeggiai la crisi in agosto con Leonardo Sells Out, una specie di satira di Beppegrillo.it in cui immaginavo cosa sarebbe successo se un blog come il mio fosse stato dato in mano alla Casaleggio. Cambiavo layout ogni tre giorni, ma non ho le prove. Ne ricordo con affetto uno completamente tappezzato di ritratti di Enrico Berliguer, per sfottere http://www.qualcosadinistra.it che gareggiava con me ai Blog Awards nella categoria politica, e aveva in home “appena quattro fotoritratti di Enrico Berlinguer”! Qualcosa di sinistra vinse il Blog Award. Mi ringraziarono anche, alla premiazione. Prego ragazzi, è stato un piacere. (Poi ce n’era uno tutto a omini vitruviani, quando scrivevo i pezzi sulla Gioconda. Devo dire che alcuni di quei pezzi hanno fatto un sacco di accessi, non subito ma in seguito).
Questo invece è il layout post-SellsOut, e direi che la carrellata potrebbe anche finire; c’è stata qualche correzione qui e là ma non è più cambiato molto. È addirittura più simile a quello iniziale: tra 2001 e 2015 sembra che abbia solo imparato a scrivere “Leonardo” in minuscolo. Evidentemente a me il blog piace così. Chiedo scusa a chi no, ma probabilmente non siete più qui da un pezzo.
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La mia prima esperienza della nuova versione di Facebook fu più o meno all’inizio del lockdown. A quel tempo si poteva ancora tornare alla versione tradizionale ed è quello che feci dopo due o tre giorni: mi sembrava una specie di Twitter senza l’unico minimo pregio di Twitter, la brevità. Questo può anche darsi non significhi nulla: sono un vecchio ormai (almeno su internet) e i vecchi vivono come un’offesa qualsiasi restyling (anche l’interfaccia utente di Blogger ne ha appena fatto uno e indovinate: è uno schifo).
Un mese fa sono stato poi costretto a passare a questa nuova versione, e nel frattempo si è verificato un fatto che magari è solo il risultato di una coincidenza, ovvero: ho iniziato a stare su Facebook molto meno, specie da desktop. Insomma la nuova interfaccia che a detta degli osservatori esperti dovrebbe rappresentare un ulteriore passo verso la mia profilazione di cliente/merce, per ora sta riuscendo soltanto dove i discorsi degli esperti e dei critici avevano fin qui fallito: mi ha fatto stancare di Facebook. Ripeto, può anche darsi che non sia vero: settembre è stato un mese molto difficile per me, a volte non c’era letteralmente tempo per mangiare o dormire, e quindi anche per necessità teoricamente meno impellenti come farsi un giro su Fb. Può anche darsi che si tratti solo di un periodo di stanca, e che tra qualche mese mi rimetterò a litigare coi renziani o a sfottere i milanesi o a irrompere in una conversazione di aspiranti costruttori del Ponte sullo Stretto per avvertire che tra Reggio e Messina ci stanno tre km (credo che sia in assoluto la cosa che ho fatto più volte, è una specie di gag ormai). Insomma può darsi che mi adatterò, anche perché sono piccolo ben oltre il limite dell’insignificanza, Fb è ormai il mio habitat, e se l’habitat cambia non ho molte scelte: o mi adatto o scompaio. D’altro canto.
D’altro canto tutto questo potrebbe anche essere voluto: dopo avermi tenuto a pastura per una decina di anni (che su internet equivale a un Triassico), il Grande Algoritmo potrebbe anche aver deciso che di uno come me non sa che farsene. Non compro, non vendo, non clicco sugli spot, mi faccio vivo solo ogni tanto per cercare di bloccarne uno che mi offende. Tutto quello che faccio è discutere (ciozzare, si diceva dalle mie parti) e questo magari per un po’ gli è stato utile, ma da qui in poi molto meno. Tutto questo vale per me e per altri milioni di ciozzatori, pardon, conversatori, che insistono in questa cosa anacronistica di usare Fb come un forum, una chat scritta, una cosa che Fb non ha mai voluto essere e che sarà sempre meno. E in effetti devo dire che l’aspetto del vecchio Fb che mi manca di più è proprio quello più anacronistico, che più mi ricordava la vecchia internet 1.0: i caratteri piccoli. Una volta tutto era scritto così qui sopra, poi sono arrivati i webdesigners presbiti e gli analfabeti e oggi pure le riviste specializzate pubblicano tutto in corpo sedici. Tutto questo malgrado qualche studio, e l’esperienza dei lettori seri dica il contrario: i caratteri piccoli aiutano la concentrazione – e se sei prolisso come me sono l’unica speranza di far digerire a qualcuno un muro di testo. Forse Fb oggi mi cattura meno proprio perché è scritto più in grande, e forse è scritto più in grande proprio per allontanare i conversatori seriali e prolissi come me, che a parte ciozzare non fanno nulla di veramente utile per Zuck e soci. Può anche darsi che disorientiamo l’Algoritmo, con tutte le parole che usiamo quasi sempre fuori contesto: di questo Algoritmo sappiamo molto poco, ma essendo un’intelligenza artificiale di sicuro ha problemi con l’ironia e quindi non ci capisce, la frastorniamo, del resto parliamo di un’entità progettata per spaventarsi quando vede un capezzolo.
Forse è semplicemente ora di andarsene, anche se non sono quel tipo di persona che se ne va. Di solito resto finché l’interfaccia non muore: vedi i vecchi aggregatori (voi eravate all’asilo), i feed rss, vedi Friendfeed, eccetera. Forse dovrei semplicemente cominciare a capire come funziona Reddit, e aver pazienza che tra un po’ tutti quelli che mi piaceva seguire su Fb li troverò lì, tranne qualcuno invece morto e quindi assente, indifferente. Ormai si è capito che gente siamo, più o meno gente verso i cinquanta che ha più voglia di leggere che cliccare sui video, tranne ormai i video delle canzoni di Paolo Conte che una volta ci sembrava il nonno e adesso è il più aitante, la mascotte della comitiva. La prospettiva di essere l’ultima generazione di veri lettori è un po’ deprimente, ma magari è viziata dal punto di vista.
Aggiungo che non c’è nulla di così strano e traumatico: sin da molto prima di Internet la mia esperienza di utente è sempre stata tangenziale e parassitaria. Molto prima di essere un utente di Fb che non cliccava sulle inserzioni ero un telespettatore che non guardava gli spot, un lettore che fotocopiava i giornali, un ascoltatore che si registrava i nastroni alla radio. Tornando a internet, quando entro in un ambiente di solito è perché ho un contenuto da promuovere, ovvero di solito questo blog. In sostanza mi metto lì a mò di buttadentro, un uomo sandwich che piazza link senza vergogna. È proprio questo atteggiamento che richiede che io poi mi fermi a far due chiacchiere con gli altri utenti e alla fine mi affeziono: questa cosa è successa soprattutto su Friendfeed e su Facebook (che di Friendfeed ha parassitato il codice). Meno su Twitter, che paradossalmente è un ambiente più adatto ai buttadentro, ma decisamente più bar della stazione che bar di quartiere. Quello che sto cercando di dire è che non sono mai stato semplicemente una merce: non mi sono mai illuso sul fatto che Zuck avesse priorità diverse dalle mie, e cercavo nel mio piccolo di sfruttare i suoi algoritmi per promuovere le mie. E continuerò a provarci, anche se ho la sensazione che di essere ormai stato scoperto e allontanato, non come individuo ma come categoria.
Insomma quello che sto cercando di dire, in fondo al muro di testo, è che esisto. È l’unica cosa che sto cercando di dire da quasi vent’anni che son qui, evidentemente ci tengo molto, anche se a volte non mi ricordo più il perché. Forse lo sapranno gli algoritmi che processeranno questo blog in futuro, molto più intelligenti e comprensivi di quanto io non sarò mai. È a loro che chiedo adesso scusa per tutto quello che potrebbe offenderli, l’ironia, o le parolacce, o i capezzoli.
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